La laicità, la scuola e l’Islam

La brutale uccisione di Samuel Paty, il docente francese colpevole di aver mostrato le vignette di Carlie Hebdo durante una lezione sulla libertà d’espressione, mi ha colpito profondamente. Mi ha colpito perché sono un docente, perché sono laico, e perché negli stessi giorni ho tenuto nella mia terza una lezione sulla libertà d’espressione. Mi spiace che quella tragedia, che tanto sta facendo discutere in Francia, da noi non susciti grande interesse, e al tempo stesso ne sono un po’ sollevato, perché il livello del dibattito pubblico nel nostro Paese è infimo, e non ci sarebbe da aspettarsi molto di diverso dalla più becera islamofobia.
Confesso di essere stato tentato anch’io dalla rabbia. Di aver pensato che noi laici abbiamo conquistato la libertà di parola con il sangue di Giordano Bruno e di Giulio Cesare Vanini. E che è insufficiente ripetere fino alla nausea che “l’Islam è pace”, se poi si decapita qualcuno in nome di Allah. Ma è, appunto, una tentazione, e se cedere ad alcune tentazioni può essere cosa buona e giusta, cedere a questa tentazione è un errore grave.[read more]

Come docente italiano, e docente laico, una tragedia simile mi spinge a riflettere sull’istituzione di cui, con disagio sempre crescente, faccio parte. Io insegno filosofia e scienze umane. Insegno a studenti italiani, albanesi, romeni, nordafricani, centrafricani, sudamericani. Insegno la filosofia europea, perché così si vuole nel nostro Paese. E insegno le scienze umane dal punto di vista occidentale. Insegnando antropologia, faccio anche lezioni di antropologia della religione. E dal momento che non credo troppo nella scuola lezione-libro-interrogazione, cerco di far in modo che gli studenti incontrino dal vivo la diversità religiosa. Li porto, ad esempio, alla locale sinagoga, dove apprendono la storia, le vicende e le usanze della piccola comunità ebraica della città. Mi piacerebbe che potessero anche incontrare l’imam, perché nella città ci sono molti musulmani, e musulmani sono anche diversi studenti, e credo che sia importantissimo conoscere un punto di vista sull’Islam diverso da quello superficiale ed esterno dei mass-media. Ora so che no, non si può fare. L’imam a scuola spaventa. Se lo proponi, ti senti dire che la proposta dev’essere approvata dal Consiglio d’Istituto. E lì basta un genitore islamofobo per bloccare tutto. Questo in un Paese in cui non è infrequente che il vescovo locale faccia visita a questa o quella scuola in pompa magna, accolto da una folla di bambini festanti.
Provo a mettermi nei panni di uno studente musulmano. Sappiamo che il profilo dello studente attentatore è simile in diversi Paesi (ne parla Francesco “Bifo” Berardi in Heroes, Baldini e Castoldi): ragazzi che vivono un forte senso di esclusione, che alimenta un sentimento di rivalsa. Nelle nostre scuole l’Islam è il convitato di pietra. Compare sporadicamente, come una presenza imbarazzante; raramente c’è modo di parlarne in modo aperto, con la competenza necessaria. Uno studente musulmano (non solo lui, a dire il vero) sente di appartenere non tanto a una sottocultura, quanto a una controcultura. È lì che la società lo colloca. Finisce per lo più per vergognarsi di essere musulmano, abbracciando con un senso di liberazione i valori dominanti (e con le comprensibili, dolorose fratture con la sua famiglia); ma può succedere anche il contrario: che si chiuda nella sua identità, che faccia proprio lo sguardo dell’altro e diventi ciò che si crede che lui sia. Che reagisca al rifiuto generale della società nei confronti della sua cultura con un uguale rifiuto che, in particolari condizioni, può esplodere con violenza. Inclusività è una delle parole chiave della scuola italiana. Non c’è documento scolastico – non c’è pezzettino di quella scuola di carta che si sovrappone ormai alla scuola reale – che non la piazzi nei punti strategici. Ma la scuola italiana è davvero inclusiva? Culturalmente no, non lo è. Lo studente straniero non è il portatore di una diversità che bisogna conoscere e valorizzare. Non è una finestra su mondi altri (e la scuola cos’è, se non aprire finestre su mondi altri?). È segnato dalla negatività. È quello che non sa la lingua. Non quello che sa una lingua diversa – a volte ne sa diverse – che si può provare ad imparare insieme. È quello cui bisogna insegnare la lingua. E di fatto in questo consistono la maggior parte degli interventi in favore degli studenti stranieri. Si fa un corso di italiano L2, e finisce lì. E no, non può finire lì.
Da laico, amo poco l’Islam, come anche il cristianesimo e in generale le religioni. Penso che si vivrebbe molto meglio senza. Da cittadino, penso che le religioni comunque ci sono, ed è un diritto sacrosanto poter seguire la propria religione. E mi dispiace che tanti musulmani debbano pregare in luoghi di fortuna (nella mia città una sorta di garage). Da docente, penso che la scuola debba fare tutto il possibile per far sentire riconosciuti e rispettati gli studenti musulmani, come anche gli studenti portatori di qualsiasi alterità (comprese le diversità di classe sociale, di cui nessuno più si occupa). E mi pare che la scuola italiana lo stia facendo poco e male.

Gli Stati Generali[/read]

Gli illeciti della didattica a distanza

La chiusura improvvisa lo scorso marzo ha costretto le scuole a inventarsi dal nulla o quasi la didattica a distanza; e comprensibilmente sono stati scelti, anche grazie a un discutibilissimo endorsement ministeriale, gli strumenti più familiari e in qualche modo rassicuranti: Google Classroom e Microsoft Office 365. Si sperava che l’avvio del nuovo anno scolastico consentisse una riflessione più attenta sugli strumenti e le modalità della didattica a distanza, ma pare invece che sia cambiato poco: la maggior parte delle scuole continua ad affidarsi ai servizi Google e Microsoft.
La ragione addotta è spesso che questi servizi garantiscono la privacy degli studenti. In realtà usarli non è solo inopportuno, ma costituisce attualmente, dopo la sentenza Schrems II della Corte Europea di Giustizia, un illecito proprio per ragioni di privacy. Gli Stati Uniti si riservano per legge il diritto di accedere ai dati dei cittadini di qualunque Paese, se sono gestiti da una azienda statunitense, anche se i dati risiedono fisicamente su server situati al di fuori degli Stati Uniti. In sostanza tutti i dati dei nostri studenti, come di qualsiasi altro cittadino italiano ed europeo, gestiti da Google e da Microsoft, possono essere usati liberamente da un governo esterno all’Unione Europea. È appena il caso di ricordare che Trump ha cercato di bloccare la cinese Tik Tok negli Stati Uniti per ragioni di sicurezza nazionale.[read more]

La sentenza della Corte Europea di Giustizia, del 19 luglio scorso, dichiara che “le persone i cui dati personali sono trasferiti verso un Paese terzo sulla base di clausole tipo di protezione dei dati devono godere di un livello di protezione sostanzialmente equivalente a quello garantito all’interno dell’Unione da detto regolamento, letto alla luce della Carta [la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, NdR]”, cosa che non avviene con aziende statunitensi come Google e Microsoft, dal momento che “le limitazioni della protezione dei dati personali che risultano dalla normativa interna degli Stati Uniti in materia di accesso e di utilizzo, da parte delle autorità statunitensi, di siffatti dati trasferiti dall’Unione verso tale Paese terzo […] non sono inquadrate in modo da rispondere a requisiti sostanzialmente equivalenti a quelli richiesti, nel diritto dell’Unione, dal principio di proporzionalità, giacché i programmi di sorveglianza fondati sulla suddetta normativa non si limitano a quanto strettamente necessario” [1].
In sostanza, far usare ai nostri studenti le piattaforme Google e Microsoft significa esporli a un uso dei loro dati personali che viola i loro diritti di cittadini dell’Unione Europea. E a poco vale il consenso sulla privacy richiesto alle famiglie. Quali possibilità hanno? Se non dessero il consenso alla privacy, che dev’essere libero, i loro figli non potrebbero accedere alla didattica a distanza, ossia non potrebbero fruire del diritto all’istruzione. Il consenso non è dunque affatto libero. E un consenso non libero non ha alcun valore.
La gravità della situazione che si è venuta a creare può essere illustrata con un paragone. Immaginiamo che lo studente Tizio faccia per entrare a scuola ma venga fermato in portineria. Non può entrare a scuola se non ha la tessera. E non una tessera di ingresso rilasciata dalla scuola. No: occorre la tessera del negozio X, dell’ipermercato Y o dell’azienda Z. Senza avere la tessera di qualcuna di queste imprese private lo studente non può accedere alla scuola, ossia al diritto all’istruzione. È esattamente quello che accade quando si chiede allo studente, per accedere alla classe virtuale (che può anche sostituire del tutto, come sappiamo, la classe fisica), di avere un account Microsoft o Google, ossia di aziende commerciali private. Un assurdo che sarebbe comprensibile, forse perfino accettabile, se le scuole non avessero alternative. Ma le alternative ci sono. Ci sono strumenti gratuiti, liberi, con codice aperto, validi esattamente quanto quelli delle multinazionali, e che anzi risultano anche più efficaci, perché pensati appositamente per la didattica (si pensi a Moodle, usato dalle università in tutto il mondo e snobbato dalle scuole) . Servizi che bisognerebbe usare non solo per il rispetto dovuto agli studenti ed alla loro privacy, ma anche perché fare didattica a distanza, con gli strumenti tecnologici, non può non significare anche educare ad un uso consapevole ed attento della rete, dei servizi informatici e dei software.

[1] Corte di giustizia dell’Unione europea, Comunicato stampa n.91/20, Lussemburgo, 16 luglio 2020, url: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-07/cp200091it.pdf Nell’immagine: l’Edu Day di Microsoft. Fonte: https://www.mvservice.it
Gli Stati Generali[/read]

Il santo, la strega e l’angelo della storia

Se andate in Piazza del Campo, a Siena, fermatevi un attimo proprio davanti al Palazzo Pubblico. Guardate a terra. Una mattonella ricorda il luogo esatto in cui San Bernardino vi predicò, nel 1427. Possiamo rivivere la scena grazie ad un quadro di Sano di Pietro, nel quale stranamente non c’è molta gente ad ascoltare il santo, anche se sappiamo che la sua predicazione fu un grande evento, e fu scelta Piazza del Campo perché nessuna chiesa avrebbe potuto contenere la gente accorsa. Il santo è su un pulpito in legno; gli ascoltatori, inginocchiati – i maschi rigorosamente separati dalle femmine da un telone rosso – non sono più di qualche decina. Nel quadro di Sano di Pietro San Bernardino mostra agli ascoltatori il trigramma raffigurato su una tavola di legno, come era solito fare durante le sue prediche (e un trigramma, lavoro dell’orafo senese Tuccio di Sano, fa bella mostra di sé anche sulla facciata del Palazzo Pubblico). Ma sappiamo anche cosa disse, in quelle prediche, grazie al lavoro umile di un cimatore di panni, Benedetto di Bartolomeo, che usò per trascrivere con grande fedeltà le prediche del santo un misterioso metodo di scrittura rapida su tavolette di cera di sua invenzione.[read more]

È il 21 settembre. Domenica. Il santo parla dei peccati capitali. La superbia, la lussuria, l’avarizia. Il discorso – lungo, pesante, violento, come si conviene a una predica – si fissa presto sul Diavolo. E su coloro che, con l’aiuto del Diavolo, praticano incantesimi. Che fare con loro? Il santo non ha dubbi: “Non vi so meglio dire: ‘al fuoco, al fuoco, al fuoco’. Oimmè! O non sapete voi quello che si fece a Roma mentre che io vi predicai? O non potrei fare che così si facesse anco qui? Doh, facciamo un poco d’oncenso a Domenedio qui a Siena!” [1] Quali imprese aveva compiuto a Roma il santo? Lo dice lui stesso: “E come io ebbi predicato, furono acusate una moltitudine di streghe e di incantatori.” [2] Aveva chiesto morte ed aveva ottenuto morte. Ora a Siena chiede lo stesso. Chiede che si uccida in suo nome, per la maggior gloria di Dio. Chiede che si brucino degli esseri umani per fare un po’ di incenso a Dio.
Lasciamo Piazza del Campo e spostiamoci in Porta Camollia. È la porta più suggestiva di Siena, con quella scritta – “Cor magis tibi Siena pandit”: Siena ti apre un cuore più grande – che piacerebbe leggere sulla porta di ingresso di qualsiasi città. Siamo nel 1540. È l’8 giugno. Al prato di Camollia viene condotta una donna. Viene strangolata, poi il suo corpo è dato alle fiamme. La donna si chama Lucia di Pienza, ed è stata condannata a morte per stregoneria, con l’accusa di aver “guasto” molti bambini e di essersi accoppiata più volte con il Diavolo. Due mesi più tardi vengono impiccate e bruciate altre quattro donne, con la stessa accusa. [3] Donne che diventano incenso per Dio. I sacrifici umani del cristianesimo.
Siamo in tempi in cui si abbattono le statue – e se non è possibile abbatterle, si imbrattano. Mi dispiacerebbe se qualcuno ora imbrattasse quella mattonella, che ricorda un santo, ma anche un uomo che chiede di uccidere delle persone (per lo più donne) in onore di Dio. Mi piacerebbe piuttosto che ci fosse in Camollia una targa per ricordare la povera Lucia di Pienza. O una mattonella piccola, poco invadente, che avvisi il turista non troppo distratto del punto in cui, in Piazza del Campo, tredici ebrei furono bruciati vivi da una banda inneggiante alla Madonna. Era il 28 giugno del 1799. Ma mi piacerebbe, soprattutto, che ci fosse una diversa sensibilità storica, in particolare a scuola.
Historein in greco significa investigare, esaminare, osservare. Mi pare di poter dire: considerare la complessità delle cose. Provare a dipanare l’intrico delle faccende umane, senza però semplificare mai, ugualmente attenti alle luci ed alle ombre. La storia che abbiamo incontrato sui banchi di scuola, e che continuano a incontrare i nostri studenti, è molto lontana da questa ermeneutica della complessità. È la storia dei grandi uomini e dei grandi eventi: battaglie, trattati, regni ed imperi, re e regine.
È nota l’interpretazione che Walter Benjamin ha dato del quadro di Paul Klee Angelus Novus nelle sue Tesi di filosofia della storia. L’angelo di Klee è, per lui, l’angelo della storia. “Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta” [4]. Sarei insincero se dicessi di aver compreso questo passo, ma avverto il fascino dell’immagine. Se dovessi figurarmi un angelo della storia, le sue fattezze richiamerebbero però quelle dell’Angelo caduto: il Diavolo. E il suo sguardo si fermerebbe sulla povera Lucia di Pienza, probabilmente colpevole di nulla, e su Giulio Cesare Vanini, come lei strangolato e dato alle fiamme con l’accusa di ateismo, e su Anania e Saffira, e su Ipazia, e sugli albigesi massacrati a Béziers, e sui neri ridotti in schiavitù, e sui poveri sempre umiliati, sfruttati, massacrati, e su David Lazzaretti, stroncato dagli spari dei carabinieri, Rocco Girasole, ucciso dalla polizia mentre reclamava pacificamente pane e lavoro, eccetera. Il suo sguardo compassionevole considererebbe le moltitudini schiacciate dal procedere violento della storia, di cui lui, l’Anti-Dio, l’Angelo caduto, è il simbolo. Perché se si considera quella cosa che chiamiamo storia – che sta appena nascendo: ha qualche migliaio di anni, appena un attimo nella vita di una specie vivente – la cosa che più colpisce è la violenza cieca che la percorre. E lo studio della storia mi sembra un esercizio di pietà umana. È lo studio, l’indagine, la pratica dell’attenzione che, in quel quadro terribile, coglie ciò che è costretto fuori dalla scena, ascolta le voci ridotte al silenzio – come quelle delle streghe, che affiorano qua e là nei documenti dei processi – e ricostruisce la molteplicità delle vie, la pluralità delle tradizioni alle quali apparteniamo. Questa pratica di pietà, di giustizia e di attenzione è il lavoro urgente che spetta alle scuole, ben oltre il rituale ormai stucchevole delle giornate della memoria o del ricordo.

