Categoria: Kulturmarket
Articoli di analisi e polemica culturale.
La cultura del disprezzo
C’è rabbia, dunque. Una rabbia che cerca uno sfogo, ma che non lo trova in famiglia. Dove, come sfogare la rabbia?
Ancora sui bandi ad personam dell’Università di Foggia
Giuliano Volpe: Mi scusi, ma evidentemente non sono stato chiaro. Io ho precisato, senza fare i nomi evidentemente, che con alcuni docenti (e con le loro scuole) si è consolidato un rapporto di collaborazione negli anni. Docenti che già in passato hanno vinto una selezione per l’affidamento di un dato insegnamento. Il prof. Ciccotti (visto che lei ha fatto il suo nome) tiene un corso di storia del cinema da molti anni, con grande competenza e grandissimo gradimento degli studenti, ed anche con enorme generosità visto che lo tiene gratuitamente pur venendo da lontano. Nel momento in cui la legge Gelimini ci ha impedito di proseguire con il contratto gratuito nelle forme precedenti e ha introdotto l’obbligo della convenzione con altre strutture pubbliche, abbiamo stipulato una convenzione con la Scuola cui afferisce il prof. Ciccotti. Questa è la procedura introdotta dalla legge Gelmini: anch’io la considero per molti versi assurda ma non abbiamo potuto fare diversamente, se volevamo avvalerci ancora della collaborazione del prof. Ciccotti, vista la sua disponibilità a continuare a offrire il suo insegnamento gratuitamente (cosa di cui gli siamo enormemente grati). Lo stesso è avvenuto in altri casi. Ed è quanto fanno anche altre università. L’alternativa, lo ripeto, è chiudere i corsi, mettere a tacere insegnamenti: purtroppo non abbiamo le risorse né per contratti retribuiti né tanto meno per effettuare nuove assunzioni. E’ una cosa che dispiace anche a me, a noi tutti, perché vorremmo potenziare il personale docente dell’Università soprattutto assumendo altri giovani preparati (ora siamo riusciti ad ottenere 17 nuovi posti di ricercatore con fondi regionali, che saranno banditi nei prossimi mesi) e a retribuire adeguatamente i professori a contratto. Se disponessimo di tali risorse ovviamente faremmo bandi nazionali senza alcuna limitazione, come era in passato. In ogni caso, come le ho già detto, anche per evitare situazioni ‘non chiare’, stipuleremo una convenzione con la Direzione Scolastica Regionale (sperando di poterlo fare in tempi ragionevoli) in modo che ai bandi per i contratti di insegnament a titolo gratuito possano partecipare i docenti di tutte le scuole pugliesi. Spero di essere stato chiaro e di non aver dato l’impressione di non voler entrare nel merito.
Antonio Vigilante: Sostanzialmente lei sta ammettendo che da anni ed anni all’Università di Foggia si fanno bandi ad personam perché non è possibile fare diversamente. Ho interpretato male?
Giuliano Volpe: Non è così. Intanto le norme sono cambiate recentemente e abbiamo dovuto/voluto evitare l’interruzione della necessaria continuità didattica, utilizzando lo strumento delle convenzioni previste dalla legge Gelmini. Il prof. Ciccotti, ad esempio, ha partecipato anche in passato a numerosi bandi, sempre con una rigorosa valutazione ex ante dei titoli scientifici e una valutazione ex post della qualità dell’insegnamento. Ad esempio per un bando per restauro fatto in convenzione con la Direzione regionale ai BC ci sono state più domande e una commissione ha valutato i titoli e scelto la persona più titolata.
Antonio Vigilante: Curiosa questa faccenda della continuità didattica. Se uno ha vinto un bando nel 2000, bisogna assicurargli il superamento di tutte le selezioni successive con dei bandi ad personam per garantire la continuità didattica. E se ci fosse nel frattempo qualcuno più preparato di lui? Ma non lo vede proprio, Rettore, lo scandalo di negare a molti, soprattutto giovani, il diritto di partecipare ad una selezione pubblica? Io conosco diversi giovani studiosi di filologia, che avrebbero tutti i titoli per concorrere a quella cattedra, e che non possono perché non insegnano in quel tale liceo. Gli diciamo che non hanno diritto per colpa della legge Gelmini o della continuità didattica?
