L’angelo non necessario. Il fascismo di Putin

Tolstoj

Nella sua più importante opera filosofica, così poco letta in Italia da far pensare a una vera rimozione, Il Regno di Dio è in voi (1893), Lev Tolstoj analizzava la società russa del suo tempo come un sistema di dominio interamente fondato sulla violenza. Un sistema fortemente diseguale, con pochi ricchi e potenti e una grande massa di contadini poverissimi, tenuti a bada con la forza – la polizia, l’esercito – e con una prassi religiosa che era nulla più che superstizione e inganno, senza alcun rapporto con gli elementi etici del Vangelo. Una società violenta che Tolstoj invitata a sovvertire con la nonviolenza: rifiutandone, cioè, la logica stessa, e dunque minandone la base. Ma come, in concreto? Quale era il punto debole sul quale intervenire? La risposta di Tolstoj non è affatto ingenua. La leva per rovesciare l’assetto sociale è l’opinione pubblica. Nelle società contemporanee essa è una forza sociale fondamentale, controllare la quale è essenziale per il potere. E l’azione nonviolenta, con il suo carattere etico e la disponibilità al sacrificio, è la più adatta ad agire sull’opinione pubblica. Tanto più, osservata Tolstoj, che la società contemporanea è scissa. Da un lato la violenza dei forti sui deboli, degli oppressori sugli oppressi; dall’altra l’inquietudine degli stessi oppressori, in un’epoca in cui gli ideali umanitari vanno diffondendosi e la loro pratica di oppressione è sempre meno giustificabile ai loro stessi occhi. Su questo disagio la nonviolenza avrebbe fatto leva.

Era, ho detto, una idea tutt’altro che ingenua. Ma Tolstoj non aveva previsto che con l’avvento della società di massa e la crescita dell’industria culturale il potere sarebbe riuscito a manipolare con efficacia quasi perfetta l’opinione pubblica. Quanto al disagio dell’oppressore, il metodo più semplice per liberarsene era semplicemente rinunciare agli ideali umanitari. Elaborare una nuova cultura, cinica e brutale, che si facesse beffa di ogni ideale umanitario. Tolstoj, insomma, non aveva previsto il fascismo (mentre aveva intuito che la realizzazione violenta degli ideali di giustizia non avrebbe portato nulla di buono).

Cos’è fascismo?

A dire il vero il fascismo non si è limitato – non si limita – a gettar via gli ideali umanitari, affermando contro di essi la forza bruta. Sarebbe stata una operazione sincera, e la sincerità è essa stessa un valore: mentre il fascismo è negazione di qualsiasi valore, menzogna allo stato puro. La negazione di ogni valore avviene dunque, nel fascismo, in nome della spiritualità. Si legga la prima parte della voce Fascismo nell’Enciclopedia Treccani, firmata da Mussolini ma scritta da Giovanni Gentile, l’ideologo del fascismo. L’uomo fascista, scrive, è colui

che sopprime l’istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera da limiti di tempo e di spazio: una vita in cui l’individuo, attraverso l’abnegazione di sé, il sacrifizio dei suoi interessi particolari, la stessa morte, realizza quell’esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo. (Mussolini 1931)

Ecco la risposta. Il fascista non può più essere accusato di sfruttare qualcuno per i propri biechi interessi personali. Quello è l’individuo liberale e borghese. Lui no, lui ha trasceso la sua individualità. Lui è mistico. Lui è tutt’uno col suo duce, col suo popolo, col movimento della sua nazione, col passato e le sue tradizioni. Lui è puro e innocente: se e quando ricorre al manganello, lo fa perché lo richiede l’interesse superiore del popolo e dello Stato, che è l’incarnazione del bene. La violenza ha un fine etico e spirituale che la purifica.

Il sistema di sfruttamento resta lo stesso. I poveri continuano ad essere sfruttati. I preti continuano ad ingannarli con il loro insieme di rituali ossessivo-compulsivi che evidentemente non è più così efficace, perché ha bisogno di essere corretto e sorretto da una nuova religione, quella politica. Ma tutto diventa più brutale, in quanto spirituale. La spiritualità occidentale è quella cristiana. E la spiritualità cristiana si è formata attraverso le lunghe, estenuanti lotte degli anacoreti contro il Diavolo; lotte che avvenivano nella loro stessa mente, nella loro stessa carne. Il mondo spirituale è scisso tra bene e male, Dio e Diavolo. È insidiato da un Nemico che è ovunque, anche dentro di noi. Ed essendo un Nemico assoluto, terribile, richiede una lotta senza quartiere, nella quale è lecito qualsiasi mezzo, reso puro e santo dal fine, che è divino.

Con l’avvento dei fascismi il sistema di dominio diventa più spirituale e più brutale ad un tempo. E si può forse dire che il fascismo italiano è stato meno brutale del nazismo proprio perché meno spirituale. Nel fascismo la rozza corporeità del duce, la sua imbarazzante carnalità tende a prendere tutta la scena. La propaganda nazista presenta invece Hitler intento ad accarezzare cani o caprioli, l’erede della tradizione spirituale romantica, dell’idealismo antiborghese dei Wandervogel, il dittatore vegetariano dalla fisicità diafana. E dalla ferocia perfetta.

Kirill

Buona parte del mondo occidentale ha scoperto il patriarca Kirill dopo il 6 marzo scorso. Un uomo vestito con paramenti tanto vistosi da diventare ridicoli, che tiene un discorso con il quale non si limita a giustificare l’invasione dell’Ucraina: lo fa con argomenti che appaiono deliranti. Il mondo occidentale è il mondo del peccato, il mondo delle libertà illecite, di cui il Gay Pride è per il patriarca la rappresentazione più scandalosa.