Note
[1] Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena, a cura di Carlo Delcorno, Rusconi, Milano 1989, vol. II, pp. 1006-1007.
[2] Ivi, p. 1007.
[3] D. Corsi, Diaboliche maledette e disperate. Le donne nei processi per stregoneria (secoli XIV-XVI), Firenze University Press, Firenze 2013, p. 83.
[4] W. Benjamin, Angelus Novus, tr. it. Einaudi, Torino 1961, p. 80.

Gli Stati Generali[/read]

Lettera a una studentessa delusa dalla scuola

Cara *, gli esami di Stato non sono andati come speravi ed ora ti senti delusa, amareggiata, arrabbiata. Hai l’impressione che l’impegno di anni non sia servito a nulla e che la scuola ti abbia ingannata. Hai ragione, e comprendo perfettamente la tua rabbia. Non ti scrivo per cercare di lenirla, ma per continuare il discorso di questi cinque anni: e cercare insieme qualche conclusione.
Ragioniamo di esami. Li amo poco, come amo poco tutto ciò che serve a creare gerarchie, vincitori e vinti, primi secondi e terzi. Io sono per i giochi a somma positiva, quelli nei quali vincono tutti. E così penso un po’ la scuola. Io metto sul tavolo quello che so, tu quello che sai tu. Io quello che penso, tu quello che pensi tu. E ragioniamo insieme, cerchiamo insieme, scaviamo insieme. Ci arricchiamo insieme. Ma questo non basta. La scuola ha bisogno di classificare – in alcune scuole gli studenti vengono addirittura divisi in tre fasce: i bravi, quelli così così, i pessimi.
In questi giorni di esami mi è sembrato un po’ di essere un giudice di uno di quei talent show che vanno di moda. Lo studente si esibisce, noi lo premiamo o lo penalizziamo. Ho detto si esibisce. Perché di questo si tratta: una esibizione. Noi docenti siamo sempre molto critici verso gli spettacoli televisivi, è sottocultura, robaccia popolare contro cui la scuola deve resistere. E forse è vero. Ma ci sfugge che la logica della scuola, quale si mostra negli esami, è la stessa di certi penosissimi concorsi televisivi.[read more]

In un concorso di bellezza non vince la più bella (e chi può dire, del resto, cos’è davvero la bellezza?) Vince quella che incontra meglio i canoni estetici correnti. Canoni che io non condivido affatto. Mi piacciono molto quei visi femminili che hanno qualcosa di irregolare, e mi fa molta rabbia che alcune donne sentano di dover correggere certi tratti distintivi della loro bellezza ricorrendo al chirurgo estetico. Ora, la scuola non funziona diversamente. Lo studente che ne esce vincitore non necessariamente è il migliore. È semplicemente lo studente che incontra i canoni culturali della scuola. Ma, ecco, questi canoni sono perfino più discutibili dei canoni di bellezza dominanti. Noi docenti ci consideriamo i depositari dell’unico sapere legittimo ed ostentiamo disinteresse verso qualsiasi manifestazione culturale che non abbia il sigillo dell’ufficialità. I docenti di italiano sono sempre prodighi di consigli sui libri da leggere, ma Wattpad no, non lo leggono. Wattpad è spazzatura: può forse un docente perdere tempo a leggere il diario di una quindicenne? Fuori dalla scuola, però, le cose vanno diversamente. Scolastico, fuori dalla scuola, è un aggettivo che non qualifica granché. Se scrivi nel tuo curriculum che hai una conoscenza scolastica dell’inglese non fai una bella figura. Scolastico, dice il dizionario Treccani, vuol dire “elementare e meccanico, legato a schemi rigidi e convenzionali, privo o scarso di rielaborazione critica e poco personale”. Ecco, ci siamo. Non so ad esempio quante volte, durante questi esami di Stato, ho sentito dire che Schopenhauer è un filosofo irrazionalista. Ma davvero? Solo perché dice che al fondo della realtà non c’è una Ragione? Ma allora siamo tutti irrazionalisti. Allora lo era anche Darwin, per dire. La scuola procede così. Mette etichette ovunque, e pensa che questo etichettamento sia il sapere.
Questo modo di procedere meccanico, schematico, misero è parte significativa del canone scolastico. Un tale pseudo-sapere dev’essere presentato poi in un certo modo. Se qualcuno mi chiedesse di parlare, che so, di Platone, io avrei bisogno di qualche tempo per raccogliere le idee. Platone lo conosco bene, credo, ma i discorsi non si improvvisano. Uno studente no, non può raccogliere le idee. Deve partire subito e non deve mai fermarsi. Deve andare dritto come un treno. Questo pseudo-discorso viene premiato con i voti più alti. Voti che premiano la simulazione del sapere, non il sapere.
C’è poi l’aspetto umano. Quello che si chiede allo studente di essere. Sono anni che durante gli scrutini discuto il voto di condotta. Immancabilmente i voti più alti vanno agli studenti più silenziosi. Che stanno lì buoni buoni. Questo si chiede in fondo a uno studente. Di star lì zitto. Mentre io metterei il massimo a uno studente che mi contesta. Perché è vivo, e perché contestare è una delle cose che vorrei che la scuola insegnasse.
Vedi cosa premia un voto alto agli esami di Stato. Il fatto che lo studente – che, sia chiaro, può essere brillantissimo – incontra il canone culturale della scuola. Che è un canone che può, che deve essere discusso.
E dunque: è legittima la tua rabbia, ma procedi oltre. Comprendi che in primo luogo stai riconoscendo l’autorità di qualcuno su di te. Riconosci a noi il diritto di dirti quanto vali, quanto è solida la tua cultura, quanto reale è la tua passione. Ma al punto in cui sei non devi riconoscere nessuna autorità al di fuori di te stessa. Una volta questi esami si chiamavano esami di maturità. E la maturità consiste un questo. Siii fiera, sicura, orgogliosa di te stessa. In secondo luogo, discuti la scuola. Discuti il suo canone culturale, la sua miseria relazionale, i suoi rituali ridicoli. Discuti un sistema vecchio, stanco, che non ha mai davvero saputo rinnovarsi. Una chiesa il cui Dio è morto da un pezzo, ma che ancora si crede l’unica via di salvezza. E discuti me, prete ateo, che da quella chiesa non sa staccarsi. Perché? Perché a volte i volti si incontrano perfino lì. Ed è l’unica cosa che conta.

Gli Stati Generali, 24 giugno 2020.

[/read]

La scuola salvata dagli smartphone

Nella prima metà degli anni Novanta presi, con la massima determinazione, una posizione che ancora oggi è oggetto di ironia nella mia famiglia: “Non mi vedrete mai con quel coso”. Quel coso era il telefono cellulare. In quegli anni erano davvero pochi ad averli, e chi lo aveva lo ostentava come status symbol, segno dell’ingresso in una ristretta cerchia di gente benestante e al passo con i tempi. I cellulari erano oggetti ingombranti, che fanno tenerezza se confrontati con gli smartphone attuali, e chi li usava era spesso costretto a contorsioni imbarazzanti per intercettare il campo. Nel ’98 insegnavo italiano in una scuola media. In una terza quasi tutti gli studenti avevano il telefono cellulare. Lo tenevano poggiato in bella mostra sul banco, in alto a destra, come qualcosa che non potevano sottrarre allo sguardo nemmeno per un istante. Mi sembrava una ostentazione che non faceva ben sperare sulle nuove generazioni, e lo stesso pareva ai miei colleghi.
Ho preso il primo cellulare sul finire degli anni Novanta, per ragioni affettive: una persona cui tenevo si era trasferita in un’altra città e mi aveva fatto capire che con il cellulare sarebbe stato più facile sentirci, anche via sms. Presi un Siemens C25, un oggettino compatto, piacevole da maneggiare. Scoprii che mi piaceva, per quanto ci si potesse far poco: telefonare, mandare sms, giocare a Snake.[read more]

Non so dire quanti telefoni cellulari ho cambiato da allora. Ma sono molti. Non ho mai speso troppo, mi sono tenuto lontano dai cosiddetti top di gamma e dalle marche più costose, ma ho sempre cercato dispositivi che mi permettessero di sfruttare tutte le possibilità della tecnologia. Oggi con il mio smartphone faccio le seguenti cose: leggo libri e giornali (nazionali ed internazionali, che leggo gratis grazie ad un servizio della biblioteca della mia città), studio le lingue (al momento sto rinfrescando il mio tedesco e studiando un po’ di giapponese: le app hanno scalzato pienamente i libri nello studio delle lingue), guardo documentari e film, ascolto musica, seguo corsi universitari gratuiti (con Coursera), gestisco le mie classi virtuali e preparo materiali didattici, suono la chitarra seguendo uno spartito che scorre sullo schermo, medito usando un timer apposito con una campana, leggo la posta… Potrei continuare a lungo. Quando mi capita di imbattermi nella diffusa e facile ironia sul fatto che una volta sull’autobous ti imbattevi in gente che leggeva il giornale mentre oggi sono tutti chini sugli smartphone, non posso fare a meno di obiettare che magari stanno usando lo smartphone per leggere. Oppure – è quello che ho fatto io fino a quando è stato possibile prendere gli autobus – per ascoltare Bach.
Abbiamo demonizzato il cellulare quando era una cosa da ricchi, quando sapeva di yuppie fuori tempo massimo, e forse avevamo ragione. Poi il cellulare si è trasformato in smartphone, un dispositivo semplicemente straordinario, che offre possibilità di conoscenza, di esperienza, di scambio prima nemmeno pensabili, e abbiamo continuato con la nostra demonizzazione. Mi riferisco soprattutto alla scuola. Lo smartphone era la fonte di distrazione suprema e come tale bisognava vietarlo, non prima di aver gettato un po’ di disprezzo sullo strumento e su chi ne fa uso. Solo pochi si sono accorti che poteva essere uno strumento didattico. Poi è arrivato il lockdown. Le scuole sono state chiuse, e con la chiusura delle scuole sono saltate anche tante certezze che sorreggevano la nostra prassi didattica.
Ci raccontiamo che la scuola continua, in forma diversa, grazie ai computer. E quando non ci sono, mandiamo i computer scolastici, o diamo un sostegno economico – immagino insufficiente – per colmare il gap tecnologico. Non ci rendiamo conto che non sono i computer che stanno salvando la scuola in questo momento. E non solo perché non in tutte le case ci sono i computer. E nemmeno perché in molte famiglie c’è un computer e ci sono tre figli che vanno a scuola (e magari il computer serve anche ai genitori). Quello che sta salvando oggi la scuola, che ci sta consentendo di continuare in qualche modo a far lezione, a seguire i nostri studenti, a continuare il dialogo, è il tanto demonizzato smartphone. Se noi adulti continuiamo a percepire lo smartphone come un bene di lusso, memori delle scene degli esordi, i ragazzi sanno che si tratta invece di un bene di necessità: e per questo è difficile che manchi uno smartphone anche nelle famiglie più povere, nelle quali i computer non sono mai entrati. Ed è, di fatto, un bene di prima necessità. Oggi la realtà si è sdoppiata, accanto a quella che tocchiamo con i sensi c’è la realtà parallela dei social network e della condivisione informatica. Essere fuori da questa realtà parallela significa vivere una realtà sociale dimezzata. E non solo per i ragazzi: la stessa politica oggi si fa sui social network. Se alla realtà quotidiana si accede attraverso i sensi, alla realtà parallela si accede attraverso un nuovo senso tecnologico: e tale è, e sta diventando sempre più, lo smartphone. Qualcosa di più di un semplice strumento. Un senso aggiunto. Un sesto senso. Bisogna tenerne conto anche sul piano politico, perché è sempre più evidente che l’accesso alla rete Internet ed alla tecnologia sono oggi fondamentali per il pieno esercizio degli stessi diritti di cittadinanza. Ma bisognerà tenerne conto anche a scuola, quando sarà possibile tornare nelle aule e, guardandoci in faccia, ci troveremo di fronte ad una scelta: continuare la vecchia, consolidata narrazione, o costruire un discorso nuovo, liberarci dai pregiudizi, avere il coraggio del cambiamento.

Gli Stati Generali, 24 aprile 2020.[/read]

Quella distanza che rende la scuola più vicina

I problemi, le difficoltà, i rischi della chiusura – non si sa fino a quando – della scuola sono evidenti: primo fra tutti la possibilità concreta che chi è già indietro resti ancora più indietro, a causa del divario culturale, cui si aggiunge ora, spesso, il divario digitale. Un piccolo studente che abbia difficoltà legate alla motivazione, con alle spalle una famiglia che non lo supporta, rischia di perdere anche l’incoraggiamento e il sostegno della comunità scolastica (quando c’è: cosa che non è purtroppo scontata). E può essere che la mancanza di computer o di una stabile connessione alla rete Internet finisca per aggravare il quadro.
Vorrei però ragionare anche sulle opportunità di questa fase così difficile. Procederò per punti.
1. Nuove modalità relazionali. Sono fortemente convinto che il principale problema della scuola italiana vada individuato nella relazione tra docenti e studenti. La scuola nasce come istituzione autoritaria, asimmetrica, disciplinare e tendenzialmente totalizzante. E’ una istituzione di potere, che promette di creare delle soggettività solo dopo un lungo assoggettamento, per dirla alla Foucault. Altrove i sistemi scolastici sono riusciti a fare i conti con questo passato autoritario ed a staccarsi da una modalità relazionale che ha poco a che fare con l’apprendimento. L’Italia no. Benché nella percezione di molti la causa della crisi attuale della scuola vada ricercata in un lassismo che si fa risalire all’influenza nefasta del Sessantotto, in realtà la scuola persiste nel suo delirio unidirezionale. Il docente fa lezione dalla cattedra, gli studenti sono nei loro banchi in fila, il sapere si trasmette dall’uno agli altri.[read more]

Ora, l’irruzione della distanza fa saltare il gioco. Quei docenti che persistono nel guardare le classi dall’alto della pedana sotto la cattedra (sì: in Italia persistono le pedane sotto le cattedre) dovranno adesso accontentarsi di mettere le pedane sotto le scrivanie. O sotto la webcam, se preferiscono. Il docente collegato in videoconferenza con la sua classe diventa, che lo voglia o no, quello che dovrebbe essere: una persona al servizio dei suoi studenti, pagata dallo Stato per favorire i loro apprendimenti. Tutto l’apparato di controllo, tutto il setting che sostiene e giustifica il suo potere, è venuto a crollare. Nessuno chiederà il permesso per andare in bagno. Lo studente è a casa sua, il docente entra nella sua cameretta, nel salotto, nella cucina a volte. E dovrà farlo necessariamente in punta di piedi. Paradossi di questo tempo sospeso: la didattica a distanza annulla la distanza.
2. Riflessione sulla valutazione. La domanda più pressante, in questi giorni, è: come valutare? Il sottinteso è: come essere certi che non copino? C’è dietro questa domanda la paura di perdere anche l’ultimo strumento di potere, il voto. Che dovrebbe solo servire ad aiutare lo studente a monitorare il suo percorso di apprendimento, ma in un sistema autoritario diventa uno strumento di potere e di manipolazione per gli uni, il fine reale del lavoro per gli altri. A meno che non si voglia interrogare lo studente in videoconferenza avendo cura che sia bendato, l’unico modo per valutare in questo periodo è concentrarsi sulle competenze. Non chiedere allo studente di ripetere quello che c’è sul libro, o che il docente ha detto a lezione, ma proporre delle attività dalle quali emerga la rielaborazione personale, la capacità di applicare le conoscenze, la creatività. Inutile fare la classica interrogazione sul pensiero di Nietzsche; chiedere piuttosto di scrivere soggetto e un pezzo di sceneggiatura di un film nicciano (che si leghi cioè, anche in modo critico, a qualcuno dei temi di fondo del suo pensiero). Ma concentrarsi sulla competenza è quello che bisognerebbe fare sempre, a scuola, per evitare il vuoto nozionismo, la penosa simulazione del sapere.
3. I gruppi. Un lavoro come quest’ultimo potrebbe essere troppo difficile per il singolo studente. Meglio proporlo come lavoro di gruppo. Ed è questa, forse, la principale opportunità di questo periodo. Il lavoro di gruppo a scuola – nella scuola italiana – è da sempre marginale. Lo è anche per l’ossessione docimologica: come valutarlo? come impedire che il lavativo di turno si avvantaggi del lavoro degli altri? Gli strumenti che utilizziamo in questi giorni sono nati spesso per favorire il lavoro nelle aziende. E’ il caso di Teams, strumento centrale di Microsoft Office 365 Education A1, tra le piattaforme raccomandate dal Miur. Penso tutto il male possibile di questa raccomandazione di servizi proprietari, quando sono disponibili alternative open source, e mi chiedo anche perché il Ministero non abbia approntato mai una sua piattaforma per l’apprendimento aperta, gratuita, con alle spalle una solida visione pedagogica. Cerco però di vedere il buono anche nelle cose che non mi piacciono, soprattutto quando sono cose che devo usare per lavoro. Teams funziona bene, come dice il suo nome, per il lavoro di gruppo. Usare strumenti come questo per continuare la didattica unidirezionale è sciocco. E’ bene che finalmente i nostri studenti imparino a coordinarsi, condividere le informazioni, dividersi i compiti, costruire l’intelligenza collettiva.
4. La scuola e l’altrove. La scuola pensa sé stessa come una cittadella del sapere. Un mondo chiuso nel quale c’è il sapere vero, autentico, certificato (con qualche eccezione: i voti scolastici in inglese o francese non certificano nulla di per sé; “conoscenza scolastica” nel curriculum in questo caso non fa fare una grande figura), autorevole. Fuori è tutto dilettantismo. La chiusura della scuola come luogo fisico abbatte questa barriera mentale. Il docente che fa lezione in videoconferenza ha come strumento il suo computer. Potrà usare, sul suo computer, il libro di testo. Ma potrà anche esplorare la rete insieme ai suoi studenti. La classe, di fatto, diventa questo: un ambiente di apprendimento connesso alla rete, e dunque parte di un più grande sistema informativo, che può essere un pericolo (ah, la privacy), ma anche una straordinaria risorsa.
La scuola a distanza, dispersa apparentemente nelle singole abitazioni dei docenti e degli studenti, può tentare nuove relazioni, nuove connessioni, nuove modalità di ricerca. Essere, forse, più vicina che mai.

