Breve storia della Cucina di Stato

Pare che tutto sia cominciato con le riflessioni di Comistocle, gran filosofo di corte ai tempi del re Pekkar, della settima dinastia. Riflettendo sulla natura umana, Comistocle era giunto alla conclusione che per diventare pienamente uomini e donne, in buona salute e felici, è indispensabile mangiare bene. Aveva osservato non pochi bambini che, per colpa di una alimentazione errata, avevano sviluppato diverse deformità, mancanze intellettive, turbe caratteriali. Consultandosi con i medici di corte, era giunto ad elaborare la dieta perfetta o quasi, quella che avrebbe consentito a chiunque di sviluppare il proprio corpo e la propria mente nel modo migliore. Per una strana coincidenza, questa dieta corrispondeva quasi del tutto con la dieta della stessa corte; o, per meglio dire, con ciò che mangiava lo stesso Comistocle. Ma era una dieta diversissima dalla dieta della maggior parte della gente. Comistocle convinse dunque il re Pekkar che sarebbe stato un crimine consentire ai sudditi di continuare a mangiare i loro cibi scadenti, compromettendo non solo la loro salute, ma anche e soprattutto quella dei loro figli. Chiese dunque, ed ottenne, un decreto del re con il quale si stabiliva che da quel momento la dieta dei sudditi sarebbe diventata faccenda dello Stato. Tutti avrebbero potuto mangiare gratis alle mense del re. Anzi: tutti avrebbero dovuto farlo. E avrebbero mangiato, nelle mense del re, gli stessi cibi di Comistocle.
La cosa a Comistocle ed al re ed a tutta la corte pareva un gran bell’atto di finaltropia. Un gesto generoso che i posteri avrebbero ricordato con gratitudine. Ma accadde una cosa non prevista. Per quanto gratuite, le mense reali venivano disertate. Ai sudditi non piaceva il cibo di Comistocle, benché fosse infinitamente migliore di quello delle loro povere mense. Preferivano nutrirsi di castagne e pane nero. Presto fu necessario un nuovo bando per ribadire che mangiare alle mense pubbliche era un preciso dovere dei sudditi. Nemmeno questo bastò. Le mense si riempirono solo quando il re si decise a ricorrere all’esercito. Famiglie intere venivano prelevate e portate di forza alle mense. Le quali avevano, ormai, le grate alle finestre, e le porte erano sbarrate. Fino a quando era tempo di mangiare, nessuno poteva uscire.
Anche così, i sudditi continuarono a protestare. Molti si rifiutavano di mangiare, molti altri vomitavano subito dopo aver mangiato. Particolarmente penosa era la situazione dei cuochi reali che, dopo aver studiato per anni la cucina più raffinata, si sentivano ora terribilmente umiliati. I cibi preparati con tanta passione, tanta competenza, tanto studio, erano rifiutati come se fossero stati velenosi. Perché i sudditi li assaggiassero, occorreva ricorrere alla minaccia.
Una situazione così penosa si protrasse per secoli e secoli. Stranamente, i sudditi non si adeguarono mai alla dieta di Comistocle. Continuarono a sognare le loro castagne col pane nero, assaggiando qualcosa nella mensa reale solo sotto minaccia, e il più delle volte risputandolo via. I cuochi cominciarono presto a far porzioni più piccole, per disturbare il meno possibile, e fingevano di non vedere quando qualche suddito, invece di ingoiare, buttava in qualche sacca il cibo così amorevolmente offerto. Gli uni e gli altri erano scontenti, e le mense furono per secoli tra i posti più infelici del regno. Eppure i re, uno dopo l’altro, continuarono a considerare la mensa reale indispensabile, irrinunciabile, meritoria. Il ragionamento di Comistocle era solido, capace di resistere ad ogni smentita dell’esperienza.
Fu verso la nona dinastia che accadde qualcosa. Venne fuori un cuoco popolare, un tipo strano che cucinava castagne col pane, ma in modo più raffinato, e si mise a contestare apertamente la mensa reale. Scrisse un libro intitolato Lettera a un Cuoco di Stato in cui sosteneva che non è affatto vero che la dieta comistoclea è migliore, che anche la dieta dei sudditi, caparbiamente mantenuta nei secoli nonostante l’opposizione dei governanti, aveva le sue virtù, e che i sudditi si sarebbero sentiti estranei, quasi prigionieri nelle mense di Stato – che continuavano ad avere le grate alle finestre – se alla dieta comistoclea non fosse stata aggiunta almeno qualche castagna e qualche fetta di pane nero. Altre voci si aggiunsero alle sue. Un tale si spinse fino ad affermare che meglio sarebbe stato chiudere senz’altro le mense statali, visto che nessuno vi mangiava nulla. La reazione comune fu di sdegno. Nessuno poteva considerare seriamente la proposta di cancellare una istituzione così benefica.
Ma il disagio dei sudditi, dopo secoli di cucina di Stato, era oggettivo: e crescente. Che fare? Ci si accordò tacitamente di diminuire ancora le porzioni. Oggi, dodicesima dinastia, la mensa di Stato continua ad essere una istituzione centrale nella politica dei successori di Pekkar, ed il successori di Comistocle continuano a sostenere la solidità delle ragioni del loro illustre antenato. Ma i sudditi non mangiano, e se non fosse per quel po’ di pane e castagne che riescono a buttare giù di nascosto appena usciti dalla mensa, si direbbe che siano a rischio di morire di fame. Io che scrivo queste righe, alla periferia del Regno, mi chiedo come mai ciò accada. Sommessamente, avanzo una mia ipotesi, e la affido a questa pagina nella speranza che, quando la leggerete, sarà al di là del confine. Ecco, sospetto che non si tratti in realtà di dieta, che la salute dei sudditi c’entri poco. Sospetto che da secoli la gente venga chiusa a mangiare la dieta comistoclea in mense con le sbarre alla finestra perché è così che si impara cos’è il potere.
Ora che ve l’ho detto, è bene che vada. In fretta.
Valete.

La scuola capovolta

Il mio articolo sui poteri dei presidi (http://www.glistatigenerali.com/scuola/66332/) contiene un cenno critico alla flipped classroom che non è piaciuto ai sostenitori della metodologia: sono stato perfino espulso dal gruppo Facebook Docenti Virtuali. Cosa che, se non mi toglierà il sonno, un po’ mi sorprende, sia perché mi figuro dei docenti come persone aperte al confronto, sia perché la mia critica non riguarda la metodologia in sé, ma la sua deriva.

Per flipped classroom si intende una metodologia didattica che capovolge, letteralmente, il modo tradizionale di fare scuola. Nella scuola tradizionale al mattino il docente insegna, impiegando per lo più la metodologia della lezione frontale – che ha limiti che ormai sono evidenti a tutti, o quasi – ed al pomeriggio lo studente fa il lavoro a casa: i compiti, ossia lo svolgimento di esercizi o lo studio del libro di testo. L’assegnazione di compiti a casa è molto discussa soprattutto nella scuola primaria. Come osserva Maurizio Parodi, pedagogista che ha avviato una campagna per l’abolizione dei compiti, il bambino si ritrova da solo proprio nel momento decisivo, quello nel quale deve consolidare ed applicare – cioè rendere concrete – le conoscenze acquisite. Per questo per molti bambini il momento dei compiti si risolve in una esperienza frustrante: e l’associazione dello studio con sensazioni spiacevoli può avere conseguenze non lievi sulla futura esperienza scolastica. A dire il vero il bambino non è del tutto solo: c’è sempre la mamma o qualche altro familiare ad aiutarlo. E qui c’è un’altra perplessità. A far la differenza, alla fine, è il tipo di assistenza che il bambino può avere a casa. Un bambino con una madre laureata avrà molte più possibilità di successo scolastico di un bambino proveniente da una famiglia non in grado di seguirlo adeguatamente nei compiti. E che dire, poi, di un professionista, l’insegnante, che chiede ai genitori di completare il lavoro da lui iniziato?

Con la classe capovolta lo studente non ha più compiti a casa: quello che prima faceva a casa lo fa ora a scuola. E cosa fa a casa? Segue le lezioni. Ed è qui che si appuntava la mia critica. Perché le lezioni saranno seguite, naturalmente, davanti al un computer o a uno smartphone, e consisteranno in video nei quali il docente illustra l’argomento di studio o in altri video didattici trovati in rete. Occorre precisare che il ricorso a videolezioni non è indispensabile né caratterizza la metodologia, perché a casa lo studente può anche studiare il manuale, ma di fatto la proposta di materiali video o comunque multimediali caratterizza fortemente la metodologia. Cosa c’è che non va? La mia obiezione non riguarda la perdita di contatto umano, lo smarrimento della relazione interpersonale, poiché c’è il momento successivo in classe, nel quale si spera che si recuperi in termini di relazione quello che s’è perso al pomeriggio. A lasciarmi perplesso è la riduzione, forse non inevitabile ma effettiva, del discorso culturale, affinché rientri in un video. Tutto viene semplificato, ridotto, schematizzato. Guardando i video didattici che i docenti capovolti si scambiano, ho l’impressione che si tratti di materiale che suppone in chi lo guarderà una capacità di attenzione molto labile, per non dire peggio.

Nel gruppo Facebook La Classe Capovolta, il più importante gruppo di incontro dei docenti che praticano la metodologia, una docente segnala il sito Ovo. ” Qui si trova materiale utile per italiano, storia, arte, musica, ecc.” Seguono ringraziamenti. Una docente scrive: “Io lo conoscevo ed è molto utile…….linguaggio semplice, associa video e relativo testo…” (sic). Ed un’altra: “Grazie mille molto interessante i video sono semplici e molto d’impatto”. Semplicità ed impatto.

A chi ha buona memoria questo Ovo dirà qualcosa. Si tratta di un progetto che ha una decina di anni. Fu avviato nel 2007, dietro c’erano Trefinance, una società controllata dalla Fininvest di Silvio Berlusconi, e Nova Fronda di Antonio Meneghetti, ex frate fondatore dell’ontopsicologia, un personaggio con pose da santone di cui la magistratura si è occupata più volte. Il progetto fece scalpore, ai tempi, perché in quei video di pochi minuti sembrava prendere forma un progetto ben preciso: quello di riscrivere la storia ad uso e consumo delle nuove generazioni. Del resto, Marcello Dell’Utri lo aveva detto con chiarezza: “I libri di storia, ancora oggi condizionati dalla retorica della resistenza, saranno revisionati, se dovessimo vincere le elezioni. Questo è un tema del quale ci occuperemo con particolare attenzione”. Ma l’incontro tra Berlusconi e Meneghetti (scomparso nel 2013) non era solo all’insegna del revisionismo storico. Meneghetti aveva la fissa dei leader, degli esseri superiori che riescono a far prevalere la loro volontà. E l’idolatria della leadership è uno dei punti cardine dell’ideologia berlusconiana. Nel caso di Ovo, tuttavia, più che di formare una nuova generazione di leader, si trattava di contrastare quell’egemonia culturale della sinistra che tanto infastidiva Dell’Utri, e di farlo con la consapevolezza dei cambiamenti culturali e tecnologici in atto. Se la sinistra ha il controllo delle case editrici, la destra userà il web, i computer, i telefonini. E la comunicazione rapida, essenziale, efficace. Mettendo a frutto anni di esperienza televisiva e pubblicitaria.

A distanza di dieci anni, le pillole di Ovo diventano strumenti didattici all’avanguardia. Pier Cesare Rivoltella, docente alla Cattolica di Milano che è tra i principali riferimenti italiani dei docenti capovolti, riprende il concetto di microlearning, che spiega come segue: “Se io ho il mio cellulare e ascolto il podcast di una lezione universitaria sul tram, è evidente che quella lezione non potrà durare venti minuti, venticinque minuti, trenta minuti. Ma neanche dieci”. Cinque minuti di lezione, da ascoltare sul tram. Come uno spot pubblicitario: nulla più.

Resta da chiedersi perché seguire una lezione universitaria in tram. Non ho l’ideologia dello studio faticoso, che richiede disciplina e sofferenza. Sono persuaso che sia compito di chi insegna rendere l’apprendimento quanto più possibile una esperienza positiva, perfino gioiosa. Ma resta una esperienza che ha bisogno dei suoi tempi e dei suoi spazi: come tutte le cose importanti. Non si studia tra la lettura di un sms e la fermata del tram. Si studia prendendosi il tempo necessario e concentrandosi. Si studia, soprattutto, andando a fondo nelle cose. Le dosi omeopatiche di cultura generano solo una ignoranza piena di presunzione. Il rischio è quello di una scuola che, nel tentativo disperato di inseguire la società, smarrisce quello che è il suo compito: educare al pensiero rigoroso, all’approfondimento dei problemi, all’analisi attenta, alla concentrazione, che è una questione esistenziale e non solo metodologica. Intelligenza è guardare dentro. Se si resta alla superficie, si educa alla stupidità.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 3 settembre 2016.

I nuovi poteri dei presidi, la nuova impotenza dei docenti

G. ha ottenuto una cattedra grazie alla chiamata diretta, con esame del curriculum. Non conosceva né il preside né la scuola. E dunque questa cosa della chiamata diretta non dev’essere così terribile, conclude sul suo profilo Facebook.
G. è giovane, colta, brillante. Le piace insegnare, ed ai suoi studenti piace il suo modo di insegnare. E verrebbe dunque da darle ragione: questa cosa no, non dev’essere così terribile. Ma c’è un particolare della faccenda che mi impedisce di partecipare al suo ottimismo. Il suo incarico, quello che ha ottenuto grazie al suo curriculum, è triennale. Tre anni di insegnamento: e poi? Poi dipende da te, certo. Può essere che quella scuola non ti piaccia, che tu voglia cambiare città o semplicemente scuola. Ma dipende soprattutto dal preside. E’ il preside che dopo tre anni decide se è il caso che tu rimanga in quella scuola o debba cercarti un altro posto per insegnare.
Non è difficile immaginare le implicazioni di questo sistema. Abbiamo una nuova classe di docenti la cui sorte dipende interamente dai presidi. Sono assunti direttamente dal preside e il preside stesso può mandarli via se non piacciono più. Che ne sarà della loro libertà, della loro indipendenza, del loro spirito critico? Le cronache scolastiche degli ultimi tempi ci hanno consegnato l’aggettivo contrastivo, associato ai docenti. L’aggettivo, guarda caso, è balzato fuori da una slide di un corso della Associazione Nazionale dei Presidi. Il contesto era: “mano libera nei confronti dei docenti contrastivi”. Uno dei nuovi poteri dei presidi garantiti dalla riforma. Chi sono i docenti contastivi? Quelli che si oppongono. Quelli che hanno un’idea di scuola diversa rispetto a quella del loro preside, o che magari hanno qualche perplessità riguardo al modo in cui vengono spesi i soldi. Certo, non manca qualche docente contrastivo per temperamento e vocazione, ma nel complesso per la scuola italiana che ci siano docenti contrastivi è più un bene che un male. Vuol dire che le procedure vengono sottoposte a verifica, che c’è dibattito, confronto, dialettica. Vuol dire che c’è democrazia.
Ora, nei confronti dei docenti contrastivi la mano non è libera: è liberissima. Il docente contrastivo poteva trovarsi emarginato, più o meno mobbizzato, ma nessuno poteva davvero impedirgli di parlare e di mettere a verbale le sue dichiarazioni. Aveva tutte le garanzie della legge. Adesso quelle garanzie restano, formalmente. Ma mentre sempre più si riduce l’ambito di competenza del Collegio dei docenti, ossia l’organo che gestisce democraticamente la scuola (un solo esempio: l’animatore digitale e i membri del team per l’innovazione sono stati scelti direttamente dai presidi), la sorte professionale dei nuovi docenti è legata a doppio filo alla volontà dei presidi. Ogni contrastività, ogni opposizione alla politica del preside costerà non solo l’emarginazione e la mobbizzazione, più o meno pesante. Costerà la cattedra su quella scuola. I presidi potranno contare su Collegi dei docenti sempre più perfettamente allineati, almeno su quelle poche cose di sua competenza (per il resto, farà da solo). Se allarghiamo lo sguardo, questo dirigente statale le cui dimensioni sembrano essere cresciute a dismisura, torna a farsi piccino: perché non è, a sua volta, che una pedina, uno strumento nelle mani di un potere più grande. Dare potere ai presidi è un modo, per il Ministero, per controllare la scuola. Se controlli un preside che controlla la scuola, hai controllato la scuola. I poteri che il governo dà ai presidi sono poteri che dà a sé stesso. Nella politica di allineamento, che si sta chiaramente delineando, il preside non è che un esecutore, cui si chiede di adeguarsi alle politiche dall’alto e rendersi garante della loro applicazione.
La professione dell’insegnante sta cambiando in modo talmente rapido da lasciare sconvolti. Tra i nuovi poteri dati ai presidi c’è anche questo: di decidere in quale direzione deve andare la professione docente. Dimenticatevi la libertà di insegnamento. Ora il modo di insegnare sarà deciso da questo nuovo, singolare mercato. Saranno i presidi a decidere quali competenze sono importanti. C’è il preside che chiede che i candidati si presentino con un video a figura intera; e si commenta con malizia: vorrà vedere se il candidato, o più probabilmente la candidata, ha belle gambe. Sfugge la cosa più grave: quel preside ha deciso che saper stare davanti ad un video è una competenza-chiave, e in base a quella sua convinzione – discutibilissima – deciderà chi assumere e chi no. E’ una dei profili di maggior successo, e bisogna ammettere che qui il ministero c’entra poco. Molto si deve alla cosiddetta flipped classroom, che si è diffusa dal basso, e che ha trasformato il modo di intendere la professione docente. Basta lezioni frontali: e questo va benissimo, sono decenni che lo dice tutta la pedagogia più avvertita. Ma cosa mettiamo al posto delle lezioni? Ed è qui che la metodologia, che può avere applicazioni interessantissime, spesso scade in qualcosa che rischia di essere perfino peggio della lezione frontale. Agli studenti, impegnati al pomeriggio secondo la logica capovolta, i docenti propongono video da guardare comodamente a casa. Video che sono di due tipi: o prodotti dal docente stesso, o trovati in rete. Il docente dunque diventa un produttore di video didattici o una sorta di deejay didattico, che mixa e propone video prodotti da altri. E non è detto che questo secondo caso sia peggiore, perché per quanto sappia usare gli strumenti informatici, sia telegenico ed abbia una bella voce, un docente difficilmente supererà i professionisti della divulgazione televisiva. Il docente videogenico, produttore di materiali didattici informatici, è uno dei profili vincenti. Si integra alla perfezione nel Piano Nazionale Scuola Digitale, che è come dire l’autostrada della scuola renziana. Un altro profilo di buon successo è il docente bilingue: servirà per il CLIL, ossia l’insegnamento di una disciplina in una lingua straniera; non proprio un’autostrada, ma una strada rispettabile e redditizia. La sua competenza naturalmente dovrà essere adeguatamente certificata, perché nell’epoca della selezione tramite curriculum conta solo quello che puoi certificare. La corsa alle certificazioni è già iniziata, ed apre un mercato significativo, alimentato anche dal bonus di cinquecento euro per la formazione dei docenti.
Quale spazio resterà per la sperimentazione di una scuola dal basso, diversa da quella proposta/imposta dal ministero? Che ne sarà della libertà di insegnamento? Che ne sarà dello studio intenso, profondo, rigoroso di un testo, in una scuola che va verso la divertente divulgazione audiovisiva? Che ne sarà della scuola come palestra di critica sociale? Che ne sarà della democrazia, delle scelte condivise, della collegialità? Si dirà che è da tempo che la democrazia scolastica è in crisi. E’ vero. I collegi dei docenti sono, in molte scuole, penosi happening e psicodrammi nei quali si approva qualsiasi cosa pur di andarsene a casa e farla finita. Quanto alle assemblee degli studenti, in molte scuole (la maggior parte di quelle cui ho insegnato) semplicemente non si tengono: si va a casa, se va bene i rappresentanti restano per una mezz’ora a chiacchierare tra di loro. Ma quando c’è poca democrazia, o la democrazia funziona poco, bisogna chiedersi come fare affinché ci sia e funzioni. Non togliere anche quel poco di democrazia che c’è.
Si assiste con impotenza a questo nuovo scenario. La scuola che abbiamo frequentato come studenti non c’è più. La scuola nella quale abbiamo insegnato per anni non c’è più. E questa potrebbe essere una buona notizia, perché la scuola che abbiamo frequentato come studenti aveva molti mali, tutt’altro che lievi, e questi mali sono rimasti nella scuola in cui si siamo trovati a lavorare come docenti. Ma lo scenario della nuova scuola che si sta delineando suscita preoccupazione. L’impressione è che stiamo assistendo al passaggio dall’istruzione all’intrattenimento di massa.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 31 agosto 2016.

Razzismo: cosa può fare la scuola

La tragedia di Fermo è una tragedia annunciata. Da anni stiamo assistendo ad una sistematica azione di imbarbarimento della vita pubblica da parte di politici, giornalisti, opinionisti, che ha reso pubblicamente tollerabile ciò che altrove susciterebbe scandalo: il dileggio pubblico, il discorso di odio, la violenza verbale verso il diverso; una violenza che è inevitabilmente premessa alla violenza fisica. Un segnale inquietante sono stati gli insulti reiterati al ministro Kyenge. Il fatto che un persona nera, e per di più donna, facesse parte del governo ha fatto venire allo scoperto quel misto di crassa ignoranza, razzismo e fascismo di cui è composto buona parte del fondo – propriamente: la feccia – della sottocultura italiana. Quel che è disperante, è la difficoltà di contrastare il razzismo montante. E’ noto il bassissimo livello culturale degli italiani, l’incapacità della maggioranza della popolazione di orientarsi nel mondo in cui vive (secondo l’indagine PIAAC dell’OCSE meno di terzo degli italiani hanno le conoscenze e le competenze necessarie per vivere in una società complessa). Un cittadino ignorante è un elettore ignorante, e un elettore ignorante elegge una classe di politici rozzi, che manipolano le paure popolari, che alimentano il razzismo, che affrontano problemi complessi ricorrendo a misere semplificazioni. Un circolo vizioso che è difficilissimo spezzare. 
Da insegnante, mi chiedo cosa può fare la scuola. Provo a dare qualche risposta, con la consapevolezza che non esistono soluzioni semplici, perché la scuola stessa – e questo fa parte del processo di imbarbarimento cui ho accennato – è sempre più indebolita, depotenziata, delegittimata, ridotta a logiche di mercato che nulla hanno a che vedere con l’educazione e la formazione critica dei cittadini. 
In primo luogo, la scuola può evitare di essere razzista essa stessa. L’accusa di classismo, rivolta alla scuola italiana, risale almeno alla Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana. Ed è una accusa tutt’altro che ideologica, che coglie un fatto oggettivo. Basta entrare in un qualsiasi liceo o in un qualsiasi istituto professionale. L’affermazione che i licei sono scuole esclusivamente borghesi può forse essere discussa: troverete sempre il figlio di operaio che ha fatto il classico o lo scientifico ed è lì a dimostravi che non è così. Ma è piuttosto improbabile il contrario: l’istruzione professionale e quella tecnica sono prevalentemente riservate ai ceti economicamente svantaggiati, a quello che una volta si chiamava proletariato. Secondo il rapporto ISTAT La scuola e le attività educative (2012). “I risultati scolastici sono correlati all’estrazione sociale della famiglia di origine: quelli meno soddisfacenti si riscontrano più di frequente nelle famiglie in cui la persona di riferimento è operaio (il 41,3% ha conseguito il giudizio “sufficiente”), lavoratore in proprio o in cerca di occupazione (37% in entrambi i casi)”. Ora, questi dati si incrociano in modo eloquente con quelli riguardanti gli studenti stranieri. Secondo il rapporto del MIUR Alunni con cittadinanza non italiana. Tra difficoltà e successi, relativo al 2013/2014, solo il 3,8% degli studenti nati all’estero sceglie il Liceo classico, contro un 39,5 % che sceglie un professionale e il 38,1% che sceglie un istituto tecnico. Nel sistema scolastico italiano gli stranieri si collocano dove si collocano i proletari. In quella fetta di sistema scolastico che fin dall’inizio è stata pensata per formare il braccio della società, non la mente né la classe dirigente. Benché questo suo classismo sia stato denunciato da tempo, la scuola italiana non riesce ad uscirne. 
Non è, bisogna dire, tutta colpa sua. Molto conta la percezione sociale dell’istituzione scolastica, dell’importanza dello studio, la propensione ai lavori intellettuali, l’influenza della famiglia e delle sue aspirazioni. Ma è innegabile che c’entri anche il lavoro di orientamento dei docenti. Chi scrive negli anni Ottanta, alla fine della scuola media, fu orientato verso l’istituto professionale, nonostante una chiara, evidentissima propensione per gli studi umanistici. Era difficile, a quei tempi, pensare un percorso diverso per il figlio di un operaio. La mia esperienza di docente mi porta a ritenere che a distanza di qualche decennio queste dinamiche classiste siano ancora ben radicate in molti contesti. 
Non si può dire che le scuole non facciano il possibile per accogliere gli studenti stranieri. Spesso, a dire il vero, fanno anche l’impossibile, con le scarse risorse di cui dispongono: ma non è detto che si muovano nella direzione giusta. Molto spesso, l’unica preoccupazione è quella di mettere lo studente in grado di conoscere la lingua italiana. In molte scuole occuparsi degli stranieri vuol dire esclusivamente organizzare corsi di italiano per stranieri. Se lo studente è particolarmente in difficoltà, gli si può mettere la nuova etichetta di BES, alunno con bisogni educativi speciali, e gli si offre un comodo salvacondotto, che a dire il vero permette anche ai docenti di rilassarsi un po’. Cosa manca? Manca la differenza. E’ un percorso a senso unico, che porterà lo studente a italianizzarsi, nella migliore delle ipotesi, ma senza che la scuola abbia preso nulla da lui, dalla sua cultura, dalla sua identità. Manca lo scambio. Non è detto naturalmente che accada sempre. Non mancano esperienze di integrazione reale, non mancano forme di scambio e di arricchimento. Ma mi pare che la visione dominante, nonostante le decine di volumi di pedagogia interculturale che finiscono ogni anno sugli scaffali delle librerie, sia quella. Il crocifisso alle pareti è il simbolo di una anacronistica chiusura identitaria, l’ora di religione costringe fuori dall’aula gli studenti musulmani o comunque non cristiani, mentre un’ora di storia delle religioni aconfessionale o di etica civica potrebbe essere occasione di confronto e di scambio tra culture.
La chiusura della scuola italiana non è solo confessionale. Più in generale, è semplice miopia provincialistica. Si può uscire dal sistema scolastico italiano senza aver mai sentito nemmeno nominare capolavori della letteratura universale come il Mahabharata, ignorare tutto della straordinaria cultura cinese, non sentirsi minimamente ignoranti se non si sa chi è Murasaki Shikibu. Nella scuola italiana si studia la cultura italiana e un po’ della cultura europea, tutto il resto non interessa. Il messaggio implicito è che tutto ciò che non è italiano o europeo è ignoranza e barbarie.
E veniamo al punto decisivo: lo sciovinismo. Uno sciovinismo soft, sia chiaro, non siamo mica ai tempi del fascismo. Ma innegabile. A scuola si entra gradualmente, dolcemente nella rassicurante narrazione degli italiani “brava gente”, più portati per fare l’amore che per la guerra, il popolo che ha civilizzato l’Europa e il mondo con Dante e Petrarca, Leonardo e Lorenzo il Magnifico. Non si mancherà di vantare la grandezza della cultura europea di un Erasmo o di un Comenio. Lo studente sarà un po’ confuso quando si ritroverà di fronte all’olocausto, che fortunatamente riceve a scuola tutta l’attenzione che merita, e che è un pozzo di barbarie aperto nel bel mezzo dell’Europa; ma nessuno gli parlerà – o gli parlerà con i toni necessari: non come si spiega un paragrafetto del libro di storia – del terribile genocidio compiuto dai belgi in Congo, o delle atrocità del colonialismo italiano, della vergogna dello schiavismo, della violenza e della distruzione che l’Europa ha portato nel mondo in nome della civilizzazione.
Uscire da questa narrazione è il meglio che la scuola possa fare per combattere il razzismo. La visione scolastica, che se ne sia consapevoli o meno, è ancora quella dell’uomo bianco, e segnatamente del borghese bianco. La scuola può con assoluta buona fede affermare i principi della solidarietà, della fratellanza, dell’umanesimo, trasmettendo al contempo una visione che esclude o pone ai margini della civiltà tutto ciò che è fuori dall’Europa, così come può ignorare o minimizzare il grido delle vittime di ieri e di oggi, quando sono vittime del lato oscuro dell’occidente. e’ giunto il momento di fare i conti con la nostra ombra, con il nostro passato violento, guardare coraggiosamente nei nostri limiti: del resto, è quanto ha fatto la migliore cultura europea del Novecento, dolorosamente consapevole dell’intreccio di grandezza e miseria che caratterizza la storia del nostro continente. Ma non si tratta solo del passato. Una delle accuse che gli studenti rivolgono più frequentemente alla scuola è quella di non metterli in grado di leggere il presente. Ed hanno le loro ragioni. Ci si difende ripetendo il mantra che studiare il passato è indispensabile per capire il presente. Che è vero, ci mancherebbe: ma non sufficiente. Per capire quello che accade in Medio Oriente fa sicuramente bene conoscere la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito, ma occorre anche conoscere la storia della formazione dello stato di Israele, la storia recente dell’Iran, con il colpo di stato del ’53, e le guerre contro l’Iraq, e così via. Un lavoro che si fa sporadicamente, magari a ridosso dell’ennesima strage, e che dovrebbe essere invece costante, organico, centrale. Ogni giorno bisognerebbe analizzare quello che accade a livello internazionale, indagarne le cause, ascoltare più voci, anche leggendo più giornali. Ogni giorno in classe bisognerebbe sfogliare Le Monde, il New York Times, il China Daily, il Times of India. Costruirsi, ogni giorno, uno sguardo ampio, generoso, capace di apertura critica, di analisi profonda, di valutazione imparziale. Un difficile lavoro politico – ma insegnare è sempre un lavoro politico – per superare l’Italietta ignorante che legge la società complessa del terzo millennio con la profondità delle cartoline africane dell’Italia fascista.   
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali l’8 luglio 2016.