Pertanto, ciò che sta accadendo oggi nella sfera delle relazioni internazionali non ha solo un significato politico. Stiamo parlando di qualcosa di diverso e molto più importante della politica. Stiamo parlando della salvezza umana, di dove finirà l’umanità, da che parte del Dio Salvatore, che viene nel mondo come suo Giudice e Creatore, a destra o a sinistra, saremo. ” (https://bitterwinter.org/patriarch-of-moscow-blesses-war-against-gay-prides/).

La lotta, per il patriarca non è militare o politica, ma metafisica.

Proviamo ad inquadrare storicamente queste parole. Per diversi decenni il mondo è stato diviso in due blocchi politici, economici ed ideologici: il mondo occidentale capitalista e quello comunista. Dopo il 1989 il secondo mondo è crollato, i paesi ex-comunisti sono diventati democratici, benché in modo problematico ed essendo minacciati costantemente dal caos (si pensi al periodo di anarchia albanese). La fine di una alternativa ha fatto sì che si potesse perfino parlare – è la nota tesi di Francis Fukuyama – di fine della storia. Ma il testimone della lotta contro l’Occidente è stato preso dal mondo islamico.

Dariush Shayegan (2015) ha mostrato come dietro la rivoluzione islamica iraniana e più in generale l’uso politico dell’Islam ci sia una ideologizzazione della religione che non sarebbe avvenuta senza il rapporto con il mondo occidentale. In altri termini, l’Islam prende dall’Occidente l’ideologia e la usa per ribellarsi all’Occidente. Non si comprende la rivoluzione islamica iraniana se non si tiene conto dell’influenza di pensatori occidentali come Marx o Heidegger. La tesi ricorrente, alla vigilia della rivoluzione, era quella del غرب‌زدگی, la Westoxification, l’intossicazione occidentale. Il mondo iraniano si sente aggredito culturalmente da quello occidentale, avverte che sta smarrendo la propria identità, anche e soprattutto religiosa, e ritiene che sia necessario reagire rifiutandolo radicalmente. Più ad est la percezione non è stata troppo diversa. In India Gandhi e Tagore discutono con posizioni diverse della stessa cosa: l’aggressività culturale dell’Occidente e i modi per resistere. Che sono nonviolenti, per Gandhi, ma anche decisi nel rifiuto delle merci e della lingua inglese.

Oggi in Russia è all’opera qualcosa di simile. La Russia non ha bisogno di imparare dall’Occidente l’uso ideologico della tradizione religiosa. È un paese che è stato organizzato per decenni secondo la più forte ideologia del mondo contemporaneo. Che è entrata in crisi lasciando un caos politico economico, un forte senso di sconfitta nei confronti dell’Occidente e un desiderio di rivalsa ugualmente forte. Putin intende dar voce a questo desiderio. E il patriarca Kirill gli offre una ideologia fondamentalista: il ruskij mir, un tassello fondamentale del quadro del fascismo di Putin. Mir in russo è sia mondo che pace. Il mondo russo, dunque; e la pace russa. Questo mondo russo è un campo di valori spirituali tradizionali in aperta opposizione a quelli del mondo occidentale. Il che vuol dire da un lato la guerra alle persone omosessuali – del 2013 è la legge sulla propaganda gay, che vieta in Russia qualsiasi rappresentazione di relazioni sessuali non eterosessuali; la parlamentare autrice della legge, Yelena Mizulina, sta cercando anche di depenalizzare la violenza domestica sulle donne e i bambini – dall’altro la persecuzione di minoranze religiose come i Testimoni di Geova.

L’unità della Russia cercata attraverso la religione, nella sua forma più violenta. L’unità di potere spirituale e potere politico è evidenziata anche fisicamente dallo spostamento della dimora del patriarca Kirill nel Cremlino. Mentre la fede ortodossa conquista sempre più fedeli nella società russa, ampiamente secolarizzata, “il patriarcato – ricorda Matteo Zola, direttore di East Journal – ha potuto mettere insieme un discreto gruzzolo di rubli, pari a quattro miliardi di dollari secondo il Moscow Times” (Zola 2016).

Dugin

Se alla sua destra ha l’ineffabile patriarca Kirill, con il suo deposito di cari vecchi valori cristiano-ortodossi, alla sinistra Putin ha Alexandr Dugin. Già fondatore, con Ėduard Limonov, del nazionalboscevismo, è ora per molti senz’altro l’ideologo di Putin. Definizione forse eccessiva; certo è che Putin trae molta ispirazione, diciamo così, da quello che scrive.

Ho letto La Quarta Teoria Politica di Dugin (pubblicato in Italia da NovaEuropa) l’estate dello scorso anno. Volevo comprendere meglio i riferimenti teorici di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, la via che stava prendendo in Italia la destra evidentemente sempre più estrema. Ricordo che pubblicai sul mio profilo Facebook la copertina del libro. E un amico commentò: “Ma perché lo leggi? De Maistre o Chateaubriand o Junger sono più interessanti”. E aveva ragione. E tuttavia temo che non sia possibile comprendere quello che sta accadendo – e non mi riferisco solo al conflitto in Ucraina – senza leggere Dugin.

Alexandr Dugin

Dugin è uno di quegli autori che si definiscono rossobruni, ossia un po’ comunisti e un po’ fascisti. Una definizione che ho sempre trovato impossibile. Il fascismo non è sintetizzabile con alcunché. Far reagire qualsiasi cosa col fascismo, e pretendere che ne venga fuori qualcosa che non sia fascismo, è come moltiplicare un numero per zero e sperare che il risultato sia diverso da zero. Il fascismo è lo zero della politica. Qualunque cosa si sintetizzi col fascismo diventa fascismo tout court.