Vogliamo dirlo allora chiaramente, Rettore, che quei bandi sono semplicemente una farsa, dal momento che si sa già chi deve superare la selezione? Lei lo ha detto esplicitamente, parlando di “consolidati rapporti di collaborazione negli anni”. Diciamolo in modo ancora più esplicito: cari studiosi, lasciate perdere; se non avete consolidato negli anni “rapporti di collaborazione”, non avete nemmeno il diritto di partecipare ad una selezione. Fate le valigie ed andate all’estero.
Aggiornamento
Il Magnifico Rettore Volpe ha deciso di annullare quei bandi:
“Vigilante ha posto un problema reale, che anche noi stiamo cercando di risolvere da tempo con gli strumenti disponibili, senza danneggiare le magrissime risorse e soprattutto la regolarità dei corsi. Abbiamo discusso, ho cercato di spiegare, alla fine lui ha dimostrato fiducia. Ma passare ora per un disonesto e un imbroglione, come sta cercando di fare quel gionale [il riferimento è ad un articolo de “Il Mattino di Foggia”], perché applicando una pessima legge si è cercato di trovare una soluzione per alcuni contratti di insegnamento gratuiti (sottolineo “gratuiti”, senza che Unifg abbia speso un solo euro) grazie alla disponibilità di docenti esterni che da anni generosamente si sacrificano per garantire dei corsi apprezzati dagli studenti, mi sembra un vero paradosso, tipico di questo paese. Altre Università pur con i conti in rosso o in pieno dissesto, hanno continuato a pagare allegramente contatti e supplenze. Noi no. In ogni caso, ho deciso di far annullare quei bandi (che, lo dico solo per completezza di informazione, sono una competenza dei dipartimenti non del rettorato; ma ovviamente mi assumo interamente le mie responsabilità ed è per questo che anche in questa occasione ho messo la faccia senza far finta di niente o senza rispondere, come forse altri ‘più furbi’ avrebbero fatto; considero questo impegno di rendere conto un dovere etico di chi governa), anche a costo di sospendere quegli insegnamenti per quest’anno; ovviamente gli studenti potrebbero avere dei problemi con i loro piani di studio; cercheremo di stipulare nei tempi più rapidi convenzioni con le direzioni scolastiche regionali, di Puglia ed eventualmente anche di altre regioni, in modo che qualsiasi docente in possesso dei titoli scientifici adeguati e disponibile a tenere un corso universitario a titolo gratuito possa partecipare alla selezione” (da Facebook).
Gli strani bandi dell’università di Foggia
Giuliano Volpe |
Qui i tre bandi:
http://www.lettere.unifg.it/news/bando/AVVISO-DI-SELEZIONE/6493/
http://www.lettere.unifg.it/news/bando/AVVISO-DI-SELEZIONE/6494/
http://www.lettere.unifg.it/news/bando/AVVISO-DI-SELEZIONE/6495/
L’esercito nel parco
Comunicato dell’USI-AIT Puglia.
Il Parco dell’Alta Murgia è una vasta area semideserta che si estende tra la BAT (Barletta- Andria-Trani) e la provincia di Bari: un ambiente nel quale vivono, in delicato equilibrio, cinghiali e donnole, volpi e faine, usignoli ed aironi. Un ambiente da preservare dalla speculazione e dall’invadenza umana: non a caso, anni fa, la zona del Parco è stata dichiarata “area protetta”. Ma ci sono vincoli (culturali, paesaggistici, faunistici) che cadono di fronte all’arroganza del potere, ed è così che il delicato ecosistema di un’area unica in Italia può diventare al tempo stesso luogo per una servitù militare. Concetto che vuol dire, in sostanza, che i militari hanno il diritto di far strame di un certo territorio: è cosa loro. Il Parco dell’Alta Murgia diventa, così, il luogo per assurde esercitazioni militari “a fuoco” che, come è facile immaginare, mettono a serio rischio l’equilibrio naturale e rischiano di compromettere il delicato ecosistema della zona. Nella primavera appena trascorsa le esercitazioni hanno coinvolto circa tremila militari – danneggiando non solo l’ambiente e la fauna nella delicata fase della riproduzione – ma anche le realtà economiche che gravitano intorno al Parco. Le proteste dell’Ente Parco, delle associazioni, dei semplici cittadini indignati per questa insensata violenza inflitta al territorio, hanno ottenuto una sospensione delle esercitazioni in programma nel mese di settembre. E’ annunciata tuttavia la ripresa di esercitazioni a fuoco nel poligono di Torre di Nebbia nei mesi di ottobre e novembre.