Gli Stati Generali, 24 marzo 2020.[/read]

Cos’è una classe virtuale
(e perché dev’essere libera)

In questo periodo di grave difficoltà per la scuola pubblica, pare segno di grande responsabilità e generosità che aziende piccole, grandi e grandissime abbiano messo a disposizione gratuitamente i loro servizi. Prime fra tutte, le multinazionali dell’informazione per eccellenza: Google e Microsoft. Google Suite for Education e Office 365 Education A1 fanno bella mostra di sé nella pagina del Miur dedicata alla didattica a distanza, quali piattaforme raccomandate; e di fatto, grazie a questo endorsement ministeriale, sono le piattaforme più usate dalle scuole in questo periodo. Il Ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione e l’Agenzia per l’Italia Digitale hanno poi promosso Solidarietà digitale, una pagina con il lungo elenco di aziende ed associazioni che mettono gratuitamente a disposizione i loro servizi: si va dall’immancabile Amazon ai gestori di telefonia fino alla aziende di trasporti che offre corse gratuite, una offerta poco comprensibile in un periodo di immobilità coatta.
Bisogna essere molto ingenui per non vedere dietro questa generosità la realizzazione di un sogno: quello di conquistare il lucroso settore della scuola pubblica, rendendo i propri servizi indispensabili per la didattica ed acquisendo i dati personali di migliaia, possibilmente milioni di studenti e docenti. Chi scrive ha conseguito un attestato di Docente esperto in tecnologie informatiche non meno di vent’anni fa. All’epoca per essere esperti di tecnologie informatiche bastava saper usare Microsoft Office; e l’attestato giunse proprio alla fine di un corso a distanza (naturalmente gratuito) di Microsoft, accompagnato e completato dal dono generoso di una copia gratuita della suite Office. La logica è quella commerciale del cavallo di Troia: si offre un servizio gratis, si entra nella scuola pubblica e si conquista il mercato dell’insegnamento. Continue reading “Cos’è una classe virtuale
(e perché dev’essere libera)”

Facciamo una scuola difficile

Uno studente che provenga dal ceto proletario si trova ad affrontare difficoltà che per lo studente borghese sono difficili anche da immaginare. La più grande, spesso insormontabile, è la differenza culturale: perché la cultura scolastica è la cultura elaborata nei secoli dal ceto nobiliare e poi da quello borghese, una cultura che esprime una visione del mondo che è diversa, diversissima da quella proletaria; una costellazione di valori altra, nella quale lo studente proletario non è a casa. E si trova di fronte a una scelta dolorosissima: abitare quella nuova casa e diventare un estraneo per il suo ambiente o rifugiarsi nel suo ambiente e disertare la nuova, improbabile casa. Spesso è questa seconda, la sua scelta, ed è tra le cause principali della dispersione scolastica. C’è poi la lingua. Il nostro studente proletario ha un codice ristretto, direbbe Basil Bernstein. Ha un codice diverso, direbbe qualche altro. Certo parla una lingua che non è quella scolastica. Un proletario foggiano ha termini estremamente precisi per indicare, che so, l’acqua di cottura della pasta o le briciole di polistirolo, ma non ha un lessico astratto o adatto alla complessità del mondo emotivo e sentimentale (quel mondo che si esprime nella poesia e nella letteratura): nella sua lingua non esiste nemmeno un modo per dire “ti amo”. C’è poi – lo diceva Gramsci, e l’aveva vissuto sulla sua pelle – l’attitudine a quel tipo particolare di fatica che è il lavoro intellettuale, che può essere piacevole e anche gioioso, ma resta un lavoro, e per lo studente proletario è un lavoro strano, diverso dal lavoro di suo padre e di suo nonno. Continue reading “Facciamo una scuola difficile”

Sinagogia

Una intervista a Tutta un’altra scuola.

Professor Vigilante, lei è fautore di piccoli-grandi cambiamenti e novità nell’approccio con l’insegnamento, che sperimenta con gli studenti del liceo dove insegna. Ci vuoi spiegare su cosa si basa la costruzione delle relazione con loro e delle relazioni tra di loro e come questo permetta una modalità di insegnamento più efficace?

“Da qualche tempo amo usare la parola sinagogia al posto di pedagogia. Il termine pedagogia indica il ‘condurre il bambini’, ed è evidentemente inadeguata oggi che sappiamo che l’educazione non riguarda solo i bambini, ma è un processo che dura tutta la vita. Ma dal mio punto di vista è inadeguata anche perché pensa l’educazione come l’azione con la quale un soggetto conduce e dirige un altro soggetto. Sinagogia vuol dire invece che l’educazione accade quando due o più soggetti si conducono insieme (syn). Non posso educare qualcuno senza educarmi al tempo stesso. Vi sono situazioni educative, nelle quali ognuno è al tempo stesso educatore ed educato. La scuola dovrebbe essere la situazione educativa per eccellenza, ma lo è di rado e quasi per accidente. Io ritengo che chi insegna debba riflettere a fondo su questa domanda: quando, come, a quali condizioni accade l’educazione? E’ una riflessione che non può che partire da noi stessi. Quando e come siamo cresciuti? In quali situazioni siamo cambiati? Cosa ci ha fatto riflettere, ci ha spinti a vedere il mondo con occhi diversi, ad allargare lo sguardo? La mia risposta è che una relazione viva, autentica, è essenziale. Credo che l’educazione sia creare relazioni autentiche. E dal mio punto di vista non è possibile creare relazioni autentiche senza attaccare il verticismo, l’asimmetria, la gerarchia relazionale che caratterizzano le relazioni nella scuola italiana. In una relazione asimmetrica, quale si vuole che sia quella tra docente e studente, non si comunica in modo autentico. Spesso, anzi, non si comunica affatto”.[read more]

Come utilizza la mindfulness a scuola e come la si potrebbe utilizzare proficuamente nella scuola oggi?

“La mia proposta è quella di inserire la mindfulness in un contesto più ampio, che chiamo Educazione Basata sulla Consapevolezza (EBAC). Essere consapevoli di quello che accade è l’essenza della mindfulness. In alcune applicazioni, questa consapevolezza viene adoperata come strumento per affrontare problemi comuni nella nostre classi, come il bullismo o il deficit di attenzione. E’ quella che chiamo EBAC Problema-Soluzione. In un secondo approccio la meditazione è intesa nel suo senso più propriamente religioso, come pratica che consente il trascendimento dell’ego ordinario. Chiamo questo approccio, che si trova ad esempio nell’Alice Project di Valentino Giacomin, EBAC Transpersonale. In alternativa a questi due approcci io propongo una EBAC Umanistica, che inserisce la meditazione in un più ampio progetto di formazione integrale dello studente, che comprende anche la formazione politica. La meditazione guida alla conoscenza di sé, ma consente anche una migliore comprensione dell’altro e la costruzione comune di una comunità autentica: spiritualità, etica e politica”.

Sono in molti a sottolineare la necessità di un radicale cambiamento del paradigma educativo convenzionale che si basa ancora su lezioni frontali, nozioni, standardizzazione, ecc. Come vede l’educazione efficace e a misura di bambino/ragazzo di un futuro possibile?

“Bisognerebbe riflettere sull’efficacia. Efficace rispetto a cosa? Quale è lo scopo da raggiungere, in educazione? Per molti, è l’affermazione lavorativa degli studenti o dei figli. Una visione legittima, ma che pecca di individualismo: quale società creeremo, se educhiamo ciascuno a pensare solo al proprio futuro professionale? Per altri, bisogna educare alla felicità. Anche questa è una visione condivisibile, ma non meno individualistica. Che succede, se la mia felicità contrasta con i bisogni di altri? Dal mio punto di vista, fondamentale è la violenza. L’educazione è lo strumento migliore – l’unico? – che abbiamo per combattere la violenza. E possiamo combattere la violenza fino in fondo solo se abbiamo imparato anche a cercarla e stanarla dentro di noi. Per questo quella educazione dello sguardo che è la meditazione è per me essenziale”.[/read]

Come eliminare la bocciatura e vivere felici

Dopo la pubblicazione del mio articolo sull’orale dell’esame di Stato qualcuno si è chiesto come sia possibile che uno studente giunga agli esami finali senza saper risolvere un limite. Provo a spiegarlo. Il nostro studente, che chiameremo Taldeitali, giunge allo scrutinio finale del primo anno di liceo con una sola insufficienza, grave, in matematica; nelle altre discipline ha sufficienza piena, e anche qualche otto. Che si fa? Promosso con giudizio sospeso: dovrà recuperare matematica. Dopo due mesi lo studente si presenta all’esame di riparazione e, come è prevedibile, non ne sa più di prima. Allora? I casi sono due: o il docente di matematica, che due mesi prima era rigoroso, ora diventa improvvisamente malleabile e si fa bastare quel poco che lo studente sa, o resta irremovibile e il consiglio di classe, valutando complessivamente i risultati dello studente, decide comunque di ammetterlo alla classe successiva. Il nostro Taldeitali affronterà dunque il secondo anno di liceo con basi traballanti in matematica, e rimedierà con ogni probabilità una seconda insufficienza, che sarà sanata allo stesso modo. E così per tutti gli anni di liceo, fino a giungere agli esami di Stato senza sapere molto della disciplina.
È evidente che c’è una falla nel sistema (una tra le tante). Respingere peraltro uno studente per una disciplina significa condannarlo a ripetere, l’anno successivo, tutte le discipline nelle quali ha raggiunto la piena sufficienza, solo per recuperarne una. Un assurdo evidente. A dire il vero non è meno assurdo che lo si faccia per tre discipline; anche in questo caso lo studente dovrà ripetere dieci discipline nelle quali ha raggiunto la sufficienza: vale a dire decine e decine di argomenti che già conosce. Uno spreco umano, intellettuale ma anche economico, perché un anno di scuola costa allo Stato intorno ai settemila euro all’anno. E se lo studente è bocciato, quei settemila euro sono soldi buttati. Continue reading “Come eliminare la bocciatura e vivere felici”

La filosofia e il negativo:
il tempo per essere veri

I momenti più belli dell’anno scolastico sono i primi giorni di giugno, quando il programma è ormai finito e, liberi dall’incombenza delle lezioni, è possibile parlare seduti sull’erba, godendosi il sole e la compagnia. In uno di questi momenti ho provato a fare un bilancio dell’anno con gli studenti di quarta. Una classe che ho preso quest’anno, e con la quale c’è stato qualche problema iniziale dovuto alla sensibile differenza di metodo tra me ed il docente dell’anno precedente. In quest’anno scolastico abbiamo attraversato più di mille anni di filosofia, dalle certezze del pensiero medievale fino alle inquietudini kantiane. Come è andata, dunque?
Dopo qualche complimento di rito viene fuori un aggettivo che, nonostante la bella giornata, mi gela: deprimente. Studiare filosofia è stato deprimente. Poiché so che spesso i ragazzi danno alle parole un significato un po’ diverso da quello corrente, chiedo spiegazioni. E viene fuori che la filosofia è deprimente perché toglie ogni certezza. Non abbiamo assistito solo al crollo della visione del mondo medioevale. Non abbiamo seguito solo Cartesio nel suo dubbio metodico. Ci siamo interrogati anche sulla validità dello stesso cogito cartesiano. Quanto è solida la certezza di noi stessi? Chi siamo davvero? Hume ci ha gettato addosso un bel po’ di domande; con Kant siamo finiti ad interrogarci sulla realtà di ciò che vediamo.
E ci siamo fatti poi mille domande morali. Continue reading “La filosofia e il negativo:
il tempo per essere veri”

Esami di Stato, ovvero
come ti ridicolizzo lo studente

Si siede davanti alla commissione. Ha lo sguardo un po’ smarrito, ma non mi preoccupo: le succede. Le sottoponiamo le tre buste. Sorride, ne sceglie una, l’apre. Sbircio: no, non è stata fortunata. A qualcuno il meccanismo delle buste ha presentato una poesia, a qualcuno un articolo della Costituzione, a qualcuno ancora un passo di qualche sociologo o antropologo. A lei il calcolo di un limite. Il suo smarrimento diventa desolazione. Le diciamo di prendersi tutto il tempo che le occorre, che non è necessario calcolare ora il limite, è solo uno stimolo per iniziare la trattazione, se vuole può calcolarlo alla fine con calma. Niente. Pietrificata. Suggeriamo: lascia stare la matematica, pensa al concetto di limite. Niente. Aggiungiamo: limite, confine, dai. Qualcuno azzarda: barriera. Siepe, ecco. La siepe. Ma sì, Leopardi. E l’esame comincia. Di suggerimento in suggerimento, di collegamento in collegamento. Con il suo sguardo sempre più smarrito, e gli occhi che a tratti sembrano pieni di lacrime. E sembra che voglia dire: perché mi fate questo? Continue reading “Esami di Stato, ovvero
come ti ridicolizzo lo studente”

Elogio della competenza: una replica

Perdonami, lettore: questo è uno di quegli articoli lunghi e un po’ noiosi che però non è possibile non scrivere. E’ una risposta a questo articolo polemico di Giovanni Carosotti, che a sua volta replica a questa mia recensione di un libro di Galli della Loggia. I toni di Carosotti sono antipaticissimi, ma farò finta di niente, per non farti perdere altro tempo. Per la stessa ragione sorvolerò anche su alcuni punti dell’articolo, non proprio sintetico, di Carosotti.