Il 7 marzo Dugin ha pubblicato sul suo profilo Facebook un post che è una sintesi perfetta del suo pensiero:

La Russia ha stabilito un percorso per costruire il suo mondo, la sua civiltà. E ora il primo passo è stato fatto. Ma sovrano di fronte al globalismo può essere solo un grande spazio, un continente-stato, una civiltà-stato. Nessun paese può resistere a lungo a una completa disconnessione. La Russia sta creando un campo di resistenza globale. La sua vittoria sarebbe una vittoria per tutte le forze alternative, sia di destra che di sinistra, e per tutti i popoli. Stiamo, come sempre, iniziando i processi più difficili e pericolosi. Ma quando vinciamo, tutti ne approfittano. È così che deve essere. Stiamo creando i presupposti per una vera multipolarità. E quelli che sono pronti ad ucciderci ora saranno i primi ad approfittare della nostra impresa domani. Scrivo quasi sempre cose che poi si avverano. Anche questo si avvererà…

È chiaro cosa è davvero in ballo, per Dugin e dunque per Putin. Si tratta di una resa dei conti con l’Occidente. La Russia intende riconquistare la grandezza perduta. Dopo la fine del comunismo ha cercato la via della integrazione nel mondo globalizzato, ma restando sempre in un ruolo subalterno. Ora l’alternativa ideologica è quella di porsi come mondo altro rispetto all’Occidente.

I riferimenti di Dugin sono i pensatori del fascismo tradizionalista, come Julius Evola e René Guenon, pensatori francesi come Deleuze, ma soprattutto Martin Heidegger. E la circostanza ci rimanda ancora all’Iran della fine degli anni Settanta, perché il filosofo tedesco fu fondamentale, attraverso Ahmad Fardid, anche per l’elaborazione filosofica della ideologia religiosa che ha portato alla rivoluzione islamica. La Quarta Via che teorizza Dugin è la Terza Via del nazismo e del fascismo corretta con il socialismo, sfrondato da ateismo e progressivismo (Dugin 2017, p. 293). E poiché il fascismo rivendicava di avere aspetti socialistici, un fascismo socialistico, senza materialismo, ateismo e progressivismo (cioè: senza marxismo), è semplicemente nazifascismo.

Seguire Heidegger per Dugin vuol dire essere consapevoli che non è possibile una rivoluzione semplicemente conservatrice. Non si può cioè tornare al logos della tradizione occidentale, perché questo stesso logos, insegna il filosofo tedesco, ci ha condotti dove siamo. Bisogna risalire alle origini, andare oltre il logos, ricollocarsi in un’origine che è al di qua del peccato originale dell’Occidente. Il soggetto rivoluzionario non sarà più la classe, come nel comunismo, né la nazione o la razza, come nel fascismo. Sarà il Dasein, il termine che Heidegger usa per indicare l’essere umano.

Non è facile seguire Dugin nella pars construens del suo discorso. Come organizzare la società secondo modelli non individualistici e liberali? Scrive:

Dobbiamo scavare più a fondo [rispetto alle teorie anti-liberali del passato] e fare appello alla Tradizione e a fonti pre-moderne di ispirazione. Qui si collocano lo stato ideale platonico, la società gerarchica medievale e le visioni teologiche del sistema normativo sociale e politico (cristiana, islamica, buddista, ebraica o indù). Queste fonti premoderne sono uno sviluppo molto importate per la sintesi nazionalbolscevica. (Ivi, p. 293)

Che è una indicazione inquietante, fascista in senso stretto, ma non si può negare che sia una indicazione chiara. Torniamo alle Leggi di Manu, ristabiliamo le gerarchie, rimettiamo a posto la società. Ma non ha detto, Dugin, che occorre risalire oltre la linea logocentrica occidentale? E cos’è, la Repubblica platonica, se non il frutto di questo logocentrismo? Se ne accorge, Dugin, procedendo nella riflessione. E giunge alla sua proposta concreta: il caos.

Così l’unico modo di salvarci, di salvare l’umanità e la cultura da questo incanto è fare un passo oltre la cultura logocentrica, verso il caos. Non possiamo restaurare il logos e l’ordine, perché portano in sé la ragione della loro stessa eterna distruzione. In altre parole, per salvare il logos esclusivo dovremmo fare appello all’istanza alternativa inclusiva che è il caos. (Ivi, p. 337)

Il caos gode di ottima stampa, in ambito filosofico, dopo Nietzsche. Non sono sicuro però che la realizzazione storica di questo progetto filosofico rappresenti la salvezza per chicchessia.

Il sesso degli angeli

C’è un aspetto del pensiero di Dugin che pare singolare, soprattutto se si pensa all’omofobia di cui s’è detto. Per il filosofo russo il soggetto della Quarta Teoria politica – che, abbiamo visto, è il Dasein heideggeriano – non è il maschio. Che è dietro il logos occidentale. Ma non è nemmeno la femmina, che è il contrario del maschio, e dunque complementare ad esso. Il Dasein è al di qua del genere. È agender, o meglio androgino. “Un androgino è un essere umano alla radice, prima dell’essere umano sessuato e il suo radicalismo è in esso, significando il suo appartenere alle radici. ” (Ivi, p. 314). I riferimenti, qui, sono esoterici, e vanno dal Libro di Enoch all’Atalanta Fugiens. E si potrebbe dire che questo essere umano asessuato è anche astorico, qualcosa come l’uomo astratto di Feuerbach distrutto criticamente da Marx; oppure, ricordando (con qualche imbarazzo) Gender di Ivan Illich, si potrebbe chiedere se non sia il soggetto proprio dell’odiato liberismo. È bene, piuttosto, ricordare l’influenza che ha avuto Sesso e carattere di Otto Weininger sul nazismo. La donna (come gli ebrei) amorale, presa interamente dalla sessualità, il maschio attivo, produttivo, volto al bene, libero dal sesso (Weininger 2012; cfr. Mosse 1985, p. 145). L’androgino non è tanto il superamento del dualismo tra maschile e femminile, quanto la sublimazione del maschile. Se il maschio è, a differenza della femmina, libero dal sesso, un maschio completo sarà affrancato dalla stessa identità di genere. Sarà, cioè, un angelo. “Nello spirito dell’angelomorfismo dell’antropologia politica della Quarta Teoria Politica possiamo describere [sic] il sesso del soggetto di questa come il sesso degli angeli” (Ivi, p. 315). Viene da sorridere. Ma passa, il sorriso, se ricordiamo da dove siamo partiti: spiritualità e fascismo. L’uomo fascista, diceva Gentile, “sopprime l’istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere”. Il Dasein di Dugin lo sopprime al punto de eliminare il suo stesso genere.

