Il karma di Agamben

1. Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto di Giorgio Agamben (Bollati Boringhieri) è una delle non frequenti incursioni della filosofia italiana – di uno dei maggiori filosofi italiani, in questo caso – nel pensiero orientale, al di fuori del settore specialistico (e in Italia ancora quasi allo stato nascente) della filosofia comparata ed interculturale.
Il problema del libro è quello dell’azione responsabile e dunque imputabile; o meglio: del rapporto tra azione e soggettività. Un rapporto che si fissa, nell’etica occidentale, nel concetto di colpa. Ci si può chiedere se sia davvero opportuno mettere in discussione questo nesso, ma qui vorrei soffermarmi sulla lettura del buddhismo da parte di Agamben.
Come è noto, uno dei problemi più rilevanti del buddhismo dal punto di vista filosofico è la contraddizione tra la negazione dell’esistenza di un sé o anima e la concezione del karma e della rinascita. Se non esiste un sé, cos’è che rinasce? Come è possibile che vi sia continuità tra una vita e un’altra, se non c’è un sé sostanziale? Per Agamben, questa contraddizione apparente nasce da una precisa strategia: “si tratta di spezzare il nesso che lega il dispositivo azione-volontà a un soggetto”; “il soggetto come attore responsabile dell’azione è solo una apparenza dovuta alla nescienza o all’immaginazione (nei termini della nostra ricerca, esso è una finzione prodotta dai dispositivi del diritto e della morale)” (p. 128). 

Non c’è molto altro, oltre queste righe citate; se la prima parte del libro contiene una analisi raffinata dei concetti di causa e colpa in Occidente, la parte finale, dedicata al karman, si sviluppa per passaggi rapidi ed essenziali. Proviamo a ragionare su quelle poche righe. 

2.In uno dei testi fondamentali del buddhismo, il Milindapanha, il saggio Nagasena risponde alla domanda secca del re greco Menandro (Milinda) : “Chi nasce è lo stesso o un altro?”. La sua risposta è che chi nasce è al tempo stesso sé stesso e un altro, esattamente come noi, nello scorrere della nostra vita, siamo al tempo stesso noi stessi ed altri. Il neonato che eravamo, il bambino, l’adolescente, non esistono più in età adulta, e tuttavia l’adulto è al tempo stesso quel neonato, quel bambino, quell’adolescente. Come una fiamma che faccia luce per tutta la notte è al tempo stesso la stessa fiamma (alimentata dallo stesso olio e stoppino) e non lo è, poiché si rinnova di continuo [La rivelazione del Buddha. I testi antichi, a cura di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001, pp. 126-7]. Un altro esempio fatto da Nagasena illustra il rapporto tra questa dottrina e l’etica. Se l’individuo (namarupa, nome e forma) che rinasce non fosse lo stesso della vita precedente, pur essendo diverso, “allora una persona sarebbe liberata dalle azioni malvagie” (p. 133). E continua: si immagini un uomo che ha rubato dei manghi, e che viene processato per questo. Certo, i manghi che lui ha rubato non sono gli stessi che sono stati piantati dall’uomo che l’accusa (sono cambiati, crescendo), ma ciò non scagiona l’uomo.
E’ qui evidente la preoccupazione buddhista di confermare la responsabilità del soggetto, nonostante la negazione della sostanzialità del sé.

3.Per comprendere i termini del problema è necessario dare uno sguardo al contesto. L’epoca del Buddha è estremamente fertile dal punto di vista della riflessione filosofica. Oltre al Buddha (che solo oggi si comincia a considerare, come è giusto che sia, uno dei più grandi pensatori dell’umanità), circolavano altre figure che mettevano in discussione l’impianto teorico-ritualistico del brahmanesimo. La tradizione li accomuna con il termine śramaṇa, asceti itineranti che erano spesso a capo di comunità numerose e potenti. Il più noto è Mahavira, il fondatore del jainismo, i cui rapporti con il Buddha sono controversi. Per studiosi come Gombrich, il buddhismo sarebbe stato profondamente influenzato dalla sua riflessione, e proprio riguardo al rapporto tra karma ed etica. Ma la questione del karma è al centro della ricerca di tutti questi pensatori, e non è forse azzardato ritenere la questione del karma, in questo periodo della riflessione indiana, simile a quella dell’esistenza di Dio nel periodo dell’Illuminismo europeo. Il materialista ed ateo Ajita Keśakambali sostiene che alla morte l’individuo si dissolve nei suoi elementi materiali, ed uguale è la sorte di tutti, indipendentemente dal bene o dal male compiuto, mentre Pūraṇa Kassapa (che secondo la tradizione sarebbe morto suicida) nega che anche la più orribile delle azioni criminose possa causare qualsiasi demerito nelle vite successive, e Makkhali Gosāla afferma che la liberazione giunge indipendentemente dalle azioni compiute, alla fine di un ciclo di rinascite, per l’azione infallibile del niyati, il fato.
Ora, tanto Mahavira quanto il Buddha si oppongono fermamente a queste posizioni, che negano il karma o il rapporto tra karma ed azione morale, e che accusano di immoralismo. La citazione riportata del Milindapahna è significativa: se non ci fosse continuità tra il soggetto che è morto è quello che è rinato, il soggetto sarebbe liberato dalle sue azioni malvagie. Se si cerca qualcosa di simile a ciò di cui parla Agamben, bisogna pensare piuttosto a Makkhali Gosāla – fondatore di un movimento, quello degli ājīvika, che è sopravvissuto per quasi mille anni – anche se bisogna chiedersi come mai i seguaci della scuola si dedicassero comunque a pratiche ascetiche – oppure a Pūraṇa Kassapa, cui il Sūtrakṛtāṅga jainista attribuisce l’affermazione che “Quando un uomo agisce o causa l’azione di un altro, non è la sua anima (atman) che agisce o causa l’azione”. [Sūtrakṛtāṅga, libro I, 1.1.13, in Gaina Sutras, translated from prakrit by Hermann Jacobi, part II, The Sacred Books of the East, Clarendon Press, Oxford 1895, p. 237].