Perché dico no al bonus per i docenti

Sul Corriere della Sera di ieri Attilio Oliva scrive: “C’è ormai evidenza empirica da tante indagini internazionali che, a parità di contesti ambientali e socioeconomici, scuole simili danno risultati molto diversi: evidentemente la variabile che fa la differenza è la qualità professionale di chi la dirige e di chi vi insegna. Ciò significa che migliorare la selezione degli insegnanti e dei presidi dovrebbe essere l’obiettivo primario, ma fino ad oggi sostanzialmente trascurato” (1). Chi è Attilio Oliva? Presidente della associazione TreeLLLe, di cui è cofondatore insieme a gente Fedele Confalonieri e Marco Tronchetti Provera, viene da Confindustria, di cui è stato presidente della Commissione Scuola dal ’96 al 2000. TreeLLLe è una associazione – una lobby, dice qualcuno – che rappresenta il punto di vista del mercato sulla scuola; ed è una voce che, sui decisori politici, conta oggi più di quella degli insegnanti. Si sta facendo la scuola che vuole la Confindustria, non la scuola che vogliono i docenti, gli studenti, i genitori. E’ inevitabile che chi viene da Confindustria e ragiona con le logiche del mercato voglia portare queste logiche anche nella scuola. C’è da chiedersi però se questa logiche non rischino semplicemente di distruggere la scuola, di farne nulla più che un’appendice del mercato, una istituzione che socializzi al mondo economico, rinunciando definitivamente alle sue pretese di formazione integrale.
I Decreti Delegati del ’74 hanno portato nella scuola italiana una logica importantissima: quella della collegialità. La logica della collaborazione, del confronto, della gestione comune della scuola. Quello che sta accadendo oggi è lo smantellamento di questa logica democratica. Il collegio dei docenti, organo di gestione democratica e condivisa della scuola, viene sempre più svuotato e privato di poteri, che vanno invece al preside; ed i docenti vengono messi l’uno contro l’altro, divisi in bravi e meno bravi, in docenti da premiare e docenti da umiliare pubblicamente.
Secondo la logica di Confindustria il bonus dovrebbe sortire l’effetto di attirare verso la professione docente i migliori. Gli effetti saranno probabilmente opposti. I docenti della scuola italiana di oggi sono, con ogni probabilità, i migliori di sempre. Prima bastava la laurea, per insegnare; oggi raramente è sufficiente. Chi arriva ad avere una cattedra ha quasi sempre, oltre alla laurea, corsi di perfezionamento, specializzazioni, a volte perfino il dottorato di ricerca. Molti hanno fatto due anni di SSIS, al Scuola di specializzazione per l’insegnamento. Per la prima volta i docenti della scuola italiana si trovano ad affrontare la sfida dell’individualizzazione dell’insegnamento: devono fare una didattica diversa per lo studente con il sostegno, per lo studente dislessico, per chi ha un bisogno educativo speciale. Può essere che non lo facciano benissimo, ma lo fanno. Si trovano ad affrontare una sfida difficile con strumenti anche strutturali spesso assolutamente insufficienti. Eppure i docenti hanno uno status di gran lunga inferiore a quello di un tempo, sono sempre più figure socialmente irrilevanti, il loro sapere e le loro competenze sono ogni giorno messi in discussione, e spesso proprio dalla classe politica. Invece di riconoscere la qualità del lavoro del docente, si progetta di aumentare il suo orario lavorativo. Si dice che i docenti lavorano poco. Nessuno però si sogna di contestare l’orario di lavoro di un medico o, per restare nel campo dell’istruzione, di un docente universitario. Se diciotto ore di insegnamento sembrano poche, è perché non si è consapevoli del carattere qualitativo, altamente professionale, del lavoro del docente. E se nella società non è diffusa questa consapevolezza, non sarà certo una mancetta distribuita a qua e là a migliorare le cose. Cominci la classe politica, piuttosto, ad affermare pubblicamente il valore del lavoro dei docenti. Si dica ad una società che ci crede sempre meno che il lavoro educativo e culturale rappresenta la base di una autentica democrazia: e si agisca di conseguenza. Si faccia sfilare in prima fila, nel giorno della festa della Repubblica, non l’esercito – una istituzione di cui una democrazia può fare a meno, come dimostra il Costa Rica – ma la scuola: un esercito festante di bambini e di maestri, piuttosto della tristezza di divise e carri armati. Restituiamo agli insegnanti il rispetto che meritano: che vuol dire anche da loro la possibilità ed il diritto di stabilire da sé, da protagonisti, cosa dev’essere una buona scuola, non farlo decidere ai manager di Confindustria. Quello che sfugge a chi pensa di migliorare la scuola premiando i migliori è che una scuola è un sistema. Io entro in una classe nella quale entrano, ogni giorno, altri docenti; una classe che sta in una scuola in cui ci sono altre classe in cui entrano altri docenti. La qualità del mio insegnamento nella mia classe non è il risultato soltanto della mia preparazione, della mia passione, della mia volontà di lavorare bene. E’ il risultato di quello che fanno gli altri docenti nella mia classe, di quello che fanno gli altri docenti nelle altre classi, di quello che fa il preside. E ancora: di quello che è stato fatto in passato. Ci sono scuole in cui anche il migliore dei docenti possibili avrebbe enormi difficoltà ad insegnare. Sono scuole nelle quali si sono attivati, da anni, circoli viziosi: livellamento in basso, rinuncia alla qualità, abbassamento delle richieste per attirare gli studenti ed aumentare le iscrizioni. Ci sono invece scuole in cui anche l’insegnante meno preparato o meno appassionato riesce a dare il meglio, perché sostenuto da un sistema che funziona, dal lavoro collegiale, da circoli virtuosi, da dinamiche positive.
Quale impatto avrà la distribuzione dei bonus sul sistema-scuola? Nella visione della Confindustria, dovrebbe attivare un processo di competizione virtuosa. E’ molto probabile che accada il contrario. Le scuole sistematicamente disfunzionali si riconoscono per il riconoscimento che da sempre viene dato a docenti privi di reali qualità professionali, ma abili nel gestire le relazioni sociali e vicini alla presidenza. Queste persone, che da anni gestiscono funzioni strumentali, commissioni, ruoli di responsabilità, hanno da sempre un guadagno accessorio cui si aggiungeranno, ora, i soldi del bonus. Gli altri resteranno a guardare, scuotendo il capo: come sempre. Nelle scuole che funzionano il bonus sarà anche più dannoso. Una scuola che funziona, funziona perché è una comunità. Funziona perché si lavora, e bene, insieme. Funziona perché non si ragiona in termini di migliori e di peggiori, ma di valorizzazione di tutti. Cosa può fare il docente Tizio, cosa può dare alla scuola il docente Caio? Ognuno offre alla scuola quello che può, e la scuola si arricchisce grazie a questa differenza. Il bonus giunge ora a dire che questa comunità è fatta di docenti bravi e di docenti meno bravi. Crea un primo e un secondo livello, anche nella percezione degli studenti e delle famiglie. Esalta gli uni ed umilia gli altri. Spezza la comunità ed innesca le dinamiche individualistiche e disfunzionali delle scuole peggiori.
Più che distribuire mancette, il governo farebbe bene a valorizzare il lavoro dei docenti occupandosi della loro retribuzione generale e del contratto, che è fermo da anni. Ma non solo. Si sta selezionando in questi giorni la nuova classe docente. Un lavoro delicatissimo, cruciale per avere, domani, una scuola valida. Ma chi seleziona, oggi, i nuovi docenti? Il bando per la scelta dei commissari indicava alcuni titoli di preferenza, come l’abilitazione all’insegnamento universitario. Bene: gente preparata per scegliere i nuovi docenti. Ma quanto sarà pagato un commissario con un profilo professionale così alto? Meno di due euro all’ora. Molto meno di una colf e di un venditore di caldarroste. E per giunta non potrà usufruire dell’esonero dall’insegnamento. Chi sta dunque selezionando i nuovi docenti? Chi pensa che il suo lavoro e la sua professionalità valgano meno di due euro all’ora. Traete voi le conclusioni. C’è un modo semplice per sfuggire a queste logiche individualistiche e competitive: rinunciare al bonus. Non intascarlo. Dichiarare collegialmente, prima che venga fatta l’attribuzione, che chiunque sia individuato come destinatario del bonus rinuncerà ai soldi e li metterà a disposizione della scuola. Si costituirà così un fondo cassa che potrà essere usato in diversi modi: per acquistare materiale didattico, per dare una borsa di studio agli studenti in difficoltà, per finanziare progetti degli studenti. O, magari, per sostenere economicamente i docenti che sceglieranno di scioperare. In questo modo un provvedimento che ha lo scopo evidente di dividere una classe di lavoratori sortirà l’effetto contrario di rafforzarla e di renderla più compatta.
(1) A. Oliva, Bonus ai docenti. Assegnarli bene migliora la scuola, “Corriere della Sera”, 1 giugno 2016, p. 27.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 2 giugno 2016.

La cultura della repressione

Questa mattina le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nella mia classe quinta, mentre stavamo parlando di Martin Heidegger. Irruzione è un termine forte, ma esatto in questo caso: nessuno ha bussato e chiesto il permesso. Hanno svolto un controllo antidroga facendo passare tra i banchi un pastore tedesco, poi sono andati via. A mani vuote, come si dice. Non è la prima volta che succede, naturalmente, anche se è la prima volta che succede a me. E’ successo, qualche giorno fa, al liceo Virgilio di Roma, e la cosa è finita sui quotidiani nazionali, perché il Virgilio è un liceo molto ben frequentato. E’ successo qualche giorno prima al Laura Bassi di Bologna, anche lì con molte polemiche. E’ successo e succede quotidianamente in decine di istituti tecnici e professionali, che fanno poco notizia perché non sono così ben frequentati come il liceo Virgilio di Roma. E due anni fa, a Terni, un docente è stato sospeso dall’insegnamento per essersi opposto all’ingresso delle forze dell’ordine in classe. 
Quelli che sono favorevoli a queste incursioni ragionano come segue: spacciare è un reato, e il reato è un male, e va perseguito; se uno è a posto, nulla ha da temere. Diamo per buono questo ragionamento, ed esaminiamone le conseguenze. Se è così, allora è cosa buona e giusta che le forze dell’ordine facciano irruzione nelle abitazioni private. Sarebbe un modo efficacissimo per combattere il crimine. Controlli a tappeto, a sorpresa, nelle case di tutti. Poliziotti, carabinieri, cani antidroga. In qualsiasi momento aspettatevi che qualcuno bussi alla vostra porta. Che un cane fiuti tra le vostre cose. Se siete a posto, non avete nulla da temere. E perché non estendere i controlli anche nei luoghi di culto? Sì, lo so, molti di voi stanno pensando alle moschee: e la cosa a molti non dispiacerebbe. Ma io penso alle chiese. Immaginate un’irruzione delle forze dell’ordine in una chiesa, durante un rito. I cani tra i banchi che annusano. Cinque minuti e tutto è finito. Se qualcuno ha della droga, lo si porta via. E amen, come si dice. Non vi piace l’idea? Perché? Perché nel primo caso si tratta di un luogo privato, nel secondo caso si tratta di un luogo sacro, direte. E la scuola che luogo è? Io che vi insegno, la considero al tempo stesso un luogo privato – una casa – ed un luogo sacro. Il più sacro dei luoghi, perché è quello in cui si formano gli uomini e le donne di domani. Ma, direte, la scuola è un luogo dello Stato, ed è bene che le forze dell’ordine dello Stato controllino un luogo dello Stato. E’ cosa loro, per così dire. Bene, concedo anche questo. Ed anche in questo caso, vediamo le conseguenze. Il Parlamento è un luogo dello Stato. E’ il luogo più importante dello Stato. E’ lo Stato. Che succederebbe se delle forze facessero irruzione in Parlamento con cani antidroga? Sarebbe una cosa sensatissima, perché in Parlamento si fanno leggi che riguardano la vita di tutti, ed è assolutamente vitale per la salute della nostra democrazia ed il futuro dello Stato che chi fa le leggi sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Eppure se succedesse una cosa del genere, sarebbe un grande scandalo politico. Perché? Per lesa maestà. Perché è umiliante per un senatore essere perquisito, annusato. Sospettato di essere un drogato, o peggio uno spacciatore. 
E veniamo al dunque. Quando io vengo a casa tua – perché la scuola è la casa degli studenti – e ti sottopongo a perquisizione, io ti sto dando diversi messaggi. Il primo è che ti considero una persona poco raccomandabile. Non è una questione personale: può essere che tu sia a posto, ma è poco raccomandabile la categoria cui appartieni. Il fatto stesso che si facciano controlli antidroga è una conseguenza dell’infimo status degli adolescenti nella nostra società. E’ risaputo che l’alcol fa in Italia diverse migliaia di morti e causa tragedie terribili. Eppure la vendita di questa sostanza stupefacente pericolosissima è consentita. Lo Stato consente la vendita di alcolici, per giunta con il suo monopolio, mentre i Comuni promuovono apertamente il consumo di vino ed altri alcolici con apposite manifestazioni locali. Il consumo di alcolici è consentito perché è cosa da adulti. E’ una abitudine diffusa tra persone perbene, stimabili, con un buono status sociale. La droga, che fa meno morti dell’alcol, è invece roba da adolescenti, da ragazzetti, da soggetti con uno status marginale: dei minus habentes. E’ significativo che il consumo e lo spaccio di hashish e marijuana siano perseguiti con molto più zelo del consumo e dello spaccio di cocaina, una sostanza molto diffusa tra soggetti dotati di uno status anche considerevole, come professionisti e politici. Non è la sostanza stupefacente il problema. Se così fosse, l’alcol sarebbe proibito. Il problema è chi consuma, non cosa consuma. 
Il secondo messaggio è che la scuola è un posto in cui non ti puoi sentire come a casa. Per quanto ti stimi poco, non verrei mai a perquisirti a casa, a meno che non abbia un mandato. Ma a scuola sì. A scuola ti tengo d’occhio. Rispondendo alle polemiche dei genitori per i controlli antidroga al liceo Laura Bassi di Bologna, il procuratore aggiunto Valter Giovannini ha dichiarato:”trova ancora spazio l’arcaico convincimento ideologico che l’università e più in generale gli istituti scolastici godano di una sorta di extraterritorialità“. Nessuna extraterritorialità. Non siete a casa vostra, siete in un posto in cui possiamo entrare e uscire quando vogliamo. Possiamo perquisirvi, possiamo farvi annusare dai nostri cani. Siete sotto il nostro controllo. Del resto, non sono gli adolescenti di continuo sotto il controllo dei professori? Non sono di continuo osservati, richiamati, sanzionati se non si comportano come si deve? Ecco dunque il poliziotto ed il carabiniere che vengono a ribadire il concetto, nel caso in cui non fosse abbastanza chiaro. La scuola è un luogo in cui siete controllati e controllabili, perquisiti e perquisibili. Non è una casa della cultura e dell’educazione, come qualcuno potrebbe dire retoricamente. Non ha nulla di sacro. E’ una istituzione che raccoglie – concentra – dei minus habentes, e non è escluso che concentrarli per controllarli sia il suo scopo principale. E’ un messaggio rivolto a tutti, ma forse c’è un terzo messaggio rivolto ad alcuni. Può essere una coincidenza, ma in molte delle scuole, anzi delle classi perquisite c’erano studenti appartenenti ai collettivi studenteschi. 
Se non è solo una coincidenza, allora il terzo messaggio è questo: vi controlliamo tutti, ma in particolare teniamo d’occhio voi che fate politica, voi dei collettivi, voi che vi definite comunisti o anarchici; rientrate nei ranghi, che è meglio per voi. E lei, professore, torni pure a parlare di Martin Heidegger. Non è successo niente.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali.

L’insegnante come intellettuale trasformativo

“Un po’ per gioco, un po’ per curiosità ricognitiva”, Piero Bevilacqua ha buttato giù sul manifesto di ieri, 28 gennaio, una lista di intellettuali italiani uniti dal comune denominatore della “critica alla cultura neoliberistica, alle sue strategie e alle sue pratiche”. E’ una lista che, come tutte le liste, fa discutere, sia per le presenze che, soprattutto, per le assenze. Io, ad esempio, vi trovo – e ne sono felice – Marco Maurizi, che considero uno dei più interessanti filosofi italiani, ma non vi trovo Marco Rovelli, uno dei punti di riferimento nel nostro paese per una cultura alternativa al neoliberismo. Ma non è di questo che voglio parlare. Voglio soffermarmi, invece, sui territori che Bevilacqua ha segnato sulla sua provvisoria cartografia. Gli studiosi mappati appartengono a sette categorie: economisti; filosofi; giuristi; sociologi, politologi, antropologi; architetti, geografi, urbanisti; letterati; scienziati; storici. Bevilacqua premette che l’elenco è incompleto, perché ” mancano artisti, editori, giornalisti, uomini di cinema e di teatro, personalità di spicco fuori dall’accademia”. Solo? Non manca qualcos’altro?
Una volta si pensava – a sinistra – che il cambiamento sociale passasse anche, se non principalmente, attraverso la scuola e l’educazione. O, magari, attraverso la critica della scuola e dell’educazione, considerati strumenti in mano alle classi dominanti per riprodurre sé stesse e la loro cultura e giustificare, di fatto, le disuguaglianze sociali. C’è una scena di Centochiodi, di Ermanno Olmi, in cui il protagonista, un professore di filosofia della religione che ha dato di matto, crocifiggendo degli incunaboli della biblioteca universitaria, viene interrogato in Questura. “Fa parte di qualche organizzazione sovversiva o terroristica?”, gli chiedono. E lui risponde: “Ho fatto parte del corpo insegnanti”. A questo punto, nella piccola sala d’essai in cui vidi il film alla sua uscita, nel 2007, partì una risata irrefrenabile. Che la scuola sia una organizzazione terroristica, che gli insegnanti siano dei sovversivi, fa ridere. Fa ridere tanto. E fa ridere gli stessi docenti: perché quel piccolo cinema era frequentato soprattutto da docenti.
Non c’è figura che appaia più lontana dal rivoluzionario, o anche soltanto dal dissenziente, del professore seduto alla sua cattedra. O anche del professore universitario di pedagogia. Non è dunque per protestare per l’assenza di educatori, pedagogisti, docenti nella mappa di Bevilacqua, che scrivo questo articolo. Lo scrivo per riflettere sul fatto che una tale assenza è, oggi, giustificata.
Negli ultimi anni la scuola italiana è stata investita da interventi che sono andati tutti nelle direzione di renderla sempre più funzionale al sistema economico ed alle sue logiche. La legge 107 è solo l’ultimo atto. La classe docente non è riuscita ad opporsi a questa azione dall’alto, e non vi è riuscita anche perché, nella mia analisi, è mancata e manca una visione della scuola realmente alternativa a quella imposta dall’alto, che non sia la sola difesa di quello che c’era prima. E’ mancata e manca una chiara visione del senso politico del lavoro scolastico. Non mancano le parole d’ordine, ma si fa fatica ad individuare pratiche che corrispondano ad esse. Si vuole smantellare la scuola pubblica perché essa forma il pensiero critico, si dice. Ma in che modo, esattamente, si educa al pensiero critico nella scuola italiana? Con quali metodi? L’impressione è che per i più il pensiero critico sia una cosa che scaturisce magicamente dal contatto con alcune discipline, segnatamente quelle umanistiche. Si studia il greco, si studia la filosofia, e si sviluppa il pensiero critico. Una sciocchezza, naturalmente. Si sviluppa il pensiero critico dialogando, argomentando, appassionandosi, confrontandosi con gli altri, sporgendosi sulla scena pubblica: tutte cose che appaiono improbabili nella scuola cattedra-banco-lezione.
Sto leggendo in questi giorni due libri, non proprio recentissimi. Il primo è Teaching to Transgress. Education as the Practice of Freedom di bell hooks (Routledge, 1994). L’autrice è una nota femminista nera americana, che ha vissuto la segregazione razziale in una scuola pubblica del Kentucky. La sua tesi è che l’insegnamento può e deve essere una pratica di liberazione, un’azione politica contro i limiti razziali, culturali, sessisti della società. Ma può esserlo solo se si ripensa a fondo la stessa relazione educativa, che è la base del lavoro scolastico. La classe può diventare un luogo interessante, perfino eccitante, se ognuno in essa ascolta la voce dell’altro e ne riconosce la presenza. Ordinariamente a scuola si chiede al solo studente di parlare di sé, della sua vita, della sua famiglia, mentre il docente resta umanamente inarrivabile, celato dalla maschera del suo ruolo. In una relazione educativa ispirata ad una pedagogia impegnata i professori smettono di essere “all-knowing, silent interrogators”, per assumere in prima persona il rischio che chiedono agli studenti: il rischio della narrazione di sé.
L’altro libro è Teachers as Intellectuals: Toward a Critical Pedagogy of Learning di Henry Giroux (Praeger, 1988). Ancora quasi sconosciuto in Italia (sono a conoscenza di un suo solo libro tradotto in Italiano), Giroux è forse il maggior pedagogista statunitense, e le sue idee hanno suscitato e suscitano un ampio dibattito nel suo ed in altri paesi (il suo nome non potrebbe mancare, in una ipotetica cartografia americana della resistenza intellettuale al neoliberalismo). Reagendo alla teoria di Bourdieu e Passeron, secondo la quale la scuola è funzionale alla conservazione dello status quo ed alla riproduzione della cultura delle classi dominanti e della disuguaglianza sociale, Giroux presenta l’idea della scuola come “sfera pubblica democratica” nella quale si prepara una democrazia autentica. Cosa che non si può fare se non ripensando a fondo la scuola, a partire dallo stesso setting dell’aula, che ostacola l’autentico senso di comunità e favorisce l’ethos capitalistico della competizione. Gli insegnanti, sostiene Giroux, devono diventare intellettuali trasformativi, nel senso che lavorano politicamente per trasformare una società diseguale in una democrazia effettiva, attraverso l’empowerment degli studenti.
Non amo molto il termine intellettuale, che implica quella contrapposizione tra intellettualità e manualità che considero uno degli impliciti culturali della nostra società che occorre combattere; ma non mi dispiace questa idea dell’insegnante come intellettuale – perché di fatto il lavoro dell’insegnante non ha nulla di manuale, benché spesso sia molto artigianale – che lavora per la trasformazione: e non solo la trasformazione dell’individuo, ma anche quella della società e della cultura.
Tanto bell hooks quanto Henry Giroux risentono profondamente dell’insegnamento di Paulo Freire, il pedagogista brasiliano che, con un metodo profondamente innovativo, riuscì ad alfabetizzare in poco tempo i proletari di Angicos. In Freire l’alfabetizzazione andava di pari passo con la coscientizzazione, con la consapevolezza dell’oppressione e dell’ingiustizia sociale, che precede e fonda il cambiamento rivoluzionario. Ma risentono anche, in misura non minore, del nostro Gramsci e della sua teoria dell’egemonia, evocata dall’articolo di Bevilacqua. Esiste in America, sia al nord che al sud, una corrente di pedagogia critica ancora estremamente vivace, che anima il dibattito pubblico e la lotta politica. Qualche giorno fa ho parlato con un amico – Paolo Vittoria, napoletano che insegna filosofia dell’educazione all’università di Rio de Janeiro – del suo lavoro politico-educativo degli ultimi tempi: assemblee e riunioni nelle università e nei centri sociali con studenti, contadini, gruppi di indigeni. Un fermento straordinario, appena pensabile per chi osserva dall’Italia, pur in un periodo di grande difficoltà e di confusione politica per un paese che non ha meno contraddizioni del nostro.
In Italia c’è stato un fermento simile nel secolo scorso, tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Più di un ventennio  di analisi, di critiche appassionate, di denunce, di sperimentazioni, di tentativi, anche di errori, ispirati da un unico slancio: quello di attuare una democrazia reale, qualcosa di più alto della partitocrazia democristiana, con i suoi inquietanti risvolti criminali (mafia, stragi di stato, corruzione). Di tutto quel fermento, di quelle sperimentazioni, di quel lavoro del pensiero sembra essere rimasta solo la pallida e patetica evocazione di un don Milani sempre meno compreso, sempre più ridotto a figurina buona per tutte le stagioni.
Ho parlato di lavoro politico-educativo. L’obiezione che mi sento spesso fare, quando parlo della mia idea di educazione e di insegnamento, è che io voglio far politica, e questo non va bene. Una simile obiezione fecero a bell hooks i docenti dell’Oberlin College (il primo college americano che ha accettato studenti neri), quando parlò loro della sua formazione freiriana. E la sua risposta fu che “no education is politically neutral“. E’ naturale. Educare ed insegnare vuol dire lavorare per un certo tipo di società, ossia fare un lavoro politico. Chi non si è mai posto il problema di quale società favorisce con il suo modo di insegnare, è semplicemente un docente non pienamente consapevole del suo ruolo. O meglio, uno che lascia che il senso politico del suo lavoro sia stabilito da altri. Ma nell’accusa di fare politica c’è dell’altro. C’è il sospetto che io voglia fare una politica che può piacere ad alcuni e dispiacere ad altri: una politica di parte. Lo è, in effetti: fare politica vuol dire sempre stare da una parte.
Ma è una parte che è legittimata dalla stessa Costituzione. E’ una parte che vuole realizzare in modo pieno, e non retorico, i valori costituzionali: la democrazia, la partecipazione politica, l’uguaglianza, le opportunità per tutti, il superamento di ogni discriminazione. E’ una parte che consiste nel prendere semplicemente sul serio la democrazia. E prenderla sul serio non vuol dire lavorare, in modo spesso retorico, per una educazione alla democrazia, ma fare in modo che la democrazia sia presente già qui ed ora, nel presente del lavoro scolastico: educare nella democrazia. Che vuol dire costituire la classe come quella “sfera pubblica democratica” di cui parla Giroux. In che modo – con quali pratiche, metodi, strumenti concettuali – ciò si possa fare, dovrebbe essere il principale problema di cui discutere per pensare la scuola.
E’ diffusa la convinzione che l’innovazione della scuola possa e debba passare attraverso l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione. Per quanto sia tutt’altro che contrario alla tecnologia, la mia impressione è che sia un modo relativamente semplice per eludere il problema del cambiamento. Riempire le aule di lavagne interattive e di tablet non comporta alcun reale progresso, se non diventano strumenti per il confronto, la ricerca e la discussione comune. La democrazia esige la presa di parola: si entra in una comunità democratica nel momento in cui si esprime una propria idea, si discute l’idea di un altro, si cerca insieme una terza idea. Se la tecnologia favorisce questa presa di parola, allora la tecnologia è una buona cosa; se la ostacola, è una cosa non buona. La tecnologizzazione della scuola e dell’insegnamento sta costringendo molti docenti a sforzi notevoli per acquisite sia le competenze informatiche di base – che molti ancora non hanno – sia per applicare quelle competenze alla didattica. Il rischio è che tutto questo sforzo per così dire tecnico faccia passare in secondo piano o occulti la questione politica decisiva: insegnare perché? per cosa?
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali.