Conclusione

Dietro tutto questo c’è una realtà di oppressione che non è troppo diversa da quello descritta, denunciata, dissacrata da Tolstoj. Un sistema politico nelle mani di una casta di oligarchi ricchissimi e loschi, intenti a fare affari con il tanto odiato Occidente in accordo con la mafia o mafiosi essi stessi, mentre qualunque voce di dissenso viene spenta con la violenza. È chiaro a chiunque sappia usare il cervello che questa Russia non può rappresentare la seria alternativa ad alcunché. È un paese che ha smarrito la sua identità ed è caduto in uno stato di confusione. Se il compito della filosofia è esprimere lo spirito di un’epoca, un dilettante della filosofia come Dugin è realmente, come si definisce sul suo profilo Facebook, il più grande filosofo russo. La sua confusione mentale, il suo scimmiottare le avanguardie occidentali pretendendo si trarre da esse una alternativa russa all’Occidente, è il riflesso perfetto della confusione della Russia di oggi. Risolvere questa confusione con una politica di potenza porterà la Russia alla sua bancarotta completa. Bisognerà vedere se sarà un disastro che riguarderà solo la Russia o nella sua missione suicida, nella sua vocazione al caos coinvolgerà anche l’Occidente.

Riferimenti

Emanuel Carrére, Limonov, Adelphi eBook, Milano 2012.
Alexandr Dugin, La Quarta Teoria Politica, NovaEuropa, s.l. 2017.
Georg Mosse, Nationalism and Sexuality, The University of Wisconsin Press, Madison 1985.
Benito Mussolini, Fascismo, voce dell’Enciclopedia Italiana, vol. XIV, Treccani, Roma 1932.
Dariush Shayegan, Lo sguardo mutilato. Schizofrenia culturale: paesi tradizionali di fronte alla modernità, Ariele, Milano 2015.
Otto Weininger, Sesso e carattere, Mimesis, Udine 2012.
Matteo Zola, Il potere della Chiesa russa, in Il Tascabile, 24 ottobre 2016, url: https://www.iltascabile.com/societa/potere-chiesa-russa

Le menzogne di Houellebecq

Scrive Pierluigi Peggini su Le parole e le cose che Annientare di Michel Houellebecq (La nave di Teseo) “è un romanzo-romanzo, perfino ‘di genere’; non un romanzo a tesi, come i suoi libri più interessanti” (https://www.leparoleelecose.it/?p=43356).

Davvero difficile condividere questo giudizio. Sia perché quello di Houellebecq non è, con ogni evidenza, un romanzo di genere, ma un romanzo che prende a pretesto un genere per affrontare poi, in modo spiazzante per il lettore, un tema universale; e poi perché la tesi nel libro – se si ha la forza di leggerlo fino in fondo, e non lo si abbandona (scelta legittima) dopo l’ennesima uscita alterofobica – è chiarissima: e non mi sembra esagerato affermare che si tratta proprio di un romanzo a tesi.

Il tema del romanzo è la fragilità. Una doppia fragilità. Da una parte quella generale. La fragilità di un sistema sociale ipertecnologico, che può essere mandato in crisi facilmente proprio perché è diventato ipertecnologico. Una società che non può ormai più essere governata. Le riflessioni amare del ministro Bruno Juge, consapevole che la politica conta poco ormai, perché a governare gli eventi è “una forza oscura, segreta, la cui natura poteva essere psicologica, sociologica o semplicemente biologica, non si sapeva cosa fosse ma era terribilmente importante perché da essa dipendeva tutto il resto”, sono significative. Una società fragile e infelice, talmente infelice che il protagonista sente quasi di poter simpatizzare con i terroristi – anarco-primitivisti? – che vorrebbero distruggerla.

C’è poi la fragilità personale. La fragilità del padre del protagonista, ex agente dei servizi segreti colpito da un ictus, e poi quella del protagonista stesso, Paul Raison, alto funzionario sul quale si abbatte, appena compiuti i cinquant’anni, un cancro la cui soluzione chirurgica appare quasi peggiore della morte.

Il tema del libro è l’incrocio di queste due fragilità. Il fatto, cioè, che non abbiamo più qualcosa come un’arte della morte. Che si muore sostanzialmente vergognandosi un po’, allontanandosi dagli altri per i quali la fragilità è semplicemente oscena, abbandonandosi all’abbraccio della tecnica medica, senza saper bene come collocarsi di fronte alla prospettiva dell’ultimo respiro.

