Se dovessi sintetizzare in poche parole il mio ideale politico-sociale, direi più o meno questo: un sistema in cui gli Stati siano sostituiti da ma un insieme di città libere di federarsi con altre città, di stringere accordi commerciali e di creare insieme infrastrutture tecnologiche; ogni città sarà governata secondo il criterio della massima partecipazione possibile al potere.Sono ben consapevole che una simile realtà non ha molte speranze di realizzarsi, almeno a breve, anche se nel Rojava i curdi stanno facendo un tentativo coraggioso di praticare il municipalismo libertario di Murray Bookchin, filtrato dalla lettura di Abdullah Öcalan. Siamo però nel terzo decennio del secondo millennio, e la realtà che viviamo non è più solo la cara vecchia dimensione fisica. Abitiamo due mondi paralleli: il mondo fisico, reale (ma cosa è reale?) e quello virtuale. E a quanto pare – se le speranze di Zuckerberg non saranno deluse – nel futuro prossimo questo secondo mondo sarà sempre più presente nelle nostre vite. È anche, se non soprattutto, ormai, alla luce del mondo virtuale che dobbiamo saggiare la plausibilità dei nostri ideali.
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Articoli di analisi e polemica culturale.
Hitler e il vegetarianesimo
Anni fa la lettura del bellissimo The bloodless revolution di Tristam Stuart mi offrì una prospettiva inedita sul vegetarianesimo di Hitler (ma dovrei dire: sull’hitlerismo in generale). Sono tornato sul tema, leggendomi le Conversazioni a tavola di Hitler, per aprire una finestra in un libro che sto scrivendo sul Diavolo e la violenza cristiana.
In questo libro ho parlato del dispositivo diabolico del cristianesimo, cercando di dimostrare i suoi effetti terribili sulla storia dell’Occidente e del mondo intero. Questo non vuol dire, come è naturale, che si tratti dell’unico dispositivo violento dell’Occidente, né che solo l’Occidente abbia dispositivi simili. Come detto nell’introduzione, ritengo che sia urgente ed importante una riflessione sulle radici culturali della violenza, che sono molteplici e in qualche caso intrecciate tra di loro. Di particolare importanza è scoprire radici violente lì dove sono particolarmente occultate; dove pare che vi sia, al contrario, la radice dell’amore e della benevolenza.
Se dovessi citare un caso simile potrei far riferimento all’esaltazione mistica della Natura e delle sue energie, diffusa nei diversi atteggiamenti riconducibili alla sensibilità new age. Una esaltazione che normalmente fa corpo con una fede cieca nelle cure naturali e la convinzione che la malattia non sia che la conseguenza di una qualche forma di alterazione dell’equilibrio naturale. Frequente è anche la scelta vegetariana o vegana, quando non il crudismo.
Una obiezione frequente, nei confronti dei vegetariani, è che anche Hitler era vegetariano. Si obietta che si tratta di un caso particolarmente rozzo di reductio ad Hitlerum e che Hitler era vegetariano non certo per convinzione personale, ma per ragioni di salute. Questo è falso. Hitler era un vegetariano con tendenze crudiste talmente convinto, da desiderare che anche il suo cane da pastore Blondi diventasse vegetariano (p.571). In un certo senso non è falso che fosse per lui questione di salute; ma non si trattava di guarire da qualche disturbo di salute. Hitler considerava innaturale per l’essere umano il consumo di carne e lo associava alla decadenza. I soldati di Cesare, osservava, non mangiavano carne, e così gli antichi vichinghi (p. 114); ed in natura sono più forti e resistenti gli animali vegetariani. In una conversazione sul futuro dell’umanità, dopo aver affermato che le religioni sono destinate al declino, conclude: “Ma c’è una cosa che posso predire a quelli che mangiano carne: il mondo futuro sarà vegetariano” (p.125).