Ascoltare e parlare: per una scuola dialogica

Rispondo con questo articolo alla riflessione di Daniele Lo Vetere, collega che personalmente conosco, sulla lezione frontale. Poiché l’articolo è lungo, enuncio subito la mia tesi: non si tratta di essere pro o contro la lezione, ma di affrontare il nodo della frontalità. Qualsiasi pratica didattica, non solo la lezione, è inefficace nella misura in cui docente e studenti si fronteggiano. Propongo come alternativa la circolarità, cui corrisponde, sul piano della riflessione educativa, la proposta di una sinagogia alternativa alla pedagogia, e sul piano politico l’idea di una democrazia assembleare, quale si presenta in particolare negli scritti e nella prassi di Aldo Capitini, teorico della nonviolenza e dell’omnicrazia (potere di tutti). 
Esistono diverse tipologie di lezione, che possiamo disporre lungo una serie che va dalla lezione frontale a quella che vorrei chiamare lezione circolare. Frontalità e circolarità sono i due poli della lezione. La frontalità corrisponde al setting più diffuso. C’è la cattedra e di fronte alla cattedra ci sono i banchi, disposti in diverse file. Nella classe sono chiaramente distinguibili due aree, l’area del docente e quella degli studenti. Se a quella cattedra, magari sopraelevata (se ne trovano ancora, e non mancano docenti che la reclamano, come Paola Mastrocola) siede un docente che parla alla classe facendo una sorta di conferenza, e gli studenti prendono appunti in silenzio, abbiamo quella che possiamo considerare senz’altro una lezione frontale. La frontalità è fatta anche di una sua prossemica, esige la distanza e la separazione. Se il docente si alza dalla cattedra e gira per la classe, pur continuando a parlare, la lezione è meno frontale, perché viene meno, o viene diminuito, proprio il fronteggiarsi, l’essere l’uno di fronte agli altri. La situazione della lezione circolare è invece questa: non ci sono banchi, le sedie sono disposte in cerchio, il docente parla, cercando però di assicurare anche agli studenti la possibilità di esprimersi. 
Sono dell’opinione che sia importante abbandonare la frontalità per passare alla circolarità, per ragioni che provo a spiegare brevemente. Il nostro lavoro di docenti consiste in diverse cose. 
Siamo docenti di una disciplina – nel mio caso, la filosofia e le scienze umane – che abbiamo il compito di insegnare. Siamo anche, in un modo problematico, degli educatori, ossia persone che si occupano della crescita umana di altre persone. Infine, fare scuola vuol dire anche lavorare per avere, domani, un certo tipo di società. Ci sono dunque tre dimensioni del nostro lavoro: una disciplinare, una educativa ed una politica. Si tratta di tre dimensioni strettamente legate tra di loro. L’alternativa tra istruzione ed educazione, ad esempio, è mal posta. Quando un docente legge in classe un sonetto di Petrarca, e cerca di farlo apprezzare agli studenti, sta facendo qualcosa che ha a che fare con il valore della bellezza. E far apprezzare la bellezza vuol dire educare. I valori, che educano, non sono astratti, ma concretizzati negli argomenti di studio. D’altra parte, la scelta stessa degli argomenti, proprio perché questi sono sempre legati ad un valore, non è mai neutra, ma è sempre politica. Un docente può scegliere di attenersi scrupolosamente alle Indicazioni Nazionali, ma anch’esse sono politiche. Ed anche in questo caso, a meno che il docente non si limiti a replicare asetticamente il manuale (ma, e ci risiamo!, anche il manuale è politico), non potrà fare a meno di trattare alcuni autori con più enfasi, più partecipazione, più competenza di altri, magari in modo inconsapevole. 
Quando entriamo in classe, lo facciamo guidati da una costellazione di convinzioni, più o meno chiare, su cose come l’importanza della cultura, o di un certo tipo di cultura, il significato dell’educazione e il tipo di società desiderabile. Queste cose, poiché hanno a che fare con i valori, sono purtroppo difficilmente dimostrabili. Insieme a queste nostre convinzioni e valori personali, ce ne sono altri di cui siamo portatori in quanto docenti della scuola pubblica di uno Stato democratico. Questo dovrebbe consentirci di avere una cornice assiologica di riferimento, benché molto minima. Ogni docente dovrebbe condividere, soprattutto, il valore della democrazia e delle cose che ad essa si ricollegano: il dialogo, il rispetto dell’altro, eccetera. La democrazia è il valore-cornice, che come docenti di uno Stato democratico non dobbiamo sforzarci di dimostrare. 
Un’altra cosa che non bisogna sforzarsi troppo di dimostrare, perché è sotto gli occhi di tutti, è che la nostra democrazia è in crisi. Una crisi dimostrata in modo oggettivo dai dati riguardanti la partecipazione alle elezioni. Sempre più gente non va a votare, perché sempre più gente pensa che non ci sia nessuno degno di rappresentarla. O perché semplicemente non ha alcun interesse per la cosa. O perché non ha fiducia sistemica: pensa che tutto il sistema non funzioni, e che votare non serva a farlo funzionare. Ma in Italia la democrazia è da sempre in crisi. Il nostro è un paese che in fondo non ha mai smesso di essere fascista. Le pratiche, le logiche, i valori democratici non sono mai penetrati a fondo nella fibra della nazione, non hanno mai messo radici davvero solide, non sono riusciti a soppiantare le logiche autoritarie, mafiose, corrotte. Abbiamo avuto ed abbiamo la classe politica peggiore d’Europa, una tristissima teoria di delinquenti, mafiosi, corrotti e corruttori, piccoli boss di provincia messi a governare una nazione, semi-analfabeti cui è stato affidato il governo della scuola, eccetera. Abbiamo avuto ieri le stragi di Stato, abbiamo oggi – mentre ieri l’altro gettavamo l’iprite su gente inerme in Africa: ma lo abbiamo rimosso – un razzismo sempre più montante, e sempre più spesso omicida. Un docente di uno stato così imperfettamente democratico, insieme alle altre domande (come posso insegnare bene la mia disciplina? come posso favorire la crescita dei miei studenti), non può che porsi questa domanda: come posso, in quanto docente, contribuire alla realizzazione, nel mio paese, di una autentica democrazia? 
Daniele Lo Vetere rivendica la tradizione in un mondo in cui, dice, “‘tradizionale’ è qualità negativa, tranne che nelle pubblicità dei biscotti”. Non ne sono così sicuro, sia perché insegno a Siena (ma, si potrebbe dire, Siena costituisce un’eccezione), sia perché, in una società consumistica, ciò che fa vendere i biscotti può assicurare anche il successo di un partito politico. Soprattutto, mi pare che usi come se fosse non problematico un concetto che invece è altamente problematico. Non esiste la tradizione, esistono le tradizioni. Il passato, che la tradizione rappresenta, non è un blocco compatto, ma una molteplicità di storie. A Siena, ad esempio, la tradizione è, per eccellenza, il Palio. Ma non è l’unica storia che ci consegna il passato. Siena è anche la città di Santa Caterina. È la città di San Bernardino. Ed è la città degli eretici: Fausto e Lelio Sozzini e Bernardino Ochino. Un senese può scegliere in quale di queste tradizioni collocarsi. Quella cattolica ed ortodossa o quella eretica, ad esempio. Veniamo alla scuola. Senza andare troppo indietro nel tempo, possiamo individuare due modelli scolastici che anticipano la scuola che abbiamo. Il primo è quello della scuola gentiliana e fascista (più fascista che gentiliana, a dire il vero). La scuola che insegna il razzismo, il colonialismo, il nazionalismo; la scuola che crea il perfetto fascista. Abbiamo avuto poi la scuola democristiana, la scuola nazional-popolare, al tempo stesso elitaria e di massa, alla quale Pasolini imputava la distruzione delle diverse culture di classe ancora presenti nel nostro paese, e che corrisponde storicamente all’avvento dell’era del consumismo. Dopo la crisi della cosiddetta Prima Repubblica, che ha spazzato via sia la Democrazia Cristiana che il Partito Comunista, si è aperta una terza stagione, caratterizzata per la scuola da diversi interventi che ne hanno rimodellato il profilo per meglio adattarla alle esigenze attuali del capitalismo: la scuola azienda. 
Accanto, intorno, contro, oltre questa realtà c’è la tradizione della riflessione, della ricerca, della sperimentazione pedagogica. Una tradizione che, naturalmente, è anch’essa molteplice. C’è la pedagogia cattolica del personalismo di uno Stefanini o d’un Flores d’Arcais (Giuseppe, non Paolo), c’è la pedagogia laica che si richiama a John Dewey, c’è la pedagogia marxista, c’è la pedagogia che si pretende scientifica, c’è la pedagogia della nonviolenza, eccetera. Fare scuola oggi significa collocarsi criticamente non solo riguardo alla scuola attuale, ma anche riguardo alle tradizioni di cui s’è detto. Esclusa la scuola fascista, mi chiedo se si possa rivendicare la tradizione della scuola democristiana. È la scuola che ho vissuto da studente, e da studente proletario. È la scuola che mi ha indirizzato verso l’istituto professionale, nonostante la mia chiarissima vocazione umanistica. Ma il mio vissuto conta relativamente. Quello che mi sembra evidente è che la scuola democristiana non ha lavorato sufficientemente, o non ha lavorato con gli strumenti giusti, per la costruzione di una società autenticamente democratica. 
Certo, rispetto alla scuola che abbiamo adesso, per qualcuno perfino la scuola democristiana può diventare un modello. Ma è, in gran parte, per quel bias che ci porta a considerare i tempi passati sempre migliori del tempo presente. Ho sotto mano un libretto del 1853. Ne è autore Tommaso Pendola, pedagogista (tra i pionieri in Italia dell’educazione speciale) e rettore del Regio Collegio Tolomei di Siena: che poi sarebbe diventato il liceo nel quale oggi insegno. Rivolgendosi ai genitori dei suoi studenti in occasione della “solenne distribuzione dei premj”, il rettore, che è anche un sacerdote, si duole di “vedere i genitori talvolta cooperare inavveduti alla ruina dei figli”, e fa la lode dei tempi antichi. Leggendolo, è difficile non pensare alle tante tirate pseudo-pedagogiche di oggi sull’assenza dei padri, sui genitori che non sanno più fare i genitori, sui no che aiutano a crescere, eccetera. 
Ho citato, tra le altre, la tradizione della pedagogia della nonviolenza. Ne è stato il fondatore, in Italia, Aldo Capitini. Dopo aver sperimentato la prigione fascista, alla fine del Regime Capitini si oppose alla democrazia dei partiti, ritenendo che fosse troppo poco (presentendo, si direbbe oggi, quella che sarebbe stata la partitocrazia). Invece di entrare nel Partito d’Azione, creò i Centri di Orientamento Sociale. La democrazia è reale, pensa e scrive, se la gente di incontra a discutere degli affari pubblici. C’è democrazia se c’è assemblea. I COS erano assemblee partecipate, il cui principio di base era: ascoltare e parlare. Mi raccontava un suo collaboratore, Pietro Pinna, che il diritto rigoroso di parola era assicurato anche ai provocatori. “Ascoltare e parlare” dovrebbe essere scritto sulla porta di ogni aula scolastica, se vogliamo che la scuola sia un laboratorio di democrazia. 
Lo Vetere cita il Dewey di Esperienza e educazione. Si tratta, come è noto, dell’opera con la quale il filosofo e pedagogista padre dell’attivismo reagisce alle derive del movimento da lui stesso iniziato. Questo non vuol dire che sia diventato un sostenitore della scuola tradizionale: semplicemente pensava che non fosse sufficiente, né pedagogicamente sensato, limitarsi a rovesciarla. Non bisogna dimenticare che Dewey è l’autore che nel 1899, in Scuola e società, così giudica il setting tradizionale della scuola, basato su cattedre, banchi, lezione e libro di testo: “Tutto è fatto ‘per ascoltare’ — poiché studiare semplicemente da un libro non è che un altro modo di ascoltare; tutto attesta dipendenza di una mente da un’altra mente. L’attitudine ad ascoltare significa, comparativamente parlando, passività, assorbimento: ci sono quei certi materiali già pronti, che sono stati preparati dalle autorità scolastiche, dall’insegnante: l’alunno deve accoglierne quanto più può e nel più breve tempo possibile”. Nella scuola che l’attivismo ha pensato come alternativa, l’insegnante finiva per non parlare più: di qui la correzione degli ultimi anni. Che non vuol dire tornare ad una scuola in cui parla solo l’insegnante. Vuol dire fare una scuola in cui l’insegnante parla e ascolta, lo studente parla e ascolta, e tutti cercano di fare esperienze reali e significative. 
La scuola che abbiamo oggi è la scuola azienda; per essere più precisi, una scuola che ha avviato da tempo un processo di aziendalizzazione che i docenti non sono riusciti a contrastare efficacemente, e che corrisponde alle esigenze del sistema economico. In realtà, dal punto di vista del lavoro educativo e didattico, mi pare che la scuola di oggi sia poco differente da quella di ieri. Al centro del lavoro scolastico c’è ancora la lezione, così come il setting scolastico è ancora quello deplorato da Dewey nel 1899. Otto volte su dieci, se si entra in un’aula scolastica italiana si trova un docente che sta facendo lezione a degli studenti seduti in fila nei loro banchi. Con una variante: è probabile che, invece della lavagna, stia usando una lavagna elettronica. È però ugualmente probabile che stia usando la lavagna elettronica come avrebbe usato la cara lavagna tradizionale. Il sistema scolastico italiano è terribilmente conservatore. Da qualche tempo, si sta cercando di innovarlo dall’alto introducendo strumenti informatici e digitali. Una cosa assolutamente normale: sarebbe ben strano se, in una società tecnologica ed informatizzata, non fosse tecnologica ed informatizzata anche l’istruzione. Per molti, questo cambiamento rappresenterebbe una vera e propria rivoluzione, un passaggio epocale nella scuola italiana. Mi permetto di esprimere qualche dubbio. Il computer, il tablet, la lavagna elettronica sono degli strumenti, e come tutti gli strumenti possono essere usati bene o male. Possono servire per fare una didattica innovativa, così come possono essere messi al servizio della didattica più antiquata. Mi pare che peraltro non si rifletta molto su quella che vorrei chiamare l’analogicità del digitale. Analogica è, insegna Palo Alto, quella comunicazione che si alimenta di analogia. Se disegno un gatto per indicare un gatto, sto comunicando in modo analogico, perché il gatto disegnato assomiglia al gatto reale. Ora, il diffondersi di strumenti digitali favorisce appunto questo tipo di comunicazione. Su strumenti digitali come i pc, le lavagne elettroniche, i tablet, i cellulari, più del testo compaiono immagini, video, simulazioni multimediali. Tutte cose analogiche. Insegnare ricorrendo ad un’immagine su pc o tablet significa fare didattica analogica con strumenti digitali. È una cosa buona? Non lo so. Certo non c’è nessuna particolare innovazione nel leggere un libro di testo sul tablet, o addirittura (come propone una nota casa editrice) proiettarlo sulla lavagna elettronica. 
Célestin Freinet trasformò la scuola introducendo la tipografia. Gli studenti approfondivano un argomento, scrivevano un testo, poi lo stampavano. Il libro di testo, scritto da loro, era il punto d’arrivo, non di partenza. Poi i testi così stampati venivano condivisi con altre scuole. Una cosa del genere sarebbe oggi facilissima, dal punto di vista tecnico. Per cercare informazioni non bisogna più sondare le biblioteche (che però è una cosa così affascinante…), basta navigare la Rete; per scrivere in modo collaborativo basta aprire un documento su Google; per condividerlo con le altre scuole basta mandare una mail o creare un sito Internet. Ma quante scuole fanno questo lavoro? La scuola digitale è una scuola nella quale il più delle volte si è semplici fruitori di materiali prodotti da altri. 
Informatizzazione non vuol dire necessariamente innovazione, e si può innovare anche senza strumenti informatici. Non è, sia chiaro, un argomento contro l’informatizzazione delle scuole. È un argomento contro chi crede che basti informatizzare per cambiare. Ed è anche un argomento contro chi vuole cambiare davvero, ma senza aver riflettuto su quale scuola vuole fare. Vedo colleghi entusiasti per la flipped classroom: hanno sostituito la lezione con un video che gli studenti guardano a casa, per poi fare i compiti, o altro, al mattino a scuola. Non esprimo un giudizio, ma non posso fare a meno di chiedere: perché? In quale direzione si va? Quale scuola si vuole fare, sostituendo il docente che parla con un video? È chiaro che molto importa quello che si fa al mattino a scuola. Si fa lavoro cooperativo? Si discute? O si fanno semplicemente quei compiti che prima si facevano al pomeriggio? 
La scuola è cambiata, sta cambiando. È cambiata dall’alto, la stanno cambiando dall’alto. La stanno cambiando affinché corrisponda sempre meglio alle esigenze del mondo del lavoro. In questa direzione va, ad esempio, il discorso delle competenze. Che si debba lavorare per competenze, ossia che si debba insegnare anche a fare, è una ovvietà. Il problema è quali sono le competenze, quali sono le cose che uno studente deve saper fare. E la risposta è semplice: le competenze sono quelle che servono al sistema economico, con una spolveratina di competenze di cittadinanza, per dare una parvenza di formazione completa. Questo è il lavoro sostanziale che si sta facendo. Ora, questo è un problema per la scuola italiana, ma non è il problema maggiore. Il problema maggiore è che non c’è un’alternativa. Manca, nei docenti, negli studenti, nei pedagogisti perfino, una idea alternativa di scuola, come manca, dopo la crisi delle grandi narrazioni ideologiche, una idea alternativa di società. È per questo che le critiche, giuste, agli interventi dall’alto finiscono poi per risolversi in nulla più che vaghe affermazioni di principio, sotto le quali c’è la difesa (giusta, ma insufficiente) dei propri interessi corporativi. Si è creato un meccanismo perverso, per cui chi critica la scuola pubblica perché vorrebbe migliorarla è accomunato a chi, dall’alto, critica la scuola per indebolirla e depotenziarla (perché è diffusa nei docenti questa convinzione: che i governi siano interessati a svilire il loro lavoro e in generale la scuola per demolire l’uno e l’altra). È la riduzione al neoliberalismo, un procedimento dialettico sempre più diffuso, che sta prendendo il posto della reductio ad Hitlerum
Apro Il paese sbagliato, di Mario Lodi. Leggo: “La condizione dello scolaro somiglia a quella dell’operaio della grande fabbrica…”; “Lo scolaro, in una scuola autoritaria fondata sui voti, studia perché ci sono i voti. Se strappi il voto dalle mani dell’insegnante, tutto il castello crolla. È come strappare le armi alla polizia di uno stato oppressivo”; “Il contenuto ideologico e il metodo autoritario sono espressioni di una scuola politica di classe, che tende a formare uomini docili e passivi, possibilmente ignoranti sulle cose che scottano”. Siamo nel 1970. Se qualcuno scrivesse oggi quelle parole, lo si accuserebbe di fare il gioco del sistema. Di voler demolire l’istituzione. Di essere in fondo un reazionario, contro il quale è bene difendere la tradizione. È una trappola che costringe all’afasia. O meglio, alla sola retorica della scuola pubblica che salva, che forma al pensiero critico, eccetera. La retorica dello spot ministeriale sull’importanza dello studio, con l’immancabile Vecchioni. Uno spot nel quale, ed è cosa assai interessante, il cantante-professore afferma: “non importa se leggiamo un libro con le pagine o il monitor di un computer”. Non importa molto, infatti. E torniamo al discorso di prima: lo spot ministeriale sull’importanza dello studio e della scuola è in fondo rassicurante. Sì, ci sono oggi computer e tablet, ma quello che si fa è sempre quello. Si legge, ieri su un libro, oggi su un monitor. 
C’è una cosa condivisibile ed importante in quello spot. Dice Vecchioni: “E succede anche che siamo noi insegnanti a imparare dai ragazzi”. Prendiamo sul serio questa affermazione. Consideriamola, anzi, una affermazione dalla quale far partire la riflessione sull’educazione. Permettetemi di esprimere l’idea con le parole di un autore che, come esperto di processi educativi, considero un po’ più autorevole tanto di Vecchioni quanto degli autori degli spot ministeriali. Scrive Paulo Freire in quel libro bellissimo che è Pedagogia dell’autonomia: “…è necessario che fin dall’inizio del processo formativo, diventi via via sempre più chiaro un fatto: nonostante le differenze esistenti tra loro, chi forma si forma e si ri-forma nell’atto stesso di formare, mentre chi viene formato si forma e al tempo stesso diventa formatore nell’atto di essere formato”. C’è in queste parole un potenziale rivoluzionario straordinario. Da sempre l’educazione è una cosa che qualcuno fa a qualcun altro. C’è il soggetto e c’è l’oggetto dell’educazione. La parola pedagogia – peraltro poco amata dai docenti – esprime questo movimento. Pedagogia è educazione dei bambini: e già questo basterebbe a suggerire la necessità di abbandonare il termine, nel momento in cui si parla di formazione per tutta la vita. Ma soprattutto evoca l’immagine di colui che guida un soggetto in condizione di minorità. Per quanto Freire continui a usare la parola, pur ripensando profondamente la cosa, sarebbe opportuno usare una parola nuova per dire una nuova educazione. Si tratta di passare dall’educazione alla co-educazione. Da qualche tempo, adopero per indicare questo secondo approccio la parola sinagogia: educare sun, con. Si ha sinagogia ogni volta che due o più persone fanno insieme cose che contribuiscono alla crescita di ognuno di loro. E quando ciò accade, si realizza una συναγωγή, una assemblea. Quella cosa fondamentale per la democrazia. 
Freire non è contrario, come forse ci si aspetterebbe, alla lezione. Scrive, sempre nell’opera citata (più immediatamente fruibile, per chi insegna, della più nota Pedagogia degli oppressi): “La dialogicità non nega la validità di momenti esplicativi, narrativi in cui l’insegnante espone o parla dell’oggetto. La cosa fondamentale è che insegnante e alunni sappiano che la loro posizione è dialogica, aperta, curiosa, investigativa e non passiva, mentre si parla o mentre si ascolta. L’importante è che insegnante e alunni si considerino epistemologicamente curiosi“. È quella che all’inizio di questo articolo ho chiamato lezione circolare. Nelle prime pagine del suo libro, l’educatore brasiliano scrive che in essa si propone di esporre “i saperi a mio avviso indispensabili per la pratica dell’insegnamento da parte di educatrici o educatori critici, progressisti”, ma aggiunge: “Alcuni di questi saperi, tuttavia, sono egualmente necessari anche per educatori conservatori”, perché sono richiesti dalla pratica educativa stessa, indipendentemente dalle idee politiche del docente. Non sono così sicuro sulla possibilità di accettare il principio appena esposto dell’educazione dialogica anche da parte di chi ha una Weltanschauung conservatrice. Fare sinagogia vuol dire ripensare profondamente il proprio ruolo di docente, porsi con gli studenti in una posizione di simmetria, anche se di simmetria dinamica. Per chi ha una visione conservatrice – non credo che sia il caso di Lo Vetere – questo può sembrare un salto nel buio, un cedimento che può avere effetti catastrofici. Significa passare da una posizione di potere ad una posizione di empowerment. Si dirà: il potere è ineliminabile, e negarsi come figure di potere significa in realtà ingannare gli studenti, presentandosi come loro pari quando in realtà si è, istituzionalmente, loro superiori. Di vero c’è che l’istituzione assegna al docente un potere nei confronti degli studenti. Un potere che, se esercitato fino in fondo, può trasformare la scuola in una istituzione totale. Un docente può imporre agli studenti di star zitti ed immobili per più di un’ora, senza che nessuno possa rimproveragli nulla: è un suo diritto. Naturalmente anche il suo potere ha dei limiti stabiliti dalla legge. Soprattutto, a chi fa una obiezione del genere sfugge un fatto sempre più evidente: il potere del docente non è basato tanto sull’investitura dall’alto, per così dire, quanto sull’accettazione degli studenti. Il docente ha potere se gli studenti pensano che sia giusto che abbia potere. Mi è capitato qualche giorno fa di vedere questo video su Youtube: 
Una classe intera insulta e minaccia in modo pesantissimo l’insegnante, che si limita ad un poco convinto “adesso vado a chiamare il vicepreside”. È lei che non sa insegnare, non sa esercitare la sua autorità? Non ne sarei così sicuro. Ci sono intere scuole in cui entrare in classe vuol dire essere sistematicamente insultati e trovarsi nella impossibilità di fare qualsiasi lavoro didattico o educativo. In questi sistemi non c’è minaccia, rapporto disciplinare, sospensione didattica che basti. Del resto, se quella del docente fosse una figura che ha potere in sé, non occorrerebbe avere qualità personali per far valere quel potere. In realtà se degli studenti, in massa, decidono di non riconoscere il potere dei docenti, questi non hanno alcun modo per far valere il loro presunto potere. Il quale nasce, dunque, sempre da un tacito riconoscimento da parte dello studente. Ora, se sono io che ti accordo potere, al tempo stesso io ho potere su di te. Tu hai potere solo fino a quando io accetto che tu abbia potere su di me; il tuo potere dipenda dal mio riconoscimento. E questo ristabilisce, anche in una situazione asimmetrica, una simmetria latente, per così dire. Fare un lavoro sinagogico vuol dire portare alla luce questa simmetria latente e farla diventare evidente. E, soprattutto, ridefinire il potere, che è anche e soprattutto, come ricordava Danilo Dolci (che contrapponeva il potere al dominio, sua degenerazione), possibilità. La scuola sinagogica è quel luogo in cui più persone, insieme, attraverso il dialogo, confrontandosi con i saperi, possono esplorare insieme le possibilità individuali e collettive. La lezione, portata da polo della frontalità a quello della dialogicità, può essere uno strumento di questa scuola sinagogica. Non l’unico né il primo, ma nemmeno l’ultimo. 
Articolo pubblicato su La letteratura e noi, blog diretto da Romano Luperini, Palumbo editore.