Houellebecq prova a pensare la crisi partendo da lì: dalla prospettiva di un uomo che sta per morire. E da quella prospettiva tenta una analisi storica. Il problema è, per lui, l’Illuminismo; e la guida è un ultrareazionario come Joseph de Maistre. L’Illuminismo dunque è stato satanico, così come satanica è stata la Rivoluzione francese. Mentre il Romanticismo aveva riportato l’Europa sulla via giusta. “Difendendo Dio e il re contro le atrocità rivoluzionarie, – è ancora il ministro Bruno Juge a parlare, in un monologo fondamentale per l’interpretazione del libro – appellandosi a una restaurazione cattolica e monarchica, cercando di far rivivere lo spirito della cavalleria e del Medioevo, i primi romantici avevano avuto, come gli oppositori del nazismo, la certezza di appartenere al campo del Bene”. Nazismo che sarebbe dunque l’equivalente contemporaneo dell’Illuminismo. Una equivalenza bizzarra ma rassicurante: Bruno, e con lui Hoellebecq, sarà tentato dalla più bieca reazione, ma non dal nazifascismo.

Qua e là nel romanzo compaiono due filosofi che si collocano alle soglie della modernità. Il primo è Spinoza. Aborrito. Ragionando sulle pratiche wicca cui è dedica la moglie, il protagonista pensa: “Doveva essere una roba più o meno pagana, se non panteista o politeista, faceva confusione tra le due cose, insomma, una roba vagamente ripugnante, alla Spinoza”. E in un altro passo: “Il determinismo, proprio come l’assurdo, non fa davvero parte delle categorie cristiane; le due cose del resto sono collegate, un mondo interamente deterministico appare sempre più o meno assurdo, non solo a un cristiano, ma a qualsiasi uomo”.

Pascal è invece l’autore che, insieme a Conan Doyle, accompagna il protagonista negli ultimi giorni della sua vita. Spinoza il razionalista, il deteminista, l’ateo; Pascal il matematico che crede nonostante tutto. Houellebec sta dalla parte del secondo e contro il primo. Sta dalla parte delle “meravigliose menzogne” che il protagonista evoca nell’ultima battuta del libro. Quali? Le menzogne del cristianesimo, evidentemente; o le menzogne di una qualsiasi fede o convinzione religiosa.
Ci sono alcune cose che sfuggono a Houellebecq, che non diversamente dal suo protagonista non sembra essere andato, nello studio della filosofia, molto oltre il corso intensivo dell’ultimo anno del liceo francese. Lo Spinoza panteista che tanto lo irrita è stato tra i pensatori di riferimento del Romanticismo; e i legami tra il nazismo e il Romanticismo sono certo storicamente molto più solidi dei legami con l’Illuminismo. Il suo quadro storico semplicemente non regge.

Come è noto, Spinoza affermava che un uomo libero a nulla pensa meno che alla morte. E un lettore superficiale potrebbe pensare che si tratti di qualcosa di non troppo diverso dalla attuale rimozione della morte. È, invece, tutt’altro. Spinoza è, con Hume, il più orientale dei filosofi occidentali. “Quello che non poteva sopportare, si era reso conto con inquietudine, era l’impermanenza di per sé; era l’idea che una cosa, qualunque cosa, finisse; quello che non poteva sopportare, non era altro che una delle condizioni essenziali della vita”, dice Houellebecq del suo protagonista. L’impermanenza, il punto di arrivo di Paul Raison, è il punto di partenza del buddhismo. Il cui punto d’arrivo è qualcosa di vicino al terzo genere di conoscenza di Spinoza: una visione del mondo nel quale l’ego è trasceso, attraversato. E in questo senso né il buddhismo né Spinoza si occupano della morte. Perché la morte è morte dell’io, ma tanto lo spinozismo quanto il buddhismo sono visioni che trascendono l’io.

Le meravigliose menzogne evocate da Paul/Hoeullebecq sono ancora possibili – la religione è (purtroppo) tutt’altro che morta, e la stessa tecnologia della comunicazione favorisce la diffusione inarrestabile di visioni irrazionali. Ma restano, appunto, menzogne, e per giunta menzogne pericolose, che hanno reso meno dolorosa la morte ad un prezzo troppo alto: l’abbrutimento dei singoli e delle collettività. Quella di Paul Raison vorrebbe essere la storia della ragione occidentale costretta a riconoscere la sua impotenza di fronte alla morte. È più probabile che sia il documento del disorientamento di uno scrittore che di fronte alla complessità del mondo attuale si scopre culturalmente sprovveduto. Un documento con quale si spera che possa essere definitivamente archiviato l’equivoco di un Houellebecq progressista.

Articolo pubblicato su Morel. Voci dall’isola, n. 4, 7 febbraio 2022.

L’abbacinante luce degli inizi.
Nota su Solenoide di Cărtărescu

Nota: Questo articolo contiene anticipazioni sulla trama di Solenoide.

Un uomo sui cinquantacinque anni, con gli occhiali spessi, il volto serio, il capo sollevato a guardare qualcosa che è in alto. Davanti a lui un bambino sui dieci anni, che guarda dritto nell’obiettivo della fotocamera. L’uomo regge un cartello su cui è scritto: “Unità con tutti per sempre”. Ma avrebbe potuto reggere cartelli con scritte come: “Basta la morte!”, “Abbasso la malattia!”, “Basta con la sofferenza!”. Cartelli, cioè, simili a quelli che in Solenoide di Mircea Cărtărescu (Il Saggiatore, Milano 2021) reggono i membri della setta dei Manifestanti.
L’uomo della foto si chiama Aldo Capitini. E per tutta la vita, non diversamente dai Manifestanti di Cărtărescu, ha protestato contro la morte, la malattia, l’invecchiamento, il dolore. Ed ha fatto di questa protesta la cifra stessa del suo pensiero. Si vuole che violenza sia solo quella che l’essere umano compie sull’altro essere umano. Ma che dire della violenza della natura? Che dire della violenza ontologica? Vivere non è essere torturati, violentati?