Per il ministro della Difesa Mario Mauro (che è pugliese) queste esercitazioni, lungi dal mettere in pericolo l’ambiente e la stessa economia della zona, sono una benedizione per l’area: “È vero – ha dichiarato – che sono un onere ma anche lo strumento attraverso il quale viene bonificato continuamente il terreno, vengono erogati dei contributi, se non ricordo male circa 600mila euro nell’arco dell’ultimo anno, e vengono effettuati tutti quei lavori di miglioria del territorio che nel dialogo con tutte le altre Istituzioni locali e egli enti parco contribuiscono a migliorare l’ambiente”. Con un rovesciamento lessicale degno di Orwell il ministro lascia intendere che il modo migliore per “bonificare” l’ambiente ed il terreno circostante sia sparare in un’area protetta e “monetizzarne” il rischio. Per comprendere appieno la risibilità di queste affermazioni basta leggere un’indagine conoscitiva del Centro Studi della Commissione Difesa (non dunque di una associazione … “bolscevica”) del maggio 2008 in merito alle servitù militari.
Dopo aver affermato che le servitù militari possono svolgere una funzione di tutela paesaggistica, impedendo la speculazione edilizia (motivazione che non regge per un’area già protetta), il documento ammette, riferendosi alla Sardegna – una regione nella quale le servitù militari sono estremamente invadenti e nei cui poligoni di tiro si utilizzano, non di rado, proiettili a base di uranio impoverito – che: (…) “l’intensità e la concentrazione delle esercitazioni a fuoco, nonché la sperimentazione di armamenti con uso di combustibili e propellenti, hanno comunque avuto un sensibile impatto ambientale su molti territori della Regione, la cui possibile riqualificazione, in prospettiva, richiederà costose e difficili opere di bonifica e ripristino che, in alcuni casi, non potranno probabilmente essere totalmente soddisfacenti (si pensi al recupero degli ordigni inesplosi giacenti sui fondali marini)”. Questo è quello che le Forze Armate hanno fatto in Sardegna, e questo è quello che – se non saranno fermate per tempo – faranno in Puglia.
L’UNIONE SINDACALE ITALIANA -AIT Puglia chiede l’immediata e definitiva sospensione di tutte le esercitazioni militari nel Parco dell’Alta Murgia e la totale eliminazione della servitù militare nell’area. Si riserva di intraprendere – in concorso con altri soggetti sociali – tutte le iniziative idonee ad impedire lo scempio del territorio e la dilapidazione di risorse che – in tempi di crisi – andrebbero indirizzate a sostenere le fasce di popolazione impoverite da una crisi finanziaria globale che non hanno causato e di cui non hanno alcuna responsabilità.
Il furto aggravato di rifiuto
Poi c’è un altro fenomeno, quando noi vediamo quei rifiuti buttati per
fenomeno, io non sono razzista, li individuo come extracomunitari
sinceramente, che purtroppo la mattina calano in tutti i quartieri
della città, non è che ce l’hanno col Libertà, in tutti i quartieri
della città, rovistano tutti i cassonetti e mica gli interessa cosa
sta a terra. Io ho pregato il Sindaco comunque di fare un’ordinanza ad
hoc per multarli, ma stavo configurando, veniva forse da
un’esperienza mia professionale, di configurare eventualmente anche un
illecito penale al fine di consentire alle Forze dell’Ordine di
provvedere in tal senso, denunziare a piede libero comunque un arresto
in flagranza, perché stiamo configurando il furto aggravato di
rifiuto, che nel momento in cui il cittadino conferisce nel cassonetto
diventa di proprietà dell’AMIU, quindi se io vado a prendere il
rifiuto è come se mi rubassero il rifiuto. Lo so che sembra ridicolo,
però è un escamotage giuridico per fronteggiare questo problema, che è
un problema veramente serio sul punto.
