In piedi quando entra il docente?

Se fosse vero che, come dice il Corriere della Sera, “la maggioranza dei professori è d’accordo”, sarebbe davvero preoccupante. Ma è già abbastanza preoccupante che a quasi centocinquant’anni dalla nascita di Maria Montessori, e nel suo paese (che tuttavia non l’ha mai amata troppo), si discuta di questo. Il tema è: alzarsi in piedi all’ingresso dei docenti. Se ne discute, sulle colonne del Corriere, partendo dal cestino lanciato contro una prof in una scuola: che è come discutere di giornalismo partendo da Vittorio Feltri. Del resto, la rappresentazione degli adolescenti come orde di scalmanati, restii ad ogni tentativi di incivilimento, con il cervello in pappa per troppo uso di Internet e telefonini, è il punto di partenza di una parte significativa dei ragionamenti attuali sulla scuola e l’educazione. Una rappresentazione denigratoria delle nuove generazioni che è vecchia quanto il mondo, ma è assolutamente inutile farlo notare.

No, alzarsi in piedi quando entra il docente non è una buona cosa. Soprattutto, non è la via per introdurre il rispetto nella scuola. Rispetto è la parola chiave dell’educazione. Viene dal latino respicere, guardare di nuovo. Lo sguardo rispettoso è il contrario dello sguardo distratto: è lo sguardo intenso di chi ha interesse, di chi intende creare una relazione umana profonda. Un’altra parola chiave dell’educazione e della scuola è reciprocità. Molti credono che l’educazione sia un’azione che alcuni compiono su altri. Il genitore educa il figlio, il professore educa lo studente. Un processo unidirezionale, con una parte attiva ed una passiva. Le cose non vanno così. Perché ci sia educazione occorre che ci sia relazione, e la relazione è sempre biunivoca, mai unidirezionale. Il genitore educa il figlio, ma educando il figlio educa anche sé stesso. Educare significa cercare il meglio della vita – quelli che la filosofia chiama valori, che sono spesso diversi da quelli che la politica (e ciò che si spaccia per politica) considera tali – per offrirlo alla persona più preziosa; e questo meglio forse non si cercherebbe, se non ci fosse qualcuno cui offrirlo. L’educazione è un cammino comune di più persone che cercano il bello, il giusto, il bene, la verità. Il senso della vita. Una ricerca che è sempre aperta, infinita, e che sempre si arricchisce con il contributi di altri.
Ogni volta che un docente entra in classe, deve farlo con la consapevolezza di essere l’ultimo rappresentante di una categoria che nella storia è stata violenta. I suoi strumenti in passato erano il bastone e la frusta. Chi insegna oggi non può non prendere posizione riguardo al passato della sua professione. Intende porsi in continuità con esso o prenderne le distanze? Chiedere agli studenti di alzarsi quando si entra, e magari rivendicare la pedana sotto la cattedra (che esiste ancora in moltissime aule scolastiche) vuol dire rivendicare una posizione di potere, di superiorità, di asimmetria che distrugge la reciprocità, quell’insieme senza il quale non è possibile nessuna ricerca comune, e dunque nessuna educazione.
Buona parte del malessere che gli studenti vivono a scuola è legato alle molteplici pratiche di inferiorizzazione che subiscono. Una espressione ricorrente in loro è: “i professori hanno il coltello dalla parte del manico”. Non si può discutere con un docente: ha sempre ragione, perché ha potere. Un potere sottolineato dal fatto che dobbiamo alzarci quando entra.
C’è una rivoluzione da compiere nella scuola, ed è una rivoluzione che non può fare nessun Ministero. Devono farla i docenti, ripensando il senso del loro fare scuola a partire dalla relazione. Si tratta di passare dall’insegnamento come potere all’insegnamento come prendersi cura. E’ un passaggio non facile, perché elementi di potere sono ineliminabili nella professione. Il docente è colui che attribuisce un voto allo studente, che stabilisce cosa deve imparare, che inevitabilmente ne controlla il comportamento e gli impone delle regole. Affinché queste forme di potere non degenerino, è importante che siano apertamente tematizzare con lo studente. Il voto, ad esempio, non va imposto, ma discusso con lo studente e con la classe. Soprattutto, occorre ragionare insieme sulla valutazione, su come e perché valutare, e sui limiti di un’operazione simile. Si può davvero valutare il sapere? Si può misurare l’apprendimento reale? Come è possibile distinguere un apprendimento reale da una simulazione di apprendimento? E’ un potere che si mette in discussione, e discutere il potere è passaggio fondamentale di una educazione democratica. Così come è fondamentale il principio di uguaglianza. Non possiamo costruire una democrazia – che è un sistema politico fondato sull’uguaglianza di tutti – con un sistema educativo gerarchico, nel quale le persone rivendicano un rispetto legato al potere, che è ben diverso dal rispetto spontaneo che un docente si conquista mettendo a disposizione dello studente la sua cultura, la sua passione intellettuale e la sua umanità.
 
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 17 dicembre 2017.

Author: Antonio Vigilante

antoniovigilante@autistici.org

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