4.Ma perché, allora, il Buddha nega l’esistenza del sé? Per comprendere il buddhismo è fondamentale considerare che la sua categoria centrale non è quella di verità. Il buddhismo non vuole essere una dottrina vera; vuole essere una dottrina salutare (kusala), ossia efficace per liberare dalla sofferenza. Secondo il noto paragone della zattera, la dottrina (il dharma) è come una zattera che serve per attraversare un fiume. Raggiunta la sponda opposta, diventa inutile. E’ un semplice mezzo. Anche la dottrina del non-sé va dunque considerata in quest’ottica. E’ sostenuta non perché vera, ma perché utile (o meglio: benché vera, il Buddha non l’avrebbe sostenuta se non fosse stata utile). E non è difficile comprendere perché la considera utile. La sofferenza nasce da quello stesso soggetto che è fonte della brama. Soffro perché invecchio, perché non sono come vorrei, perché non ho quello che vorrei; soffro perché morirò, ossia il mio io non sarà più. Ma il sé è anche la fonte dell’azione non morale. Inganno, rubo, uccido, sfrutto l’altro perché metto me prima di lui, perché sono centrato nel mio io. La negazione del sé è dunque al tempo stesso una strategia (un dispositivo, direbbe Agamben) morale. Ciò che distingue la morale buddhista da quella cristiana, avvicinandola piuttosto a quella stoica ed epicurea, è la centralità di quelle che Foucault chiamava “tecnologia del sé”, ossia pratiche con le quali il soggetto “opera su sé le trasformazioni necessarie per avere accesso alla verità [M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, tr.it., Feltrinelli, Milano 2003, p. 17]. Mi riferisco, naturalmente, alla meditazione, e in particolare alla meditazione vipassanā. Che, per essere precisi, andrebbe considerata al tempo stesso come una tecnologia del sé e del non sé. Attraverso la meditazione, il soggetto si sottrae al gioco mutevole delle sensazioni, delle inclinazioni, dei desideri, e si costituisce come soggetto fermo, stabile, sicuro. E’ quel soggetto forte di cui parla quasi ogni verso del Dhammapada:

I saggi che sono padroni del proprio corpo,
Che sono padroni della propria parola,
I saggi che sono padroni della propria mente,
Sono davvero pienamente padroni di se stessi. [Dhammapada, 17.14, in R. Gnoli, La rivelazione del Buddha, cit., p. 547.] 

Al tempo stesso, però, la meditazione porta il soggetto a conoscere la sua stessa inconsistenza. Concentrando l’attenzione sul corpo, considera l’insostanzialità del corpo, e così via passando alle sensazioni ed ai contenuti mentali. Il soggetto che medita è un soggetto che ci costituisce come unità ed al contempo si trascende, aprendosi ad altro. 