Una premessa. Ritengo che la scuola abbia bisogno di qualcosa di più radicale di una riforma burocratica. Sono convinto che essa sia una istituzione che ha un difetto di origine piuttosto serio: la violenza. Per secoli le aule scolastiche sono state luoghi in cui si è perpetrata una violenza anche fisica; oggi la scuola continua a portare il peso di questa tradizione. Ed è necessaria una cesura, netta. Cesura che per me passa principalmente attraverso un ripensamento della relazione tra insegnante e studente, che si configura ancora come relazione di potere (o meglio: di dominio).
Questa premessa è necessaria per spiegare ciò che a dire il vero dovrebbe essere di per sé evidente: perché considero il discorso di Ernesto Galli della Loggia reazionario. Ecco: io considero qualsiasi discorso sulla scuola che non ne metta radicalmente in discussione l’impianto autoritario, l’asimmetria, la comunicazione unidirezionale, il setting burocratico come un discorso reazionario e conservatore. Continue reading “Elogio della competenza: una replica”

Il nuovo esame di Stato
e i sogni del signor Miur

Il pianista sorride al pubblico, si accomoda davanti alla tastiera, si raccoglie un attimo e poi attacca con notturno di Chopin. Va avanti per qualche minuto, la sala è già quasi presa dall’intensità di quella musica, quando all’improvviso smette di suonare e sembra porsi in ascolto, con l’espressione sicura di chi sa cosa sta facendo. Il pubblico è perplesso. Qualcuno più scaltro, o meglio informato, avverte: sta suonando 4′ 33” di John Cage. Il pubblico annuisce, è ora ammirato da una così ardita evoluzione. Dopo quattro minuti e trentatré secondi il pianista posa nuovamente le mani sulla tastiera ed attacca un blues, per proseguire con la sigla dei Puffi e concludere, con l’aria trionfale, con Tanti auguri a te. Il pubblico è in delirio.
Ecco, fino allo scorso anno l’orale dell’esame di Stato funzionava più o meno così. Lo studente preparava il percorso o la tesina, una rete surreale di link tenuti insieme da un tema centrale, che nelle varie ramificazioni si smarriva miseramente, ma funzionava ottimamente come pretesto per scegliersi una parte significativa delle domande dell’esame. Ed era divertente assistere alle evoluzioni che portavano dal male di vivere (il tema più gettonato in assoluto) al sistema muscolare, da Schopenhauer alle derivate. Continue reading “Il nuovo esame di Stato
e i sogni del signor Miur”

Quale discorso di sinistra
sulla scuola?

Figuratevi un libro sul sistema giudiziario italiano che, dopo qualche pagina di lamentele generiche sulla giustizia che non funziona, se n’esca con l’affermazione che è tutta colpa del diritto. O, se preferite, un libro sui mali della sanità italiana che dica che è tutta colpa della medicina. Difficile immaginare che un libro del genere possa trovare un editore serio. E’ invece l’editore Marsilio, che non è tra gli ultimi, a mandare in libreria L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola di Ernesto Galli della Loggia. Libro nel quale appunto, dopo un esordio di puro qualunquismo, si trova questa uscita incredibile: “Abbandonata e manipolata dalla politica, lontana dalla coscienza del paese che la considera sostanzialmente irrilevante, essa [la scuola] è stata lasciata alle cure di un solo tutore: la pedagogia. Finito ogni discorso politico sulla scuola, tutto lo spazio è stato occupato unicamente dal discorso pedagogico. Da anni è la pedagogia che dice alla scuola ciò che essa deve essere, ciò che deve insegnare e come deve farlo”. Pensate un po’ che orrore, della scuola pretende di occuparsi la pedagogia. Non, che so, l’idraulica, non l’entomologia e nemmeno la botanica. La pedagogia, ossia la scienza dell’educazione! Continue reading “Quale discorso di sinistra
sulla scuola?”

Noi docenti non ci lasciamo intimidire

A Palermo una docente viene sospesa dall’insegnamento perché in un video i suoi studenti hanno accostato il decreto sicurezza alle leggi razziali.
Ragioniamo un attimo. L’accostamento tra il decreto sicurezza e le leggi razziali è stato fatto in modo plateale dal settimanale l’Espresso, che ha aperto il numero del 30 settembre 2018 con in copertina La difesa della razza e il titolo: “1938-2018. Un decreto che discrimina. Ottant’anni dopo le leggi razziali”. Dal suo profilo Twitter – che è l’ufficio virtuale dal quale svolge per lo più il suo lavoro di ministro (in quello reale s’è fatto vedere pochissimo) – Matteo Salvini ha commentato: “Questi non sono normali!!!”. Non gli è stato possibile andare oltre i tre punti esclamativi: perché l’Italia è un paese democratico, e la libertà della stampa è uno dei fondamenti di una democrazia. Non è una libertà assoluta, ovviamente: esiste un Ordine dei giornalisti che interviene in caso di palesi violazioni. Ma non è stato, non poteva essere questo il caso, perché l’accostamento tra i due dati storici può essere discutibile, ma non è né arbitrario né viola alcuna legge.
Ora, per una democrazia la libertà dell’insegnamento (e dell’apprendimento) è un principio non meno importante della libertà della stampa. Se non sono censurabili i giornalisti per aver paragonato il decreto sicurezza alle leggi razziali, non lo sono nemmeno gli studenti e la loro docente. La libertà di riflessione e di analisi degli studenti, la libertà di insegnamento dei docenti, la libertà di informazione, di critica, di denuncia sociale dei giornalisti sono tre aspetti di una stessa libertà: la libertà democratica. Quella libertà che è stata conquistata con il sangue dei partigiani. Continue reading “Noi docenti non ci lasciamo intimidire”

Scuola: la laicità difficile

Qualche mese fa ha fatto discutere la scelta del preside di un istituto comprensivo di Porto Tolle, nel cattolicissimo Veneto, di non consentire al vescovo di Chioggia di far visita alla sua scuola. L’argomento del dirigente era semplice: la scuola pubblica e statale è laica. La semplicità, sensatezza, evidenza dell’argomento naturalmente non sono state sufficienti ad evitare le polemiche, per lo più politiche: per certe forze conservatrici notizie del genere sono manna dal cielo.
Non si è fatto troppi problemi invece il dirigente dell’istituto “Ungaretti-Madre Teresa” di Manfredonia, che sulla homepage del sito pubblicizza con grande enfasi la visita di monsignor Moscone, nuovo vescovo della Diocesi. “Un pieno di emozioni questa mattina per alunni, docenti, personale e genitori”, si legge. E le foto fanno quasi tenerezza: sembrano uscite dagli anni Cinquanta, quando il Paese era fervidamente, unanimemente cattolico, i pochi anticonformisti, come i coniugi Bellandi di Prato – che si erano permessi di sposarsi solo civilmente – venivano pubblicamente umiliati e Dio, Patria e Famiglia era uno slogan che non faceva sorridere. Se non fosse per gli smartphone che spuntano qua e là, le foto sarebbero perfettamente vintage: il vescovo dall’aria bonaria, il preside compiaciuto, lo stemma episcopale in bella mostra, e soprattutto loro, i bambini. Col grembiulino azzurro, le bandierine, le mani sollevate per accompagnare chissà quale canto. Continue reading “Scuola: la laicità difficile”

Le radici culturali dell’abbandono scolastico

Poco dopo aver letto l’articolo di Valerio Camporesi sul difficile problema dell’abbandono scolastico mi è capitata sotto mano una intervista al filosofo Umberto Galimberti che meriterebbe di essere discussa punto per punto. Mi limiterò qui a considerare la seguente affermazione, che mi sembra un buon punto di partenza per parlare di abbandono scolastico: “Per me fino a 18 anni bisogna tenere una scuola dell’obbligo, inevitabilmente. E i ragazzi vanno in qualche modo sedotti… sedotti con la cultura. Allora vanno a scuola volentieri.”
Dunque: la cultura e la seduzione. La scuola ha la cultura, che per un filosofo come Galimberti è evidentemente qualcosa di straordinario, e tuttavia non basta da sola, ha bisogno di essere resa piacevole e interessante: l’esempio è quello della Commedia letta da Benigni. Ma la scuola ha la cultura? No. La scuola ha una cultura. I programmi scolastici, o per meglio dire le programmazioni dei singoli docenti, offrono agli studenti una fetta di cultura, dalla quale restano escluse molte cose. Restano esclusi molti aspetti della cultura occidentale che non rientrano nel canone occidentale, così come resta esclusa praticamente tutta la cultura orientale, africana, sudamericana. Ma resta esclusa, soprattutto, la cultura delle classi subalterne. La cultura scolastica rappresenta una parte significativa della cultura in cui si riconoscono le classi alte della società italiana: una cultura lodevolissima, fatta di straordinari capolavori letterari, filosofici, artistici, ma che non è la cultura, non ha, di fatto, un valore universale, non è una casa comune degli italiani. Si dirà che è compito della scuola far sì che lo diventi. Può essere. Ma intanto non tutti gli studenti che entrano a scuola si ritrovano in quella dimora culturale: alcuni perché appartenenti a classi subalterne, altri perché stranieri, altri ancora per entrambe le ragioni.

Mi pare che qui vada cercata una delle ragioni dell’abbandono scolastico. Non dico nulla di nuovo, naturalmente. Ma dopo Gramsci, don Milani, Bourdieu, occorre ancora constatare il carattere monoculturale della scuola, la sua incapacità di essere ponte tra culture, di farsi luogo di dialogo tra visioni del mondo. Senza un riconoscimento reciproco non è possibile alcun lavoro educativo e culturale. Se lo studente porta a scuola una cultura diversa da quella scolastica, e se la scuola con quella cultura non è in grado di dialogare, l’esito è solo uno: l’abbandono. Lo studente prende atto della incompatibilità dei due mondi, e sceglie quello al quale sente di appartenere: il mondo della famiglia.
C’è poi la faccenda della seduzione. La Commedia è straordinaria, ma per un adolescente può essere noiosa. E allora si cerchi di renderla divertente. Ma se la Commedia è straordinaria, perché risulta noiosa? Com’è che tutte queste cose eccezionali conciliano il sonno? Si dirà che è perché i ragazzi di oggi sono abituati alla iperstimolazione da videogiochi e smartphone, e faticano a restare concentrati su un testo o su un pensiero complesso. Ma quando eravamo ragazzini noi gli smartphone non esistevano, e Dante ci annoiava a morte ugualmente.
Bisogna riflettere sulla natura dell’apprendimento. Al di fuori della scuola, esso ha due caratteristiche: è naturale e sociale. La più grande impresa della vita, dal punto di vista dell’apprendimento, è la conquista del linguaggio. Che avviene senza alcun insegnamento, in modo spontaneo, ma che non è possibile senza relazioni sociali. Questo riguarda, a conti fatti, tutti i nostri apprendimenti. Impariamo quando ne abbiamo davvero bisogno – un bisogno organico – e lo facciamo in situazioni sociali. Ora, l’apprendimento scolastico non ha né la prima né la seconda caratteristica. E’ un apprendimento artificiale, che si presenta in assenza di bisogno, ma che soprattutto avviene (avviene?) in assenza di una vera situazione sociale: perché una classe che ascolta un docente non è una situazione sociale.
Ed è questa l’altra causa di abbandono scolastico. Una ipotesi che mi sembra meritevole di indagine è che l’abbandono scolastico sia più elevato in quei gruppi sociali nei quali non solo esiste una cultura diversa e lontana da quella scolastica, ma in cui sono più radicate forme di apprendimento sociale per bambini e adolescenti. A soffrire di più, a scuola, sono i bambini che vengono da gruppi nei quali non esiste una distinzione netta, nei compiti sociali, tra loro e gli adulti, e costantemente si chiede la loro collaborazione attiva nella vita sociale. Giunti a scuola, si trovano in un contesto in cui il fare lascia il posto all’ascoltare, che è una competenza che manca anche agli adulti, e si pretende che i bambini esercitino per cinque ore al giorno.
Se queste ipotesi non sono infondate, per combattere l’abbandono scolastico non basta essere più seduttivi. Bisogna diventare culturalmente umili, riconoscendo che esiste vita culturale anche al di fuori del canone scolastico, e cercare una socialità vera. Che vuol dire, tanto per cominciare, mandare una buona volta in pensione i banchi e le cattedre.

Pubblicato su Occhiovolante, 7 marzo 2019.

Perché non sono patriottico: lettera a una studentessa

Cara *, qualche giorno fa mi hai fatto osservare, con tono di rimprovero, che non sono patriottico. Una osservazione che mi ha spiazzato un po’: come docente credo di dover essere preparato, di dovermi aggiornare, di dover fare il possibile per insegnare bene, cose così. Non mi sono mai posto il problema se un docente debba anche essere patriottico. Vediamo di capirlo insieme. Ti rispondo pubblicamente perché pubblico è il mio lavoro: ogni cosa che faccio o dico in aula è per me lavoro politico e sociale, per il quale devo rispondere a te, ma anche alla più ampia collettività che mi affida l’istruzione e l’educazione di più di un centinaio di ragazzi.
Sul fatto che io non sia patriottico hai perfettamente ragione. Non lo sono per niente. Mi irrita, anzi, tutta la retorica che accompagna il concetto, la parola di patria. Non sono patriottico, soprattutto, perché è un atteggiamento che mi pare in contrasto insanabile con uno dei valori per me fondamentali: la giustizia. Che, per come la vedo io, non è separabile da un’altra cosa: l’equanimità. Per essere giusti occorre riuscire a vedere l’altro come sé. Una cosa che diventa difficile, perfino impossibile quando ci sono un noi e un loro, quando si tracciano confini che prima o poi diventano trincee.

Sappiamo tutti che l’egoismo è un male. E sappiamo anche che esiste una cosa diversa dall’egoismo, che invece è un bene: l’amore di sé. Se non amiamo noi stessi non possiamo nemmeno amare gli altri. L’egoista, invece, è incapace tanto di amare gli altri quanto di amare se stesso. Dietro la sua arroganza, dietro la sua violenza c’è una terribile fragilità. Ora, a me pare che il patriottismo sia una sorta di egoismo in grande. E che sia possibile, anzi necessario un amore di sé in grande. Possiamo chiamarlo amore per il proprio paese, semplicemente.
Mi sembra che nessuna immagine possa esprimere il modo in cui io vedo questo amore meglio di quella dei cerchi concentrici, usata da Gandhi. Come saprai, Gandhi era un nazionalista; una delle sue idee fondamentali è espressa dalla parola swadeshi, che indica il servizio reso al proprio popolo. Per Gandhi questa predilezione non era però escludente: il popolo indiano è inserito nel più ampio contesto dell’umanità, non è un cerchio chiuso, ma un cerchio compreso in cerchi più grandi, ai quali partecipa. Ora, sono convinto che un docente debba amare il proprio paese in questo senso. E che questo amore debba guidare la sua pratica di insegnamento. Una scuola democratica lavora per costruire una società aperta, capace di dialogo e di scambio, curiosa e attenta a cogliere e rispettare la differenza non meno che a cogliere e rispettare la propria identità. Ma lavorare in questa direzione vuol dire anche avere uno sguardo lucido sul male. Gandhi avrebbe reso un pessimo servizio al suo paese, se avesse mancato di denunciare lo scandalo dei matrimoni tra bambini, il fanatismo religioso, il disprezzo verso gli intoccabili, eccetera. Amava il suo paese, e per questo non poteva fare a meno di metterne a nudo i mali. Perché una ferita non vista non viene curata, e una ferita non curata va in cancrena e uccide.
Tra le ragioni per le quali ti sembro poco patriottico c’è il fatto che, come mi hai fatto notare, a lezione parlo di cose come i crimini compiuti dagli italiani in guerra e il nostro colonialismo. Dici che anche altri paesi hanno fatto guerre con i crimini che comportano, e che noi italiani abbiamo fatto e facciamo anche molte cose buone. Naturalmente sono d’accordo su questo secondo punto; non concordo con il primo, sia perché non tutti i paesi sono uguali, e ci sono colonizzatori e colonizzati – né posso mettere su uno stesso piano, in guerra, la Germania nazista e l’Inghilterra, pur venendo da una città che è stata quasi rasa al suolo dai bombardamenti inglesi – sia perché io non sono né inglese né tedesco, ma italiano, ed è giusto che mi preoccupi di quello che abbiamo fatto noi, che hanno fatto anche persone della mia famiglia, come mio nonno che è stato mandato in Etiopia ad uccidere gente inerme o mio zio che è morto congelato in Russia. Affinché non accada di nuovo, come si dice. Non sono troppo convinto, a dire il vero, che chi non studia la storia sia condannato a ripeterla (i fascisti studiavano la storia romana proprio per ripeterla), ma non credo nemmeno che tacere sulla vergogne del colonialismo italiano sia il modo migliore per aiutare gli italiani – e segnatamente i giovani – ad avere una coscienza esatta del proprio passato, e dunque del presente che da quel passato proviene. E lo stesso vale per gli altri mali.
L’Italia è un paese meraviglioso. Ma è anche un paese profondamente ferito. E’ un paese che ha la mafia, la camorra, la ndrangheta, la sacra corona unita, piaghe terribili che non riusciamo a combattere. Tutte cose alle quali solo con molta fatica e vincendo molte resistenze si è riuscito a dare un nome (ancora oggi vi sono città strozzate dalla mafia nelle quali parlare di mafia è tabù). E’ un paese che è stato spesso governato da gente collusa con quelle forze criminali e mafiose. E’ un paese in cui la corruzione è diffusa a tutti i livelli della vita sociale e del mondo economico, senza che vi siano le energie per ribellarsi e scrollarsela di dosso. E’ un paese che ha deciso di non investire in istruzione e cultura, con i risultati che tu e io verifichiamo ogni giorno: scuole che vanno avanti con enormi problemi strutturali, e quando va bene è un’aula che manca e bisogna inventarsi da qualche parte, quando va male è un tetto che crolla travolgendo qualche studente. E’ un paese in cui una evasione fiscale da capogiro non scandalizza nessuno, mentre si dà la caccia all’immigrato.
Tutti questi problemi possono essere affrontati solo se li si vede con assoluta chiarezza. Solo se ne siamo consapevoli ogni giorno, ogni minuto. E’ una consapevolezza triste, dolorosa, ma necessaria. Getta un’ombra sulla luce del Rinascimento, nella quale vorremmo che tutti ci vedessero, ma è l’unica via che abbiamo per sperare nella possibilità di un Rinascimento futuro.