I rischi dell’homeschooling

La pratica dell’homeschooling, o scuola parentale – istruire i propri figli a casa, rifiutando l’istituzione scolastica – si sta rapidamente diffondendo anche in Italia, benché non sia facile ottenere numeri sulla esatta entità del fenomeno. L’impressione è che si tratti di un realtà che coinvolge ancora poche famiglie ma che si sta rapidamente espandendo. Le ragioni sono piuttosto facili da individuare: la crescente insoddisfazione verso la scuola pubblica da un lato, l’esigenza di vivere nel modo più pieno possibile la genitorialità dall’altro. Homeschooling di Erika Di Martino, pubblicato in proprio lo scorso anno, ne è il manifesto nel nostro paese. L’autrice ha lasciato l’insegnamento per dedicarsi all’istruzione dei figli ed ha creato il network www.educazioneparentale.org ed il blog www.controscuola.it, che sono diventati punti di riferimento per le famiglie che decidono di seguire questa via. Nel suo libro presenta l’esperienza scolastica come una violenza cui si sottopongono i bambini, sradicandoli dall’ambiente familiare e dalle relazioni con i genitori e i fratelli per inserirli in un ambiente freddo ed artificiale, nel quale vivono emozioni negative e stress che avranno effetti devastanti sulla loro vita adulta. Per Di Martino la scuola pubblica, non più elitaria dopo il ’68, è una scuola di massa che educa essenzialmente al consumo ed all’accettazione del sistema socio-economico in cui siamo (“l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di aver bisogno della società così com’è”, per dirla con l’Ivan Illich in Descolarizzare la società). Ricorrere, per dimostrare la tesi, ad una affermazione del ministro Baccelli datata 1894 (“Non devono pensare, altrimenti sono guai”: affermazione che si riferiva in verità solo all’istruzione femminile, non all’istruzione in generale) non è granché come argomento, così come è ingenuo sostenere che lo Stato “ieri come oggi, ha bisogno di una popolazione docile e ignorante da manovrare a proprio piacimento”. Una popolazione ignorante è tutto fuori che facilmente governabile. Proprio perché chi è ignorante può essere facilmente manovrato, indottrinato, plagiato, dove c’è ignoranza attecchiscono facilmente fenomeni preoccupanti per la stabilità dello Stato: il fanatismo, il fondamentalismo religioso, l’antipolitica rozza, il fascismo. Piuttosto, è vero che la scuola rende canonica ed ufficiale un certo tipo di cultura, che è quella delle classi dominanti, e così facendo giustifica e rafforza le differenze di classe: una osservazione che dev’essere attentamente rimeditata, in tempi di cultura di massa e di crisi della classe media, ma che mi pare che abbia ancora una qualche validità. 
Ci sono molte buone ragioni per criticare la scuola pubblica, ma è lecito dubitare che l’homeschooling sia la soluzione. Provo a spiegare per quali ragioni. 
Uno. Per dedicarsi a tempo pieno all’istruzione dei propri figli occorre avere molto tempo. Può farlo chi vive di rendita o, come appunto Erika Di Martino, ha rinunciato al proprio lavoro per questa missione. Ma c’è il rischio evidente che si finisca per attribuire nuovamente alla donna il compito di badare alle faccende domestiche, aggiungendo il ruolo di maestra a quelli di moglie e madre, mentre l’uomo si occupa di portare il pane a casa (il male breadwinner della tradizione). Nulla, si dirà, impedisce che i ruoli si inventano, e sia il padre a fare da maestro, ma non mi pare che questa inversione sia molto diffusa nel nostro paese. In ogni caso, uno dei due coniugi deve sacrificare la propria vita lavorativa per la missione domestica ed educativa
Due. In questo voler trattenere con sé i propri figli c’è una concezione totalizzante della genitorialità che può essere pericolosa. E’ cosa buona e giusta che molti genitori vogliano vivere in modo più intenso il proprio essere genitori. E’ cosa meno buona, se vogliono sostituirsi a qualsiasi altra figura, negando a chiunque il diritto di contribuire all’educazione dei loro figli. Marcello Bernardi parlava, in Educazione e libertà, del pericolo rappresentato da quelle madri che vogliono essere Madri con la maiuscola. 
Tre. Di Martino ritiene che la socializzazione di massa della scuola si accordi pienamente con le esigenze dell’economia neoliberista. L’argomento di può rovesciare: negare alla scuola ed alla comunità il diritto di educare, riconoscendo questo diritto solo alla famiglia, significa opporsi all’idea stessa di un legame sociale, e concepire la società come un insieme di atomi familiari. Il pubblico ed il politico cedono al privato: ma non è proprio questo che vuole l’economia liberista? Non escludo che vi siano, tra le famiglie che praticano homeschooling o ne sono affascinate, anche famiglie sinceramente anticapitaliste: famiglie senza televisore, ad esempio, o alla ricerca di stili di vita alternativi. Famiglie che temono, per dire, che i loro figli nella scuola pubblica imparino a desiderare i giocattoli pubblicizzati dalla televisione. E’ un timore condivisibile. Ma sottrarsi allo spazio pubblico non è la soluzione. La soluzione è rivendicare uno spazio pubblico che sia critico: esigere una scuola che ragioni sui consumi ed educhi fin da piccoli a riconoscere i bisogni necessari da quelli indotti. 
Quattro. Gandhi non mandò a scuola i suoi figli: si assunse il compito di educarli da sé. Ma lo fece malissimo, ed uno dei suoi figli lo rimproverò per tutta la vita di non avergli dato un’istruzione. I docenti possono essere preparatissimi ed avere sensibilità educativa o avere una cultura passabile ed una sensibilità educativa pessima: ma sono sottoposti ad una selezione ed a più valutazioni, non ultima quella dei genitori. I quali, se proprio trovano inaccettabili i metodi del maestro o dei maestri, possono chiedere di cambiare classe o scuola. Un bambino che abbia dei genitori-maestri incapaci non può cambiare famiglia. 
Cinque. La scuola, come ho detto, è uno spazio pubblico. La porta dell’aula non è mai davvero chiusa. Di quello che accade in aula gli studenti parlano con i genitori: un errore, una uscita infelice, una osservazione politicamente scorretta diventano motivo di discussione tra i docenti, quando non facile pretesto per miserabili campagne politico-giornalistiche. La strumentalizzazione è un male, il controllo è un bene. Un errore educativo può essere corretto, una persona inadeguata allontanata. Non si può dire lo stesso di una famiglia. Quello che vi accade è chiuso allo sguardo pubblico. 
Sei. Uno dei non pochi gruppi Facebook dedicati in Italia all’homeschooling si chiama Homeschooling Famiglie Cristiane. In uno degli ultimi post si legge: “In questo periodo difficile è certamente l’unione che fa la forza. E se si alza la voce (e non solo) per idee malate che vogliono propinarci come giuste e buone per i nostri Figli, noi non dobbiamo mai abbassare la guardia e rinunciare ai valori grandi e nobili, da cui passa anche l’educazione culturale”. In occasione di Halloween scrivono: “Questo è il giorno in cui il male trova “pieno sfogo”, il giorno più pericoloso dell’anno. Ma non gli si da importanza o non ci si crede o solo ci si girà di là . Come se tutto quello che succede, riguardasse solo i cristiani. Anche nelle scuole, così come per il gender e tante altre cose, non c’è possibilità di scelta. Questo è uno dei tantissimi motivi, per cui abbiamo scelto l’educazione familiare”. Quello che si rivendica, qui, è il diritto ed educare i propri figli all’omofobia, al dogmatismo, al rifiuto dell’altro. Cosa che, sia chiaro, avviene in moltissime famiglie, cristiane e non cristiane; ma almeno con la possibilità, per i bambini, di ascoltare un punto di vista diverso, di incontrare una persona portatrice di una diversità, di confrontarsi. 
La scuola non sta simpatica a molti; spesso nemmeno a quelli che la fanno. E’ affetta da una insopportabile arroganza: nonostante i suoi evidenti, disperanti insuccessi, è sinceramente convinta di essere una istituzione salvifica. Extra Scholam nulla salus. C’è una vera e propria religione della scuola, con i suoi dogmi ed i suoi rituali. Una religione che, come tutte le religioni, va demistificata. Ma non è una buona idea sostituirla con la religione della famiglia. 
L’immagine è ripresa da http://www.catholicallyear.com.

Articolo apparso su Gli Stati Generali.

Adeste, fideles!

Quello che sta accedendo in questi giorni non è soltanto il vergognoso attacco mediatico-politico ad un preside la cui unica colpa è stata quella di aver adoperato un po’ di buon senso e di non aver dimenticato il sacrosanto principio della laicità della scuola pubblica. Quello che sta accadendo è un più generale attacco alla autonomia della scuola pubblica, di cui si vorrebbe fare uno strumento docile al servizio delle fobie identitarie di un popolo la cui unica, vera identità da gran tempo è fragilmente abbarbicata alla pratica del consumo ed a vacui rituali televisivi. Quella che si vorrebbe è la scuola rassicurante e prona nella quale si rende omaggio a tutte le autorità, si esaltano tutti i buoni valori, si accoglie il diverso ma a condizione che non rompa le scatole e non pretenda di essere riconosciuto realmente come diverso. Quella che si vuole è una scuola cattolica, nazionalpopolare, appiattita sugli pseudo-valori dominanti, che riproduce la miseria culturale, morale e politica attuale, invece di essere il posto nel quale si potrebbe cercare, pur tra mille difficoltà, una società migliore, la via d’uscita dal pantano nel quale il paese è finito da qualche decennio. Quello che si vuole è togliere al paese la speranza già flebile che la scuola possa cambiare qualcosa. Quella che si vuole è una scuola non solo sottomessa docilmente agli umori della politica – un politico serio, chiamato a dire la sua su una qualsiasi decisione di una scuola, dovrebbe semplicemente rispondere: “rispetto l’autonomia di quella scuola” -, ma anche ridotta ai capricci delle famiglie. 
Il buon Comenio, tra i fondatori della scuola moderna, pubblica e gratuita per tutti, faceva un ragionamento semplice. E’ solo attraverso l’educazione, diceva, che si diventa realmente esseri umani, come dimostra il fatto che bambini abbandonati e cresciuti nei boschi hanno tratti più animaleschi che umani. Se capita di nascere in una famiglia che non è in grado di dare una buona educazione, non si avrà dunque la possibilità di diventare pienamente umani. Occorre allora che ci sia una istituzione apposita per l’educazione, e che questa istituzione sia aperta a tutti, perché tutti hanno il diritto di diventare pienamente umani. Un discorso, dunque, che ha come premessa una certa sfiducia nei confronti della famiglia: ed è su questa sfiducia che si è costruita la scuola moderna. Ora, è una sfiducia che si può criticare, ed è un gran bene che si sia giunti, invece, a considerare la scuola e la famiglia come due istituzioni che operano insieme, in modo paritario, per l’educazione dei bambini e dei ragazzi. Ma quello che sta avvenendo adesso è il rovesciamento del discorso di Comenio. Si sta diffondendo l’idea che la famiglia offre al bambino le prime cure e gli dà la prima educazione, gli trasmette i valori e l’identità, affidandolo poi ad una istituzione diseducativa, nella quale impara cose sbagliate, smarrisce la propria identità, viene affidato a docenti che non sono veri professionisti dell’educazione. Lo Stato crea la scuola perché non ha fiducia nei genitori e nelle famiglie; ora sono i genitori che, non avendo fiducia nella scuola, la attaccano: ed i rappresentanti dello Stato danno loro voce. Si è spezzato il necessario rapporto di fiducia reciproca tra scuola e famiglia, e questo è uno dei problemi più gravi ed urgenti della società italiana. Questo rapporto di fiducia si può ricostruire in due modi: in alto o in basso. In alto, se famiglie e scuole, insieme, si fermano a riflettere sui loro modelli educativi e si impegnano a cercare un’educazione rispettosa della personalità di bambini e ragazzi, chiedendosi anche in che modo e per quali vie, educando, si possa costruire una società migliore. In basso, se la scuola, timorosa delle reazioni isteriche di qualche genitore, pronto a scatenare una canea mediatica e politica, si mette al servizio della peggiore pseudo-identità catto-fascista-leghista di tante famiglie. Le scuole si riempiranno di crocifissi, di presepi, di canti natalizi, forse anche di buoni sentimenti deamicisiani: ma non avrà più molto a che fare con l’educazione, e si giungerà a dover chiedere l’autorizzazione dei genitori anche per studiare lo scandaloso Freud. 
Adeste fideles è il canto natalizio che i genitori avrebbero voluto insegnare agli studenti nella scuola di Rozzano. Adeste fideles læti triumphantes: venite fedeli, lieti e trionfanti. Le parole, oggi, hanno un suono sinistro. No, fedeli, mi dispiace. Credete in quello che vi pare, celebrate il vostro Natale, il vostro Ramadan, il vostro Vesak, massacrate gli agnelli a Pasqua in onore del vostro Dio, mettetevi il velo se vi piace o rapatevi la testa, fate il pellegrinaggio alla Mecca o alla santa casa di Loreto: ma lasciate in pace la scuola pubblica.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali.

Diego Fusaro e la cultura umanistica

Intervistato da IntelligoNews a proposito della scuola di Renzi, Diego Fusaro dà espressione al più trito pregiudizio umanistico, affermando che le humanae litterae (il latino, il greco, la filosofia, la storia dell’arte) sono fondamentali perché hanno a che fare con “le nostre radici” e “per formare uomini in senso pieno”, e stigmatizzando il fatto che la scuola sia diventata “un’azienda dove il latino e il greco sono sostituiti dall’inglese e dall’informatica”. “Il problema è che così non si producono più teste pensanti”, conclude. Ragioniamoci un attimo. 
Cos’è, realmente, umanistico? Ciò che ha a che fare con la formazione dell’uomo in senso pieno, dice Fusaro. Ma il concetto di “uomo in senso pieno” è quanto di più relativo si possa immaginare. Qualcuno, come Fusaro, può ritenere che uomo in senso pieno sia l’intellettuale occhialuto che passa la sua giornata a studiare testi greci e latini; qualche altro può considerare, invece, sprecata una vita del genere, ed esaltare il significato formativo del lavoro della terra; qualche altro ancora, con ottime ragioni, vedrà più pienezza nello studio scientifico, nella ricerca della cura di una malattia, nella soluzione di un problema ingegneristico. Scriveva John Dewey in Democrazia e educazione: “se si adotta un’idea della scienza appropriata al suo metodo sperimentale e alla dinamica di una società democratica e industriale, è facile dimostrare che la scienza naturale è più umanistica di un preteso umanesimo che basa i suoi piani educativi sugli interessi specializzati della classe agiata”. La scienza dunque è umanistica non meno del greco, del latino e della filosofia. Ma è umanistico anche il lavoro dell’operaio, senza il quale non esisterebbero nemmeno i libri (quelli di carta, almeno) e la scrivania del nostro occhialuto filologo. 
Fino a non molto tempo fa, dice Fusaro, questo sapere umanistico, “che caratterizza la tradizione occidentale”, “era al centro dei programmi dell’istruzione”. Vero. Il compito della scuola, per secoli, è stato esattamente questo: lavorare per far sì che questo sapere, che non è che uno dei saperi possibili, diventasse il sapere per eccellenza; fare dell’ideale umano del filologo occhialuto l’ideale umano tout court. E al tempo stesso, naturalmente, squalificare qualsiasi altro ideale umano. Grazie all’opera della scuola, il sapere intellettuale diventa l’unico sapere degno dell’essere umano, ed ogni attività pratica viene squalificata come indegna di un uomo libero. E’ il riflesso, naturalmente, di una società diseguale. Per Aristotele l’attività più degna di un essere umano è la contemplazione, mentre la techne, l’attività che costruisce qualcosa, è inferiore; e gli schiavi è giusto che siano tali. E’ il pensiero di un filosofo che vive in una società in cui alcuni sono liberi ed altri schiavi, e la schiavitù dei secondi rende possibile l’agio – anche di filosofare – dei primi. La cultura umanistica di Fusaro è questa secolare giustificazione ideologica della disuguaglianza e del privilegio, questa secolare calunnia del lavoro manuale, che ancora oggi giustifica le differenze di status, se non di condizione economica, tra l’operaio e l’intellettuale. 
E’ almeno dai tempi di Rousseau che la pedagogia, scrollandosi di dosso il pregiudizio umanistico, ha affermato il valore formativo del lavoro. Per Pestalozzi un uomo completo è tale se sviluppa tre dimensioni: cuore, mente, mano. Che vuol dire: formazione morale, intellettuale e manuale. Gandhi, che con ogni probabilità ignorava Pestalozzi, diceva più o meno le stesse cose. E nelle sue scuole il lavoro aveva molta più importanza dello studio intellettuale. La mano per la pedagogia moderna e contemporanea non è contrapposta alla mente. Lo sviluppo delle abilità manuali, la concentrazione del lavoro, lo sforzo necessario per costruire qualcosa hanno un valore formativo per nulla inferiore allo studio di un passo di Seneca. Una buona scuola reale metterebbe al centro entrambe le cose: la formazione intellettuale e quella manuale. Purtroppo grazie al pregiudizio di cui le parole di Fusaro sono espressione, abbiamo in Italia una separazione rigida tra scuole nelle quali si fa formazione intellettuale e scuole nelle quali si fa formazione professionale. Una separazione che è naturalmente di classe: le prime sono per la borghesia, le seconde per il proletariato. Ed è noto il lamentevole stato delle scuole professionali in Italia. 
Dalle parole di Fusaro traspare anche un certo orgoglio per la “tradizione occidentale”. Quella tradizione, è bene ricordarlo, che ha portato violenza, distruzione e morte in tutti i continenti. Quella tradizione che, in nome della sua pretesa superiorità culturale e religiosa, ha sterminato gli indiani d’America e ridotto in schiavitù gli africani. Quella tradizione che non è riuscita ad evitare, all’Europa ed al mondo, l’orrore dei campi di sterminio. 
Possiamo ancora permetterci di chiuderci nella “nostra tradizione”? Al latino ed al greco della nostra cara tradizione umanistica non dovremo aggiungere almeno il sanscrito – del resto le radici vanno indagate fino in fondo – ed il cinese? Le nostre aule scolastiche sono abitate da studenti che vengono in ogni parte del mondo. Ognuno di loro porta con sé una sua visione dell’uomo (e della donna), una sua concezione dell’umanesimo. Lo studente cinese ha alle spalle millenni di riflessione sui problemi della società umana, così come lo studente indiano e quello africano. Cosa facciamo? Li mettiamo tutti ad imparare le superiori virtù dell’umanesimo occidentale – i manuali di filosofia tacciono sulle filosofie non occidentali -, o facciamo finalmente della scuola il luogo d’incontro di visioni del mondo diverse?   Nell’immagine: Raffaello, La scuola dei filosofi.

Cambiare la scuola dal basso: quattro pratiche

Non ritengo che sia in atto la distruzione della scuola pubblica, come temono quelli che sono contrari alla riforma denominata, un po’ pomposamente, la Buona Scuola, così come non mi pare che essa possa cambiare significativamente la scuola pubblica. Mi convincerò che è in atto una vera riforma della scuola italiana quando qualcuno proibirà per legge la lezione frontale e il setting attuale con banchi e sedie in fila; fino ad allora, considererò qualsiasi riforma come un aggiustamento – in senso migliorativo o peggiorativo – che non intacca la sostanza della scuola italiana.

In questo articolo vorrei presentare quattro pratiche che possono cambiare profondamente la scuola italiana, intervenendo non su aspetti marginali, ma sul suo cuore in crisi. Quattro pratiche dal basso, con le quali docenti e studenti potrebbero riprendere in mano la scuola pubblica e trasformarla senza aspettare decreti e riforme dell’alto. Prima però vorrei dire ancora qualcosa su ciò che non va nella scuola. Come ho già provato a spiegare in un articolo comparso su questa stessa testata, ritengo che la crisi della scuola italiana (e non solo italiana) sia principalmente una crisi di senso. Perché veniamo a scuola? Perché facciamo scuola? Perché gli studenti impiegano tante ore della loro giornata seduti ad un banco? La risposta a queste domande è oggi sempre più difficile. Una volta il senso della scuola era estrinseco: si studiava per ottenere un diploma da spendere nel mondo del lavoro. Poi è giunta la scuola di massa, con l’inflazione di diplomi e lauree. E allora, perché stiamo a scuola? Per ottenere un diploma che ci consentirà di iscriverci all’università ed ottenere una laurea grazie alla quale potremo aspirare ad un lavoro precario e malpagato? No, la risposta non può essere questa. La risposta dev’essere: perché stare a scuola è sensato; perché a scuola facciamo cose importanti; perché stare a scuola è perfino bello.

E’ evidente che quasi nessuno studente, cui si chiedesse che ne pensa della scuola, risponderebbe che stare a scuola è una cosa sensata, importante e bella. C’è qualcosa che non va. Noi docenti non riusciamo a fare una scuola bella e sensata. E’ solo parzialmente colpa nostra. Non ci riusciamo perché abbiamo ereditato schemi professionali che non funzionano più, e non siamo in un’epoca ed in un contesto sociale granché aperto alle sperimentazioni. Non abbiamo, per dirla tutta, lo slancio necessario per toglierci l’abito vecchio ed ormai liso e provarne uno nuovo. E tuttavia occorre provarci, se non vogliamo che il nonsenso della nostra pratica scolastica quotidiana cresca fino a paralizzarci.