Leggi tutto “Hitler e il vegetarianesimo”Il tempo dell’IArte
In questi ultimi mesi si sta attuando una rivoluzione silenziosa che con ogni probabilità avrà conseguenze notevoli sulla vita di tutti. L’Intelligenza Artificiale (IA) è usata da anni nei settori più vari: dalla salute ai trasporti alla gestione degli elettrodomestici. Sono ormai di uso comune dispositivi di IA che, al solo comando della voce, accendono o regolano l’intensità della luce, diffondono musica o consigliano cosa preparare per cena. Ora si stanno sperimentando le applicazioni dell’IA nella creazione di immagini partendo da un testo. I programmi sono diversi, e alcuni ancora in fase di test: Imagen (https://imagen.research.google), DALL-E 2 (https://openai.com/dall-e-2), e Midjourney (https://www.midjourney.com). Imagen non è ancora aperto agli utenti, DALL-E 2 è accessibile solo ad alcuni utenti selezionati, mentre Midjourney da qualche giorno può essere provato da tutti. Le mie osservazioni sono basate sull’uso di Midjoruney. Chi ha avuto modo di testarlo, afferma che i risultati con con DALL-E sono simili per quanto riguarda il livello qualitativo delle immagini, anche se con qualche differenza nello stile.
Partiamo da qui: il livello qualitativo. Che è altissimo. Se a un primo uso Midjourney può dare risultati banali e artisticamente poco interessanti, dopo una pratica sufficiente l’algoritmo è in grado di generare immagini impressionanti per la qualità artistica, la complessità e la bellezza.
Come funziona? L’algoritmo attinge a un ampio archivio di immagini e di stili, ai quali ricorre per soddisfare la nostra richiesta. Questo vuol dire che, quando inseriamo un testo per richiedere un’immagine, di fatto stiamo navigando nel nostro immaginario collettivo. O in una porzione di essa.
Per creare un’immagine occorre fornire all’IA informazioni sui contenuti dell’immagine, lo stile, il formato, le condizioni di illuminazione, i materiali, il tipo di risoluzione desiderata, e così via. Questa è all’esempio l’immagine che ho ottenuto provando a descrivere la scena finale di Solenoide di Mircea Cărtărescu, dando le indicazioni di stile che mi sembravano adatte.

I risultati saranno tanto più originali quanto più dettagliata, precisa e complessa sarà la richiesta. Al contrario, indicazioni vaghe forniranno una rappresentazione dell’immaginario collettivo, o meglio della particolare visione che ne ha l’algoritmo. Se si inserisce ad esempio il testo “God” si ottiene l’immagine di un uomo anziano, ma spesso anche una croce. Queste quattro immagini, ad esempio, sono proposte dall’IA con la sola indicazione del soggetto, “God”, e dello stile, “risograph” (una particolare tecnica di stampa):

Si tratta di due figurazioni che riflettono l’immaginario occidentale, ebraico-cristiano, e questo costituisce un limite evidente di un software che si rivolge ad utenti non solo occidentali. Del resto, quale sarebbe l’alternativa? Le figurazioni del divino sono talmente diverse, che ci si troverebbe nella semplice impossibilità di rispondere a una simile richiesta. La scelta è stata quella, oggettivamente etnocentrica, di lasciare una immagine ebraico-cristiana per “God”, consentendo poi di creare immagini di altre divinità inserendo i loro nomi. Per rispetto verso i musulmani, la parola “Allah” è invece vietata.
Non è l’unica parola vietata. Sono vietate su Midjourney le parole che potrebbero servire per creare immagini pornografiche (come “naked”) o eccessivamente cruente (come “severed”). Si tratta di un limite comprensibile in un programma che è ancora in fase di test, e che rischierebbe altrimenti di essere travolto dalla polemiche, e che lo rende peraltro abbastanza sicuro da usare in ambito scolastico.
Si può considerare arte quella creata in questo modo? La questione ripropone evidentemente quella che si pose ai tempi dell’invenzione della fotografia. Come scrive Francesco d’Isa,
Anche all’epoca dei primi dagherrotipi infatti ci si chiedeva se era possibile che uno strumento che con tanta facilità creava una rappresentazione realistica del mondo fosse in grado di generare delle opere d’arte. 1
Oggi sappiamo che un fotografo può essere un artista, anche se non chiunque fotografi è, per ciò stesso, un artista. Si può fotografare bene o male. Si può fotografare per documentare o per fare vera a propria arte. Sappiamo anche, però, che la fotografia e poi il cinema hanno cambiato il nostro immaginario. E tutto lascia supporre che la stessa cosa accadrà con programmi come Midjoruney.
Alcuni, presumibilmente la maggioranza, useranno il mezzo con risultati modesti. Altri creeranno vera e propria arte – quella che potremmo chiamare IArte. E qualcuno obietterà che di vera arte non si può parlare. Siamo in fondo ancora condizionati dalla concezione romantica del genio, dell’essere umano eccezionale che ergendosi sopra la massa dà vita all’opera d’arte. La quale dev’essere frutto di fatica e sacrificio, e soprattutto apparire assolutamente originale. Come può essere un artista chi si limita a descrivere una scena a un software?