Gli Stati Generali, 26 febbraio 2019.

La scuola e il vuoto

Le parole del ministro Bussetti sulle scuole del sud – “Vi dovete impegnare forte. Questo ci vuole. Lavoro, impegno, sacrificio” – sono una bestialità ed offendono lo straordinario lavoro quotidiano di migliaia di docenti meridionali. Bisogna dire però che la domanda del giornalista cui rispondevano è non meno bestiale: “Cosa arriverà di più qui al sud per recuperare il gap con le scuole del nord? Più fondi?”. Un giornalista che peraltro non aveva ascoltato, a quanto pare, quello che Bussetti aveva detto solo qualche secondo prima, e cioè che non esistono scuole del nord e scuole del sud, ma solo scuole italiane. Con buone ragioni. Ho insegnato per più di dieci anni in scuole del sud, dalle medie ai professionali e ai licei, e da qualche anno insegno in Toscana. Dove ho trovato scuole che hanno problemi gravissimi e che si trovano a fronteggiare problemi di forte disagio sociale senza avere i fondi necessari per acquistare anche quel minimo di strumentazione informatica richiesta dalla svolta digitale della scuola italiana.
Ma quella domanda rappresenta una bestialità soprattutto perché riduce i complessi problemi della scuola ad una semplice questione di fondi. Che la scuola abbia bisogno di investimenti è ovvio. Investimenti sulle strutture, che cadono a pezzi; investimenti sulla valorizzazione dei docenti, che sono malpagati e sempre meno socialmente apprezzati; investimenti nella sperimentazione educativa e didattica. Ma è ingenuo e superficiale ritenere che basti dare più soldi alle scuole per superare i numerosi gap del nostro paese, e non solo del sud.

La principale piaga italiana, nel campo dell’istruzione, è l’abbandono scolastico. Al di sotto dei 25 anni il 17,25% dei giovani hanno abbandonato la scuola prima di conseguire il diploma; siamo il penultimo paese nell’area OCSE. E l’abbandono scolastico è un sintomo di disagio sociale. Abbandona la scuola il ragazzino che non ci crede, alla favola bella che se ti impegni e studi e prendi una laurea poi otterrai un lavoro che ti consentirà di fare una vita come si deve; e non ci crede perché ha spesso dei docenti precari, che nonostante la laurea faticano a tirare avanti e pagare il mutuo, e perché conosce chi sta anche peggio: ragazzi con una laurea che sbarcano il lunario con lavoretti precari, quotidianamente umiliati da una società che non sa cosa farsene della loro preparazione e della loro passione. Ma abbandona la scuola anche, e più spesso, il ragazzino che non riesce a trovare una mediazione tra il suo mondo culturale e quello scolastico. Quando insegnavo italiano nelle scuole medie di Foggia mi capitavano studenti per i quali la lingua quotidiana era il dialetto. L’italiano una lingua straniera, ed estranei, ostili tutti i valori sui quali è centrata la scuola. Non basterebbe far le scuole d’oro per superare un gap di questo tipo, che è culturale. Bisognerebbe, piuttosto, cambiare la scuola. Da tempo diversi pedagogisti, inascoltati quando non derisi, cercano di attirare l’attenzione sulla questione dei compiti a casa, ad esempio. Un bambino seguito a casa da un genitore analfabeta è un bambino che in un momento essenziale della sua formazione, quello dell’applicazione delle conoscenze, è lasciato solo. Mentre altri bambini vengono seguiti, lui, che non ha che sé stesso, resta inevitabilmente indietro. Se è la famiglia a dover completare il lavoro della scuola, anche sul piano strettamente didattico, allora la differenza tra una famiglia colta e una famiglia di analfabeti diventa decisiva. Fatale. E’ uno dei meccanismi che fanno della scuola italiana una delle meno efficaci nel contrasto della disuguaglianza sociale. Un altro è la lezione frontale, che resta la base solida e indiscussa della scuola italiana, che può funzionare bene, forse, in condizioni di normalità, ma che in contesti difficili non può che lasciare il campo a metodologie più attive e coinvolgenti.
Più che di soldi, insomma, bisognerebbe discutere di che tipo di scuola vogliamo, di quale tipo di didattica e di educazione, e ovviamente (perché sempre di questo si tratta, quando parliamo di scuola) di quale società vogliamo. Ed è qui che appare evidente il vuoto di Bussetti. Il governo Renzi aveva provato a dare una direzione alla scuola. Una scuola centrata sulle tecnologie informatiche (con l’introduzione dell’animatore digitale, una figura di sistema, ma non pagata), sull’alternanza scuola lavoro, sul protagonismo dei dirigenti, sulla valorizzazione dei docenti più bravi o presunti tali. Una visione fortemente discutibile, ma pur sempre una visione. Il governo attuale non ha alcuna idea di scuola e di educazione, a meno che non si vogliano elevare al rango di idea le penose volgarità di Salvini sugli schiaffi educativi.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 10 febbraio 2019.

Georges Lapassade, ancora

Quando ho cominciato a insegnare, ormai vent’anni fa, non avevo molti libri nel mio bagaglio leggero di giovane docente. L’università mi aveva formato soprattutto sulla fenomenologia, l’ermeneutica e il personalismo, ma nessuna di queste teorie mi persuadeva. Presa la laurea, ho cominciato da zero o quasi il lavoro di farmi una cultura filosofica e pedagogica adeguata al mio sentire; un lavoro che non è ancora finito.
Tra i pochi libri che portavo idealmente con me, il giorno in cui per la prima volta ho messo piede in un’aula scolastica, c’era L’analisi istituzionale di Georges Lapassade. Avevo incontrato le idee e la prassi di Lapassade durante uno dei lavori tentati alla ricerca di una mia via: pedagogista in una cooperativa educativa. Una cooperativa che era seguita da Lapassade e ne adoperava il metodo dell’autogestione: ragazzini anche molto piccoli (di quelli che si definiscono difficili) erano chiamati alla gestione condivisa della comunità educativa. La prima volta che misi piede come docente in un’aula scolastica lo feci con quel modello educativo, e ben presto sperimentai quanto l’istituzione scolastica sia chiusa non tanto alla sperimentazione in sé, quanto a sperimentazioni che ne mettano in discussione realmente, e non solo retoricamente, i rapporti di potere.

Lapassade è stato uno dei protagonisti più vivaci, anche se non tra i più noti, del Sessantotto. E chi ha provato a portarne a scuola la pratica sa quanto sia superficiale, sciocca, storicamente arbitraria la diffusa analisi che attribuisce i mali attuali della scuola italiana a una presunta influenza nefasta del Sessantotto. A distanza di cinquant’anni c’è da interrogarsi piuttosto su quanta istanze pedagogiche del Sessantotto rappresentino ancora una sfida per la scuola; quanto, cioè, autori come Lapassade siano ancora attuali. Per questo risulta prezioso un libro come Educazione e pedagogia autogestionaria. Una ricerca su Georges Lapassade di Carla Gueli (Sensibili alle foglie, Roma 2018). Un libro che nasce appunto dalla necessità e dall’urgenza di affrontare il nonsenso quotidiano della scuola, interrogando dal di dentro l’istituzione attraverso la voce delle persone che la costituiscono quotidianamente. Si parla molto, a scuola, di educazione al pensiero critico, ma pare che l’istituzione stessa sia escluda da questa analisi critica: non accade mai, o quasi, che studenti e docenti si fermino ad analizzare il senso, l’origine, la direzione, la natura e la struttura, i fini evidenti e quelli latenti dell’istituzione scolastica. Non è difficile comprenderne le ragioni. Chi analizza criticamente la scuola giunge ben presto alla questione del potere. E se si critica il potere scolastico, l’istituzione crolla. O si trasforma profondamente. In uno dei suoi libri più potenti, L’entrée dans la vie (1963), tradotto in italiano con il titolo Il mito dell’adulto, Lapassade mette in discussione uno dei capisaldi della concezione pedagogico-scolastica. Gli adulti hanno il diritto/dovere di educare i giovani, e di farlo con un giusto ricorso all’autorità ed alla disciplina, perché rappresentano l’umano giunto a compiutezza. Ma ciò che caratterizza la specie umana, osserva Lapassade, è una costante incompiutezza, l’essere sempre in formazione, senza che si possa individuare un momento in cui il processo è compiuto e l’educazione ha raggiunto la sua fine. Si tratta di tesi che all’epoca risultavano fortemente provocatorie e lo sono per molti versi anche oggi, ma in fondo, ricorda Gueli, anticipano quella esigenza di una educazione permanente che oggi è universalmente riconosciuta. Senza che se ne traggano, però, tutte le conclusioni pedagogiche, perché se anche l’adulto è in formazione, allora scompare la distinzione netta tra insegnante e alunno, e bisogna parlare piuttosto di una comunità di soggetti in formazione. Che è ciò che Lapassade cercava con la pratica dell’autogestione, che rappresenta anche un modo per riscoprire la relazione umana oltre il sistema burocratico. “Il solo modo di proteggersi dalla relazione umana è di sopprimerla, non bisogna che l’altro continui ad essere l’origine di una relazione, bisogna che egli non ne costituisca più che il termine”, scriveva ne L’analisi istituzionale (Istituto Editoriale Internazionale, Milano 1974, p. 126). Lo avvertono ogni giorno gli studenti: ciò che chiedono più di ogni altra cosa è una relazione umana reale. Quello che ottengono, quotidianamente, è un sistema relazionale freddo, con ruoli rigidi, nel quale l’ossessione per le regole, la disciplina, il controllo si esprime in forme che altrove sarebbero bizzarre: un problema relazionale è risolto non con un confronto umano, magari anche acceso, ma con il ricorso al testo scritto del rapporto disciplinare. Un sistema che ha conseguenze anche sull’apprendimento, poiché l’apprendimento reale è sempre un fatto sociale, nasce dal confronto, dalla discussione e ricerca comune, non dalla serialità dello studio individuale, in competizione con l’altro, centrato sul protocollo lezione-manuale-interrogazione.
Pensatore rivoluzionario, Lapassade non si accontenta di mezze soluzioni. Seguendo Sartre, interpreta il passaggio dal gruppo alla istituzione come caratterizzato dal giuramento, che rende stabile il gruppo e gli garantisce il futuro, ma solo a costo di una fase di terrore, che è dunque all’inizio dell’istituzione. Non è sufficiente qualche intervento per democratizzare l’istituzione: occorre che i gruppi la analizzino criticamente e ne ribaltino la struttura, smettendo di esserne gestiti e passando alla autogestione. Una azione che, afferma, “sarà sempre, almeno in parte, allo stato di progetto, perché la rivoluzione non sarà mai definitivamente compiuta” (p. 67, citazione da Processo all’Università, del 1969). In questa proposta le istanze libertarie esistenti da tempo nella pedagogia europea e nordamericana, da Freinet a Rogers, da Neill a Illich, sono espresse con la piena consapevolezza del significato politico di una rivoluzione pedagogico-istituzionale, ed è qui la loro forza, ma anche la loro debolezza, nel momento in cui la società smarrisce lo slancio rivoluzionario.
Rileggere oggi Lapassade può sembrare impresa disperata, se si considera la spoliticizzazione attuale degli studenti, la loro scarsa propensione a discutere ruoli, poteri, dinamiche sociali, il ripiegamento sul privato; se si considera, ancora, il disorientamento degli stessi docenti, sempre più in difficoltà, anzi in imbarazzo in una istituzione che, non più attraversata da fremiti rivoluzionari, appare poco credibile anche come strumento della conservazione sociale. E’ invece un atto di speranza. E di ribellione. Attingendo a Lapassade a più in generale alla pedagogia istituzionale, scrive Gueli concludendo il suo libro, “si potrebbe forse trovare un terreno fertile per coltivare una nuova possibilità creativa e immaginifica, per elaborare modelli educativi resistenti a quelli del mercato, per immaginare i luoghi educativi come comunità dinamiche di ricerca e sperimentazione. Potrebbero forse così generarsi esplorazioni collettive generatrici di forme di educazione volte a costruire una rinnovata, benchè incompiuta, umanità” (p. 101). Resistenza è, qui, la parola chiave. Non è il tempo della rivoluzione, è il tempo della resistenza. E in campo educativo vuol dire non dimenticare che un’alternativa è possibile. Realizzabile? Si vedrà. Ma intanto importa sapere che è necessaria.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 28 settembre 2018.

Cosa dovrebbe dire un ministro dell’istruzione (e cosa non dirà)

Credevamo che, per qualche accordo interno al governo, il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti avesse delegato (non diversamente dal premier Conte) le sue funzioni al ministro dell’Interno, dal quale sono venute, negli ultimi tempi, precise e preziose indicazioni pedagogiche, che vanno dal prendere a sberle i ragazzi al mandarli in caserma per farsi educare dai soldati. Ci sbagliavamo, perché Bussetti qualche idea l’ha. E la comunica al Corriere della Sera. Ecco: “Dobbiamo cambiare impostazione della didattica; usare le nuove tecnologie, insegnare a relazionarsi con i social media, valorizzare il public speaking e il debate, puntare sulle materie Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). Il tablet sarà il nuovo quaderno tra pochi anni, possiamo usare meglio investimenti fatti.”