Leggi tutto “L’abbacinante luce degli inizi.Nota su Solenoide di Cărtărescu”

La vita umana non è sacra

“La mia vita appartiene a me” è lo slogan scelto per la campagna referendaria Eutanasia Legale. Ed è uno slogan che appare pieno di buon senso. “A chi appartiene la tua vita? È una domanda che più retorica non si può. A chi vogliamo che appartenga? La vita appartiene a chi la vive. C’è forse altra possibilità?”, scrive Paolo Flores d’Arcais su Micromega. E certo, viene da essere d’accordo, contro chi afferma che la nostra vita appartiene a Dio. Una visione legittima per il credente, per quanto assolutamente discutibile come tutte le affermazioni dei credenti; ma che è inaccettabile che condizioni anche chi credente non è.

Ma la mia vita appartiene davvero a me? È chiaro che qui con vita non si intende la possibilità di decidere con assoluta libertà come passare il nostro tempo. Vivere nella nostra società vuol dire accettare tacitamente che gran parte della nostra giornata sia impegnata a fare cose che non faremmo volontariamente, per guadagnarci, appunto, da vivere. La vita vera e propria è quella del tempo libero. Che spesso, nella nostra società, è tempo invaso dalla manipolazione dei consumi. Se ci fermassimo a chiederci quando accade che la nostra vita appartenga davvero a noi, non riusciremmo probabilmente a trovare una risposta. E questo ci metterebbe molta angoscia.

Ciò che si intende con vita è qui, invece, il fatto di essere vivi e non morti. E si intende: la decisione se continuare a vivere o farla finita spetta solo a noi; è una nostra scelta libera. Ma proviamo a chiederci ancora: è proprio così? Ognuno ha la libertà di suicidarsi, e questo è innegabile. Di fatto, la vita appartiene a noi, in condizioni normali. In qualsiasi momento possiamo decidere di farla finita. Oggi il solo parlare di suicidio suscita un grave imbarazzo, ma nell’antichità l’arte di suicidarsi, per così dire, faceva parte dell’arte di vivere.

Ma, al di là della nostra incontestabile libertà, abbiamo anche il diritto di suicidarci? Spesso sì. Qualche volta no. Sappiamo bene che togliendoci la vita arrecheremo sofferenza alle persone che ci vogliono bene, ma nessuno può continuare una vita penosa solo per evitare a chi gli è vicino di soffrire. Diverso è il caso di chi abbia uno o più figli non autosufficienti. In questo caso, quali che siano le sofferenze che proviamo, abbiamo il dovere di continuare a vivere per prenderci cura della persona o delle persone che abbiamo messo al mondo.

Ci sono casi, dunque, in cui la vita non appartiene a noi, nel senso proprio della semplice esistenza fisica; in cui suicidarsi è una colpa. In altri casi, invece, il suicidio ha perfino un valore etico.

Accennavo alla posizione degli antichi sul suicidio. Seneca dedica una intera lettera a Lucilio a consigliargli il suicidio, quando è il momento opportuno. Con parole che ricordano lo slogan della campagna referendaria. Placet? Vive. Non placet? Licet eo reverti unde venisti (Ad Lucilium, VIII, 15). Se la vita ti piace, vivi. Se la vita non ti piace, torna da dove sei venuto. Semplice. Poco oltre Seneca racconta il caso di un uomo che stava per essere condotto sul patibolo per lo spectaculum del suo supplizio, e che riuscì ad uccidersi incastrando la testa fra i raggi della ruota del carro (ivi, 23).

Si direbbe che quest’uomo, infliggendosi da sé una morte atroce, abbia evitato a sé stesso sofferenze anche maggiori, agendo dunque in modo intelligente. O che abbia voluto semplicemente appropriarsi della propria morte.

Ma c’è forse qualcosa d’altro.

Quando qualcuno viene condotto su un patibolo e sottoposto al supplizio davanti a una folla che gode dello spectaculum, accadono due cose. La prima è che si arreca sofferenza a un uomo o a una donna. Una cosa atroce, ma individuale. La seconda è che si offende l’umanità. Ogni atto di violenza compiuto su un essere umano è un’offesa all’umanità. Auschwitz non è solo la sofferenza individuale di milioni di ebrei, zingari, omosessuali. Auschwitz è una ferita profonda inferta all’umanità. E una ferita profonda viene inferta ogni volta che si arreca sofferenza inutile a qualcuno. Ogni volta, ad esempio, che si getta qualcuno in una cella, a vegetare, inutile a sé stesso e agli altri, preclusa ogni via di crescita umana.

La sofferenza inutile è un’offesa all’umanità di tutti, e per questo l’eutanasia è un bene. Non si tratta di rivendicare, in un’ottica individualistica, la proprietà della nostra vita, ma di affermare, in una prospettiva transpersonale e comunitaria, il valore, la dignità, l’intoccabilità della vita di tutti.

Ogni volta che si fa del male a un essere umano, si fa del male all’umanità. Il film Schindler’s List ha reso noto il detto, tratto a dire il vero molto liberamente dalla Mishnà, che “Chi salva una vita, salva il mondo intero”. Il principio si trova formulato con grande chiarezza nel Corano (sura 5, 32, traduzione di Hamza Roberto Piccardo):

Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità.

Cosa vuol dire quel come se? Naturalmente chi salva la vita di un uomo o una donna ha salvato di fatto, solo quella vita. Ma al tempo stesso ha affermato il valore, la dignità, l’importanza della vita. Ha affermato, e difeso, qualcosa che va al di là di quella singola vita, e che riguarda tutti. Mandare in un campo di sterminio sei milioni di persone non vuol dire solo massacrare quelle persone. Vuol dire affermare il principio della massacrabilità dell’essere umano.