Per rispondere a questa domanda occorre considerare come funziona la letteratura. Il rapporto che esiste tra lo scrittore e il lettore è lo stesso che esiste tra chi descrive la scena all’IA e l’IA stessa. Quando leggiamo un romanzo, traduciamo costantemente le parole dello scrittore in immagini. Senza questa nostra operazione l’opera non esisterebbe. Facciamo con le parole dell’autore la stessa operazione che l’algoritmo fa con le nostre parole. E d’altra parte il modo in cui immaginiamo ciò che l’autore descrive risente del nostro archivio di immagini, che possono venire dall’esperienza o dall’arte. Quando Leopardi descrive la sua donzelletta con il suo improbabile mazzo di rose e di viole, il modo in cui immaginiamo la scena è condizionato dalla nostra esperienza in fatto di ragazze, di campagne e di tramonti, ma anche dai quadri che abbiamo visto su questo tema.
Siamo noi gli autori dell’opera che leggiamo? Una risposta affermativa sembrerebbe bizzarra a chiunque.
Ma è forse, soprattutto, il tempo di liberarsi dall’ossessione per l’autorialità. Chi sta testando in questi giorni Midjoruney si trova di fronte a una straordinaria creazione collettiva di immagini. Nei diversi canali si susseguono centinaia di creazioni, a getto continuo, ed ognuna di essa può essere fatta propria da chiunque o diventare motivo di ispirazione. In questa fase – non sappiamo come si svilupperà poi – la produzione di immagini è un’impresa collettiva e collaborativa.
Come con la fotografia, alcuni useranno l’IA per creare immagini e altri saranno IArtisti. Ma anche per i primi i cambiamenti saranno con ogni probabilità significativi. Negli ultimi anni la produzione di immagini si è moltiplicata grazie ai dispositivi digitali ma ha portato al tempo stesso a un ripiegamento sul soggetto. Se l’obiettivo della macchina fotografica era rivolto verso il mondo, quello dello smartphone sembra essere costantemente rivolto verso sé stessi. Ognuno riproduce ossessivamente l’immagine di sé, quasi a voler dare consistenza a un soggetto che rischia in ogni momento l’evanescenza; il mondo fa da semplice sfondo. L’IA ci riconduce a noi stessi. Qualunque cosa si chieda all’IA di rappresentare, è di noi che stiamo parlando. Se chiediamo di rappresentarci una scena, è dal profondo di noi stessi che l’abbiamo tratta. Attraverso l’IA tiriamo fuori le immagini da noi stessi, con la mediazione dell’immaginario comune. Giungiamo a noi attraverso l’altro per riconsegnarci al mondo comune. È quello che fa da sempre l’arte, che non è creazione della bellezza – molte opere d’arte ritraggono l’orrore – ma rivelazione dell’intimo, messa in comune di quanto è più profondo – ed è qui il suo valore anche etico. Se questa analisi non è errata, dopo anni di ripiegamento avremo forse una nuova era dell’espressione.
1 F. D’Isa, La rivoluzione degli algoritmi, in “Il Tascabile”, 21.7.2022, url: https://www.iltascabile.com/scienze/arte-algoritmi/
Articolo pubblicato su Educazione Aperta.
Lea Ypi: dall’altra parte della storia
Accade non di rado che la successione delle nostre letture, apparentemente casuale, sveli invece una sua logica e suggerisca un’interpretazione. Mi è capitato di leggere Libera. Diventare grandi alla fine della storia (Feltrinelli, Milano 2022) di Lea Ypi (titolo originale: Free: Coming of Age at the End of History) dopo L’altra parte di Alfred Kubin e di accorgermi che, nonostante siano due opere separate da più di un secolo e che non potrebbero essere più diverse per lo stile, raccontano forse una stessa storia.