La prima pratica che propongo è la maieutica reciproca. E’ un metodo creato quasi per caso nella Sicilia degli anni Cinquanta da Danilo Dolci, finalizzato allo sviluppo comunitario. Il grande sociologo ed educatore mise in cerchio contadini e pescatori per discutere della situazione locale. Come si può cambiare? Che si può fare? Ognuno diceva la sua, ognuno contribuiva alla soluzione del problema. Ognuno era maieuta dell’altro: la verità non veniva fuori da sé stessi, ma dalla discussione di tutti. Dolci si spese generosamente, negli ultimi anni della sua vita, per diffondere la pratica della maieutica reciproca nelle scuole italiane. Incontrò centinaia di docenti, tenne seminari maieutici in decine di scuole. Era fermamente convinto che quella pratica potesse aiutare a guarire una scuola malata di incomunicabilità. Distingueva, Dolci, il trasmettere, che è unidirezionale, dal comunicare, che è circolare: e riteneva che la scuola avesse il problema di essere trasmissiva, e non comunicativa. Oggi i docenti che praticano la maieutica reciproca in Italia sono pochissimi. Eppure si tratta di una pratica che dà risultati straordinari. Gli studenti prendono la parola, ragionano, e quel che è più importante ragionano insieme. Imparano a confrontare i punti di vista, ad arricchirsi reciprocamente, a scontrarsi anche. Non sono più destinatari passivi della trasmissione di un sapere preconfezionato, ma co-costruttori di un sapere condiviso. E sensato, perché rappresenta la risposta ad una domanda.

La seconda pratica che propongo è quella del service learning, o aprendizaje servicio solidario. La prima espressione è adoperata negli Stati Uniti, la seconda nei paesi dell’America Latina. C’è qualche differenza, perché pedagogicamente il service learning fa riferimento soprattutto a John Dewey ed alla tradizione americana di impegno comunitario non privo però di individualismo, mentre l’aprendizaje servicio solidario si ispira alla pedagogia di Paulo Freire, con la sua passione per la liberazione degli oppressi. Ma l’idea di fondo è la stessa: l’apprendimento che avviene a scuola dev’essere collegato, in modo strutturale e non estemporaneo, a qualche forma di servizio in favore della comunità. Non si tratta di volontariato, perché nel volontariato manca, in genere, il raccordo con lo studio curriculare. Si tratta invece di un modo diverso di concepire lo studio scolastico. La comunità locale ha i suoi problemi, la scuola ha i suoi saperi e le sue pratiche. In che modo questi saperi e queste pratiche possono incontrare i problemi della comunità locale? Quale contributo possono dare gli studenti al miglioramento del quartiere, del paese, della città? L’apprendimento-servizio va al cuore del problema del nonsenso scolastico. Perché studiare? Perché il mio studio può servire a rendere migliore, qui ed ora, la vita di tutti.

La terza pratica che propongo si chiama Student Voice, e per quello che ne so è quasi sconosciuta in Italia, mentre è molto diffusa in molti paesi. Nelle scuole italiane la partecipazione attiva degli studenti ha raggiunto i minimi storici. Strumenti come le assemblee di classe e di istituto si sono ormai svuotati di significato; in molte scuole le assemblee di istituto nemmeno si fanno, in altre durano mezz’ora, e poi tutti a casa. Gli studenti sembrano assolutamente disinteressati alla gestione della scuola, e se da un lato si lamentano di tutte le cose che non vanno, dall’altra non sembrano disposti a muovere un dito per migliorarle (salvo poi scioperare o chiedere l’occupazione). Con l’espressione Student Voice si indicano tutte quelle pratiche con le quali si cerca di ascoltare, appunto, la voce degli studenti, e di fare in modo che sia una voce che ha un suo peso reale nella comunità scolastica. Gli studenti hanno l’impressione che la loro voce non si ascoltata da nessuno: ed in effetti in ambito scolastico subiscono spesso quella che in psicologia si chiama disconferma. Come dire: chi sei tu per parlare? E’ importante che ogni scuola trovi i modi migliori per ridare voce agli studenti. L’empowerment, il conferimento di potere, dovrebbe essere considerato uno degli scopi del lavoro scolastico. Per farlo naturalmente occorre un profondo cambio di mentalità. Chi pensa alla relazione educativa come ad una relazione di dominio non potrà aiutare gli studenti a prendere la parola ed a percepirsi come soggetti attivi di cambiamento. Ma chi pensa alla relazione educativa come una relazione di dominio dovrebbe essere emarginato a scuola, sperando che la specie cui appartiene si estingua al più presto.

Per l’ultima pratica prendo a prestito un’espressione del già citato Paulo Freire: circoli di cultura. E’ una proposta che riguarda i docenti. Noi docenti ci incontriamo periodicamente nei consigli di classe, nei collegi dei docenti, nelle riunioni di dipartimento. L’eccesso di riunioni è una delle cose di cui ci lamentiamo. Eppure in nessuna di queste riunioni abbiamo l’opportunità di riflettere realmente sul nostro lavoro. Discutiamo dell’andamento didattico-disciplinare degli studenti, della gestione della scuola, della programmazione annuale ed individuale. Ma perché facciamo scuola? E’ una domanda di fronte alla quale spesso siamo soli. I circoli di cultura creati da Freire erano dei luoghi dialogici per la formazione degli adulti. Dei circoli di cultura di docenti potrebbero essere le strutture adeguate per l’auto-formazione e l’auto-aggiornamento, per lo scambio di pratiche, per l’arricchimento culturale reciproco, ma anche per riconquistare quello slancio collettivo, quella voglia di smettere il vestito vecchio e provare il nuovo – anche a costo di restare nudi per qualche tempo – senza la quale non ci sarà che la sempre più stanca ripetizione di ciò che da gran tempo ha perso il suo senso. C’è una cosa che accomuna queste pratiche. Anzi due. La prima è che non costano nulla (anche l’apprendimento-servizio, che negli Stati Uniti è finanziato dal governo, si può fare investendo le sole risorse umane della scuola). La seconda è che riguardano i rapporti, la relazioni umane. Sono fermamente convinto che il punto nevralgico sul quale agire sia questo. La scuola è malata di rapporti falsi, inautentici, asimmetrici, che non fanno crescere. Fino a quando studenti e docenti non diventeranno membri di una comunità di ricerca, aperta al mondo esterno, non si avrà nessuna buona scuola.

Per approfondire
Sul Danilo Dolci e la maieutica reciproca rimando al mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, Edizioni del Rosone, Foggia 2012 (si può scaricare qui: http://educazionedemocratica.org/?page_id=2010) ed al libro di Francesco Cappello Seminare domande. La sperimentazione della maieutica di Danilo Dolci nella scuola, EMI, Bologna 2011. Sul service learning si veda: M. N. Tapia, Educazione e solidarietà. La pedagogia dell’apprendimento-servizio, Città Nuova, Roma 2011 e A. Vigilante, Il service learning: come integrare apprendimento ed impegno sociale, in Educazione Democratica, n. 7, gennaio 2014 (http://educazionedemocratica.org/?p=2777). Su Student Voice: Aa. Vv., Student Voice. Prospettive internazionali e pratiche emergenti in Italia, a cura di V. Grion e A. Cook-Sather, Guerini e Associati, Milano 2013.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 5 maggio 2015.

Risposte sulla scuola

Andrea Gilardoni ha avuto la bontà di replicare con un suo articolo al mio La crisi culturale della scuola italiana, “ennesimo articolo negativo sulla scuola italiana in un periodo in cui le scelte del governo potrebbero risultare decisive per il nostro futuro” – come se il governo non aspettasse che il mio articolo per bistrattare la scuola, ed eventuali provvedimenti negativi dovessero essere messi sul mio conto. Avrei apprezzato maggiormente la sua replica, devo dire, se si fosse limitato a discutere le mie tesi, evitando osservazioni antipatiche sulla mia persona (e paradossalmente facendomi al contempo la lezione sul galateo della discussione). Spero che non me ne vorrà se nella mia controreplica mi limiterò agli argomenti. 
Vediamo dunque le critiche punto per punto. 
Primo punto. “A scuola si insegna il pensiero critico e lo si esercita (quasi sempre)”, afferma Gilardoni. Non aggiunge altro. Una affermazione apodittica: prendere o lasciare. Al terzo punto aggiunge: “i metodi didattici sono infinitamente differenziati”. Le due affermazioni vanno discusse insieme, perché la mia tesi è che nella scuola italiana non si insegna il pensiero critico prevalentemente per il ricorso assolutamente preponderante alla lezione frontale. Una scuola nella quale il docente parla, ripetendo in modo più o meno fedele quello che c’è scritto nel libro di testo, e gli studenti a casa studiano il libro, magari integrandolo con gli appunti presi a lezione, per prepararsi all’interrogazione, durante la quale ripeteranno quello che dice il libro e quello che ha detto il docente, non è una scuola che abitua e forma al pensiero critico. Mancano due cose. La prima è la ricerca autonoma, anche se guidata dal docente, del sapere. Lo studente è passivo, riceve un sapere già confezionato, che bisogna digerire così com’è. La seconda è la riflessione comune sulle cose studiate: il momento in cui le informazioni acquisite vengono passate al vaglio, appunto, della critica. Per fare queste due cose occorrono metodologie diverse dalla lezione frontale. 
Ma in base a cosa posso dire che la scuola italiana è ancora fondata sulla lezione frontale? Su cosa si basa il mio giudizio sulla scuola italiana? Su quattro cose: 
Uno. La mia esperienza di docente. Insegno da più di quindici anni; ed ho insegnato alla scuola media, agli istituti tecnici, ai licei, ai professionali, sia al sud che al centro-nord. La mia esperienza naturalmente non è assoluta – nessuna esperienza lo è. Ma è vasta. Certo più vasta di quella di chi ha sempre insegnato in un liceo. O di chi parla di scuola senza aver mai insegnato. 
Due. Il confronto con i colleghi di ogni parte d’Italia, sia fisicamente che in rete. Confronto che raramente mi ha aperto spiragli su modi di fare scuola diversi da quello tradizionale della lezione. 
Tre. La considerazione del setting. Per fare scuola in modo diverso occorre una diversa organizzazione dello spazio scolastico. Occorrono tavolini al posto ei banchi, spazi aperti, niente cattedre. Basta entrare in una qualsiasi scuola italiana per constatare che invece nel nostro paese il setting scolastico prevede una cattedra che fronteggia file di banchi. Un setting che era considerato superato da Dewey già alla fine dell’Ottocento, e che è funzionale alla lezione frontale. Non manca qualche coraggioso tentativo di riorganizzazione degli spazi, come quello del “Majorana” di Brindisi; ma si tratta di iniziative isolate e sporadiche. 
Quattro. La lettura di buona parte dei libri sulla scuola scritti dai docenti italiani. Si tratta di un filone letterario che, a quanto pare, tira parecchio e non conosce crisi. E l’immagine che ne emerge della scuola, anche quando si tratta di libri piene di romanticherie, non è propriamente quella di una scuola metodologicamente all’avanguardia. Faccio qualche esempio. I libri più discussi ed apprezzati in sala docenti degli ultimi anni sono senza alcun dubbio quelli di Paola Mastrocola. Il suo ultimo libro sulla scuola – Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare (Guanda, Modena 2011) – sostiene la tesi che chi non vuole studiare farebbe bene a starsene a casa. Ora, che cosa vuol dire scuola? Semplice: “l’insegnante spiega, l’allievo studia, l’insegnante interroga e l’allievo ripete”. Tutto qui [1]. Mi pare che non ce ne sia molto, qui, di pensiero critico. Un libro recente di grande successo – ad un livello diverso – è quello di Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per una erotica dell’insegnamento (Einaudi, Torino 2014). “Un insegnamento degno di questo nome non inquadra, non uniforma, non produce scolari, ma sa animare il desiderio di sapere. Per questa ragione ogni insegnamento che sia tale muove l’amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto in cui consiste in ultima istanza il fenomeno che in psicoanalisi chiamiamo ‘transfert'”, scrive Recalcati. Ed ha molta ragione, così come ha ragione nel considerare il docente non come colui che possiede un sapere o una verità, ma come colui che li ricerca. Ma cosa fare, in concreto, a scuola? Qui finiscono, sembra, le competenze di Recalcati, che non va al di là dell’evocazione di una lezione appassionata ed appassionante – ma pur sempre lezione. Immagino l’obiezione: una lezione appassionante non è sufficiente a stimolare il pensiero critico? A me pare che faccia venire in primo piano soprattutto la figura del docente. Può essere che molti studenti si appassionino e si mettano a studiare seriamente la sua disciplina, così come può essere che si innamorino del docente e cerchino di scimmiottarlo. Per usare il lessico psicoanalitico di Recalcati, in questo caso, attraverso la lezione, il docente diventa un oggetto erotico. Per presentarsi davvero agli studenti come colui che cerca il sapere, e non come colui che lo possiede, dovrebbe rinunciare alla lezione e mettersi realmente a fare ricerca insieme ai suoi studenti. Socrate non faceva lezione. Interrogava e cercava insieme. Un terzo esempio è Cosa significa insegnare? della filosofa Eleonora De Conciliis (Cronopio, Napoli 2014). Anche qui si leggono cose sensatissime su come dovrebbe essere la scuola. Per l’autrice l’insegnante ha in primo luogo il dovere di dire la verità e di insegnare a sospettare dello stesso sapere che trasmette: “‘v’insegno questo perché c’è un’istituzione che mi costringe, ma al tempo stesso vi dico come storicamente si è giunti a questa costrizione’”. Il paradosso di questa posizione appare evidente però quando si legge, poco più avanti: “l’insegnante parresiasta può fabbricare soggetti autonomi in grado di non farsi fregare da un mediocre pastore o dalle forme mediatico-populistiche assunte dall’economia politica”. Si fabbricano cose, non persone. Si formano soggetti autonomi coinvolgendoli nel processo di formazione e nella ricerca comune degli aspetti problematici del sapere tradizionale. Anche qui, invece, non si va oltre la lezione, dal punto di vista metodologico. Sia in Recalcati che in De Conciliis la scuola ha ancora al centro il docente che parla. Lo studente appare sullo sfondo, come un soggetto passivo, che si lascia innamorare del sapere o “fabbricare” dal docente demiurgo. 
Punto secondo. A scuola non si trasmette solo la cultura italiana ed europea, come sostengo io, ma anche quella extraueropea, sostiene Gilardoni. Qui si fa presto: basta dare uno sguardo alle Indicazioni nazionali, quelli che una volta si chiamavano programmi. Autori raccomandati al secondo biennio di filosofia del classico: presocratici, sofisti, Socrate, Platone, Aristotele, scuole ellenistiche, Agostino eccetera. Non un solo pensatore orientale. Storia dell’arte: “Nel corso del secondo biennio si affronterà lo studio della produzione artistica dalle sue origini nell’area mediterranea alla fine del XVIII secolo”. E così via, per le altre discipline e le altre tipologie di scuola. Mi dica Gilardoni, se mi sono distratto, in quale tipologia di scuola, e nell’ambito di quale disciplina, viene raccomandato lo studio di Nagarjuna, o di Chuang-tzu, o del Mahabharata, o del Genji Monogatari
Quarto punto. “Il precariato intellettuale non è faccenda che riguardi la scuola, dove i pochi precari esistenti sono comunque pagati tutto l’anno e, probabilmente, a breve saranno anche tutti assunti”, scrive Gilardoni. Mi piacerebbe condividere il suo ottimismo; ma non è questo il punto. Nel mio articolo sostenevo che oggi è difficile motivare gli studenti allo studio dicendo loro che studiare serve ad affermarsi nella vita, perché questa affermazione è semplicemente falsa. Oggi esistono persone con più di una laurea, che sono disoccupate o precariamente occupate. Spero che Gilardoni non voglia negare questo fatto evidente. 
Quinto e sesto punto. “La scuola forma anche i nuovi docenti, e lo fa quasi sempre bene, meglio dell’Università”. Non me ne voglia Gilardoni, ma questa affermazione mi ha fatto sorridere. Il cosiddetto anno di prova è stata una delle maggiori buffonate della mia carriera scolastica. Una sorta di pro-forma, con lezioni online dai contenuti molto discutibili ed un esame-farsa finale. La valutazione finale dell’anno di prova dovrebbe essere rigorosissima, e fermare quei docenti che non sono adatti all’insegnamento. Può essere che sia male informato, ma non sono a conoscenza, invece, di casi di docenti che siano stati licenziati per non aver superato l’esame finale dell’anno di prova. 
Settimo punto. “L’alternanza scuola-lavoro, sempre più capillare, è la negazione della presunta scissione tra i due mondi affermata nell’articolo”. L’alternanza scuola-lavoro è una realtà soprattutto negli istituto professionali. Ma quello che contestavo nel mio articolo è il fatto che la scuola italiana riproduce e giustifica la rigida separazione e gerarchizzazione tra sapere intellettuale e sapere manuale-professionale. Ora, gli studenti liceali potranno anche impegnarsi in un lavoro intellettuale, ad esempio presso un museo o una biblioteca: la realtà non cambierà di una virgola. 
Ottavo e decimo punto. “Il servizio sociale è prassi comune in tutte le scuole, dal volontariato organizzato dalla scuola al riconoscimento di quello già praticato in privato”. Confondere volontariato e service learning significa non conoscere il service learning. Anche questo è un segno della scarsa disponibilità al cambiamento ed alla sperimentazione di molti docenti italiani: qualsiasi proposta innovativa viene ricondotta, in men che non si dica e prima ancora di averla compresa, a qualche pratica consolidata, per giungere alla trionfante conclusione: “Ma noi questo lo facciamo già”. “Se poi si vuole proprio usare il modello statunitense (ma perché proprio quello, con tutti quelli, di gran lunga migliori, che ci sono?), si ricordi che quando la valutazione è internazionale, gli Stati Uniti non fanno proprio una bellissima figura”, aggiunge Gilardoni. Proporre il service learning non vuol dire affatto proporre un modello americano. Il service learning è diffuso praticamente in tutto il mondo, ed è una realtà importante in America Latina, dove si ispira alla pedagogia critica di Paul Freire. Esistono numerosi studi sui risultati positivi dell’introduzione del service learning su diversi aspetti: miglioramento dal punto di vista disciplinare, maggiore frequenza, maggiore partecipazione, migliori risultati in diverse discipline, e così via [2]. Se i risultati di un sistema scolastico che fa ricorso al service learning non sono i più brillanti nel confronto con gli altri paesi, bisognerebbe chiedersi quasi sarebbero i risultati senza il service learning (al di là del fatto che la metodologia è efficace su dimensioni fondamentali, come la formazione etica, politica ed alla cittadinanza, generalmente trascurate quando si valuta a livello internazionale l’efficacia di un sistema scolastico). 
Nono punto. “La separazione classista è una bufala, mentre invece conta la cultura dei genitori”, dice Gilardoni. Ma è esattamente quello che sostengo io, e che evidenziano numerose analisi del sistema scolastico italiano: la scelta della scuola secondaria, e la scelta di continuare all’università, riflettono la situazione di partenza della famiglia. Coloro che hanno genitori diplomati o laureati frequentano i licei, gli altri vanno ai professionali. Ed all’università vanno soprattutto quelli che hanno genitori a loro volta laureati. Il che vuol dire che la scuola italiana non fa che riprodurre e confermare le differenze di classe esistenti nella società.
Le critiche di Gilardoni, che mi hanno costretto ad una replica lunga, puntigliosa e probabilmente molto noiosa, non hanno sfiorato nemmeno il tema centrale del mio articolo, che è nella domande: che tipo di cultura si fa oggi a scuola? che senso ha oggi insegnare? possiamo insegnare oggi come venti anni fa? Nei libri citati di Recalcati e di De Conciliis ci sono delle risposte a queste domande meritevoli di considerazione. La mia risposta è che la scuola può riconquistare significato soltanto se docenti e studenti conquistano il senso della cultura come ricerca, lotta e costruzione comune di un mondo migliore, superando l’individualismo insito tanto nella concezione della cultura come formazione personale, quanto nella promessa di affermazione sociale e lavorativa. Si tratta, né più né meno, di quel “sortire insieme” di cui parlava Don Lorenzo Milani. 
Note 
[1] Rimando alla mia recensione su Educazione Democratica, n. 2, giugno 2011
[2] Si veda A. Vigilante, Il service learning: come integrare apprendimento ed impegno sociale, in Educazione Democratica, n. 7, gennaio 2014
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 7 marzo 2015.

La crisi culturale della scuola italiana

La qualità di un sistema scolastico è data da quattro cose: qualità della cultura, qualità delle relazioni umane, qualità dell’apertura alla società, qualità strutturale. Un sistema scolastico che funziona è un sistema nel quale la cultura è viva, piena di senso, tale da appassionare, le relazioni umane sono reciprocamente arricchenti e prive di violenza e di ipocrisia, le scuole non sono chiuse in sé ma partecipano alla vita sociale, alla quale offrono un loro contributo, e le strutture sono tali da rispecchiare l’importanza del lavoro che si svolge in esse. 
In questo articolo vorrei soffermarmi sul primo punto: la qualità della cultura nella scuola italiana. Ritengo che una delle ragioni della crisi della scuola italiana vada cercata nella crisi culturale, nel fatto cioè che a scuola non si fa – non si fa più o non si è mai fatta: se ne potrebbe discutere – cultura autentica. I docenti italiani si autorappresentano come coloro che formano le nuove generazioni al pensiero critico. Non c’è molto di vero in questa autorappresentazione. Per la sua stessa struttura, perfino per il setting delle aule, la scuola favorisce più il pensiero convergente ed il conformismo che il pensiero critico. Lo studente a scuola per lo più impara, spesso a memoria, le cose dette a lezione dal docente, che a loro volta rispecchiano quanto è scritto nel manuale, e lo ripete durante l’interrogazione. E’ lo schema dominante, ed è uno schema che ha poco a che fare con una vera formazione intellettuale. Lo schema è talmente consolidato, che molti docenti si chiedono sinceramente cos’altro si potrebbe fare. Fare scuola è fare lezione. Il docente parla, gli studenti ascoltano ed assimilano. Poi ripetono. 
Soffermiamoci ancora un attimo sulla figura del docente. Che si autorappresenti come formatore di coscienze critiche, mentre lavora in una istituzione conformistica, è cosa comprensibile. Il suo prestigio sociale ha subito un calo verticale negli anni, lo stipendio lascia a desiderare, spesso la sua stessa situazione lavorativa è precaria: a più di quarant’anni insegue ancora una supplenza, ed è spaventato da ogni annunciata riforma scolastica (ed ogni governo ne annuncia una). E’ comprensibile che rivendichi il suo fondamentale ruolo sociale. La sua frustrazione aumenterebbe, se si soffermasse a considerare il modo in cui è stato selezionato. Ad un docente in Italia non si chiede se non di saper insegnare la sua disciplina; che sappia anche far ricerca nel suo campo disciplinare è superfluo. In altri termini, il docente è uno che non produce cultura, ma la trasmette. Se scrivesse un libro, quel libro non avrebbe alcun peso sul suo curriculum; e la stessa cosa varrebbe se ne scrivesse dieci. Si giunge a questo curioso paradosso: un docente di scuola secondaria che superasse l’abilitazione per l’insegnamento universitario sarebbe adatto, appunto, ad insegnare all’università, ma questo non gli darebbe comunque alcun vantaggio nella scuola secondaria: non sarebbe titolo preferenziale, ad esempio, se volesse ottenere un passaggio di cattedra sulla disciplina per la quale è abilitato all’insegnamento universitario. Lo Stato stabilisce che puoi insegnare filosofia all’università, ma questo non ti avvantaggia per insegnare filosofia al liceo. Sono due mondi a parte, privi di qualsiasi punto di contatto. 
Una scuola che intendesse formare al pensiero critico dovrebbe avere docenti capaci loro stessi di pensiero critico: vale a dire docenti ricercatori. Il contatto tra scuola ed università dovrebbe essere costante e la produzione intellettuale dei docenti valorizzata anche economicamente. E’ significativo che le periodiche proposte di differenziazione dello stipendio dei docenti in base alle loro funzioni non considerino la produzione intellettuale. Non si vuole che guadagni di più il docente che scrive libri; meglio premiare quello che fa più progetti, quale che sia la loro utilità. 
Il docente che trasmette una pseudo-cultura condensata nei libri di testo è il primo aspetto della crisi della cultura scolastica italiana. Il secondo aspetto è la crisi di senso. Perché si studia? Che senso ha la cultura? A che serve? Alla domanda il docente-trasmettitore risponde con una certa sicurezza, almeno se è un docente liceale. Si studia per farsi una cultura personale, ossia per diventare persone migliori (perché è fuori discussione che il colto sia una persona migliore dell’incolto); e al tempo stesso così facendo si diventa persone affermate, che trovano un posto nella società. La risposta non convince per diverse ragioni. La prima è che è sempre meno vero che studiare serve a conquistarsi un posto nella società. Esiste oggi un nuovo proletariato intellettuale, super-formato, che insegue lavori precari a vita – un nuovo proletariato di cui spesso lo stesso docente fa parte. D’altra parte, la cultura scolastica non è che una parte – ed una piccola parte – della cultura reale, e non è da escludere che la cultura vera, quella viva, si trovi al di fuori delle aule scolastiche. Ma il punto decisivo è un altro. La concezione della cultura come formazione individuale pecca, appunto, di individualismo. Questo soggetto che passa anni ed anni a curare sé stesso, per di più in un contesto competitivo (perché la scuola è competizione), riuscirà poi a diventare un membro responsabile della società? Chi e quando gli ha insegnato a lavorare insieme agli altri per il bene comune? Quella che manca alla scuola italiana è la concezione della cultura come servizio: studiare non perché così divento migliore, né perché questo mi permetterà di far carriera, ma perché studiando posso dare il mio contributo al bene comune. Il mio studio ha senso solo se lo metto al servizio della società. Nelle scuole americane esiste una pratica, il service learning, che è la concretizzazione di questa percezione dello studio e della cultura. Gli studenti devono impegnarsi in attività in favore della comunità, legate al loro studio curriculare. L’aula scolastica non è un mondo chiuso, ma un luogo nel quale si studia la soluzione per i problemi della comunità locale. Il metodo è diffuso anche nei paesi latino-americani, come aprendizaje servicio, e si sta diffondendo anche in Europa. In Italia niente, o quasi. 
La cultura scolastica italiana risente anche della separazione, propria della tradizione occidentale, tra sapere intellettuale e sapere manuale e professionale. Una separazione che naturalmente si intreccia con le differenze di classe. Il sapere intellettuale è riservato ai figli delle classi borghesi, che frequentano il liceo classico e scientifico, mentre il sapere manuale e professionale è riservato ai figli del proletariato. La separazione classista nella scuola italiana funziona in modo infallibile. Ed è una separazione che impoverisce tutti: i professionali, sempre più squalificati, alle prese con carenze strutturali e problemi disciplinari, e gli stessi licei, condannati ad un sapere libresco che non trova alcuno sbocco in un fare, e finisce per avvitarsi su sé stesso. Non c’è grande pedagogista degli ultimi secoli che non abbia evidenziato il valore formativo del lavoro e della professione, e tuttavia la separazione tra le due culture resta quale segno distintivo della cultura scolastica italiana – riflesso di una società nella quale differenze sociali e di distribuzione della ricchezza e delle risorse sono più marcate che altrove in Europa, e la mobilità sociale è bloccata. 
La pseudo-cultura scolastica, libresca e astratta, senza contatto con un fare, è anche una cultura provinciale, miope, asfittica. E’ la cultura occidentale, con in primo piano quella italiana. Mica poco, si dirà. Poco, invece; pochissimo in una società globalizzata. E’ un pezzettino di cultura occidentale che nulla sa e nulla vuole saperne delle culture altre, sicura di sé e della propria superiorità. Il liceale si inorgoglisce per l’Iliade, ma nulla sa del Mahabharata; lo conoscerà, forse, uscendo da scuola, se è una persona curiosa; o forse non lo conoscerà mai, ritenendo che al di fuori dell’Europa non si sia scritto nulla di significativo. Dalla scuola italiana si esce con la convinzione che la civiltà europea sia la civiltà per eccellenza, che la Grecia abbia insegnato la democrazia al mondo, ed altre sciocchezze simili. Il resto non esiste, e merita al più una nota a margine, una digressione curiosa. La scuola italiana è strutturalmente non attrezzata per comprendere l’altro, al di là delle dichiarazioni di principio sull’interculturalità e l’accoglienza del diverso. Non lo è, perché è penosamente monoculturale, priva di curiosità per tutto ciò che è al di fuori dei sacri confini dell’Europa. La lezione, ancora onnipresente nella scuola italiana – e l’introduzione di LIM, computer e tablet non la mette realmente in discussione – è la metodologia perfettamente adeguata a questa pseudo-cultura, insieme al suo correlato materiale, il libro di testo. Rinunciare a queste due cose, o ripensarle profondamente, è il primo passo necessario per riappropriarsi di una cultura sensata. 
La verticalità del rapporto docente-studente va spezzata in favore della orizzontalità della comunità che apprende e che è in rapporto aperto e vivo con le diverse comunità che sono fuori dalla scuola. Fin dalle prime classi della scuola primaria, il bambino va abituato non a interiorizzate quello che è scritto in un libro, ma a cercare attivamente la conoscenza, a costruirla, a discuterla. Si tratta di passare da una scuola nella quale l’insegnante, unico soggetto (più o meno) attivo, imprime segni nella mente dell’alunno, ad una scuola nella quale docenti e studenti, membri di una stessa comunità di ricerca, imprimono insieme segni nella più ampia realtà sociale.
Articolo per Gli Stati Generali, 22 febbraio 2015.

Dodici tesi per una scuola conviviale

Vorrei dare il mio contributo alla discussione sulla possibilità di una scuola diversa, avviata da Paolo Mottana (25 idee per una scuola diversa), presentando dodici tesi che costituiscono il nucleo di un libro che sto scrivendo, ed il cui titolo sarà La scuola conviviale. L’aggettivo conviviale fa riferimento da un lato al Convivio platonico e dall’altro alla convivialità di Ivan Illich (La convivialità). Si tratta, in breve, di ripensare la scuola – la scuola pubblica – mettendo al centro due cose: le relazioni, che devono essere aperte, simmetriche, dialogiche, ed il rapporto tra scuola e mondo economico-sociale, che non deve essere di riproduzione, ma di ripensamento critico, alla ricerca di nuovi modelli di sviluppo e di realizzazione umane.
Sarò grato a chi vorrà discutere le tesi.

Prima tesi

La scuola conviviale è fondata sul dialogo non solo tra studenti e docenti, ma degli studenti tra loro. Studenti e docenti costituiscono una comunità che apprende, studia, ricerca e cresce insieme.

Seconda tesi

La scuola conviviale fa dunque a meno della relazione asimmetrica tradizionale tra docenti e studenti, ed instaura invece una simmetria dinamica, perché tesa verso la crescita comune. Il darsi del tu è il segno esteriore, ma non superficiale, di questo cambiamento.

Terza tesi
La scuola conviviale è una scuola serena, nella quale gli inevitabili conflitti vengono affrontati con gli strumenti del dialogo e della ragione. La serenità, l’armonia, la bellezza che sono elementi indispensabili di una situazione educativa saranno espressi anche esteriormente nell’ambiente dell’aula.


Quarta tesi

La scuola conviviale è un laboratorio di critica sociale. Questo non vuol dire che a scuola si debbano insegnare concezioni critiche verso il sistema e cercare di formare dei rivoluzionari: ciò sarebbe indottrinamento. Vuol dire, invece, che nella scuola si discute in modo aperto e critico del sistema sociale, economico, assiologico. Il problema del rapporto tra scuola e mondo esterno di risolve così: la scuola è il luogo in cui il mondo esterno viene passato al vaglio della critica. Il sistema sociale ed economico ha una straordinaria pervasività; alla scuola spetta il compito di rifiutarsi di essere una delle tante agenzie pubblicitarie del capitalismo, ed offrire agli studenti visioni del mondo alternative.

Quinta tesi
La scuola conviviale mette tra parentesi tutti i sistemi ideologici, religiosi, assiologici. Il suo atteggiamento di fondo è la scepsi, intesa come ricerca. Come tale, è rigorosamente laica, anche se non anti-religiosa.
Sesta tesi
La scuola conviviale riflette criticamente su sé stessa in quanto istituzione, configurandosi come meta-scuola.
Settima tesi
La scuola conviviale non si considera l’unico luogo in cui sia possibile un apprendimento reale ed una crescita umana completa. Ritiene, invece, che sia possibile imparare ovunque, e che la scuola sia solo uno dei tanti luoghi di apprendimento possibile.
Ottava tesi
La scuola conviviale è aperta ai saperi tradizionalmente esclusi dalla scuola, anche per ragioni di classe.
Nona Tesi
La scuola conviviale è aperta al contributo di molteplici soggetti. Sa che ascoltare le persone è uno dei modi migliori per imparare e crescere. E dunque ascolta il contadino, l’operaio, la casalinga, il commerciante, l’immigrato e così via.
Decima tesi
La scuola conviviale non è eurocentrica, ma guarda con interesse a tutte le culture del mondo. La scuola conviviale considera criticamente tutti i contenuti culturali, cercando diverse interpretazioni, punti di vista alternativi, fonti minori.
Undicesima tesi
La scuola conviviale considera il sapere come contributo al bene comune.
Dodicesima tesi
La scuola conviviale si occupa dell’educazione spirituale non meno che dell’educazione intellettuale.
Articolo scritto  per Comune-info.

L’angelo della buona borghesia

Rovistando tra le bancarelle d’un mercatino mi è capitato, di recente, di ritrovare uno dei non molti libri letti al tempo delle scuole medie: Le scapole dell’angelo di Giovanna Righini Ricci (1973). Ricordo che il libro, che era una lettura scolastica, inaspettatamente mi piacque, al punto che della stessa autrice lessi anche, vincendo la mia assoluta antipatia per la lettura, Là dove soffia il mistral, un romanzo ambientato nella Camargue, che mi piacque ancor di più. L’ho preso dunque, il libro; e l’ho riletto. A metà della vita queste riletture servono a ricostruire il puzzle della propria identità, a capire perché – per quali influenze – siamo diventati quello che, nel bene o nel male, siamo. In qualche caso, anche, a capire nonostante chi e nonostante cosa siamo diventati quello che, nel bene e nel male, siamo.

Il romanzo di Righini Ricci è la storia di un gruppo di ragazzini in età da scuola media in una metropoli del nord. Vero protagonista è Lorenzo, un immigrato meridionale – ed all’immigrazione rimanda l’immagine di copertina, la foto di una donna con un bambino alla stazione, ingombra di valigie: lo stereotipo del meridionale con la valigia di cartone. E’ un bravo ragazzo, questo Lorenzo, ma parecchio disadattato, con una inopportuna nostalgia per il paesello natale da cui si libererà solo dopo aver scoperto, durante una breve vacanza, che anch’esso ha subito le trasformazioni imposte dalla modernità
Il messaggio del libro è naturalmente positivo, progressivo, rassicurante. Questi ragazzetti, che parlano come un libro stampato (anche Lorenzo e la sua famiglia proletaria), sono bravi giovani, alle prese con l’incomprensione dei genitori, le difficoltà di costruirsi una personalità, la città anonima e tutti gli altri problemi attuali degli anni Settanta (e Ottanta). Prendiamo Lorenzo. Si imbatte, un giorno, in una banda di teppisti che lo malmenano e gli strappano il giacca; ma il giorno dopo fa un incontro più piacevole: una ragazzetta più piccola di lui che a scuola lo vede così conciato e, come nulla fosse, tira fuori dalla borsa ago e filo e si mette a rammendargli la giacca. Questa ragazzina, che si chiama Rossella, è uno dei personaggi positivi del romanzo. E’ ancora una bambina, ma è già molto religiosa, e riesce a trascinare il riluttante Lorenzo ad un incontro spirituale, momento importante della sua maturazione personale.
Quando la piena del fiume travolge la case dei poveri, questi ragazzetti costituiscono una squadra di volontari e si adoperano per liberare dal fango la tipografia del quartiere, mentre le proteste della gente ottengono la costruzione di uno scolmatore che impedirà nuovi allagamenti. La fabbrica in cui lavorano i genitori di Lorenzo chiude i battenti, ma anche qui si tratta di una crisi solo momentanea: grazie all’intervento dei politici, e probabilmente all’interessamento del ricco e potente padre di uno dei ragazzetti, la fabbrica viene rilevata da un’altra azienda, e tutti i posti di lavoro sono salvi.
L’apoteosi si ha nel finale. Il nostro Lorenzo è travagliato dal dubbio di non aver collaborato con le forze dell’ordine nella soluzione di un caso che riguarda il fidanzato della sorella. Per sgravarsi la coscienza, va dal commissario e vuota il sacco. E trova un uomo buono e paterno, che gli fa la lezione di vita: “Devi imparare ad avere un po’ più fiducia in te stesso, in noi, nel tuo prossimo, nella bontà della legge, nella vita insomma!”. Parole sante: Lorenzo esce dal commissariato che è un altro: positivo, fiducioso, con voglia di fare. Certo, spiega l’autrice in nota, quando Lorenzo sarà più maturo capirà che “le istituzioni umane hanno anche delle carenze”, ma per il momento è importante “uscire dalle nebbie del dubbio, trovare il proprio posto nel mondo” (corsivo dell’autrice).
Il nostro Lorenzo lo trova, alla fine, il suo posto nel mondo. Vince il dubbio e guarda con fiducia al futuro: “Fra un mese ci sono gli esami. Se tutto va bene, forse potrò iscrivermi a un Istituto Professionale. L’insegnante di italiano mi ha comunicato che posso concorrere per una borsa di studio e non è detto che non ce la faccia: in fondo l’italiano è il mio forte”.
Tra le cose che colpiscono di più, in questo libro, è la rappresentazione della vita scolastica. Nella classe di Lorenzo nessun professore fa lezione; tutti coordinano civilissimi dibattiti su tematiche di attualità. Bello, ma falso. E’ la scuola come dovrebbe essere, ma non come è stata ed è. Cosa è stata ed è la scuola italiana ce lo dice invece la conclusione. Benché sia forte in italiano, il nostro Lorenzo non potrà aspirare al liceo, ma solo – e forse – ad un istituto professionale. Lui, immigrato meridionale e figlio di operai, è un proletario, ed il liceo è per la buona borghesia. Il posto nel mondo degli uni e degli altri è diverso. Dev’essere grazie alla lettura di questo libro se non mi sono meravigliato molto quando, alla fine degli esami delle medie, benché come il nostro Lorenzo fossi abbastanza forte in italiano, lessi sul diploma la raccomandazione di frequentare l’istituto professionale.

Gramellini e il grembiulismo

Massimo Gramellini se la prende con “il pool sicuramente formidabile di pedagogisti” che a Torino habbo deciso di eliminare dalle scuole materne i grembiuli. Dare addosso ai pedagogisti, ritenuti responsabili di tutti i mali del sistema educativo italiano – come se avessero un potere immenso, e quelli che prendono le decisioni non vedessero l’ora di aggiornarsi sulle ultime idee pedagogiche – è ormai una moda. Una moda contro la quale non protesto, perché una categoria che sceglie come propri rappresentanti dei soggetti come Michele Corsi (presidente della Società Italiana di Pedagogia) merita questo ed altro.
Vediamo il ragionamento di Gramellini, piuttosto. I suoi argomenti sono due. Il primo è che il grembiule serviva ad eliminare le differenze economiche e sociali, a partire dall’abito. Il secondo è che la creatività ha bisogno “di un limite da infrangere, essendo la trasgressione la condizione naturale in cui il talento individuale si esprime”.
Il primo argomento sembra avere una sua plausibilità, ma non mi convince. Io l’ho portato, il grembiule, alle elementari; non mi pare che questo abbia contribuito granché ad eliminare le differenze sociali ed economiche. A scuola, grembiule o meno, ognuno sa perfettamente chi sei. Bastano le scarpe, per mostrare le differenze sociali; o quello status symbol che è ormai lo zaino. Dunque il grembiule semplicemente non serve a questo scopo.

Il secondo argomento ha qualcosa di inquietante. Dice, Gramellini, che se vogliamo che i bambini sviluppino la creatività, dobbiamo cominciare col negarla. Cosa diventerebbe, la scuola, applicando questo criterio? Gran parte delle cose che si fanno a scuola sono in effetti poco creative. Facciamo contento Gramellini: eliminiamo quelle poche che sono rimaste. Eliminiamo il disegno, il gioco, il raro dialogo tra alunni e maestri. Stendiamo sull’aula una cappa ancora più scura. E perché poi limitarsi alla creatività? Il ragionamento evidentemente sarà valido anche per altre cose. La libertà, ad esempio. Vogliamo degli adulti liberi? Ma la libertà passa attraverso la trasgressione. E dunque facciamo una scuola bella autoritaria, pieghiamo gli studenti sotto il peso di regole e divieti, rendiamogli la vita impossibile. I più si spezzeranno la schiena, ma qualcuno si ribellerà.
C’è nel discorso di Gramellini quell’errore che chiamo paradigma dell’imbuto, e che è ben presente anche nei discorsi dei pedagogisti. Consiste nel ritenere che l’educazione sia quell’azione che trasformare questa-persona-qui in una persona-ideale, pensata da noi. Vogliamo un adulto creativo, e dunque neghiamo la creatività ai bambini. Il discorso non fila semplicemente perché esiste un rapporto necessario tra mezzi e fini, ma non andrebbe bene nemmeno se si stabilisse di fare una scuola creativa per avere degli adulti creativi. La scuola dev’essere un luogo creativo per un’altra ragione: perché la creatività ci fa stare bene. E’ questo il paradigma della situazione, che contrappongo al paradigma dell’imbuto.
L’educazione accade quando, qui ed ora, delle persone fanno insieme delle cose significative; quando sono felici, vive, pienamente in rapporto con sé stesse e con gli altri. Mi sfugge quale contributo possa dare a questa piena esperienza di sé e dell’altro il grembiule. Che mi pare, piuttosto, il simbolo esteriore di quel livellamento ed appiattimento che rappresenta se non lo scopo manifesto, certo il risultato effettivo di tanta scuola italiana.

Le false domande del burocrate ministeriale

Da qualche anno nella mia pratica di insegnamento (ossia: nella mia pratica didattica ed educativa) faccio uso della maieutica reciproca di Danilo Dolci. In concreto, vuol dire che appena possibile metto le sedie in cerchio e pongo ai miei studenti un tema di cui discutere (spesso lo propongono loro). Le regole semplici della maieutica reciproca vogliono che il conduttore del seminario favorisca la discussione senza assolutamente imporre il proprio punto di vista, o orientarla in una direzione a lui gradita. E’ questa, mi pare, la più grande difficoltà della maieutica reciproca a scuola. Essa richiede una ridefinizione del ruolo del docente. Abituato da sempre a far lezione, deve ora ridursi, farsi da parte: far parlare gli studenti. Non moralizzare, non giudicare. Se sente cose mal argomentate, può invitare ad argomentare meglio; se sente elogiare la mafia, può invitare a spiegare meglio perché la mafia è una cosa buona: ma senza emettere giudizi o condanne.
Alla maieutica reciproca corrisponde una particolare concezione della scuola e dell’educazione. Per la prima, mi piace l’espressione scuola conviviale, pensando sia al Convivio platonico che ad Illich. Quanto alla seconda, confesso che abolirei il termine stesso, sostituendolo con la parola sinagogia, che vuol dire educarsi insieme. Ritengo, infatti, che si abbia il diritto di educare qualcuno ad una sola condizione: quella di lasciarsi al contempo educare. L’educazione non è un’azione che un soggetto compie su un oggetto, ma un movimento comune di due o più soggetti.
Una scuola conviviale è, dunque, una scuola in cui ci sono molte domande e si cercano insieme le risposte. Nella scuola in genere le domande sono domande retoriche. Domande che hanno già una risposta, che è in possesso del docente. Quando un docente fa una domanda, sa già come lo studente dovrà rispondere. C’è la risposta esatta e la risposta sbagliata. In termini psicologici, si può dire che la scuola favorisce il pensiero convergente, non quello divergente. Il che non vuol dire, come potrebbe sembrare, educare all’oggettività, ma abituare al conformismo ed alla pigrizia mentale. E’ la scuola del manuale e del professore come interprete del manuale, che concepisce il sapere come un pacchetto preconfezionato da consegnare allo studente, un boccone da mandare giù senza masticarlo troppo.
Dopo aver insegnato per un anno scienze sociali con questo metodo, ho accompagnato i miei studenti di quinta agli esami di Stato. La seconda prova di scienze sociali (al Liceo delle Scienze Sociali: liceo che dal prossimo anno non esisterà più) prevede che gli studenti svolgano due quesiti a scelta tra quattro proposti. In ogni quesito c’è un testo, seguito da alcuni punti da trattare. Questo è il terzo quesito della traccia di quest’anno:

«Nel dibattito pubblico attuale c’è una parola che ricorre in modo sistematico: visibilità. Non c’è riunione di azienda, pubblica o privata, non c’è riunione all’università o negli organismi sociali in cui non ci si preoccupi di rendere visibile l’azione esercitata o che non ci si dimostri consapevoli della necessità di rendersi visibili per attirare l’attenzione. Non c’è partito politico o dirigente che non se ne prenda cura con puntiglio e continuità. L’insieme delle pratiche sociali si confronta attualmente con le regole, o piuttosto, con le esigenze, spesso paradossali, della mediatizzazione permanente. Nelle società occidentali del XIX secolo l’intimo doveva essere taciuto. In queste stesse società, un rovesciamento dei valori induce oggi ad abbandonarsi a un’esibizione dell’intimo per poter esistere. Nella nostra società l’invisibile vuole dire insignificante e oltre l’inesistente. […] Il visibile e l’immagine fanno indietreggiare l’invisibile, che da quel momento è screditato, ritenuto inutile.»
Nicole AUBERT e Claudine HAROCHE, Essere visibili per esistere: l’ingiunzione alla visibilità, in N. AUBERT e Cl. HAROCHE (a cura di), FARSI VEDERE. La tirannia della visibilità nella società di oggi, Giunti Editore, Firenze-Milano 2013
Esponi le tue riflessioni sul testo sopra riportato e rispondi alle seguenti domande:
– come e perché l’esigenza di visibilità ha assunto nella nostra società un’importanza fondamentale?
– si può parlare di una domanda di legittimità e/o di riconoscimento?
– è solo negativa l’esigenza di visibilità?
– al cartesiano “Penso, dunque sono” si è sostituito un “Mi vedono, dunque sono”?

Ecco all’opera la scuola trasmissiva. C’è un testo di due sociologi che presenta una tesi che, come ogni tesi nel campo delle scienze sociali, si può e si deve discutere. Se si fosse proposto semplicemente agli studenti di analizzare e commentare la traccia, sarebbe stato un ottimo esercizio. Ma chi ha pensato la traccia voleva qualcosa di diverso. Non voleva che gli studenti ragionassero per conto loro, usando anche le cose studiate, sul testo proposto. Aveva invece in mente uno svolgimento del quesito: il suo. Le quattro domande che seguono il testo non sono vere domande. Servono a indirizzare lo svolgimento in una certa direzione. Se le prime due domande paiono legittime, la terza già contiene una tesi (la visibilità è anche positiva), mentre l’ultima è un invito a consentire senz’altro con la tesi, peraltro tutt’altro che originale e piuttosto moralistica, del burocrate ministeriale: al cogito si è sostituito il “mi vedono, dunque sono”. Ho anche l’impressione che il burocrate (che dimentica, se non altro, l’esse est percipi di Berkeley) non abbia troppa stima dei nostri studenti, perché la “riflessione” proposta e così accuratamente favorita ha l’aria più di una chiacchiera televisiva che di una approfondita analisi sociologica. 

9 maggio, venerdì

Aprile ci ha traditi, con le sue nuvole il suo freddo le sue piogge, ma a maggio l’aula non ci trattiene. Ci troviamo un posto nell’erba, in un angolo all’ombra. L’erba è stata tagliata da poco, c’è un buon odore di camomilla. Seminario maieutico. Il cerchio è imperfetto, perché qualcuna non se la sente di sedersi nell’erba, ha paura di sporcarsi i jeans o di essere presa d’assalto dagli insetti o dalle lucertole; ma va bene anche così. Il tema è: quali sono le nostre paure? Lo hanno scelto loro. E vengono fuori una ad una, le nostre paure: di morire, di soffrire, ma anche di fare del male agli altri; ed ancora: di deludere o di non essere all’altezza delle situazioni. La nostra fragilità, messa lì sul prato, appoggiata sull’erba tagliata da poco, sulla terra odorosa di camomilla, quasi non fa paura. Cosa possiamo fare?, chiedo. Ma la risposta è già lì. Quello che possiamo fare lo stiamo già facendo. 

Student voice

In occasione della Settimana dell’educazione, che dev’essere una faccenda legata alla visita del papa alle scuole, o qualcosa del genere, nella sala docenti della mia scuola hanno piazzato una scatola con la scritta “La scuola che vorrei”. E’ il contenitore degli elaborati volontari, ed anonimi, degli studenti su quel tema. Poiché la scatola è aperta, chiunque può attingere e leggere. Ed io ho attinto e letto, tra le altre cose, questo biglietto che da solo vale, mi pare, più di tanti tomi di pedagogia:

Come appendice e completamento, valga la conclusione di quest’altro biglietto:

(Ad onor del vero i miei studenti da quando è iniziata la primavera hanno assaporato più di una volta il piacere di far lezione sull’erba.)

Dobbiamo proprio rileggere Pirsig

Robert M. Pirsig

Mi sto convincendo che la via migliore per uscire dal pantano in cui è caduta la scuola pubblica sia quella di non rilasciare più alcun titolo di studio e di non mettere più voti. A scuola il voto, che dovrebbe essere un mezzo, diventa il fine. Non si viene per imparare, ma si impara (per lo più: si fa finta di imparare) per avere il voto. E poi il diploma. Di qui il mercanteggiare sulle pagine da studiare (“professore, toglieteci questo e quest’altro”), le piccole furbizie, gli imbrogli veri e propri. Di qui l’imparare a memoria. Di qui la scuola trasformata in qualcosa di indefinibile – una triste ed inutile eterotopia.

Discuto di questa idea con alcuni colleghi nel newsgruoup it.istruzione.scuola. Una collega con cui molti anni fa ho discusso a fondo di molte cose commenta: “Comunque dobbiamo proprio rileggerci il Pirsig”. Non colgo il riferimento, finché lei non prosegue con la citazione:
Il più grosso problema dello studente è una mentalità da mulo, inculcatagli da anni di politica del bastone e della carota. L’abolizione dei voti e dei diplomi non si propone di punire i muli o di liberarsi di loro, ma di creare un ambiente in cui ogni mulo possa trasformarsi in un uomo libero.
Così tornerebbe alla nostra scuola senza voti e senza diplomi, motivato questa volta non dai voti ma dalla conoscenza. Lo stimolo a imparare gli verrebbe dal di dentro. Sarebbe un uomo libero. Non avrebbe bisogno di disciplina per la sua formazione, anzi, se i professori dei suoi corsi non si impegnassero a dargli quel che cerca sarebbe lui a metterli in riga con qualche domanda fuori dai denti. 

Ho letto Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta quasi dieci anni fa; lo ricordo come un bel romanzo di viaggio con fastidiose velleità filosofiche. Vado a controllare la mia edizione. Il passo citato è a pagina 196 (l’edizione è Adelphi), ed è ovviamente sottolineato.
A quanto pare sì, bisogna rileggere Pirsig.

L’educazione e la sua ombra

Quando si parla di libertà nell’educazione, di rifiuto di ogni forma di violenza educativa, di rispetto rigoroso della personalità del bambino e dei suoi diritti, capita spesso di sentire la seguente obiezione, soprattutto da parte di genitori: “Tutto ciò è assolutamente condivisibile, ma è solo teoria. La pratica dell’educazione è una cosa diversa. Nessun genitore vorrebbe essere violento con i suoi figli, ma crescere dei figli è difficile, ed a volte capita di dover ricorrere alla violenza”. Segue, in genere, la narrazione di qualcuna di queste situazioni estreme, nelle quali sarebbe impossibile seguire i principi di una pedagogia libertaria e nonviolenta.
In genere si tratta di situazioni di due tipi.
La prima situazione è quella di un bambino che si trova in pericolo o che rifiuta qualcosa che per lui è indispensabile. Può essere che il bambino si ostini a fare una cosa che per lui è oggettivamente pericolosa, come attraversare da solo una strada molto trafficata, o che non voglia a nessun costo prendere uno sciroppo che è necessario per la sua salute. Che fare? Non bisognerà rinunciare ai nostri cari principi libertari ed esercitare una qualche pressione, forse anche una violenza? Sarà bene spiegargli perché deve attraversare accompagnato o prendere lo sciroppo, sperando nella sua comprensione. Ma se non comprende, occorre costringerlo senz’altro.