Potremmo affermare il principio della non massacralità della vita umana. E sembra che siamo molto lontani da quel principio della qualità della vita umana che ispira la bioetica laica e giustifica anche l’eutanasia. Se la vita umana non è massacrabile, non vuol dire che è sacra? E non è la sacralità della vita umana il principio in base al quale i cattolici rifiutano l’eutanasia?

Il verbo massacrare indica tanto l’uccidere quanto il fare del male a qualcuno. Massacrare di botte è espressione corrente. Una persona è massacrata quando viene uccisa, ma anche quando è torturata. Affermare la non massacrabilità di un essere umano significa rifiutare che possa essere torturato. E le condizioni nelle quali si parla di eutanasia in questo consistono: in una tortura. Lo spiegava benissimo Piergiorgio Welby, raccontando la sua vita su un letto d’ospedale nella nota lettera aperta all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

L’eutanasia va riconosciuta perché nessun essere umano dev’essere massacrato. Non è un diritto o una questione individuale. Non solo almeno. Non si tratta di rivendicare il possesso della propria vita. Si tratta di difendere l’umano dalla violenza.

È nota l’ambivalenza del sacro. Affermare che la vita umana è sacra è estremamente rischioso. Perché il passo dal sacro al sacrificio è breve. Ed è un passo terribile. Nella Bibbia ciò che è consacrato a Dio (herem) dev’essere distrutto: ucciso.

Nessuna persona votata con anatema può essere riscattata; sia messa a morte. (Levitico, 27, 29).

È con questo dispositivo violento che Israele ha sterminato i suoi nemici, sacrificandoli al proprio Dio.

I cattolici possono, se vogliono e se a loro piace, offrire come sacrificio la propria sofferenza inutile al loro Dio. Ma non hanno il diritto di sacrificare al loro Dio la vita di chi non crede. Perché di questo si tratta. Affermare la sacralità della vita umana come principio astratto si risolve in concreto nella condanna alla sofferenza di esseri umani votati a un Dio ormai improbabile, e tuttavia ancora pericoloso per tutti.

Lo schwa renderà la nostra società meno sessista?

La proposta, avanzata dalla sociolinguista Vera Gheno, di introdurre lo schwa, una vocale media che si trascrive con una e rovesciata (ə), per superare il sessismo della lingua italiana, è oggetto di polemiche anche piuttosto accese, in particolare sui social network. Le obiezioni più violente vengono da chi rigetta i valori che sono dietro la proposta, ma non manca chi la rifiuta in nome della sacralità ed intangibilità della lingua italiana. Io condivido pienamente i valori e non ho alcuna sacra venerazione per la lingua — ritengo piuttosto che la lingua vada presa d’assedio, che ogni singola parola vada interrogata come si fa con un indiziato di reato — ; la mia condizione di persona che ha come madre lingua un dialetto caratterizzato da un uso perfino infestante dello schwa mi suggerisce però qualche considerazione critica.

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L’eccellenza e le macerie

In occasione della consegna dei diplomi di licenza tre normaliste, Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi, hanno letto un testo che è una denuncia della deriva non solo della Normale di Pisa, ma dell’intero sistema universitario italiano (qui il testo, qui il video della lettura). Un testo che non commento, perché ho davvero poco da aggiungere. Mi piace invece dire due o tre cose sulla replica che un altro ex normalista, Claudio Giunta, ha scritto per il Post.

“Tu non esisti”

Esordisce, Giunta, con un’affermazione incredibile: “Quattro o cinque anni di frequenza universitaria come studentesse e studenti non bastano, di per sé, a mettere queste studentesse e studenti nella condizione di dire cose particolarmente profonde o interessanti sull’università”. Chi è legittimato a parlare di università? Solo i docenti, in virtù della loro vasta esperienza? Quale esperienza particolare occorre per notare, come fanno le tre normaliste, che solo tre donne su tredici membri siedono nel Senato Accademico della Normale? Che “di 10 professori ordinari nella classe di Lettere, nove sono uomini” è una informazione che uno studente può ottenere facilmente, e che forse solo uno studente — non i nove ordinari maschi, e ancor meno forse l’ordinaria donna — può sottolineare. Tacendo del fatto che molti docenti hanno difficoltà ad esprimere opinioni critiche sul sistema perché temono ritorsioni personali, è surreale che in un Paese in cui non manca la predica quasi quotidiana sulla scuola o l’università di persone di assoluta incompetenza sul tema si ritenga non titolato un diplomato della Normale, ossia uno studente che ha seguito il percorso di studi che più di qualsiasi altro dovrebbe mettere in grado di analizzare i fatti sociali in modo critico.

Che quello che degli studenti hanno da dire sull’università contenga “una verità che non merita neppure di essere sottoposta a verifica e discussione” — come scrive ancora Giunta— è una affermazione rivelatrice nella sua arroganza. Di fatto, agli studenti italiani non viene chiesto mai di esprimersi sulla istituzione che vivono quotidianamente; sono clienti, non attori, del sistema. Nella linguaggio della Scuola di Palo Alto la premessa di Giunta è una disconferma. Che consiste non nel criticare gli argomenti dell’interlocutore, ma nel negarlo. Nel dirgli: “Tu non esisti”.