Kubin ha scritto il suo libro enigmatico nel 1908, dopo la morte del padre, in uno di quei momenti in cui è inevitabile fare i conti con la propria vita. Ma il suo romanzo, che anticipa le atmosfere di Franz Kafka, è anche una grandiosa rappresentazione del finis Austriae, il crollo dell’impero austro-ungarico e del mondo culturale che esso ha rappresentato. Il protagonista, alter ego dell’autore, parte su invito di Patera, un suo ex compagno di scuola, per il Regno del sogno, collocato in un luogo indefinito, al di fuori dell’Europa, separato dal resto del mondo e quasi inaccessibile. L’isolamento è la sua caratteristica principale. Il secondo tratto caratteristico è il suo aspetto per così dire vintage. A Perla, capitale del Regno, tutto, a cominciare dalle case, ha un aspetto vecchio. E di fatto lo è. Ogni cosa, comprese le case, è preso da altrove e riciclato. Per il resto, questa strana utopia non sembra muovere da nessuna delle promesse forti che da sempre danno vita alle utopie. Tranne una: il denaro. A Perla il denaro conta poco, gli scambi di denaro hanno un carattere più simbolico che reale, e c’è “una giustizia mostruosa” che regola l’avvicendarsi di ricchezza e povertà. “Quella sconfinata potenza, piena di tremenda curiosità, un occhio che penetrava ogni fessura, era onnipresente: nessuno le sfuggiva” (L’altra parte, Adelphi, Milano 2020, p. 70). È l’occhio di Patera, padre, stregone, perfino Dio di questo mondo sospeso. E colpisce, in questo romanzo di inizio Novecento, la prefigurazione per così dire onirica dei totalitarismi del Novecento.
Se provo a figurarmi una qualsiasi abitazione di Perla mi torna in mente la Casa delle foglie, il suggestivo museo dei servizi segreti comunisti di Tirana. In una stanza di quella che era la sede della Sigurimi è stato ricreato l’interno di una casa albanese tipica del periodo comunista. Tipica in senso stretto: i mobili erano gli stessi, il divano, il tavolino con il centrino ricamato, perfino la pianta in un angolo, la pianta aquila che ricorda la bandiera albanese. Oggi ripensando a quell’interno non posso fare a meno di pensare anche un televisore con sopra una lattina vuota di Coca-Cola. Era, racconta Lea Ypi, un cimelio dell’Occidente capitalista che veniva acquistato a caro prezzo, e che meritava una posizione di tutto rilievo in casa. Ma anche questa ricollocazione è in piena continuità con la logica di riciclo di Perla.
Il protagonista del romanzo di Kubin sceglie di vivere nel Regno del sogno, stanco della civiltà occidentale. Lea Ypi non ha scelto; è nata in un Regime comunista, incarnazione storica del sogno di Karl Marx. È nata in quello che pretendeva di essere il più ortodosso dei Paesi comunisti. Enver Hoxha si era distaccato progressivamente sia dalla Russia che dalla Cina, accusando entrambi di aver tradito gli ideali socialisti, chiudendo l’Albania in un isolamento perfetto e in una perfetta paranoia, di cui sono ancora oggi testimonianza i numerosi bunker antiatomici sparsi ovunque, diventati ormai uno dei simboli dell’Albania e venduti ai turisti nei negozi di souvenir.
Attraverso il racconto di Lea Ypi – il racconto della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua giovinezza – guardiamo questo regno isolato, ostinatamente fedele a sé stesso, attraverso gli occhi di una bambina che vive in quello che sembra il migliore dei mondi possibili. Certo, le difficoltà quotidiane sono evidenti – le file interminabili per ottenere i generi di prima necessità, ad esempio – ma acquistano senso grazie al confronto costante con il male occidentale. Loro, gli occidentali, mettono il denaro davanti a tutto. Loro hanno gente ricchissima e gente che muore di fame. Loro fondano la loro ricchezza sullo sfruttamento. Questa è la narrazione che viene dalla scuola e che è confermata dalla famiglia, ma con qualche incertezza. Perché i genitori esitano tanto a sistemare sul televisore il ritratto di Enver Hoxha? E cosa sono quegli strani discorsi su gente che si è laureata in stranissime università?
Sulla famiglia di Lea Ypi pesa un equivoco. Xhafer Ypi, l’odiato primo ministro albanese sotto il regno di re Zogu, per il regime comunista null’altro che un traditore della nazione, aveva lo stesso nome di suo padre. Una coincidenza spiacevole, ma nulla più. Solo dopo la fine del Regime Lea Ypi scoprirà che non si trattava di una coincidenza, perché quell’uomo era il suo bisnonno. E tutta la sua famiglia era segnata dalla biografia che ne faceva nemici di classe. Le università di cui i genitori parlavano erano i campi di rieducazione del regime comunista. La sua famiglia le aveva mentito sulle sue origini per proteggerla, per impedire che il peso della biografia la opprimesse.