5.Agamben trova in Vasugupta e nei suoi Śivasūtra quello che cerca: un Sé-danzatore, i cui gesti non sono dissimili dalle figurazioni di un attore su un palcoscenico. “L’idea di una capacità di agire, di un’attività umana che non si fissa mai in un crimen, in un atto colpevole e imputabile, è qui espressa con chiarezza” (p. 136). E’ una idea non estranea alla mistica occidentale, da Plotino a Margherita Porete. Ma una azione non imputabile si trova anche in un testo molto più noto, in India, degli Śivasūtra: la Bhavagadgita. All’inizio dell’opera troviamo il guerriero Arjuna in crisi prima della battaglia risolutiva. Nell’esercito nemico trova i suoi stessi parenti, e si chiede se sia giusto combatterli. Krishna, che guida il suo carro, lo incita alla battaglia. Manifestandosi come Dio, gli spiega che la sua azione sarebbe priva di colpa, poiché il vero agente non è l’individuo, ma Dio. बुद्धियुक्तो जहातीह उभे सुकृतदुष्कृते: “Chi possiede la consapevolezza si libera in questo mondo del buono e del cattivo” (II, 50). E più oltre spiega che, compiendo le azioni senza curarsi del loro frutto, ma in spirito di abbandono a Dio, sarà libero dalle conseguenze cattive dell’azione (ossia dal karma) (IX, 28). 

6.Quel che è evidente, è che un’azione libera dal crimen, dal dispositivo della colpa e dell’imputazione, non è possibile, nell’ottica indiana, se non in una dimensione transpersonale. Il soggetto della Gita è libero dal karma nella misura in cui trascende sé stesso in Dio, che a sua volta trascende la dualità tra bene e male. C’è un rischio, però, qui. Se l’Altro nel quale il soggetto trascende sé stesso è un Dio al di sopra del bene e del male che può comandare anche l’uccisione del nemico, l’azione libera dalla colpa sarà, appunto, anche l’azione omicida, intesa anch’essa – ancora – come mezzo, e dunque qualcosa di ben lontano da gesto di cui parla Agamben, “un’attività o una potenza che consiste nel disattivare e rendere inoperose le opere umane e, in questo modo, le apre a un nuovo, possibile uso” (p. 138). Il gesto di Arjuna è libero dalla colpa e dall’imputabilità, ma al tempo stesso è un mezzo per realizzare il gioco di Dio. Diverso è il caso del Buddha. 
Agamben conclude il suo libro ricordando il silenzio del Buddha quando Vacchagotta gli chiede se esiste l’atman. Il suo silenzio nega tanto la posizione degli eternalisti quanto quella dei nichilisti; con esso, il Buddha afferma che colui che nel ciclo delle nascite subisce le conseguenze delle sue azioni non è né lo stesso né un altro rispetto a colui che le ha compiute nella vita precedente” (p. 139). E’ la visione apparentemente paradossare che, come abbiamo visto, Nagasena presenta al re Menandro. Per Agamben “è su questo particolare statuto ontologico che occorre riflettere” (ibidem). Ma c’è anche un altro aspetto da considerare, ed è l’articolazione di questa concezione del soggetto con la negazione di un Altro inteso come Soggetto trascendente. A differenza della Gita, il soggetto buddhista trascende sé stesso non in Dio, ma nella Vacuità (concetto che diventerà centrale nel buddhismo mahayana); abbiamo cioè un soggetto che è e non è ed un essere che è e non è. Avendo trasceso l’ego, questo soggetto-non soggetto è al di là dell’etica, poiché l’etica esiste fin dove esistono il bene e il male, che sono un portato dell’ego e del pensiero discriminante; al tempo stesso, però, questa soggettività sradicata nel vuoto ha eliminato ogni possibilità del male, e dunque è bene nella sua forma più completa. Detto altrimenti: il bene autentico è transpersonale.

7.Tra i pensatori occidentali, mi pare che nessuno si sia avvicinato a questa visione più di Simone Weil: e non a caso si tratta di una pensatrice che si è confrontata in modo non superficiale con il pensiero indiano, studiando anche il sanscrito. Ne L’ombra e la grazia distingue il “bene da codice penale”, ossia un “bene preso al livello del male e che vi si opponga come un contrario ad un contrario”, da un bene che si trova “al di sopra”, un bene che “in un certo senso, somiglia più al male che a quella bassa forma del bene” (S. Weil, L’ombra e la grazia, Rusconi, Milano 1996, trad. p. 81). Questo “al di sopra” è il trascendimento dell’io. “Il peccato in me dice ‘io'”, scrive con un linguaggio ancora cristiano (ivi, p. 42). Agamben chiude il suo libro evocando quella inoperosità “che si apre quando i dispositivi che legano le azioni umane nella connessione dei fini e dei mezzi, dell’imputazione e della colpa, del merito e del demerito, sono resi inoperosi” (p. 139). Ma affinché ciò accada, affinché vi sia una “azione non agente”, per Weil (op. cit., p. 56), come per il buddhismo, occorre che l’ego sia trasceso. E’ questo trascendimento il gesto insensato che libera il soggetto dalle catene della colpa e della responsabilità, e al tempo stesso rende possibile il bene nella sua forma più pura.

Author: Antonio Vigilante

antoniovigilante@autistici.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *