I social network e la scuola

Sorprende non poco leggere la petizione lanciata da Daniele Novara, uno dei più influenti pedagogisti italiani, e dal Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti da lui fondato, per chiedere che si vieti fino ai quattordici anni l’uso di uno smartphone personale e fino ai sedici la possibilità di creare un profilo sui social network; e non meno sorprende trovare tra i firmatari persone stimabili, come Federica Lucchesini o Anna Oliverio Ferraris (il testo della petizione si può leggere qui). Poiché si tratta di una petizione promossa e firmata da pedagogisti (anche se non mancano personalità del mondo dello spettacolo, che evidentemente hanno poca competenza sul tema, ma sono mediaticamente più efficaci di qualunque pedagogista), non si può fare a meno di notare due cose.

La prima è che una cultura del divieto si concilia poco con quella pedagogia progressista alla quale appartengono senz’altro Novara e non pochi dei firmatari della petizione, mentre è in piena continuità con le posizioni del ministro Valditara e del governo Meloni. La seconda è che l’argomentazione della petizione, appena embrionale, è centrata interamente sul ricorso alle neuroscienze: “La nostra non è una presa di posizione anti-tecnologica – si legge – ma l’accoglimento di ciò che le neuroscienze hanno ormai dimostrato: ci sono aree del cervello, fondamentali per l’apprendimento cognitivo, che non si sviluppano pienamente se il minore porta nel digitale attività ed esperienze che dovrebbe invece vivere nel mondo reale”. Ed è evidentemente una fallacia. Sia perché ricorrendo alle neuroscienze si possono affermare molte cose in campo pedagogico, e non siamo sicuri che piacerebbero tutte ai firmatari della petizione (per dirne una: non è poi così certo, alla luce delle neuroscienze, che esista una cosa come il libero arbitrio, e anche lo stesso io personale vacilla), sia perché non è affatto vero che le neuroscienze giustifichino un tale allarme.

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Il cattolicesimo queer di Michela Murgia

Femminista e cattolica, Michela Murgia ha cercato di rovesciare il patriarcato attraverso una reinterpretazione radicale del dogma centrale del cristianesimo: la Trinità. Non “due uomini e un uccello”, come nella tradizione occidentale, ma tre figure asessuate, in una posizione aperta, orizzontale, non gerarchica, come nell’icona di Andrej Rublev. Il cui significato profondo è che l’amore autentico è quello che include il terzo. Una reinterpretazione nella quale tuttavia permane la tendenza cattolica, e violenta, di dire cos’è il vero amore, e dunque come bisogna amare.

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Picchiare i fascisti

Durante il fascismo Aldo Capitini perse il posto di segretario alla Normale di Pisa e finì in galera, alle Murate di Firenze, in quanto teorico, insieme a Guido Calogero, del Movimento liberalsocialista. Dopo la fine del fascismo gli capitò, in corso Vannucci nella sua Perugia, di assistere a questa scena: dei poliziotti portavano in Questura un picchiatore fascista, dei più feroci; e degli antifascisti gli si gettarono addosso, lo isolarono e lo picchiarono. E non rimase a guardare, ma intervenne per pregare gli antifascisti di smetterla. Il risultato fu che venne preso lui stesso per fascista e ricevette la sua porzione di percosse.

Ha raccontato l’episodio – che oggi fa tenerezza, ma che fu doloroso (“sebbene non fu ricoverato in ospedale, stette male e stette anche molto a disagio”) – Francesco Innamorati al convegno di Perugia dell’11-12 ottobre del 2019 (si vedano ora gli atti: Aldo Capitini compresente: ripartendo dai suoi temi, a cura di Giuseppe Moscati, Ledizioni, Milano 2023).

Pur senza aver preso mazzate, devo ammettere che qualche disagio l’ho provato anch’io sentendo le affermazioni di Christian Raimo sulla necessità di picchiare i neonazisti. Conoscendo Raimo, sono assolutamente certo che si tratta di una uscita infelice che non rappresenta realmente il suo pensiero.

Poiché si parlava di Ilaria Salis, bisogna ricordare alle persone di destra che ora useranno in modo strumentale quelle parole – e lo faranno anche, naturalmente, per attaccare Raimo in quanto docente – che mentre Salis è in Ungheria in condizioni di detenzione durissime, portata in tribunale con i ferri ai polsi come una pericolosissima criminale, e rischia fino a undici anni di carcere, in Italia Gianluca Iannone è stato condannato a soli quattro anni di reclusione per aver picchiato un carabiniere: cosa che non gli ha impedito e non gli impedisce di godere tutte le libertà democratiche, compresa quella di essere il leader di CasaPound, il movimento dei “fascisti del terzo millennio”, e di candidarsi alle elezioni.

Chi è responsabile del genocidio dei palestinesi?