Lea Ypi dunque esce contemporaneamente dall’infanzia e dal comunismo. Diventa grande, come dice il sottotitolo, alla fine della storia: perché tale parve a Francis Fukuyama la fine del comunismo (The End of History and the Last Man è del 1992). Come spesso accade (e come è accaduto anche da noi) molti si riciclano con grande abilità, diventano immediatamente sostenitori della democrazia e del liberalismo. Società civile, annota Ypi, diventa l’espressione chiave. L’Albania ha bisogno di costruire una società civile che manca. Questo dicono gli esperti occidentali, chiamati a guidare la transizione del Paese verso la democrazia. E le loro parole echeggiano quelle di Hercules Bell, l’antagonista e sfidante di Patera nel romanzo di Kubin, che rappresenta in modo assolutamente trasparente il capitalismo americano. Questo uomo ricchissimo, attivissimo, positivo, fautore della democrazia e della partecipazione, così si rivolge ai cittadini di Perla: “Il grande mondo fuori di noi ha fatto passi giganteschi verso la luce dell’avvenire! Voi siete ricaduti indietro e vivete accovacciati in una palude. Non partecipate in alcun modo alle meravigliose invenzioni della nostra nuova epoca, le innumerevoli invenzioni che diffondono l’ordine e la felicità, e di fronte a cui l’abitante del Sogno sta come un estraneo! Cittadini, vi meraviglierete quando uscirete di qui!” (Ivi, p. 179). Come estranei saranno gli albanesi di fronte all’Occidente più a portata di mano, quell’Italia con i supermercati pieni di cose troppo costose per poterle comprare, ma che è bello intanto visitare per il senso di pienezza che trasmettono.
Il Regno del Sogno, mandato in crisi dalla tensione tra Patera e Bell, precipita nel caos. La società stessa di disgrega, le case si sgretolano, la città è presa d’assalto dagli animali. L’Albania precipita nel 1997 ella cosiddetta anarchia, quando la crisi delle imprese piramidali, incarnazioni della promessa di benessere occidentale, manda sul lastrico la maggior parte delle famiglie albanesi, e la rabbia collettiva esplode incontrollata, seminando ovunque terrore e distruzione.
Quella di Kubin non è la storia del pragmatismo occidentale che sconfigge le fantasticherie utopistiche e stabilisce il regno del benessere. La conclusione del romanzo di Kubin è una riflessione sulla complicazione dei contrari. “Der Demiurg ist ein Zwitter” è la conclusione lapidaria ed enigmatica. Zwitter: ermafrodito, ibrido. Il Demiurgo è un ibrido.
Nemmeno la storia di Ela Ypi, raccontata con equilibrio, sensibilità e uno stile assolutamente nitido, racconta il passaggio della prigionia del comunismo alla libertà del capitalismo. L’autrice, che è una filosofa della politica, ci mostra che le cose non sono così semplici. Se per i suoi genitori comunismo era “la negazione di ciò che avrebbero voluto essere, del diritto di sbagliare e di imparare dai propri errori, di esplorare il mondo nei loro termini”, lei associa il liberalismo “alle promesse infrante, alla distruzione della solidarietà, al diritto di ereditare il privilegio, di chiudere gli occhi davanti all’ingiustizia” (p. 298). Quando raccontava la sua vita sotto il regime comunista ai compagni universitari di sinistra italiani – Lea Ypi ha studiato alla Sapienza – suscitava in loro imbarazzo ed irritazione. Per gli italiani di sinistra il comunismo era Allende e Ernesto Che Guevara, non certo un grigio dittatore come Enver Hoxha. “Nella migliore delle ipotesi, i miei racconti sul socialismo in Albania e i riferimenti a quello degli altri paesi con cui il nostro si era confrontato venivano tollerati come le osservazioni imbarazzanti di una straniera che stava ancora imparando a integrarsi”, scrive Ypi (p. 295). Il suo racconto mostra quanto di romantico e falso c’è in questa narrazione che è ancora fondante da noi (e non solo) per l’identità di sinistra, ma mostra anche che non meno falsa è la narrazione dell’Occidente come luogo della democrazia, della libertà e dei diritti. La società liberale è un altro sogno fragile, attraversato da crepe, destinato ad infrangersi; a ben vedere, l’altra parte – die andere Seite – della medesima medaglia del comunismo.