Prima di diventare ministro Bussetti è stato insegnante, e questo è un buon segno, perché con l’aria che tira rischiavamo di trovarci come ministro un generale, ma viene da chiedersi in quale scuola abbia insegnato. Perché un discorso sulle nuove tecnologie forse poteva essere una proposta sensata cinque anni fa: oggi dà l’impressione di una assoluta cecità alla realtà scolastica. Sulle nuove tecnologia c’è stato sui docenti un martellamento prossimo all’indottrinamento, in particolare nell’era renziana, che qualche effetto l’ha ottenuto. LIM, tablet, cellulari, piattaforme di social classroom sono strumenti quotidiani del nostro lavoro. Ci hanno detto che questo avrebbe cambiato radicalmente la scuola. Oggi sappiamo che non è vero, o è vero solo in parte. Non c’è nessuna reale rottura, nessun cambiamento strutturale, nessun miglioramento negli apprendimenti. Non è quella tecnologica, la rivoluzione che la scuola attende.
C’è un grave errore di valutazione nel ritenere che sia rivoluzionario togliere il quaderno e dare un tablet a studenti che già si relazionano con lo schermo per il resto della loro giornata. E’, se non altro, una diminuzione di esperienza, una riduzione sensoriale, e la scuola dovrebbe moltiplicare le esperienze, non ridurle. Lo dico senza alcun astio anti-tecnologico. Con il computer, il tablet e il cellulare si possono fare in classe molte cose interessanti. Perfino divertenti. Quando invito gli studenti a una partita su Kahoot!, è difficile farli smettere. E spesso vengono a protestare dalla classe vicina, perché il loro divertimento è rumoroso. Ma ci sono altri momenti in cui stiamo bene in classe. Sono le ore che passiamo a discutere seduti in cerchio. Uno fa una domanda, gli altri riflettono e poi provano a rispondere. Poi intervengono gli altri, le idee si raffinano, si intreccia il dialogo. Si giunge a una conclusione o si constata la divergenza. Si rimanda ad una discussione successiva: il dialogo continua. Non sono momenti divertenti, a volte ci può essere anche tensione. Ma sono momenti intensi. Momenti in cui il sapere si fa riflessione, decisione, confronto. E in cui si impara una cosa essenziale per la nostra democrazia: riconoscere l’altro, saper stare in una situazione dialogica. Una cosa che ha poco a che fare con la tecnologia, pochissimo con gli investimenti: basta mettersi in cerchio e parlare. Una rivoluzione dialogica della scuola a costo zero.
Non manca, Bussetti, di richiamare due metodologie che hanno a che fare con la parola: il Debate e il Public Speaking. Il debate consiste nel dividere la classe in due fazioni e farla discutere su uno dei temi che dividono. Vince chi è più bravo. Il public speaking è saper parlare in pubblico. Due metodologie che seguono una logica attivo/passivo, vincente/perdente. Non sorprende che abbiano successo, mentre la Maieutica Reciproca (la metodologia dialogica di cui ho accennato) resta quasi sconosciuta nel paese in cui è nata (e del resto il fatto che sia italiana è un punto a suo sfavore: vuoi togliere ad un ministro o a un dirigente scolastico il piacere di riempirsi la bocca con parole inglesi?).
Mi chiedo che succederebbe se un ministro dell’Interno cominciasse il suo mandato dicendo che occorre che i poliziotti la finiscano di fare i poliziotti come hanno sempre fatto, che si diano una mossa e imparino un po’ come si fa il loro mestiere, magari grazie a qualche nuova tecnologia. Mi chiedo che succederebbe se lo dicesse ai medici un ministro della Salute. E’ normale invece che lo dica un ministro dell’Istruzione. Da molti anni, ormai, i ministri dell’istruzione non fanno che dire questo. Qualsiasi discorso sulla scuola parte da una premessa: i docenti italiani non sanno fare il loro lavoro. E questa narrazione, diffusa nella società, ha una parte tutt’altro che secondaria nei problemi della scuola.
Sogno il giorno in cui un ministro dell’Istruzione, appena insediatosi, dichiari: “Ho fiducia nei docenti italiani, so che sanno fare il loro lavoro. Girerò le scuole italiane per ascoltarli ed imparare da loro e inseme a loro”. Questo, forse, cambierebbe radicalmente la scuola.
Gli Stati Generali, 31 agosto 2018.

Adolescenti fuori controllo

Tre anni fa ho scritto un articolo per protestare contro un controllo antidroga in una mia classe. Un articolo per il quale ho ricevuto, insieme a non pochi apprezzamenti, decine di insulti e minacce. Un tale ha ritenuto opportuno chiamare la mia dirigente e chiedere il mio licenziamento; non contento, ha poi aperto in un forum una discussione dal titolo “Prof. Antonio Vigilante: un pessimo insegnante”, che è ancora oggi uno dei primi risultati che si ottengono digitando in Google il mio nome. Intanto i controlli antidroga sono continuati. Quest’anno con una variante: invece di entrare in aula con il cane antidroga hanno fatto uscire gli studenti e hanno perquisito l’aula vuota. Il cane ha apprezzato molto un pezzo di mortadella residuo della merenda di uno studente. E dunque un qualche senso la cosa l’ha avuta, almeno per lui.

Ieri l’altro il ministro Salvini ha tenuto un comizio nella città in cui insegno, affermando che da settembre metterà polizia e carabinieri davanti alle scuole per stroncare la vendita di droga. Questa volta Antonio Giannelli, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi ha avuto il buon senso di osservare che la cosa forse non è proprio realizzabile, considerando che ci sono quarantamila edifici scolastici, e di ricordare l’importanza della prevenzione.

Veniamo da mesi in cui gli studenti italiani sono stati sbattuti quotidianamente in prima pagina: lo studente che minaccia il docente, quello che lo insulta, quello che lo picchia. Sapete come funziona: bastano una decina di casi, dati in pasto all’opinione pubblica nell’arco di uno o due mesi, per creare allarmismo sociale. Basterebbe una rapida considerazione statistica per rendersi conto che il fenomeno semplicemente non esiste. In Italia gli studenti sono quasi otto milioni, quelli della secondaria inferiore quasi un milione e settecentomila, due milioni e mezzo quelli della secondaria superiore. Questo vuol dire che, anche considerando solo questi ultimi, la percentuale di studenti con comportamenti gravemente irrispettosi verso i docenti risulta statisticamente irrilevante.

Il disprezzo degli adolescenti è radicato nel nostro discorso comune non meno del disprezzo dello straniero o dei Rom. Gli adolescenti vanno costantemente sorvegliati, se occorre anche con polizia e carabinieri, perché sono poco raccomandabili, non conoscono il rispetto delle regole, bevono e si drogano, non hanno valori, vogliono tutto e subito. Scrivono sui muri, non hanno alcun riguardo per la nostra storia e l’arte, sono sempre attaccati ai telefonini, anche quando vanno ai musei. E poi non studiano nulla, mica come noi che alla loro età eravamo tutti dei geni. Un disprezzo che è anche alla base di non pochi discorsi sulla scuola: basti pensare a Paola Mastrocola, i cui libri hanno non poco successo presso qui docenti che rimpiangono la pedana sotto la cattedra (che non manca in diverse aule, a dire il vero).

Dietro i pregiudizi c’è sempre una profonda ragione psicologica, che spesso è legata alla violenza. Il pregiudizio razziale, ad esempio, è più radicato in quei luoghi in cui particolarmente feroce è lo sfruttamento lavorativo degli stranieri. Sappiamo che li riduciamo in schiavitù (qualcuno ricorderà il reportage di Fabrizio Gatti per “L’Espresso” intitolato Io schiavo in Puglia), ma allontaniamo da noi questa consapevolezza de-umanizzando il nostro schiavo e quindi rappresentandoci come sue vittime. Ho l’impressione che accada qualcosa del genere con gli adolescenti.

Come è noto, l’adolescenza è una creazione sociale e culturale. In alcune culture la maturità sessuale coincide con la maturità sociale, o quasi. A quindici anni un ragazzo comincia a lavorare e diventa membro effettivo della società. Da noi invece l’inserimento effettivo avviene in media dopo i venticinque anni. C’è dunque un periodo spaventosamente lungo tra la maturità sessuale e la maturità sociale, un periodo in cui la persona è socialmente sospesa, costretta in un limbo, priva di autonomia e di progettualità. Può essere anche, e per molti è in effetti, una gabbia dorata, può essere che non vengano negati beni anche superflui, ma viene costantemente negato un bisogno umano fondamentale: il bisogno di essere un soggetto sociale. Di sentirsi parte della società, di contribuire alla vita di tutti.

In questi anni di sospensione un adolescente vive in una condizione che qualsiasi adulto troverebbe intollerabile. Ogni mattina va a scuola ad ascoltare, seduto per cinque ore, persone che parlano di cose per le quali raramente ha un vero interesse (e quanti hanno interesse per centinaia di argomenti appartenenti a più di dieci discipline diverse?); le stesse persone che, quando è il loro turno – al Collegio dei docenti, ad esempio – non resistono sedute per più di un’ora, parlano liberamente tra di loro, leggono il giornale e consultano ossessivamente lo smartphone. Come è giusto che sia (o quasi), perché esiste il diritto di annoiarsi. In quegli anni chiunque, col pretesto dell’educazione, si sente in diritto di guardarlo dall’alto in basso, di dirgli cosa è giusto e cosa è sbagliato, di criticare ogni sua mossa. Di mancargli di rispetto. Bambini ed adolescenti sono, in assoluto, le persone cui si manca maggiormente di rispetto. Si nega loro costantemente, sistematicamente, il diritto fondamentale al riconoscimento. Il diritto di essere considerato una persona a posto. Semplicemente.

Eppure basta uno sguardo un po’ meno superficiale per accorgersi che loro sono quelli più a posto, nella nostra società. Certo, qualcuno di loro scrive sui muri, qualche altro fa uso di cannabis e qualcuno addirittura la spaccia. Colpe che si relativizzano non appena le confrontiamo con quello che fanno gli adulti. Prendete una qualsiasi fascia di età ed aprite i giornali. Ecco a voi il mondo degli adulti: evasori fiscali, banchieri senza scrupoli, politici che si comportano come bulli di periferia, uomini che uccidono le donne che dicono di amare, sacerdoti che ammazzano l’amante o violentano bambini, perfino ottuagenari che accoltellano per una banale questione di bollette. Un mondo che spaventa i ragazzi. Non c’è quasi figura adulta che non abbia perso qualsiasi autorevolezza ai loro occhi. Non il politico, non il prete, non il professore. Avvertono gli adulti come quelli che li giudicano senza avere l’autorità morale per farlo.

Ed hanno ragione, perché non trovo né in me stesso, né nella maggior parte degli adulti che frequento, la pulizia morale dei miei studenti. Non trovo la dolce determinazione della studentessa straniera che sogna di fare filosofia alla Sorbona, e studia senza chiedere nulla in cambio, “tanto il voto non è importante”; non trovo lo straordinario coraggio di chi riesce a non perdere il suo meraviglioso sorriso pur con gravi problemi di salute, né l’equilibrio e la saggezza di chi deve gestire la separazione dei suoi genitori, o l’entusiasmo di chi impiega tempo ed energie per preparare i compagni in difficoltà, consentendomi di giungere allo scrutinio senza nessuna insufficienza, o ancora la forza di chi cerca di capire la sua identità di genere facendo i conti con la paura di essere rifiutato dalle persone che ama. E potrei continuare a lungo.

Qualche settimana fa un’alunna ha chiesto di parlarmi. Un caso di coscienza: aveva cominciato a lavorare ed a guadagnare qualche soldo. La sua inquietudine era: “Professore, ho paura che i soldi diventino troppo importanti per me”. L’ho rassicurata, fino a quando si porrà il problema, i soldi – che sono importanti – non diventeranno troppo importanti per lei. In una società in cui il primato del denaro è affermato ad ogni piè sospinto solo un adolescente può avvertire ancora il suo potere e la sua seduzione come una minaccia.

Forse è giunto il momento di finirla di giocare al massacro con i nostri giovani. Il suicidio è nel nostro paese la seconda causa di morte degli adolescenti, dopo gli incidenti stradali. Un problema che viene affrontato da un punto di vista psichiatrico, con l’invito a genitori e docenti a cogliere tempestivamente i sintomi di depressione. Dai tempi di Durkheim tuttavia sappiamo che un suicidio può avere anche cause sociali. In Realismo capitalista Mark Fischer (morto anch’egli suicida) si chiede: “anziché accettare la generalizzata privatizzazione dello stress che ha preso piede negli ultimi trent’anni – quello che dovremmo chiederci è: com’è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate?”. E’ probabile che si tratti dello stesso processo sociale che ha reso tollerabile che il discorso pubblico sui giovani riguardi quasi esclusivamente, ormai, il controllo: pedagogico, psichiatrico o poliziesco. Una ipotesi da considerare è che portare gli adolescenti fuori dal controllo sia la via per riprendere il controllo della nostra società.

Fonte dell’immagine: https://pixabay.com | Licenza CC0 Creative Commons

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, *23 giugno 2018.

Una Alternativa nella Scuola Pubblica

Insegno ormai da circa vent’anni. Quando ho cominciato ad insegnare nelle aule c’erano solo le lavagne di ardesia, i computer erano solo in aula informatica ed i registri erano rigorosamente cartacei. Oggi in ogni aula ho il computer e la lavagna elettronica. Per il resto, mi pare che non sia cambiato granché. Dopo vent’anni, continuo a vedere la scuola con lo sguardo perplesso di quando facevo supplenze di italiano alla “Foscolo” o al “Rosati” di Foggia. La scuola continua a sembrarmi una istituzione fondata su basi profondamente errate, che occorre ripensare da capo, con il coraggio delle grandi decisioni – o della disperazione. E giorno dopo giorno cerco di affrontare il problema di darle qualche senso in una società nella quale è sempre più facile fare a meno della scuola.

Tre anni fa ho cominciato ad insegnare al “Piccolomini” di Siena, la mia scuola attuale (la mia scuola, spero, per un bel po’ di tempo). Una mattina incrocio Fabrizio Gambassi, collega di italiano, all’uscita da una seconda (una classe 2.0: ora si parla di classi 3.0) che abbiamo in comune. Noi docenti facciamo tanti incontri per parlare di faccende più o meno burocratiche, dice Fabrizio, ma non ci incontriamo mai per discutere di quello che davvero conta: come facciamo scuola. Concordo. Perché non farlo? E perché non farlo anche con gli studenti? Lo facciamo, ed è il primo inizio di una riflessione, di una ricerca comune che oggi consegniamo ad un volume scritto a quattro mani: Alternativa nella Scuola Pubblica. Quindici tesi in dialogo (Ledizioni, Milano). Un libro che nasce da un lungo confronto con docenti, studenti, genitori, persone che si occupano a vario titolo di educazione, e che vorrebbe essere, con le sue tesi, il testo di riferimento di un movimento di cambiamento dal basso della scuola. Alla “Buona Scuola” ministeriale, alla scuola capovolta di certe confuse sperimentazioni ed alle rivendicazioni della scuola tradizionale contrapponiamo una idea di scuola che ha le basi nella pedagogia critica, da Paulo Freire a Danilo Dolci: una scuola nella quale si costruisce una democrazia sostanziale; e poiché il dialogo è l’essenza della democrazia, mette al centro non lo schermo del computer né quello della lavagna elettronica, ma la parola viva, dialogica, ed il volto dell’altro.

Trovate tutto nel sito www.alternativascuola.it

Dare senso all’Alternanza Scuola Lavoro

L’Alternanza Scuola Lavoro è una strategia chiave nel piano del Ministero per fare della scuola italiana, già ampiamente aziendalizzata, lo strumento per la formazione delle giovani generazioni ai valori del neoliberismo ed abituarle fin da subito al lavoro precario e sottopagato. Essa, peraltro, toglie tempo prezioso allo studio serio, sostituito con attività prive di qualsiasi valore formativo, come fare le fotocopie o consegnare panini al McDonald’s. E’ questo, in sintesi, la critica corrente all’Alternanza Scuola Lavoro. Non voglio, qui, replicare a questa interpretazione, che ha qualcosa di vero, ma anche molto di falso. Mi interessa mostrare piuttosto in che modo l’Alternanza Scuola Lavoro, comunque la si consideri, possa diventare una pratica estremamente formativa per i nostri studenti.