Non mi sento personalmente responsabile del governo di Meloni e Salvini. Non mi sento personalmente responsabile, a dire il vero, di nessuno dei governi che ho visto succedersi negli anni in questo Paese politicamente così infelice; nel caso di Meloni, anche meno, perché per contrastare l’eventualità di un suo governo ho anche votato un partito lontanissimo da me come il PD – turandomi il naso, come diceva quel tale.

In generale, ritenere che un popolo sia responsabile, in solido, delle azioni del suo governo vuol dire accettare una identificazione di popolo e governo che è già fascista. Sono dunque ben lontano dal ritenere che gli ebrei siano responsabili del genocidio di Gaza. E tuttavia, quando il governo israeliano compie un genocidio dei palestinesi per punirli dell’azione di Hamas sta facendo propria esattamente questa identificazione tra popolo e organizzazione politica che è evidente anche nelle recenti (19 febbraio) dichiarazioni della ministra May Golan durante un dibattito alla Knesset: “I am personally proud of the ruins of Gaza and that every baby, even 80 years from now, will tell their grandchildren what the Jews did”.

What the Jews did. Quello che hanno fatto gli ebrei.

Io spero vivamente che tra ottant’anni si racconti il genocidio di Gaza. Sono sicuro che lo racconterà ogni palestinese, o almeno lo faranno quelli che sopravvivranno al genocidio. Spero che a farlo siano anche gli altri, magari grazie a una giornata della memoria – dal momento che non siamo capaci di giornate dell’attenzione, immagino che compenseremo con la memoria della nostra distrazione. Mi piacerebbe che si ricordasse che Israele ha compiuto un genocidio, e non che a farlo sono stati gli ebrei. Perché significherebbe dar ragione a questi criminali di Stato.

Lo stupro di una donna che ha bevuto

Valeria Di Napoli, aka Pulsatilla, ha avviato un blog su Substack, Regina di Spade, in cui tenta tra l’altro una narrazione diversa dei rapporti di genere. L’ultimo articolo tratta il tema delicatissimo dello stupro di una ragazza che ha bevuto (rispondendo a un articolo di Andrea Casadio su “Domani” che non ho avuto modo di leggere, non essendo abbonato a quel giornale). Lo fa in un modo che ritengo inaccettabile, per ragioni che proverò a spiegare facendone una analisi dettagliata; dovrò ricorrere dunque ad ampie citazioni del suo articolo, che naturalmente vi invito a leggere.

Pulsatilla esordisce così:

Nella narrazione e nella ricostruzione dello stupro, di qualsiasi stupro, trovo che vengano fatti degli errori sistematici di bidimensionalità: si mira a dividere i buoni dai cattivi invece di mettere l’accento sulle risorse evolutive delle donne che hanno subìto la violenza. Il discorso sullo stupro si risolve quasi sempre dicendo che lui era un carnefice e lei era una vittima, ergo lui va punito, lei va difesa. Mai, mi risulta, vengono forniti alla donna degli strumenti di protezione o di crescita. Gli unici strumenti che le vengono forniti sono quelli della denuncia.

Cos’è un discorso sullo stupro? L’espressione può includere diverse cose. In primo luogo la sua ricostruzione e narrazione giornalistica. Poi la narrazione che ne viene fatta in tribunale, che come sappiamo ha modalità spesso umilianti per la vittima. Infine la narrazione che ne fa la vittima stessa al di fuori del tribunale, nei casi in cui decida di farlo, ad esempio scrivendo lei stessa articoli o libri sulla sua esperienza. Leggi tutto “Lo stupro di una donna che ha bevuto”

Il senso di Salvini per gli italiani

Con il consueto equilibrio Matteo Salvini ha commentato il caso di Ilaria Salis, la donna italiana condotta in tribunale con i ceppi in Ungheria perché accusata di aver aggredito dei neonazisti durante una manifestazione. S’è detto scandalizzato, Salvini, perché “questa Salis” fa la maestra: lui ha evidentemente un’altra idea di come dev’essere una brava maestra italiana. E la cosa non sorprende. Quello che un po’ sorprende, perfino in Salvini, è che abbandoni del tutto, perfino cercando di screditarla con una notizia falsa (quella di una passata aggressione a un banchetto della Lega, per la quale la donna è stata assolta), una cittadina italiana:

Ma quella donna se è colpevole deve pagare. E se il reato l’ha commesso in Ungheria deve essere processata in Ungheria. La sinistra ci dice sempre che dobbiamo rispettare la magistratura, ecco, allora rispettino anche la magistratura ungherese.

Non si può fare a meno di ripensare alla reazione ben diversa che Salvini ebbe quando il Tribunale del Mare condannò a restare per altri due anni in India i due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, che in India non avevano malmenato qualche neonazista, ma avevano ucciso due pescatori. Allora i giornali lo descrivevano come “sconcertato e infuriato”. Al Tempo aveva dichiarato:

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