Questo dimostra che non è possibile educare rispettando la libertà del bambino? Non proprio.
E’ importante distinguere l’educazione dall’allevamento. E’ educazione tutto ciò che favorisce la crescita personale, spirituale, morale, intellettuale del bambino; è allevamento, invece, la cura del suo benessere fisico, della sua crescita corporea, della sua incolumità. La relazione tra le due cose è assai stretta, ma non fino al punto che non sia possibile distinguerle. Anche se è destinato ad essere trasceso dall’educazione, l’allevamento ne costituisce la premessa indispensabile: un genitore non può occuparsi della crescita personale del suo bambino senza prima garantirgli la salute e la sicurezza. E’ importante che anche l’allevamento segua il principio del massimo rispetto della personalità del bambino. In passato sono state diffuse pratiche che, in nome dell’allevamento, mortificavano anche fisicamente il bambino: si pensi all’usanza di fasciare i bambini, che qualcuno vorrebbe riportare in auge in nome della presunta saggezza dei vecchi tempi. Se il bambino rifiuta una cosa che riteniamo essere buona per lui, è bene fermarci un attimo a riflettere. Non può essere che abbia ragione lui? Noi pensiamo che faccia freddo e che per questo debba coprirsi. Lui si rifiuta e strilla. Non può essere che abbia caldo, e potrebbe essere per lui dannoso coprirsi?
E tuttavia vi sono casi nei quali non è possibile evitare l’imposizione. Nessun bambino prende una medicina amara con piacere; bisogna costringerlo a prenderla, anche se piange e ri rifiuta, così come bisogna costringerlo a porgere il braccio per fare un prelievo di sangue, e tante altre cose.
Costrizione, dunque. Ma non costrizione educativa. Si tratta di qualcosa che ha invece a che fare con l’allevamento, che rappresenta in questo caso l’ombra, per così dire, dell’educazione. Riguarda indirettamente l’educazione, nel senso che la rende possibile, ma resta una cosa diversa.
E’ errato considerare questi casi di costrizione necessaria la prova dell’inevitabilità della costrizione in educazione.
Vi sono poi i casi disperati. In genere i genitori li raccontano all’esperto – il pediatra, lo psicologo, più raramente il pedagogista – non senza una qualche agitazione. Il bambino è diventato impossibile. Fa i capricci di continuo, è violento, maleducato, rende la vita impossibile ai genitori. Che fare? Chi censurerà mai un genitore che aggredisce verbalmente un bambino insolente, e magari giunge a prenderlo a schiaffi? In effetti, se si considera la scena raccontata dal genitore, pare quasi impossibile dargli torto. A tratti vivaci, ci viene dipinta l’immagine di due poveri genitori vessati da un piccolo tiranno. Ma quella scena può essere compresa soltanto se allarghiamo la visuale. Perché il bambino si comporta così? Può essere che stia vivendo un momento difficile, per varie ragioni. Può essere, ad esempio, che a scuola subisca le angherie di qualche compagno, e che questo lo renda nervoso o irritabile. Può essere che si senta meno amato del fratellino più piccolo, che è al centro delle attenzioni perché più bisognoso di cure. Può essere che i genitori stessi abbiano difficoltà di relazione, e che questa instabilità del sistema-famiglia si rifletta sul bambino. Senza approfondire questo quadro, è difficile capire il comportamento del bambino. Quel che è certo, è che un intervento violento – sia nella forma verbale del rimprovero che in quella fisica dello schiaffo – non ha alcun valore educativo. Otterrà, forse, l’effetto di mettere a tacere momentaneamente il bambino, ma di sicuro non lo aiuterà a crescere.
Dietro la scena raccontata all’esperto di turno c’è, spesso, una intera storia di errori educativi. Se le relazioni con il bambino sono state basate fin dalla nascita su forme diverse di violenza – il rimprovero, il ricatto, la minaccia, la punizione -, è assolutamente normale che il bambino ad un certo punto diventi a sua volta violento e che si comporti in modo da suscitare risposte violente. Le quali a loro volta confermano il comportamento violento, in un circolo vizioso dal quale è molto difficile uscire.
Il bambino ha imparato la lingua della violenza, e imparare un nuovo linguaggio relazionale, già a cinque o sei anni, può essere difficile. Addirittura impossibile, se chi gli sta intorno continua a parlare la vecchia lingua.
E’ chiaro che la domanda “Cosa dovrei fare?”, con la quale si cerca di mettere all’angolo chi sostiene il principio del rispetto educativo e del rigoroso rifiuto di ogni forma di violenza, è una domanda alla quale non è possibile dare che una sola risposta: “Smettere di fare quello che hai sempre fatto”. Ma è una risposta che sono disposti ad ascoltare soltanto quei genitori che di fatto hanno già cominciato a parlare un’altra lingua. Gli altri continueranno a parlare della presunta distanza tra la teoria e la pratica, tra le belle idee dei pedagogisti e la concreta e difficile (e che sia tale nessuno lo negherà) prassi dell’educazione.
Articolo per Il bambino naturale.

Figure dell’amicizia educativa

Ceramica di Duride
L’antichità greca e romana ci offre con la figura del pedagogo una icona dell’educatore come amico. Il pedagogo non è il maestro (in greco didaskalos), ma colui che accompagna dal maestro il bambino e poi il ragazzo. Del maestro non ha l’autorevolezza, anche perché il pedagogo è uno schiavo, e spesso nemmeno parla bene la lingua, essendo straniero (ed a Roma è lui a diffondere la conoscenza della lingua greca); si tratta tuttavia di una presenza fondamentale per la crescita dei giovani (e il suo condurre il bambino darà il nome alla disciplina che studia l’educazione). Dopo aver accompagnato il giovane dal maestro, si siede con lui ed ascolta la lezione. Una volta a casa il pedagogo – che viene rappresentato per lo più come un vecchio calvo: non a caso lo stesso aspetto del maieuta Socrate – aiuta il giovane a ripetere la lezione che ha ascoltato presso il maestro. Vi sono dunque due lezioni: quella del maestro, ossia di un insegnante autorevole ed autoritario, che può ricorrere e ricorre di fatto anche alla sferza per insegnare, e la lezione domestica del pedagogo. Non escludo che anche quest’ultimo, in un contesto nel quale l’educazione è ampiamente fondata sulla coercizione, usasse qualche volta la sferza, ma la sua condizione di schiavo riduce ampiamente le sue possibilità in questo campo. L’eventuale durezza non cambia la natura della relazione, che consisteva in uno stare-accanto, e non in uno stare-sopra. Anche quando è costretto ad imporsi (tra l’altro spetta a lui insegnare le buone maniere), il pedagogo resta un compagno di strada, uno che guida camminando insieme, ascoltando, consigliando, spesso perorando la causa del giovane presso i genitori, preoccupandosi costantemente del suo bene.

L’oriente buddhista ha una espressione per indicare l’amicizia educativa o spirituale: kalyana-mittata. Nella tradizione pedagogica e religiosa indiana il maestro è il guru, colui che guida dalla oscurità alla luce, la guida spirituale che è per il suo discepolo, che vive con lui, un vero e proprio secondo padre. Il buddhismo, che alcuni considerano non una religione distinta, ma un movimento di riforma dello hinduismo, ha contestato alcuni dei punti centrali della società e della cultura religiosa tradizionale dell’India: il sistema delle caste, i sacrifici animali, le divinità. Nel buddhismo non c’è posto per alcuna fede in un Dio. Si tratta, invece, di una pratica (una terapia, per molti versi) di liberazione dalla sofferenza, che è in primo luogo psicologica. L’esistenza umana è piena di sofferenza: identificare le radici della sofferenza e trovare un modo per tagliarle è lo scopo dell’insegnamento del Buddha. Il quale non va accettato senza una indagine razionale personale. Nel Kalama Sutta il Buddha invita a non fidarsi né della tradizione, né delle scritture, né dei maestri, ma a “sapere da noi stessi”, a cercare la conoscenza che nasce dall’esperienza diretta e dall’esame autonomo.
Se le cose stanno così, è chiaro che la figura del maestro viene ridimensionata. Non sarà più colui cui affidarsi – un tale affidamento non ha valore, ed è anzi pericoloso – ma colui che ci aiuta ed accompagna nella ricerca. Tale è il kalyana-mitta, il “buon amico” di cui parlano diversi sutra buddhisti. Per quanto predichi la benevolenza non solo verso gli esseri umani, ma nei confronti di qualsiasi essere vivente, il buddhismo avverte anche del pericolo che nasce dalla relazione con persone che non seguono la via della saggezza. “Non si frequentino come amici i cattivi: non si frequenti la gente vile. Si abbia dimestichezza coi buoni amici, si frequentino i migliori fra gli uomini!”, dice il Dhammapada (VI, 78; qui ed oltre la traduzione è di Pio Filippani-Ronconi), uno dei testi fondamentali del buddhismo. Se la frequentazione dello stolto allontana dalla via della liberazione e ci precipita nel gorgo del vizio, e dunque della sofferenza (per il buddhismo, la sofferenza è una conseguenza inevitabile del male compiuto), avere accanto una persona virtuosa ci aiuta nella nostra crescita spirituale ed etica. In un altro testo fondamentale del buddhismo, Itivuttaka (I, 17) si legge: “Monaci, per il monaco che [ancora] è un discepolo e non è ancora giunto a padroneggiare la mente, ma che risiede nell’aspirazione per la suprema pace dai vincoli e ne fa un elemento riguardante il mondo esteriore (= la sua vita di relazione), io non vedo altro singolo fattore così giovevole quanto l’amicizia con un buon amico. Monaci, chi ha un buon amico [e consigliere] abbandona ciò che non è giovevole e rende a se stesso possibile conseguire ciò che è giovevole”.
Il buon amico non ha alcun potere, non occupa nessuna posizione gerarchica, non ha insegnamenti da trasmettere; è soltanto una persona buona, liberamente scelta, che ci sta accanto nel difficile ed accidentato cammino verso il bene. E’ l’amicizia fondata sulla virtù di cui parla Aristotele. Chi voglia assumere su di sé l’impresa dell’educazione dovrà essere per colui che intende educare un tale amico. Il che non vuol dire offrire sempre un modello di virtù, rappresentare la perfezione morale, colui che ha raggiunto la meta che l’altro deve raggiungere. Se così fosse, verrebbe meno il cammino comune, e con esso l’amicizia. Il buon amico invece è colui che è in cammino, che sa camminare insieme. La differenza tra l’educatore e il cosiddetto educando sta nel fatto che se il secondo, seguendo gli insegnamenti del Buddha, farà bene a tenersi lontano dallo “stolto”, il primo riuscirà a vedere ed a favorire la crescita in lui di quella “natura Buddha”, quel luminoso germe spirituale che secondo lo stesso insegnamento del buddhismo ognuno di noi ha dentro di sé, per quanto spesso così sepolto dall’ignoranza che sembra impossibile farlo affiorare e germogliare.
Articolo per Il bambino naturale.

Don Milani, Gramsci e i bisogni educativi speciali

Negli anni Sessanta uno degli studenti della scuola di Barbiana venne bocciato all´esame presso la scuola statale. Don Lorenzo Milani ne ragionò con i ragazzi della sua scuola, e ne venne fuori quel durissimo atto d´accusa che è la Lettera a una professoressa. Oggi le cose sarebbero andate diversamente. In quanto contadini e montanari, gli studenti di Barbiana sarebbero stati considerati studenti con bisogni educativi speciali (la direttiva ministeriale sui bisogni educativi speciali del 27 dicembre 2012 ricomprende in questa categoria anche lo svantaggio “socio-economico, linguistico, culturale”); si sarebbe fatto per loro un piano educativo personalizzato, e con ogni probabilità sarebbero stati promossi.
Don Milani ne sarebbe stato contento? Per nulla. Anzi: si sarebbe indignato come solo lui sapeva fare. Perché il centro del discorso della Lettera non è, come molti che l´hanno letta distrattamente o che non l´hanno letta affatto credono, la richiesta di non bocciare. C´è anche questo, nel libro; ma c´è soprattutto la denuncia del carattere esclusivamente – nel senso etimologico: che esclude – borghese della cultura scolastica. La scuola è quel posto in cui il ragazzino figlio di contadini, abituato a salire sugli alberi, deve saper giocare a basket. La capacità di salire sugli alberi non conta nulla, non è una cosa borghese e non ha dunque nulla a che fare con la scuola. Il gioco della scuola è truccato: è un campo sul quale giocano borghesi e proletari, ma le regole sono quelle decise dai borghesi. E i proletari, inevitabilmente, perdono. Non perché siano meno capaci, non perché siano idioti: semplicemente perché la cultura scolastica non è la loro cultura. Continue reading “Don Milani, Gramsci e i bisogni educativi speciali”

La palude

Questa mattina con le mie classi – la quarta e la quinta – ho incontrato Francesca Brancati, ex studentessa della mia scuola ed attivista per i diritti LGBT (di lei si sono occupati negli ultimi giorni i giornali per una lettera con la quale ha chiesto pubblicamente alla Barilla di sponsorizzare il suo matrimonio con la sua compagna, quale riparazione per le infelici dichiarazioni di Guido Barilla sulla inopportunità di mostrare una famiglia omosessuale negli spot pubblicitari della sua azienda).
Abbiamo discusso per due ore in quarta, fino alla fine della giornata scolastica: ed i ragazzi hanno mostrato l’interesse che sempre c’è, a scuola, quando non si tratta di girare stancamente intorno al manuale, in vista dell’interrogazione.
Ad un certo punto viene fuori una questione di cui avevano parlato durante la precedente ora di religione: Vendola che stanzia dei soldi per finanziare i cambi di sesso, togliendo fondi ad altri settori della sanità. Non so nulla della cosa, la sento ora per la prima volta: e dunque non commento la notizia, riservandomi di approfondirla.
Giunto a casa, faccio un giro in rete, e trovo i seguenti titoli:
Delibera choc di Vendola: soldi a chi cambia sesso (il Giornale.it)
“Soldi pubblici per cambiare sesso” (Unione Sarda)
Puglia paradiso dei trans (Qelsi Quotidiano)
Vuoi cambiare sesso? Ci pensa Nichi (Libero Quotidiano)
e così via.
Basta qualche altro minuto, per inquadrare la cosa nei suoi giusti termini. E cioè: la giunta regionale ha finanziato con 170.000 euro un servizio di assistenza per le persone transgender che hanno deciso di sottoporsi ad un’operazione per cambiare sesso. Dunque: si finanzia l’assistenza psicologica, non l’operazione. La stessa assistenza psicologica che in Italia viene garantita a una molteplicità di soggetti  – dagli alcolisti ai dipendenti dal gioco d’azzardo, dai tossicodipendenti alle persone obese -, senza che nessuno protesti perché “vengono sottratti soldi alla cura del cancro per aiutare gli obesi, che potrebbero semplicemente decidere di mangiare di meno”.
Se dovessi fare una lista delle cose che mi spaventano di più, metterei ai primi posti questa: la facilità con cui si distorce la verità, l’irresponsabilità con cui si avvelena il clima per rendere impossibile qualsiasi dibattito pubblico che sia fondato sulle cose, e non su fantasie. Esistono in Italia molte persone pagate per questo. Pagate per fare a pezzi la nostra democrazia – perché di questo si tratta, dal momento che non è possibile democrazia senza un dibattito pubblico serio e documentato.
Penso che la scuola, nonostante i suoi tristi e ben noti limiti, possa essere un luogo in cui ci si abitua al rigore, all’esattezza, alla ricerca appassionata della verità. Ed al confronto aperto ed onesto. Non un posto in cui si educa alla democrazia – non credo nell’educare a -, ma semplicemente un luogo in cui si fa pratica di democrazia in un paese sempre più eroso dall’autoritarismo, dal populismo, dal fascismo di ritorno: e dalla semplice, inaffondabile stupidità.

L’amicizia educativa

Jean Leon Gerome Ferris, Aristotele
maestro di Alessandro Magno 
L’educazione è una faccenda di amore. Entrare con qualcuno in una relazione educativa – cosa che non accade soltanto nelle situazioni educative formali: a pensarci bene, anche una relazione sentimentale autentica è una relazione educativa, se si intende l’educazione come co-educazione; e l’amore non finisce forse quando non ci si educa più a vicenda? – vuol dire desiderare ardentemente il suo bene, considerare la sua persona come qualcosa di assolutamente prezioso, fare di quel tu, kantianamente, sempre un fine e mai un mezzo, e vigilarsi costantemente per liberarsi da ogni sentimento negativo che possa nascere nei suoi confronti (perché anche l’amore, come ogni luce, ha le sue ombre).
Se una differenza c’è, tra la relazione sentimentale e le altre forme di relazione educativa, è che nel primo caso c’è un coinvolgimento fisico che negli altri casi manca. Ora, l’amore, tolto il sesso, è amicizia. E la relazione educativa è, appunto, una relazione di amicizia. La più alta.
Pare che educatori e pedagogisti di destra e di sinistra, conservatori e progressisti, siano d’accordo nel disprezzare l’educatore che si pretende amico di suo figlio o del suo studente. E’, dicono, una figura patetica, che rinuncia al suo ruolo nel tentativo di ottenere un riconoscimento ed una soddisfazione tutto sommato narcisistica. C’è una distanza necessaria, assicurano, da tenere nell’educazione; se si annulla questa distanza, pretendendo l’amicizia, si rinuncia semplicemente ad essere educatori.

C’è del vero e del falso, in questa posizione. C’è – è vero – qualcosa di patetico e di ridicolo nell’adulto che scimmiotta l’adolescente, perché è sempre patetico e ridicolo chi cerca di essere quello che non è. Al tempo stesso, c’è della bellezza nella comunicazione tra persone di generazioni diverse, nello scambio culturale, nel confronto non unilaterale ma aperto. Non sempre l’adulto che ascolta la musica degli adolescenti sta cercando di assomigliare a loro; spesso sta semplicemente rifiutandosi di disconfermare l’identità culturale di suo figlio o del suo studente, consapevole che una tale disconferma rende molto difficile qualsiasi dialogo educativo.
Se si pensa il rapporto educativo come un rapporto necessariamente asimmetrico, è evidente che non si può parlare di amicizia educativa, poiché i rapporti di amicizia sono rapporti paritari e simmetrici. Gli amici sono sullo stesso piano; se uno dei due tenta di occupare una posizione di predominio – o la ottiene per un cambiamento di status -, è difficile che l’amicizia continui; certo, non resta la stessa. Ma un rapporto di amicizia non è soltanto simmetrico, è anche dinamico. Quando un’amicizia è autentica, profonda e viva, ha un potere trasformativo. Come gli amanti, gli amici non si limitano a fare cose insieme, a passare del tempo, a divertirsi, ma crescono insieme. Si può considerare la crescita comune come una caratteristica essenziale dell’amicizia, senza la quale essa degenera e diventa qualcosa di inferiore – possiamo parlare, considerando anche le sue implicazioni politiche, di cameratismo.
Afferma Aristotele nell’Etica Nicomachea che esistono tre forme di amicizia. C’è, in primo luogo, l’amicizia fondata sull’utile, che si ha tra persone che “si amano non per se stessi, ma in quanto deriva loro qualche bene all’uno dall’altro” (1156a). Segue l’amicizia fondata sul piacere, vale a dire il legame che unisce persone che sono reciprocamente gradevoli. Queste due forme di amicizia per Aristotele sono accidentali, perché chi è amato non lo è per la sua essenza, per quello che è, ma per l’utile ed il piacere che procura. Il terzo genere di amicizia è quella fondata sulla virtù. E’ il legame che si stabilisce tra persone buone che ricercano la virtù. Questa è per Aristotele l’amicizia perfetta, ed anche la più durevole, perché la virtù non è mutevole come l’utile o il piacere.
Se è vero quello che afferma Spinoza nell’Etica, e cioè che “il bene, che ognuno che persegue la virtù appetisce per sé, lo desidera anche per gli altri uomini” (IV, proposizione 37), allora colui che cerca la virtù è anche colui che è capace della forma più alta di amicizia. Ora, è esattamente questo il profilo dell’educatore. Che non è colui che possiede la virtù e ne rappresenta l’incarnazione più o meno perfetta, ma appunto una persona che si è incamminata verso la virtù: che cerca senza sosta il bene, che si interroga, che si inquieta per la giustizia. Chi è impegnato in questa ricerca desidera che anche gli altri la condividano, ed è questo desiderio che lo porta ad incontrare profondamente gli altri ed a stabilire con loro rapporti di amicizia. Per questa via chi è in cerca del bene è sempre educatore degli altri.
Bisogna notare, tuttavia, una differenza importante tra l’amicizia educativa e l’amicizia così com’è comunemente intesa. Due amici si sono scelti liberamente e continuano a scegliersi ogni giorno, esattamente come due amanti. Il loro legame è fondato sulla stima reciproca, sul fatto che uno avverte nell’altro la presenza di qualità che lo rendono amabile. Questo non sempre accade in una relazione educativa. Può essere che un insegnante si trovi di fronte degli studenti che non hanno alcuna qualità positiva; che gli appaiano, al contrario, chiusi ad ogni ricerca del bene, cinici, arroganti, con atteggiamenti che fanno nascere in lui sentimenti negativi. Che fare? Come potrà amarli, se non sono amabili?
Un educatore si riconosce per la capacità di avere un duplice sguardo. Da un lato, è capace di guardare il volto dell’altro: ha un’attenzione assoluta per quello che l’altro è qui ed ora, sa interpretare con finezza e profondità le esigenze, i bisogni, le emozioni, le aspirazioni positive e negative della persona che ha di fronte. Dall’altro, non si limita a questo sguardo, ma lo completa e lo supera con un secondo sguardo: quello che gli permette di cogliere l’altro dell’altro. L’educatore, cioè, non vede solo quello che l’altro è adesso, ma anche quello che l’altro può diventare. Negli occhi dello studente cinico scorge l’adulto sincero ed appassionato del bene che quello studente potrà diventare, se aiutato. E questo sguardo ha un carattere liberatorio per coloro su cui si posa. Si può dire che, dal punto di vista spirituale, la bellezza emerge grazie allo sguardo dell’altro; e l’educazione è appunto questo sguardo – amorevole, esigente, inquietante – che fa emergere la bellezza lì dove sembra non esserci.
Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.

Educazione e dominio

L’anarchismo è la posizione etica e politica di chi rifiuta ogni forma di dominazione ed assume, se non è già il suo, il punto di vista di chi è vittima di oppressione. Non è una posizione teorica, una filosofia di vita che affermi il valore della libertà o dell’individuo, ma una pratica di liberazione, una lotta per sottrarsi alla presa del dominio e sottrarre tutti coloro che ne sono vittime. Si tratta di qualcosa di più ampio della lotta di classe. L’oppressione dei ricchi sui poveri, dei proprietari dei mezzi di produzione su chi ha solo la propria forza lavoro (di chi deve “vendersi” sul mercato del lavoro) è indubbiamente una delle forme più vistose di dominio; ma non l’unica. C’è dominio ovunque esista una gerarchia, una asimmetria, che comporta sempre una limitazione delle possibilità vitali di chi occupa la posizione inferiore (e, naturalmente, un aumento ingiusto delle possibilità di chi occupa la posizione superiore). C’è dominio nelle relazioni di genere, ovunque la donna venga limitata nelle sue possibilità di espressione o sia ridotta a strumento del piacere maschile. C’è dominio nel mondo culturale, quando culture tradizionali vengono cancellate o deformate dall’imposizione di una cultura altra. In passato, quando la religione era l’aspetto centrale di una cultura, questa imposizione prendeva la forma della conversione religiosa forzata; oggi prende la forma dell’imposizione di una sistema di merci da acquistare e della visione del mondo come un campo di cose da sfruttare ed acquistare.