Se provate a chiedere ad un adolescente quali sono i suoi valori, è molto probabile che vi risponda che il suo valore principale è la famiglia; seguiranno, poi, gli amici, l’amore e poco altro. Può essere che l’ordine cambi, ma la famiglia si confermerà nove volte su dieci uno dei valori fondamentali. E’ una cosa un po’ sorprendente per chi è stato adolescente in anni in cui ribellarsi alla famiglia era un passaggio fondamentale per diventare adulti, ma non sembra una cattiva cosa. Se però si discute con loro di questi valori, viene fuori dell’altro. Viene fuori che la famiglia è un valore perché rappresenta il nido protettivo, sicuro, l’unico contesto in cui è possibile avere davvero fiducia in qualcuno, mentre fuori dalla famiglia non è così. Alla positività della famiglia corrisponde la negatività della società. Se si pone agli adolescenti una qualsiasi questione politica – nel senso più pieno e autentico: come si può affrontare questo problema sociale? come si può cambiare? – ci si trova spesso di fronte ad un muro di scetticismo, spesso perfino cinismo. Le cose non possono cambiare, è sempre stato così e sempre sarà così, e amen. E’ la nota impoliticità delle nuove generazioni, esito di una pluridecennale azione di distrazione mediatica, con la quale il giovane ribelle degli anni Settanta è stato trasformato nell’adolescente spettatore di oggi, ottimo consumatore dei prodotti dell’industria del divertimento.
E’ evidente che si tratta di un problema urgente, di cui la scuola non può non farsi carico, così come è evidente che anni di educazione civica non sono stati sufficienti, così come non basta il più recente insegnamento di Cittadinanza e Costituzione. Che fare?
Una pratica diffusa ormai in tutto il mondo è il Service Learning. La sua origine è negli Stati Uniti, dove molto deve alla prospettiva pedagogica di John Dewey, ma anche all’impegno sociale di Jane Addams, che nel 1889 fondò presso Chicago la Hull House, un centro per l’educazione sociale degli immigrati, soprattutto italiani. Nei paesi sudamericani si chiama Aprendizaje Servicio Solidario (apprendimento servizio solidale) e risente soprattutto dell’insegnamento di Paulo Freire, il teorico della pedagogia degli oppressi, che ha dedicato la vita al riscatto delle classi popolari attraverso l’educazione, in Sudamerica, Africa ed anche nel nostro paese (collaborò in Sicilia con Danilo Dolci nella scuola sperimentale di Mirto).
L’idea del Service Learning è semplice: l’apprendimento scolastico dev’essere collegato a qualche forma di servizio offerto alla comunità. Gli studenti individuano un problema della propria comunità (ma si può scegliere anche una comunità lontana), elaborano una ipotesi di contributo, studiano il problema attraverso le loro normali discipline e infine escono da scuola per realizzare il loro progetto. Ad esempio, un Liceo artistico può impegnarsi per la riqualificazione di un quartiere degradato della città. Dopo aver ascoltato l’assessore all’urbanistica, si può ipotizzare un intervento che preveda l’uso dell’arte per il miglioramento estetico degli edifici fatiscenti. Discussa l’idea con i residenti del quartiere, gli studenti approfondiscono il problema teoricamente, considerando esperienze simili (ad esempio la riqualificazione di Tirana al tempo del sindaco Edi Rama, ma anche il lavoro di Francesco Del Casino ad Orgosolo), quindi passano alla fase operativa. Lo studio diventa progetto, e gli studenti sperimentano concretamente il contributo che possono dare alla società, il valore e la soddisfazione dell’impegno, l’importanza di progettare insieme ad altri: il senso autentico della politica.
Si dirà: ma si tratta di un modo di fare Alternanza che va contro le intenzioni del Ministero. Non è proprio così. Con il nome di Dentro/Fuori la scuola il Service Learning è presente tra le sperimentazioni sostenute dal movimento Avanguardie Educative dell’Indire, l’Istituto del Miur che si occupa della ricerca e dell’innovazione educativa . In accordo con il Ministero del Lavoro, il Miur ha poi avviato il progetto Get Up (Giovani ed esperienze trasformative di Utilità sociale e partecipazione), che intende formare gli studenti ad “essere autonomi e responsabili nei confronti della loro comunità”, e che propone sul piano metodologico le Cooperative Scolastiche ed il Service Learning. E, poiché pare che non si riesca ad uscire dalla logica della competizione nemmeno quando si parla di cooperazione e solidarietà, il prossimo anno si terranno le Olimpiadi del Service Learning.
Le prime sperimentazioni, nel nostro paese, sono state avviate lo scorso anno scolastico, anche se non mancano esperienze degli anni passati che possono essere considerate forme di Service Learning (penso al progetto La scuola adotta un monumento, nato a Napoli già nel 1992). E’ opportuno cercare ad una via italiana al Service Learning, che possiamo chiamare senz’altro Apprendimento Servizio (o, se preferiamo la forma sudamericana, Apprendimento Servizio Solidale), pensandolo alla luce della nostra tradizione pedagogica, che con don Milani, Aldo Capitini, Danilo Dolci e molti altri ha dato contributi notevolissimi alla riflessione sui rapporti tra educazione ed impegno sociale e politico.

Nell’immagine: Jane Addams incontra un gruppo di bambini che visitano la Hull House, Chicago 1935. Fonte: www.history.com

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 19 dicembre 2017.

In piedi quando entra il docente?

Se fosse vero che, come dice il Corriere della Sera, “la maggioranza dei professori è d’accordo”, sarebbe davvero preoccupante. Ma è già abbastanza preoccupante che a quasi centocinquant’anni dalla nascita di Maria Montessori, e nel suo paese (che tuttavia non l’ha mai amata troppo), si discuta di questo. Il tema è: alzarsi in piedi all’ingresso dei docenti. Se ne discute, sulle colonne del Corriere, partendo dal cestino lanciato contro una prof in una scuola: che è come discutere di giornalismo partendo da Vittorio Feltri. Del resto, la rappresentazione degli adolescenti come orde di scalmanati, restii ad ogni tentativi di incivilimento, con il cervello in pappa per troppo uso di Internet e telefonini, è il punto di partenza di una parte significativa dei ragionamenti attuali sulla scuola e l’educazione. Una rappresentazione denigratoria delle nuove generazioni che è vecchia quanto il mondo, ma è assolutamente inutile farlo notare.

Continue reading “In piedi quando entra il docente?”

Mia nonna e CasaPound

Quest’anno faremo incontrare i nostri studenti con alcuni richiedenti asilo ospitati nel territorio. E’ il terzo anno che lo facciamo. Lo facciamo perché riteniamo che sia compito della scuola consentire agli studenti di conoscere la realtà sociale, e poter parlare con dei migranti è un modo per avere conoscenze di prima mano, per così dire, su un fatto sociale importante, al centro del dibattito politico. Per quanto mi riguarda, è una preziosa occasione di approfondimento delle mie discipline: insegno Scienze Umane, e potersi mettere in cerchio con persone provenienti dalla Nigeria, dal Bangladesh e dal Pakistan e confrontare i nostri punti di vista, i valori, le prospettive, è un modo per fare antropologia concreta. Ben prima che se ne accorgessero anche i giornali, abbiamo ascoltato dalla loro bocca – ma i racconti erano a bassa voce, quasi che quel male potesse ancora colpirli, a raccontarlo – dell’inferno libico, quella zona franca nella quale i migranti restano intrappolati anche per anni: e molti vi lasciano la vita.

La risposta degli studenti è stata generalmente positiva, ma quest’anno alcuni di loro hanno fatto sapere che nei giorni degli incontri non verranno a scuola. Sono studenti politicamente vicini a CasaPound, il movimento neo-fascista che ha nel suo simbolo la tartaruga, che intende richiamare la testudo dell’esercito romano – perché, spiegano nel loro sito, “la forza quando scaturita da un ordine verticale e da un principio gerarchico è destinata a dominare le barbarie, anche se in numero inferiore”.

Sono abbastanza vecchio da aver visto diverse Italie. Non, per fortuna, quella fascista: ma uno strascico di Italia contadina ho fatto in tempo a vederlo; ed ho visto l’Italia priva o quasi di immigrati stranieri, l’Italia democristiana e socialista, craxiana e andreottiana, l’Italia prima della presunta invasione dei migranti. Non era una Italia migliore. Soprattutto, non lo era per i poveri.

Quand’ero bambino mia nonna fece una cosa che mi sembrò straordinaria, audace, azzardata, ma che per lei era semplicemente normale. Mia nonna era una contadina madre di dodici figli. Era a pranzo da noi, quando bussò un venditore di tappeti egiziano. Abitavamo in un pianterreno – in un basso – e la tavola era poco distante dalla porta. Andammo ad aprire, pronti a mandarlo via, ma mia nonna si oppose. Per la sua cultura contadina era una grave mancanza ai propri doveri di ospitalità. Nella sua cultura c’era questa idea strana, per noi: se qualcuno bussa mentre stai mangiando, hai il dovere di invitarlo a mangiare con te; e se si rifiuta, puoi ritenerti offeso. E nella sua cultura contadina non c’era alcuna distinzione tra l’italiano e lo straniero. E dunque l’egiziano mangiò con noi, e bevve, evitando il vino.

Oggi un gesto del genere è semplicemente impossibile. Intendiamoci: non dico che è impossibile che qualcuno accolga uno straniero. Conosco famiglie che, quasi rispondendo all’invito sprezzante dei razzisti, hanno accolto in casa per diversi mesi persone richiedenti asilo. Si tratta di persone colte, di sinistra, mosse da una visione della politica che non delega a nessuno la pratica della solidarietà. Ma si tratta, comunque, di una solidarietà organica, per dirla con Durkheim; una solidarietà che nasce dalla riflessione e dall’ideale. La solidarietà contadina era meccanica, tradizionale, non aveva a che fare con alcuna riflessione. Era semplicemente un modo di essere.

Che è successo, nel frattempo? Cosa è cambiato? Cosa ha reso impossibile quel gesto? La risposta non è difficile. Sappiamo che la civiltà contadina è stata travolta dalla società dei consumi, e dunque dal capitalismo. Abbiamo letto Pasolini. La scena che ho raccontato si svolge alla fine degli anni Settanta. Un bel po’ dopo il boom economico, ma i cambiamenti sociali, soprattutto nella società meridionale, sono lenti. Ho assistito nel corso degli anni Ottanta al progressivo ma rapido spegnersi di quel mondo che avevo conosciuto da bambino.

Una sciocchezza ripetuta fino alla nausea da gente come Diego Fusaro è che “il pensiero unico mondialista ultracapitalista mira a legittimare e a produrre il nuovo modello antropologico del migrante come valore in sé positivo”. Una sciocchezza, perché il capitale, se proprio vogliamo chiamarlo così, è la cosa più mobile che esiste. Non ha bisogno che tu ti muova: ti viene a prendere a casa. La fabbrica chiusa a Melfi può essere riaperta in Romania, non c’è alcun bisogno che gli operai romeni vengano in Italia. Anzi, la cosa può costituire un problema. E’ bene che i romeni restino in Romania, gli indonesiani in Indonesia e i cinesi in Cina, per farsi sfruttare ognuno a casa propria. Perché se vengono in Italia, o in Francia, o in Germania, entrano in contatto – nonostante il crollo dei partiti di sinistra – con una cultura dei diritti che rischia di contaminarli. Le migrazioni non sono una strategia del capitalismo; esprimono, piuttosto, una delle sue esternalità.

Liberismo e capitalismo non hanno bisogno di migranti, profughi, richiedenti asilo, gente che si sposta da una parte all’altra del mondo col suo carico di sofferenza, gente che muore in mare, gente che viene torturata nelle carceri libiche, gente che rivendica il diritto alla vita negato. La loro stessa esistenza è un atto d’accusa contro il presunto ordine mondiale del capitalismo, contro le promesse salvifiche del neoliberismo. Al contrario, occorre che il lato oscuro del capitalismo venga nascosto, che l’ospite indesiderato venga tenuto fuori dalla porta. Oggi se ne occupa Minniti, come ieri Berlusconi. Con scelte criminali per le quali nessuno mai li processerà. Che ne siano consapevoli o meno, quelli che vedono un nemico nel richiedente asilo, quelli che protestano per l’accoglienza di chi fugge dalla morte, quelli che calunniano i migranti diffondendo notizie false, quelli che istigano gli studenti affinché si rifiutino anche solo di confrontarsi con un migrante non sono che l’espressione più pura della logica egoistica, escludente ed omicida di quel capitalismo che dicono di voler combattere, ma nel quale sono immersi fino al collo.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 26 novembre 2017.

Donnarumma e la religione della scuola

Fino a qualche giorno fa per me Donnarumma era il personaggio di un dimenticato romanzo di Ottiero Ottieri del 1959. So ora che esiste un altro Donnarumma – per la stragrande maggioranza l’unico Donnarumma – che fa il portiere del Milan. Di lui parlano i giornali perché ha rinunciato a sostenere gli esami di Stato in un istituto paritario per andare ad Ibiza. Scelta che Gramellini ha ieri seriamente bacchettato sulla sua rubrica sul Corriere della Sera. Perché indignarsi se un giovane calciatore già milionario rinuncia alla scuola, dice Gramellini, in un paese in cui la scuola è considerata null’altro che uno strumento per trovare lavoro? Il lavoro Donnarumma l’ha già, ed è un lavoro che gli fa guadagnare milioni. “Magari tra qualche tempo cambierà idea e colmerà la lacuna, perché le cose iniziate è sempre meglio portarle a termine, anche solo per una questione di carattere. Oppure no, e in tal caso resterà iscritto per tutta la vita al club dei ricchi ignoranti, in Italia così frequentato che non correrà mai il rischio di soffrire di solitudine”, conclude amaramente Gramellini.
Ha ragione, Gramellini, la scuola è considerata in Italia da molti un modo per trovare lavoro ed affermarsi professionalmente. Ma non solo oggi, né solo da qualche anno. Non è un segno della decadenza attuale dell’istituzione. Già la Scuola di Barbiana nella Lettera a una professoressa denunciava che per studiare volentieri nelle nostre scuole “bisognerebbe essere già arrivisti a dodici anni”. Ed era il 1967. Piuttosto il fatto, che è sotto gli occhi di tutti, che un laureato, anzi un dottore di ricerca possono tirare avanti con contratti a termine, borse, assegni di ricerche e supplenze, in una condizione di precarietà che sfiora la miseria, permette oggi di cercare un senso diverso del fare scuola. E non sono del resto i docenti spesso precari fino a quaranta, cinquant’anni ed oltre? Quale affermazione sociale possono vantare i docenti stessi?
Se non è un modo per trovare lavoro, cos’è – cosa deve essere – la scuola? “Un luogo di evoluzione culturale e umana”, scrive Gramellini. Una belle definizione, ma non priva di problemi. Che cos’è esattamente l’evoluzione culturale e umana? Cos’è la cultura? Quale cultura? Sono le questioni con le quali ha a che fare quella disciplina infelice che è la pedagogia. Che mette in evidenza, ad esempio, come non esista la cultura, ma le culture, e come la scuola scelga una cultura esistente e ne faccia la cultura, l’unica sola, l’unica possibile, con un arbitrio che è inevitabilmente violento. E cosa vuol dire evoluzione umana? Chi è umanamente più evoluto? Chi può dirlo? La scuola accarezza l’ideale dell’intellettuale, della persona che ha a che fare con i libri, con molti libri, e che grazie ai libri diventa sempre più raffinata. Don Milani considerava questo un ideale borghese, e dunque individualistico, e contrapponeva ad esso l’umanità intesa come servizio, come partecipazione fattiva alla vita della comunità; ed a questo, più che a formare intellettuali occhialuti, dovrebbe servire la scuola.
Il dibattito, come si dice, è aperto. Una cosa però dovrebbe essere chiara: cosa non è la scuola. Cosa non deve essere.
La scuola come la intendiamo, come la facciamo oggi è nata con la modernità. La giustifica un ragionamento molto semplice e apparentemente molto condivisibile di Comenio, uno dei massimi pedagogisti di ogni tempo. Si diventa esseri umani in senso pieno solo attraverso l’educazione; può accadere, però, che un bambino abbia la sfortuna di avere dei genitori che, per ignoranza o per mancanza di tempo o di disposizione, non sono in grado di dargli un’educazione adeguata; occorre dunque che tutti i bambini, ricchi o poveri, abbiano la possibilità di andare a scuola, dove riceveranno dallo Stato quella educazione che consentirà loro di diventare pienamente umani.
Questo sillogismo così comprensibile, così moderno, ha però un lato oscuro. Se affidiamo allo Stato il compito di formare pienamente gli esseri umani, secondo quella concezione del potere che Foucault chiamerà biopotere, gli diamo anche la possibilità e il diritto di stabilire cosa e come deve essere un essere umano. Quando educhiamo qualcuno, lo facciamo secondo un ideale umano. Ma chi stabilisce questo ideale? Chi stabilisce come deve essere, da adulto, la persona che stiamo educando? Chi stabilisce che dovrà avere, ad esempio, sviluppatissime competenze intellettuali e nessuna competenza manuale o professionale? Lo stabilisce il potere. Lo stabilisce lo Stato.
Lo Stato ha il potere, attraverso la scuola, di stabilire come dev’essere un essere umano. Ha il potere di progettarlo secondo questo ideale. E, soprattutto, ha il potere di stabilire, di certificare addirittura il grado di umanità raggiunto con un sistema di riconoscimento sociale: i diplomi. La scuola si presenta esattamente come una chiesa, al di fuori della quale non c’è salvezza. Chi la percorre fino in fondo, chi ottiene la laurea, ha realizzato pienamente la sua umanità, chi invece è uscito dal sistema prima del tempo, o ne è stato espulso, è un essere umano parzialmente realizzato. E’ uno che si e perso. E’ un dannato. Extra Scholam nulla salus.
E’ questa religione della scuola l’implicito del ragionamento di Gramellini. Un ragazzo si afferma professionalmente indipendentemente dalla scuola. E questa è una offesa alla istituzione, vuol dire che qualcuno può salvarsi anche al di fuori della chiesa-scuola. Ma, avverte Gramellini, è una salvezza solo fittizia. Arrivano i soldi, ma non arriva l’umanità: il calciatore, se non colmerà la lacuna, resterà a vita iscritto al club degli ignoranti. E questo per essersi sottratto, sostanzialmente, ad un rituale vuoto: perché possiamo immaginare cosa sarebbe stato l’esame di Stato di un calciatore famoso, che per ovvie ragioni ha avuto ben poca possibilità di studiare, in un istituto paritario, con tanto di giornalisti e fotografi. Il protagonista del romanzo di Ottieri è un uomo che si trova a svolgere un lavoro delicato. E’ stato mandato a fare la selezione del personale per assumere operai in una fabbrica. La disoccupazione è tanta, le domande sono migliaia, i posti disponibili poche centinaia. E l’uomo ascolta e seleziona. Arriva un giorno questo Donnarumma. Si presenta e dice che vuole lavorare. Come tutti. L’uomo gli chiede se ha fatto domanda. E Donnarumma: “Che domanda e domanda. Io debbo lavorare, io voglio faticare, io no debbo fare nessuna domanda. Qui si viene per faticare, non per scrivere”. Anche quest’altro Donnarumma avrebbe suscitato l’indignazione di Gramellini, se negli anni Cinquanta ci fosse stato un Gramellini. Lo avrebbe iscritto d’ufficio al club dei poveri ignoranti, come oggi ha iscritto il nuovo Donnarumma, più fortunato, al club dei ricchi ignoranti. La scuola ha una funzione non diversa da quella del selezionatore di Ottieri. Lì la scelta è tra chi lavorerà in fabbrica e chi no, che in una città con enorme disoccupazione significa, sostanzialmente, tra chi si salverà e chi no. La selezione che opera la scuola, o che pretende di operare, è tra chi è entrato a pieno diritti nella corrente della comune umanità e chi ne è rimasto escluso. “Non abbiamo potuto salvarlo”, dirà sconsolato il docente commentando la bocciatura di uno studente. Salvarlo. Come se quell’atto significasse una caduta in qualche inferno. Come se fuori da scuola non ci fosse nessuna possibilità di esperienza, di informazione, di conoscenza, di crescita intellettuale ed umana. Come se l’unico modo di diventare uomini e donne fosse, davvero, star seduti in un banco ad aspettare che suoni la campanella.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 6 luglio 2017.