/imagine
Disclaimer: alcune immagini possono urtare la sensibilità del lettore.
Il paesaggio, adesso, era solenne e grandioso nella sua uniformità; ci trovavamo ai piedi della Montagna di Ferro…“
Nel momento in cui leggo questo passo – tratto da L’altra parte di Alfred Kubin – la mia mente ricostruisce il paesaggio descritto. Come è un paesaggio solenne e grandioso? Come immaginare la sua uniformità? Come sarà questa Montagna di Ferro? La mente opera questa operazione ermeneutica in tempi estremamente rapidi, se la lettura dev’essere scorrevole e dunque piacevole. Ma in che modo compie questa operazione? Da dove trae le immagini? Abbiamo un set di immagini, più o meno vaghe, che possono servirci a rendere l’idea di un paesaggio solenne o di una montagna di ferro. Ma mano che l’autore ci fornisce degli input, la nostra mente funziona come un interprete iconico, che trasforma con eccezionale rapidità le parole in immagini. Ma per farlo deve attingere ad informazioni che vanno oltre la mente stessa. Ogni lettore immaginerà in modo personale quel paesaggio solenne e grandioso, eppure tutti i lettori attingeranno a un immaginario comune, che può essere più o meno ampio a seconda della vastità dell’esperienza del lettore.
Immaginiamo ora di poter essere noi stessi a fornire input a una mente esterna; di poter, cioè, dettare un testo ad una intelligenza artificiale che trasforma quello che diciamo in immagini, attingendo a un vastissimo repertorio di immagini. È quello che accade con Midjourney, che si presenta come “a new research lab focused on new mediums and tools for empowering people”. Al momento il software, in versione beta, può essere provato ad invito, ma si tratta di una tecnologia che senza alcun dubbio sarà presto disponibile per tutti e che con grande probabilità cambierà il nostro modo di concepire l’arte (e non solo).
Nei miei primi tentativi con Midjoruney – occorre inserire del testo dopo /imagine – ho provato a descrivere una scena semplice. Ad esempio un uomo che cammina di notte in una qualsiasi città italiana.

Ho provato poi ad aggiungere elementi fantastici, per creare situazioni inusuali. Con risultati affascinanti.


Quindi sono passato dalle immagini ai concetti. In che modo l’intelligenza artificiale avrebbe interpretato per me la morte di Dio?


E poi concetti ancora più astratti. Come la differenza ontologica.

O il concetto buddhista di vuoto.


Midjourney interpreta le immagini in base ad input che possono contenere anche particolari stilistici. È possibile chiedere all’IA di raffigurare la Montagna di Ferro descritta da Kubin, per confrontarla con quella che abbiamo immaginato noi leggendo il romanzo. Ma Kubin è stato anche e soprattutto un grande artista, ed ha accompagnato il suo romanzo con una serie di disegni che aiutano il lettore a raffigurarsi gli ambienti descritti. La stessa cosa può essere richiesta all’IA: si può chiedere di raffigurare una Montagna di Ferro nello stile di Alfred Kubin. Ma anche, se piace ibridare gli immaginari, nello stile di Shaun Tan o di Escher.
Le ricerche, mandate su un server comune, sono a disposizione di tutti (a meno che non si paghi per avere un accesso privato), e chiunque può intervenire per realizzare delle variazioni della stessa immagine. E questo pone la questione centrale: di chi sono le immagini create da Midjourney? Si può definire autore dell’opera chi fornito l’input all’IA? Posso ritenermi autore delle opere inserite in questo articolo (altre sono sulla mia pagina su Deviantart)? E potrei ritenermi autore di un’opera che avessi creato modificando il testo di un altro utente di Midjourney? Verrebbe da rispondere di no, perché è l’IA che ha fatto il lavoro. Ma, in fondo, il lavoro che l’IA compie a partire dal mio testo non è lo stesso che la mia intelligenza compie a partire dal testo di Kubin? Quando leggo un romanzo, la mia mente mette in scena l’opera, e senza questa messa in scena il romanzo non esisterebbe. Ma questo vuol dire che l’autore dell’opera è il lettore? A monte, ci si può chiedere se abbia ancora senso parlare di un’opera d’arte centrando l’attenzione sull’autore, e non sui processi da cui risulta, che sono inevitabilmente transpersonali – ed è in questo, forse, l’importanza di un’opera d’arte.