C’è il dominio sulla natura, nella forma dello sfruttamento indiscriminato della natura (le cosiddette “risorse naturali”), che ha perso ogni sacralità per diventare un immenso ma non inesauribile deposito di cose che servono all’uomo, e c’è il dominio sugli esseri non umani, ridotti anch’essi a cose, oggetti sui quali si può compiere qualsiasi atrocità. E c’è, infine, il dominio sul bambino.
Tutte queste forme di dominio hanno un nesso essenziale tra di loro. C’è un unico dominio che si esprime attraverso il rapporti di produzione, i rapporti politici, lo sfruttamento economico, l’imposizione culturale, la devastazione della natura, l’industrializzazione della vita animale, l’educazione. Si tratta di vie della violenza che nascono tutte da una medesima struttura mentale, che è ben iscritta nella psiche dell’uomo (e della donna) occidentale, e che può essere semplicemente indicata con una piramide. E’ uno schema che nasce, naturalmente, dal modo in cui si è organizzata la produzione, e che a sua volta giustifica quel modi di organizzare la produzione. Platone ed Aristotele, che vivono in un mondo in cui gli schiavi provvedono alle necessità materiali, non hanno nulla da dire contro la schiavitù, che anzi giustificano, così come la giustificherà San Paolo (e senza questa giustificazione il cristianesimo con ogni probabilità oggi non esisterebbe). La visione del mondo greco-cristiana ha al vertice Dio o l’Uno, sotto di lui gli angeli o altri esseri celesti, quindi gli esseri umani, e infine la natura e gli animali. Lo stesso mondo umano è organizzato secondo questo schema: al vertice il re, poi i nobili o la classe dominante, infine i sottomessi. E ancora, all’interno di ognuna di queste classi, una ulteriore gerarchia secondo il sesso e l’età: la donna proletaria è sottomessa al marito, il bambino alla donna. Un mondo piramidale, in cui ognuno è sottoposto a qualcun altro.
Apparentemente le cose oggi sono cambiate. Esistono le democrazie, ossia sistemi sociali, prima che politici, caratterizzati dall’orizzontalità e dall’uguaglianza. All’interno dei sistemi democratici è affermata l’uguaglianza tra uomini e donne e sono stati messi nero su bianco i diritti dei bambini. La realtà tuttavia è diversa. I sistemi democratici sono anche sistemi capitalistici; ora, il capitalismo è, per essenza, un sistema economico violento, la cui logica di incremento costante è incompatibile con le limitazioni imposte dal rispetto dell’etica e dei diritti umani. Se l’economia ha bisogno di un certo metallo che si trova in un paese africano, nessuno scrupolo umanitario impedirà di approvvigionarsi di quel metallo sfruttando un sanguinoso conflitto in atto. Se ci si rende conto che il corpo femminile aiuta a vendere, allora la donna diventerà un semplice corpo, una merce buona per vendere altre merci: con buona pace delle dichiarazioni sui diritti delle donne. Poiché l’economia capitalistica ha bisogno di una classe politica che ne rappresenti gli interessi, la stessa pratica del voto, essenza della democrazia, viene svuotata di significato: i sistemi che si dicono democratici sono sempre più oligarchie sostanziali, nelle quali una casta politica, impermeabile al cambiamento, governa per conto di un ristretto gruppo di magnati della finanza.
L’educazione ha un ruolo chiave nel sistema di dominio. E’ attraverso le relazioni educative che, fin dai primi anni e già in famiglia, si trasmette la struttura mentale propria del dominio. Tranne pochi casi fortunati, il bambino è immerso in un sistema relazionale gerarchico, nel quale occupa una posizione di inferiorità e di subordinazione. Per lunghi anni, dovrà abituarsi a relazionarsi dal prossimo da questa posizione di inferiorità; e quando la società riconoscerà la sua maturità, avrà passato troppi anni in questa posizione di inferiorità per ribellarsi al sistema. Il fatto che milioni di persone accettino una situazione palesemente assurda, quale è la realtà politica anche nei paesi cosiddetti democratici, non si comprende senza questa lunga pratica di sottomissione. Il bambino che si sforza oggi di essere un “bravo bambino”, ossia di conformarsi alle richieste dell’ambiente senza creare problemi, diventerà domani un “bravo cittadino”, legittimando con la pratica periodica del voto un sistema democratico che sempre più viene eroso dall’interno dalla corruzione, dall’affarismo e dalla violenza.

Il bambino è apertura al mondo

Cane da caccia. Disegno di Carlo Michelstedter.

Il bambino incarna una diversità radicale. Gran parte di ciò che comunemente si chiama educazione consiste nell’esorcizzare, limitare, controllare, arginare, incanalare e finalmente spegnere questa diversità. Affinché l’opera riesca occorre che sia tacitamente condivisa la percezione del bambino come non-persona o come persona parziale: occorre, infatti, molta violenza, che sarebbe ingiustificabile ed inaccettabile se al bambino fossero pienamente riconosciuti la dignità ed i diritti di una persona.

Ad inquietare del bambino è, in primo luogo, la sua libertà. Egli si colloca all’origine, sta nella dimensione magmatica dalla quale la società è nata con una serie di progressive solidificazioni, fino a diventare il sistema di regole, di compromessi, di ipocrisie che è. Non dà per scontato, il bambino, nulla di ciò che è scontato, ed in questo modo ci mostra quotidianamente che il mondo in cui viviamo, il mondo che abbiamo costruito o cui abbiamo dato il nostro tacito consenso, evitando di ribellarci, non è che uno dei mondi possibili: e non il migliore.
Non sa che farsene, il bambino, di cose per le quali gli adulti darebbero la vita, ed è pazzamente innamorato di cose che per gli adulti valgono meno di nulla. Per un bambino – per un bambino che non sia stato corrotto dagli adulti – non esiste lo status, quella cosa per la quale gli adulti sono disposti a fare ogni cosa. Perché non è per il denaro che un adulto cerca il denaro, né desidera il potere per il potere. Cerca queste cose per essere riconosciuto dagli altri, affinché la sua misera persona risplenda quanto più è possibile.
Diceva Hegel che nessuno è un eroe per il proprio cameriere. Deve sentirsi un po’ imbecille, al cospetto del proprio bambino, l’uomo che consuma la sua vita nell’impresa di far carriera, sacrificando tutto il suo tempo e le sue energie, accettando compromessi ed inghiottendo rospi. Deve sentirsi imbecille, di fronte a quella vita beata, al di qua di ogni preoccupazione sociale, di quell’ansioso e insensato inseguire sé stesso. Ma è un imbarazzo che dura un attimo, presto soccorso dalla commiserazione per quell’esserino che non sa come va il mondo, e cui bisogna insegnare tutto.

Cominciando dal dovere. Anzi, dai doveri: perché c’è il dovere morale e c’è il dovere sociale. Il primo consiste nei criteri del bene e del giusto, del fare e del non fare, che i genitori consegnano con qualche trepidazione ai loro figli, sperando spesso che non li prendano troppo sul serio. L’altro, il dovere sociale, consiste nell’impegno, posto precocemente sulle spalle del bambino, di contribuire alla ricerca familiare dello status. Dovere che si concretizza, per ora, nel dovere scolastico, che è il primo gradino del dovere sociale. Gli piaccia o no, serva o no alla sua crescita, abbia a che fare o meno con l’apprendimento, il bambino deve studiare e prendere buoni voti. Il successo scolastico è la prima forma di conquista dello status. Un bambino che non va bene a scuola è, per una brava famiglia borghese, motivo di vergogna: uno che pianta in asso la sua famiglia, dopo tutto ciò che essa ha fatto per lui. Il bambino che ha successo è invece un trofeo da esibire in società. Non è un caso che abbiano introdotto i voti fin dalla prima elementare. Già il bimbo di sei anni ha da essere fiero della sua pagella piena di dieci e guardare con qualche disprezzo chi ha voti meno buoni. E’ così che gli adulti portano la guerra nel mondo dei bambini. E’ così che comincia la corruzione, l’uscita dal paradiso infantile e l’ingresso nell’inferno degli adulti.
Il piccolo Carlo Michelstaedter raccoglie per strada un cane randagio, lo porta in casa e gli fa il bagno. E’, per lui, un modo per mettere in pratica i valori di amore e bontà che gli ha insegnato la sua famiglia. Ma qualcosa va storto: scoprendo la cosa, i genitori si arrabbiano a cacciano via il cane. Probabilmente si ricorderà di questa scena quando anni dopo scriverà, in quel capolavoro che è la sua tesi di laurea (La persuasione e la rettorica), una critica durissima dell'”educazione civile”, quel sistema di premi e castighi con il quale si fa del bambino un membro adattato ed irresponsabile (adattato in quanto irresponsabile) della società.
Il bambino è apertura al mondo. Considerarlo un organismo dedito esclusivamente alla ricerca del piacere – un piccolo mostro di egoismo – è uno dei modi per esorcizzare la sua differenza. Questo piccolo narcisista è in realtà un essere capace di guardare le cose e gli esseri con interesse assoluto: sta, etimologicamente, tra e nelle cose. Non ha ancora conquistato lo sguardo dall’alto, distaccato ed analitico, di chi domina, usa, riduce a sé. E’ un soggetto che non è emerso ancora dalla natura, non si è distaccato da essa per studiarla scientificamente e sottometterla attraverso il lavoro. Attraverso l’educazione questo essere che sta tra le cose e gli esseri imparerà l’arte del dominio, si avvertirà signore e padrone, diventerà l’homo faber che trasforma il mondo e ne fa il suo strumento. Dominatore e al tempo stesso dominato, signore della natura ma schiavo del suo sistema sociale ed economico, manipolato in ogni istante della sua vita, costretto alla produzione ed al consumo compulsivo, riuscirà a salvarsi, forse, solo se si ricorderà di essere stato bambino.

Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.

Storia di un bambino andato (quasi) a male

Il giudizio di terza media

Lo scorso anno Maurizio Parodi, tra gli interpreti più interessanti delle istanze della pedagogia libertaria nel nostro paese, mi ha chiesto di collaborare con un mio contributo ad un libro che stava scrivendo. Si trattava di rispondere alla domanda: Cosa bisogna fare perché i bambini non vadano a male? Ho risposto a questa domanda con un contributo intitolato “Camminare insieme”, che si trova nel libro uscito quest’anno: Gli adulti sono bambini andati a male (Sonda editore).

Se ripenso al mio percorso scolastico, mi pare di potermi riconoscere nella categoria dei “bambini andati a male”. Me lo conferma la rilettura delle mie pagelle scolastiche, che segnano una progressione negativa, da una iniziale quasi perfezione al disastro della scuola secondaria. Il fatto di essere un ex bambino andato a male (che poi si è ripreso per tempo, comunque) è un grande vantaggio per un pedagogista, appunto perché permette di rispondere alla domanda di Parodi con una qualche base di esperienza.
Il mio esordio scolastico è stato esaltante, almeno a giudicare dalla mia prima pagella:
Alunno dotato di una pronta e vivace intelligenza, molto serio e silenzioso prende però parte attiva alla vita della classe e riesce bene in tutte le attività scolastiche nonostante i primi tre mesi di assenza. Costante nel rendimento predilige le attività matematiche e la recitazione.
Intelligente, silenzioso, partecipe: alunno modello. Ero arrivato a scuola con tre mesi di ritardo per via di problemi di salute, gli stessi che mi hanno salvato dalla scuola dell’infanzia. Ma non arrivi in una classe tre mesi dopo senza pagarne le conseguenze. Ricordo poco della prima elementare, più che altro sensazioni: e tra tutte questo senso di estraneità che mi ha accompagnato per tutto il percorso scolastico (fino all’università, direi).
Della maestra della prima elementare ho un bel ricordo. Paziente, dolce, buona. Tra i pochi ricordi c’è l’immagine di lei che alla cattedra legge Zanna bianca, e tutti in silenzio ad ascoltarla. Io sono all’ultima fila, il mio compagno di banco è uno bambino precocemente obeso, ed a pensarci oggi c’è il sospetto di essere finito subito nel settore sfigati della classe. Ho bisogno di andare in bagno, ma sono troppo timido per chiederlo. E così il piacere dell’ascolto della lettura si mischia subito al disagio.
Terza elementare. La maestra brava non c’è più: si è trasferita a Bologna. Al suo posto c’è un maestro. Uno anziano, massiccio, autoritario. Ha una mazza di legno con la quale ci colpisce sulle mani quando sbagliamo qualcosa. Se ci ripenso, ricordo ancora il dolore sulle mani, ma soprattutto l’umiliazione. Sono fortemente a disagio in classe. Ho legato solo con il mio compagno di banco – questa volta uno smilzo pel di carota. Senza alcun dubbio faccio parte del settore sfigati. Oltre alla bacchettate sulle mani, di questo periodo della mia vita scolastica ricordo un metodo escogitato per rendere più sopportabili le ore scolastiche: pensare al dopo. Immaginare che a casa vi sia qualcosa di buono – le figurine Panini, ad esempio – che mi aspetta, e pregustare in ogni istante il momento in cui le attaccherò sull’album, godendo il loro inconfondibile odore di colla.
Il maestro, è appena il caso di dirlo, non si accorge del mio disagio. In terza scrive:

Alunno dotato di pronta e vivace intelligenza, socievole con i compagni, segue il corso con ottimo profitto in tutte le discipline di studio. Frequenta con evidente piacere e collabora con gioia con tutti i compagni nelle attività di gruppo. Ama molto il disegno e la recitazione.

Bisogna essere davvero molto distratti per scorgere un “evidente piacere” lì dove c’è un disagio costante.
Il giudizio dell’anno seguente è quasi la fotocopia di quello della terza:

Alunno dotato di una pronta e vivace intelligenza, serio e silenzioso, segue il corso con grande profitto in tutte le discipline di studio. Frequenta con molto piacere e collabora con i compagni nelle attività di gruppo. Bravo nella lettura e nella recitazione, ma un po’ incerto nella risoluzione dei problemi. Bravissimo in disegno e nella recitazione.

E’ evidente che il maestro ha dei giudizi standard corrispondenti alle classiche tre fasce di studenti: quelli bravi, quelli così così, quelli mediocri. Quelli bravi hanno tutti una pronta e vivace intelligenza e frequentano con molto piacere. Chissà come erano i giudizi sull’intelligenza di quelli meno bravi.
Da notare che nel passaggio dalla prima alla quarta elementare ho perso per strada la mia predilezione per le attività matematiche.
In quinta elementare, non ricordo per quali peripezie, mi sono liberato del maestro e mi sono ritrovato in una classe nuova con una nuova maestra. Anche qui senso di estraneità. Mi rivedo al secondo banco della fila centrale, con dietro di me una tipa che mi è ostile: e mi imbarazza molto sapere che l’ho costantemente alle spalle. La maestra non è male, ma ha una fissa per la religione. Stiamo sempre a pregare ed a cantare canzoni di chiesa. Comunque me la cavo:

Alunno molto tranquillo ed educato, ma un po’ timido. Lavora con serietà e profitto, impegnandosi con costanza e amore nello studio. Approfondisce i contenuti culturali, esprimendosi con molta chiarezza. Nel disegno si evidenzia in modo così notevole da rivelare spiccate doti di fantasia e di espressività.

Questa cosa del disegno va approfondita. Sono sempre stato bravino a disegnare, anche se al secondo anno delle superiori sono stato rimandato in disegno. Temo però che giudizio così positivo risenta del fatto che all’epoca amavo particolarmente disegnare soggetti religiosi, e soprattutto madonne doloranti e sante lucie con gli occhi al cielo, che mandavano in visibilio la mia maestra e venivano esposte nel corridoio.
Una cosa ricordo della mia quinta elementare. Si era nel 1982, l’anno della guerra delle Falkland. La prima guerra della mia vita. Devo dar atto alla mia religiosissima maestra di averci fatto partecipare emotivamente all’evento. Certo, non ci capivamo granché, dal punto di vista politico. Ma sentivamo che era una cosa brutta: e naturalmente pregavamo. Mi piace pensare che il mio successivo orrore per la guerra abbia qui le sue radici.
Veniamo alle medie. Si dice che le medie costituiscono il ventre molle del nostro sistema scolastico. In base alla mia esperienza, mi pare che sia così. Se alle elementari mi vedo a disagio, impacciato, bloccato, alle medie mi pare di essere addirittura angosciato. Anche qui, però, la mia angoscia viene scambiata per buona educazione, e riesco a strappare un giudizio positivo. In seconda media il giudizio è:

Dato il carattere riflessivo e ritroso, l’alunno rifugge da qualsiasi forma di ostentazione e da ogni intervento che non sia opportuno e meditato. Così facendo, egli dimostra maturità e serietà di propositi, metodo, propensione e disponibilità all’ascolto, ma soprattutto disponibilità ad accettare positivamente ciò che gli viene proposto. Possiede sufficienti mezzi espressivi e buon livello di preparazione. Qualche prova deludente in matematica.

Insomma, me la cavo ancora. Non sarò il primo della classe, ma si vede che piaccio. Sto al mio posto, sono docile e tranquillo: e questo per i miei professori è senz’altro segno di maturità. Non di timidezza, non del sentirsi spaesati, fuori posto, bloccati. Di maturità.
L’anno del mio andare a male è quello successivo. Nel giudizio finale della terza media si legge:

L’azione didattico-educativa nei suoi confronti ha incontrato qualche difficoltà a causa di certe sue immotivate resistenze psicologiche, che non gli hanno permesso un approccio proficuo al colloquio. Nel complesso, comunque, la sua formazione è di livello accettabile soprattutto nella lingua straniera e nel campo tecnico-pratico. Ha rivelato attitudine e abilità nel disegno ornato.

Che è successo al nostro studente maturo e riflessivo? E’ successo che, in seguito ad un episodio increscioso, si è posto la domanda: ma i miei professori mi apprezzano per quello che sono, come persona, o solo perché faccio tutto quello che dicono loro, studio e non rompo le scatole? ci tengono a me? si interessano a me? Domande cui è seguito l’esperimento: provare a non studiare, a mostrarmi indifferente, perfino sfrontato. E vedere se qualcuno mi chiede che è successo. Risultato dell’esperimento: a nessuno dei miei docenti importa molto di me. Di quello che sto vivendo davvero. Il mio professore di italiano – in italiano sono tra i primi della classe – commenta il mio calo così: “Fino ad ora ti abbiamo sopravvalutato, ora si vede quanto vali davvero”. Ho capito, insomma, che quello dei professori è un amore (sì, uno studente pensa che i suoi professori possano amarlo) condizionato. Se fai quello che dico io, ti faccio sentire amato; altrimenti, per me diventi meno di niente.
Qualche altra noterella a margine del giudizio. Ero bravo nella lingua straniera: che era il francese. Nella scuola media che frequentavo in quegli anni gli studenti erano divisi nelle sezioni a seconda dell’appartenenza di classe: quelli più borghesi nelle classi con lingua inglese, quelli più proletari nelle classi con lingua francese. Io, figlio di operaio, ero destinato al francese.
La mia predisposizione per il “campo tecnico-pratico” è una invenzione bella e buona. Non ho avuto mai nessuna predisposizione per nulla di tecnico o di pratico (e, sia chiaro, è una cosa di cui non mi vanto affatto). Ero bravo nelle materie umanistiche, soprattutto in italiano. Ma cerchiamo di metterci nei panni dei professori. Ero un ex-studente brillante che però ultimamente aveva dato problemi, e poi ero figlio di un operaio. Bisognava indirizzarmi al liceo? Cosa rischiosa. I figli degli operai in quegli anni venivano indirizzati all’industriale o al professionale, a meno che non fossero brillantissimi, senza la minima macchia. Non era chiaramente il caso mio. Licenziandomi con la sufficienza, mi consiglieranno dunque di iscrivermi in un istituto professionale. Consiglio che fortunatamente non ho seguito.
Mi sono iscritto all’istituto Magistrale, che aveva il vantaggio di essere una scuola umanistica ma di non essere un Liceo, scuola proibita ai figli degli operai. Gli anni della secondaria superiore sono stati anni di lotta continua con i professori. Ormai come studente ero andato definitivamente a male. Le premure dei miei professori erano ammirevoli: il professore di musica mi invitava ripetutamente – per il mio bene, sia chiaro – a lasciar stare la scuola per tentare il concorso in polizia, quella di latino aveva a cura la mia salute psicologica, raccomandandomi lo psichiatra, mentre quello di matematica si occupava concretamente del mio benessere mandandomi a prendere aria nel corridoio, dove si stava certamente meglio che nell’aula. Eppure qualcosa mi è rimasto, di quegli anni. Il mio professore di pedagogia aveva tanta stima nei miei confronti, da consentirmi di sostenere le interrogazioni su qualsiasi argomento. Potevo parlare, se volevo, di filosofia indiana, l’argomento che a quel tempo più di qualsiasi altro mi appassionava. Ricordo una interrogazione-discussione sul Vedanta, che è uno dei pochi ricordi piacevoli della mia vita scolastica. E, penso, è anche per questo che poi ho studiato pedagogia. E che oggi sono un pedagogista, uno che cerca di capire come impedire che i bambini vadano a male.

E se il digitale fosse analogico?

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Il ministro dell’istruzione Maria Chiara Carrozza ha posto un freno all’innovazione, che fino ad ieri pareva inarrestabile, consistente nella sostituzione dei libri scolastici cartacei con libri digitali. “L’accelerazione sui libri digitali – ha dichiarato – non poggiava su alcuna seria e documentata validazione di carattere pedagogico e culturale, così come non sono state valutate le possibili ricadute sulla salute di bambini e adolescenti esposti a un uso massiccio di apparecchiature tecnologiche”. Molti hanno tirato un sospiro di sollievo: le case editrici, senz’altro, ma anche molti docenti, tutt’altro che entusiasti di questo passaggio epocale, affezionati alla cara vecchia carta ed ai tomi che con il loro peso sembrano additare l’importanza della cultura e dello studio e la necessità del sacrificio anche fisico. Molti altri invece si dicono preoccupati. Sono quelli per i quali l’introduzione dei libri digitali rappresenta l’avvio di un cambiamento reale che per la scuola non è più rimandabile.
Non voglio entrare nel merito delle parole di Carrozza, ossia indagare se davvero manca una “validazione pedagogica” e se i dispositivi di lettura digitale possono avere ricadute sulla salute dei bambini. Vorrei invece provare a dissipare un equivoco a proposito dell’uso dell’aggettivo “digitale”. In tutto questo dibattito, digitale è sinonimo di elettronico ed informatico. I libri digitali sono gli ebook, in formato Pdf ed ePub, mentre per scuola digitale si intende una scuola nella quale sono presenti e vengono adoperati molti dispositivi elettronici ed informatici (computer, lavagna elettronica, tablet eccetera). Ma l’aggettivo digitale, nelle scienze umane, ha un significato più complesso. Nella Pragmatica della comunicazione umana, pubblicata nel 1967 da Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson si legge, tra l’altro, che ogni comunicazione può essere analogica o digitale. Una comunicazione si può considerare analogica quando esiste, appunto, una analogia tra i segni e ciò che i segni indicano. Se disegno un cane, si tratta di comunicazione analogica, perché c’è somiglianza tra il cane disegnato ed il cane reale. Se, per indicare che ho fame, mi porto la mano alla bocca mimando l’atto di mangiare, sto comunicando ancora in modo analogico. Se invece scrivo o dico “cane”, non c’è alcuna somiglianza tra il segno e la cosa indicata. Quelle quattro lettere non hanno un rapporto evidente con ciò che indicano, e lo dimostra il fatto che chi non conosce la lingua non sarà in grado di capire cosa sto dicendo. Nella comunicazione numerica o digitale il rapporto tra il segno ed il suo significato è il risultato di una associazione convenzionale.

Ora, se le cose stanno così, l’introduzione di libri elettronici nel sistema scolastico ha poco a che fare con il digitale. Un libro elettronico è, appunto, elettronico: non digitale. Per libro elettronico si intende l’equivalente informatico di un libro di carta: come un libro di carta è costituito in gran parte di parole, accompagnate da qualche immagine. Una nota casa editrice scolastica offre ai docenti che adottano i suoi libri un cd-rom con il libro di testo proiettabile sulla lavagna elettronica. Eccola dunque, l’innovazione. Prima gli studenti stavano ognuno nel suo banco, col libro di testo davanti, ed il docente faceva lezione illustrando il libro di testo. Ora gli studenti stanno ognuno nel suo banco, davanti al tablet, o se preferiscono possono seguirlo alla lavagna elettronica. Non c’è nessun cambiamento. O meglio, un cambiamento c’è, ed è nel fatto che gli studenti potranno portare un solo tablet al posto di quattro o cinque libri. Ma si tratta di un cambiamento che interessa l’ortopedia, non la pedagogia.
Immaginiamo, però, che le case editrici propongano qualcosa di diverso da una semplice copia del libro di testo. Che facciano – come è auspicabile – delle vere e proprie app sulle diverse discipline. Cosa può offrire di più un’applicazione rispetto ad un libro? Un libro è fatto, abbiamo detto, di testo, soprattutto, e di immagini. Una applicazione può offrire, di più, video, suoni, animazioni, una diversità di informazioni che per il libro è impensabile. Ma di che tipo di informazioni si tratta? Siamo nel campo del digitale o non piuttosto in quello dell’analogico? Un libro di testo che descrive una teoria della fisica in via teorica procede sicuramente in modo digitale. Un’app che invece illustra quella teoria limitando il testo ed introducendo invece un’animazione, in grado di semplificare i concetti e mostrarli visivamente, ha un innegabile carattere analogico. Il che vuol dire, in sostanza, che la diffusione di strumenti cosiddetti digitali nelle nostre scuole avrebbe l’effetto di aumentare le informazioni analogiche offerte agli studenti, a discapito del digitale.
Paradossalmente, con gli strumenti digitali avremmo una scuola meno digitale.
Non esprimo alcun giudizio su questo dato di fatto: non lamento il tramonto della conoscenza astratta e la sua sostituzione con la conoscenza per immersione. Osservo piuttosto – ed in questa osservazione, sì, c’è un giudizio – che anche nel caso in cui arrivassero nelle scuole materiali didattici evoluti, docenti e studenti resterebbero dei semplici fruitori di materiali costruiti da altri. Ed è qui che la rivoluzione digitale si dimostra una falsa rivoluzione. Per meglio dire: l’illusione di rivoluzione di cui abbiamo bisogno per continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto.
Eppure davvero l’informatica potrebbe rivoluzionare il nostro modo di fare scuola (fermo restando che, volendo rivoluzionarla davvero, potremmo anche fare a meno dell’informatica). In un’epoca che non conosceva i computer, Celestin Freinet lavorava così con i suoi ragazzi: niente libro di testo, niente lezione; si faceva ricerca, i risultati venivano scritti insieme e poi stampati nella tipografia scolastica. Nascevano così dei testi che venivano poi condivisi con le altre scuole, con le quali la scuola aveva un rapporto di cooperazione.
Tutte queste operazioni si potrebbero fare oggi molto più agevolmente con gli strumenti informatici, come ha mostrato Emanuela Zibordi nell’ebook Testi scolastici 2.0 (40k Unofficial). Per fare ricerca si può utilizzare la rete Internet con le sue straordinarie biblioteche digitali: Google Libri, Gallica, Web Archive. Per scrivere i testi insieme si possono usare strumenti di scrittura collaborativa come Google Drive. I testi possono essere facilmente impaginati per creare libri elettronici, oppure messi in rete sul sito Internet della scuola, o ancora, se si preferisce il cartaceo, stampati con il print-on-demand. Meglio ancora sarebbe rilasciare i testi con una licenza aperta che dia la possibilità ai lettori non solo di distribuire, ma anche di modificare i contenuti, avviando così una collaborazione tra più autori e più scuole.
Lo scenario appena tratteggiato è assolutamente irrealistico. Richiede un passaggio che sarebbe realmente rivoluzionario: il passaggio da sapere confezionato e consegnato dal docente allo studente attraverso la lezione (e per lo più acquisito mnemonicamente dallo studente) al sapere come ricerca comune, riflessione, analisi, discussione, confronto. In altri termini, un passaggio dalla ripetizione alla creatività.

Editoriale per Stato Quotidiano.