Un sistema di sfruttamento

Ma Giunta è generoso, e impiega qualche riga per criticare le cose scritte e dette dalle tre normaliste che non esistono. Il centro della sua critica è che le cose che esse dicono non sono particolarmente nuove e che è superficiale ricondurre i problemi di cui parlano al neoliberismo. Ora, ritengo che uno dei problemi della discussione attuale sulla scuola sia l’accusa arbitraria di neoliberismo, quella che chiamo reductio ad Hayekum. Convinti che sia in atto da anni un attacco neoliberista alla scuola pubblica, si rifiuta sdegnosamente qualsiasi cambiamento, vedendovi — spesso con vere e proprie acrobazie interpretative — una tessera del piano neoliberista; ed è così che, in nome della lotta al neoliberismo, si finisce per chiudersi nell’immobilismo della scuola cattedra-lezione. Ma Giunta cade nell’errore opposto. E’ naturale che l’università non sia un ambiente pienamente plasmato da logiche neoliberiste. Non lo è nemmeno la scuola secondaria. L’impostazione di base del nostro sistema di istruzione viene da lontano e certo non si trasforma da un giorno all’altro. Ma bisogna essere molto distratti per non vedere quello che sta succedendo. Lo denunciano le tre normaliste, e Giunta lo relativizza mettendolo quasi tra parentesi, con una strategia argomentativa da strapazzo. L’università è sotto-finanziata. Aumentano le posizioni a tempo determinato. I ricercatori, che prima erano a tempo indeterminato, ora hanno un contratto triennale rinnovabile per due anni una sola volta (se di tipo A) o non rinnovabile (se di tipo B). I ricercatori non si occupano solo di ricerca, ma insegnano. Moltissimi di loro lo fanno pur essendo stata rifiutata loro l’Abilitazione Scientifica necessaria per essere docenti. In sostanza lo Stato, attraverso l’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), dichiara che questi ricercatori non hanno la maturità scientifica necessaria per insegnare all’università; e tuttavia è essenziale per le università che questi ricercatori continuino ad insegnare. Umiliati e pagati meno di quanto spetterebbe loro per il lavoro che fanno. Ci sono poi i docenti a contratto, che tengono insegnamenti ma sono pagati in modo assolutamente simbolico, quando sono pagati: perché ci sono anche università che non pagano affatto i docenti a contratto.

Ricercatori, docenti a contratto, assegnisti, borsisti, dottorandi sono soggetti sfruttati a diverso titolo dall’università italiana. E non è difficile immaginare che succederebbe se queste figure scomparissero: le università chiuderebbero. Le università vanno avanti grazie allo sfruttamento del lavoro di migliaia di persone. A Giunta non piace che si parli di neoliberismo? Lo chiami come preferisce. Ma è un problema. Non astratto o teorico, ma che ha a che fare con la vita di molte persone. Vero è che molti docenti, anche indegni, sono “inamovibili”, come dice Giunta. Ma questo non dimostra che si tratta di un sistema garantito, e quindi opposto alle logiche neoliberiste. Dimostra, invece, che è un sistema di potere, in cui chi è in alto ha tutte le garanzie e chi è in basso non ne ha nessuna.

Discutere la didattica universitaria

Quello che è interessante, nel discorso di Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi è che fa saltare i corollari correnti del discorso sulla scuola neoliberiste: perché denunciano la deriva neoliberista, ma anche la metodologia tradizionale di insegnamento. “All’uso non esclusivo — scrivono — della didattica frontale dovrebbe associarsi un ripensamento del momento del seminario in senso più formativo e meno performativo. Perché non considerare il seminario, soprattutto ai primi anni, come un’occasione prima di tutto metodologica, per imparare a scrivere e a parlare della propria ricerca, non necessariamente inedita? Perché non incoraggiare, in questa sede, il lavoro a più mani, a mostrare quanto le competenze individuali risultino potenziate in un progetto collettivo?” Una richiesta che è pienamente valida anche per la scuola primaria e secondaria. Ma se la messa in discussione del modo di insegnare dei docenti della scuola primaria e secondaria è pratica quotidiana, anche se soprattutto da parte di chi nulla sa di pedagogia e di didattica, parlare di didattica universitaria è un vero e proprio tabù.

L’impegno

Aldo Capitini in un ritratto giovanile

Mentre ascoltavo il discorso di Magnaghi, Spacciante e Grossi il pensiero andava ad un altro normalista, che per me è stato fondamentale. Un normalista d’eccezione, perché della Normale è stato anche segretario, fino a quando non è stato costretto alle dimissioni per il rifiuto della tessera fascista: Aldo Capitini. Giovanni Gentile aveva chiesto a Capitini la tessera dopo uno scandalo legato a un suo carissimo amico, Claudio Baglietto, che aveva ottenuto nel 1932 una borsa di studio per seguire a Friburgo le lezioni di Heidegger ma poi si era dichiarato obiettore di coscienza e si era rifiutato di tornare in Italia. Il pensiero è andato a Capitini e Baglietto non solo perché il loro è stato uno scandalo alla Normale forse paragonabile, mutatis mutandis, a quello attuale, ma soprattutto perché il racconto che Capitini fa della vicenda in Antifascismo tra i giovani (1966; nuova edizione: Il Ponte, Firenze 2018) ci consegna la testimonianza di un ambiente di potere, sul quale calava la scure totalitaria, ma nel quale era tuttavia possibile un profondo scambio umano e intellettuale, nel quale ci si perfezionava negli studi, ma ci si formava anche all’impegno politico. Aldo Capitini è un esempio degli intellettuali impegnati che perfino in epoca fascista la Normale riusciva a formare. La rinuncia all’impegno degli attuali docenti è uno dei punti della critica delle tre normaliste. A Giunta la sola parola dà fastidio. Gli “fa un brutto effetto quasi in ogni sua declinazione”, scrive. Mi dispiace per lui. Ma ancora di più mi dispiace che il suo ostentato fastidio sia, in effetti, un segno dei tempi.