La Spagna, la filosofia e le chiacchiere
Esiste un progetto globale per attaccare i saperi umanistici, che formano al pensiero critico, in favore di una concezione meramente strumentale della conoscenza, funzionale al capitalismo ed alla preparazione di lavoratori sempre meno consapevoli. Questa volta tocca alla Spagna: ed è, significativamente, proprio un governo di sinistra ad eliminare la filosofia, evidentemente scomoda, dai programmi scolastici.
Ecco, se cominciassi così un articolo sulla riforma spagnola dei programmi della scuola dell’obbligo (Educación Secundaria Obligatoria) del governo di Pedro Sanchez, potrei essere certo di una vasta condivisione, di un mare di like e di commenti indignati. Il mio articolo andrebbe ad ingrossare il discorso vanveristico sulla scuola, che in questo caso si fa internazionale. E nel quale purtroppo casca anche qualche giornale come MicroMega, sulle cui pagine digitali un indignato, ça va sans dire, Antonio Cecere scrive:
Per completare la contestualizzazione della scuola nel frastuono dell’epoca in cui stiamo vivendo, i sinistri pedagoghi spagnoli decretano l’espulsione della Filosofia dall’insegnamento sostituendo la vetusta e odiata (dalle classi dirigenti) materia plurimillenaria con materie più pratiche, come il lavoro su specifiche tematiche di attualità, i problemi di convivenza in una comunità pluralista, la formazione e l’orientamento personale e professionale, la digitalizzazione, l’economia e l’imprenditorialità.
Antonio Cecere, La sinistra masochista, Psoe e Podemos cancellano storia e filosofia, in MicroMega, url: https://www.micromega.net/la-sinistra-masochista/
Eppure basterebbe non dico documentarsi, ma ragionare un attimo per vedere la cosa diversamente. In primo luogo, perché si tratta di scuola dell’obbligo, vale a dire l’equivalente della scuola secondaria inferiore e dei primi due anni della secondaria superiore italiane. Ora, in Italia in questo segmento scolastico la filosofia non c’è. Non c’è mai stata, e nessuno ha mai pensato di mettercela. Anche al Classico la filosofia si insegna solo dopo la fine della scuola dell’obbligo. In Italia nessuno studente che abbia abbandonato la scuola alla fine dell’obbligo ha mai studiato filosofia. In secondo luogo, gli studenti nella scuola dell’obbligo dovranno affrontare temi etici e civici, legati alla democrazia e ai diritti. Ora, se mi si chiedesse come introdurre gli studenti alla filosofia, indicherei esattamente questi temi. Non c’è propedeutica filosofica più efficace che mostrare in che modo il ragionamento filosofico può contribuire a chiarificare i problemi comuni. Nelle nostre scuole gli studenti al terzo anno della secondaria superiore si trovano subito alle prese con Talete, Anassimandro e Anassimene. In terzo luogo, l’insegnamento della filosofia all’ultimo anno della scuola dell’obbligo era già stato eliminato dai popolari, ed è facoltà delle regioni reintrodurlo, se vogliono, anche nella scuola dell’obbligo. Per soprammercato, si potrebbe osservare che nei Paesi europei che danno il maggior contributo al dibattito filosofico mondiale, come la Francia e la Germania, la filosofia è tutt’altro che disciplina centrale nei programmi, mentre noi con i tre anni di storia della filosofia – sarebbe meglio chiamarla così, perché di questo si tratta – restiamo ai margini.
La cosa triste – più triste – di questo insistente, asfissiante chiacchiericcio pedagogico è che impedisce di affrontare i problemi reali. Che nella scuola italiana sono enormi: e considerare con attenzione e onestà intellettuale quello che stanno facendo gli altri Paesi è un buon modo per cercare vie alternative. La riforma spagnola ha punti di grande interesse, come l’eliminazione dei voti numerici e il ripensamento dei meccanismi di recupero, ai fini di combattere la dispersione scolastica. Ma anche di questo sarebbe impossibile parlare, senza essere travolti dal solito disperante muro di fallacie logiche, disinformazione, catastrofismo, proprio di gente che dalla filosofia, se l’ha studiata, ha imparato poco: e certo non la serietà dell’argomentazione.