Combattere la violenza educativa, non solo quando si tratta di velo

La faccenda della ragazza originaria del Bangladesh tolta a Bologna ai genitori che l’avevano (o l’avrebbero) rasata a zero perché rifiutava il velo suscita non poco imbarazzo in chi segue, o cerca di seguire, i valori progressisti e liberali, espressione con la quale indico una costellazione di convinzioni che si è venuta formando in Europa, non senza contrasti anche tragici, a partire dall’Umanesimo, e con più decisione dall’epoca illuministica in poi. In questa costellazione rientra il rispetto della diversità etnica e religiosa, che va dalla semplice tolleranza fino al dialogo ed alla contaminazione. Vi rientrano parimenti l’emancipazione femminile, l’uguaglianza e le pari opportunità, ed i diritti delle persone omosessuali. Purtroppo, se questi valori fanno sistema sul piano teorico, non sempre si accordano sul piano pratico. Può succedere che si debba scegliere di difendere un valore al costo di negare l’altro. E’ quello che succede appunto in questo caso. Il principio del rispetto della libertà religiosa ci porterebbe a garantire ai musulmani la piena libertà di seguire la loro cultura, ma che succede quando questa libertà porta poi alla violenza sulle donne? La scelta in questo caso cade, il più delle volte, sulla difesa delle donne, anche per una ragione storica: vero è che la difesa della differenza religiosa è un valore progressista, ma è anche vero che la cultura progressista si è costruita combattendo contro le chiese e i valori religiosi.
Nella costellazione dei valori progressisti rientra anche la critica dell’educazione tradizionale, violenta dal punto di vista fisico e psicologico, e la ricerca di un’educazione che metta al centro il bambino con i suoi bisogni. E’ un percorso che va da Erasmo e Rousseau e Montessori ed oltre, ma che procede forse in modo più accidentato degli altri percorsi del progressismo. Anche questo valore è in ballo nella vicenda di Bologna. Con quel provvedimento si condanna e si contrasta la violenza educativa, che non può né deve essere tollerata. E tuttavia è lecito avere qualche perplessità.
Da pedagogista antiautoritario, mi occupo da anni dei rapporti tra educazione e violenza. Ne discuto con genitori, insegnanti, educatori. Spesso incontrando una aperta ostilità. Quando faccio notare, ad esempio, che lo schiaffo è una violenza inaccettabile e non ha nulla di educativo, vengo sommerso da critiche di genitori per i quali questi principi educativi sono quelli che hanno portato ad una generazione di ragazzi privi di educazione e rispetto e farà ancora più danni in futuro. Come se in Italia davvero lo schiaffo “educativo” non esistesse più da anni, e come se i bambini e ragazzi norvegesi – paese nel quale le punizioni corporali sui bambini sono vietate con estrema severità (anche lì non senza qualche rischio di discriminazione) – fossero tutti maleducatissimi. Succede non di rado, a scuola, di venire a conoscenza di violenze subite dagli studenti nel loro ambiente familiare. Violenze fisiche, come i pestaggi anche pesanti, ma anche psicologiche, come i genitori che decidono di non far venire più a scuola la figlia di cui hanno scoperto l’omosessualità. Non sono situazioni ipotetiche, ma casi reali. Queste ed altre violenze in ambito scolastico vengono spesso trattate con un atteggiamento protettivo nei confronti delle famiglie. E’ molto difficile che un caso di violenza su un minore venga portato a conoscenza delle forze dell’ordine, se la famiglia nella quale il fatto è avvenuto è una famiglia borghese, appartenente ad un ambiente rispettabile. Penso di poter dire che accade in casi rarissimi. Molto più frequente è che ad essere segnalate siano violenze avvenute in famiglie povere o marginali o in famiglie straniere. Esiste una doppia morale, che porta a considerare gravi e inaccettabili fatti di violenza accaduti in alcuni ambienti, e tollerabili o da trattare con particolare tatto casi riguardanti famiglie perbene o presunte tali.
E’ un’ottima cosa se si combatte e si rifiuta ogni forma di violenza educativa. Si sia conseguenti, però: discutiamo di violenza educativa; condanniamo lo schiaffo “educativo”; condanniamo tutte le forme di violenza su bambini ed adolescenti; interroghiamoci sulla legittimità di tutte le forme di costrizione che esercitiamo su di loro. Mettiamo al centro della discussione pubblica tutte le forme di violenza che esercitiamo in nome dell’educazione. Se non lo facciamo – se non ci interroghiamo sulla violenza nostra, insieme alla violenza dell’altro – la nostra è penosa, pericolosa ipocrisia.

Conviene davvero delegittimare gli insegnanti?

Come pedagogista, mi succede abbastanza spesso di discutere con qualche genitore convinto che lo schiaffo sia uno strumento educativo accettabile o addirittura indispensabile. L’argomento che in diversi paesi del mondo, e non certo tra i meno civili, schiaffeggiare un bambino è un reato, senza che questo divieto provochi disastri educativi, non sembra colpirli particolarmente. Così come non serve a molto osservare che un adulto non può essere preso a schiaffi a scopi educativi o rieducativi nemmeno se ha ucciso dieci persone, mentre un bambino può essere schiaffeggiato anche solo per aver versato una tazza di latte.
Il corpo del bambino in Italia è privo, si direbbe, di quella sacralità che appartiene nella nostra società al corpo umano in generale. A differenza dell’adulto, un bambino può essere toccato, sollevato, spostato, strattonato, picchiato senza che si abbia l’impressione, con questo, di compiere un abuso. Ma le cose non stanno proprio così, e per convincersene è sufficiente considerare qualche caso di cronaca. Buon ultimo, quello riguardante l’Asilo Monumento di Siena.
La retorica della guerra ha disseminato l’Italia di monumenti ai caduti, spesso non proprio sobri. Con più buon senso, anche non con miglior gusto, a Siena si decise di ricordare i caduti della Grande Guerra con un asilo: l’Asilo Monumento, appunto, che con il suo portico austero si affaccia sui giardini della Lizza. Una delle più solide istituzioni educative della città, che negli ultimi giorni si è trovata al centro di un mezzo scandalo di provincia. “Bimbi senza vestiti all’asilo”, titolava La Nazione; e Il Giornale: “I bimbi costretti a spogliarsi e spalmarsi di schiuma”. E’ successo che i bambini sono stati coinvolti in un progetto di esplorazione corporea e sensoriale pienamente in linea con le Indicazioni Nazionali del Ministero, approvato dal Coordinamento pedagogico e condiviso dalle stesse famiglie. Ma questo non basta. Corpo, emozioni, sensi: ce n’è abbastanza per scandalizzare i benpensanti e farne un caso politico. E poco importa che questo significhi mettere alla gogna, insinuando le cose peggiori, dei professionisti che fanno con passione il loro lavoro. “Farabutti, delinquenti e pedofili” li apostrofa nei commenti sul sito del Giornale il signor Mostardellis, mentre il signor gianky53 le definisce “maestre sporcaccione”. La pacata riflessione dell’Italia 2.0.
Qualche tempo fa ho scritto sul mio profilo Facebook che il giorno seguente avrei iniziato le mie lezioni in quarta su “Sesso e genere”. Mi contattò dopo qualche ora una giornalista: voleva un’intervista. Me ne meravigliai. Cosa c’era da intervistare? Insegno antropologia, sesso e genere è tra gli argomenti di routine. E’ un po’ come intervistare un docente di italiano sul fatto che spiegherà Petrarca, le dico. Ma non è convinta. C’è polemica su qualche bacheca, dice; e aggiunge: la gente deve sapere. Vedo poi che in effetti è già partito il linciaggio sulla bacheca di un locale politicante leghista, salito tempo fa agli onori della cronaca nazionale per una battuta sessista ai danni di Selvaggia Lucarelli. E gli insulti sono pesanti.
Trovo apprezzabile e rincuorante la reazione del sindaco di Siena, Valentini, che ha scritto: “Non posso permettere che le nostre maestre vengano denigrate e tantomeno che i genitori vengano sbeffeggiati per la loro presunta dabbenaggine o, peggio, per la loro complicità. Ne va di mezzo la credibilità e l’autorevolezza di un intero sistema scolastico, messo in pratica con grande professionalità e passione dai nostri insegnanti e condiviso con le famiglie”. E’ questo il punto. Si sta delegittimando l’intero sistema scolastico ed educativo. Ma perché accade? Ho detto che molti genitori considerano accettabile lo schiaffo educativo. Non ho trovato, però, un solo genitore che ritenga accettabile il ricorso allo schiaffo da parte degli insegnanti dei figli. Anzi: i genitori che con più vigore difendono il diritto di schiaffeggiare i loro bambini sono spesso quelli più accaniti nell’attaccare gli insegnanti quando hanno l’impressione che abbiano mancato di rispetto ai figli. Naturalmente non c’è molta logica, in questo. Se lo schiaffo è un metodo educativo accettabile o efficace, allora è giusto che lo usino anche i maestri. La contraddizione mette in luce un fenomeno che spiega anche, mi pare, la tentazione irresistibile di diffamare maestri e professori.
Con gli anni il numero di figli che una coppia mette al mondo si è drasticamente ridotto. Ora sono molti i figli unici, e raramente si va oltre i due figli. Questo fenomeno va di pari passo con un mutamento nella percezione del ruolo genitoriale. L’aspetto positivo di questo cambiamento è la maggiore responsabilità e consapevolezza educativa dei genitori. L’aspetto negativo è un senso di possesso esclusivo ed escludente che molti genitori hanno nei confronti dei figli. Un amore unico, che non ammette condivisioni, e che in qualche caso può sfociare nel suo opposto. Il bambino può essere schiaffeggiato dal genitore e non dall’insegnante perché il bambino è cosa del genitore: ha diritti su di lui che non ha l’insegnante. E poca importa che questi diritti si risolvano, dunque, nel diritto di esercitare violenza. Sminuire qualsiasi altra figura educativa è un modo per presentarsi, agli occhi dei bambini, come uniche figure di riferimento. Il genitore del terzo millennio è geloso come il Dio biblico, e non tollera un altro accanto ed oltre sé.
Non è questo il caso dell’Asilo Monumento di Siena, che si è smontato perché i genitori hanno difeso fermamente le maestre. Ma dà da pensare che dei politicanti abbiano montato un caso politico su una cosa del genere. Se lo fanno, è perché sanno che il tema “insegnanti che fanno cose strane ai nostri figli” è di quelli che indignano e mobilitano. E dai quali è possibile aspettarsi un ritorno politico. Ma a quale prezzo?
L’educazione è sempre stata una impresa di tutta la comunità. Se diventa affare della famiglia, se il ruolo educativo della comunità viene sminuito, può accadere di smarrire il vincolo sociale stesso, e di trovarci di fronte ad una pseudo-società che non è che l’aggregato di famiglie autoreferenziali, monadi sociali senza porte né finestre, che si guardano l’un l’altra con sospetto. E’ una dinamica sociale che ha già qualche anno e di cui sono avvertibili i primi effetti. Se si chiede ad un quindicenne di oggi quale è il suo valore più importante, è molto probabile che risponda che è la famiglia. Una cosa che non sarebbe mai venuta in mente ad un quindicenne degli anni Ottanta. Si dirà: non è una cosa negativa. Certo. Ma se si approfondisce viene fuori dell’altro. Viene fuori che la famiglia è percepita come un ambiente rassicurante e protettivo apertamente contrapposto al mondo di fuori, infido e pericoloso. La società stessa fa paura, e la famiglia è un nido nel quale cercare conforto. La crisi di progettualità politica degli adolescenti e dei giovani, uno dei tratti più facilmente constatabili nella generazione dei Millennials, è una conseguenza di questa chiusura. Si può agire sulla società solo insieme ad altri, ma per agire insieme ad altri bisogna avere fiducia, essere positivamente aperti agli altri, esser mossi dalla convinzione ottimistica che sia possibile cercare insieme ciò che è bene e ciò che è giusto. Ma questo è sempre più difficile per ragazzi che crescono in una società nella quale le figure e le istituzioni che erano un punto di riferimento tradizionale sono in crisi (una crisi in alcuni casi vistosa: si pensi al mondo politico ed alla Chiesa), e gli adulti che si occupano della loro educazione sembrano impegnati a delegittimarsi a vicenda.
C’è, a dire il vero, un’eccezione. Si può agire politicamente (nel senso di occupare la sfera pubblica: ma la politica è altra cosa) senza fiducia se a spingere verso l’azione è l’odio, l’indignazione cieca e sciocca, l’agitazione populistica. Ed è probabilmente per questo che i politicanti non si fanno scrupolo di delegittimare chi ogni giorno cerca di far accadere quella cosa delicata e difficile che è l’educazione.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 4 febbraio 2017.