Le bufale e la democrazia
I simboli degli zingari sui citofoni: una bufala vecchia ma che gode di ottima salute |
Perché siamo razzisti
Foto Ansa |
Trentuno persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Italia. Morti annegati davanti alle coste della Libia. Tra loro nove donne. Provenivano per lo più dalla Nigeria, un paese nel quale la nostra Eni occupa 40.625 chilometri quadrati con i suoi pozzi petroliferi che stanno devastando il delta del Niger, costringendo alla fame pescatori e contadini. Leggo su Facebook i commenti alla notizia data da la Repubblica: “affondassero tutti sti gommoni………….zozzi schifosi, sostegno agli abitanti di lampedusa, che quotidianamente devono sopportare questo schifo………..” (riporto pari pari, chilometrici punti sospensivi compresi); “Tra poco li andremo a prendere nel loro paese per farci invadere!!”; “31 voti in meno per il pdmenoelle”.
Dove vogliamo andare?
Il centro commerciale Mongolfiera di Foggia |
La relazione educativa
Una scuola ad Islamabad. Foto di Muhammad Muheisen |
Nulla di eclatante
Renato Accorinti |
L’elezione di Renato Accorinti a sindaco di Messina è una delle notizie più confortanti degli ultimi anni. Esiste in Italia una tradizione politica nobilissima, per quanto sotterranea. E’ la tradizione di Aldo Capitini, di Danilo Dolci, di Lanza del Vasto, di Ernesto Balducci, di Tonino Bello, di Alex Langer, di migliaia di uomini e donne che hanno lottato per la pace, per la giustizia, per un rinnovamento sociale che parte dalla considerazione dell’ultimo, dell’escluso, di colui che è schiacciato o espulso dal sistema. Nella mia analisi, si tratta di una tradizione che interpreta il terzo principio del motto della rivoluzione francese: quello della fraternità. Abbiamo avuto nel Novecento una tradizione politica centrata sul valore della libertà (quella liberale) ed una tradizione politica fondata sulla giustizia (quella comunista). La nonviolenza rappresenta la terza via: la via di una politica della fraternità. E’ evidente che si tratta di una politica diversa. La giustizia e la libertà sono valori che possono concretizzarsi giuridicamente, incarnarsi in leggi e provvedimenti governativi. Nel caso della fraternità, questo è possibile solo parzialmente. Certo, leggi in favore della solidarietà e dell’inclusione degli svantaggiati vanno nella direzione di una società fraterna; ma per realizzare realmente un ideale simile non è sufficiente la politica dall’alto. Occorre un mutamento, una trasformazione della vita individuale. Occorre uscire dall’individualismo e dall’atomismo giuridico per acquistare il senso della necessità dell’altro, l’urgenza della sua presenza accanto. Occorre un cambiamento morale e spirituale. E’ per questo che quella della nonviolenza è una via così difficile. Perché opera, per dirla con Langer, più lentamente, più profondamente, più dolcemente (lentius, profundius, suavius).
Chi volesse saperne di più su questo figuro può leggere la pagina Wikipedia a lui dedicata. Dalla quale può apprendere anche gli squallidi retroscena del suo voto di fiducia al governo Berlusconi nel dicembre 2010:
« […] Andavamo e dicevamo “Presidente, siamo noi due, quanto ci molla? […] Qui, ce ne date un milione?” E io e lui, con un milione ci facevamo una campagna elettorale, facevamo un partito nuovo. […] Perché per noi due il governo s’è salvato. Che 314 a 311. Se io e Scilipoti andavamo di là per un voto cadeva, cadeva Berlusconi. […] Io avevo già deciso da un mese prima [di votare la fiducia, ndr]. […] Io non avevo la pensione ancora. Dieci giorni mi mancavano. E per dieci giorni mi inculavano. Perché se si votava dal 28 come era in programma, il 28 di marzo, io per dieci giorni non pigliavo la pensione. […] »
Cerchiamo ora la pagina Wikipedia dedicata a Renato Accorinti. Fortunatamente c’è, ed è anche approfondita. Ma è una pagina che ha avuto un percorso travagliato, come è possibile constatare leggendo la Discussione che la accompagna. “Che cosa ha fatto di cosi eclatante o di carattere enciclopedico Renato Accorinti per finire su wikipedia?”, si chiede qualcuno. Già, che cosa ha fatto Accorinti? Ha lottato contro l’installazione della base militare a Comiso, si è impegnato contro la mafia, per i diritti civili, per l’ambiente ed i beni culturali. Nulla di eclatante.
Molte cose eclatanti ha fatto, invece, il senatore Razzi. Cose per le quali merita una pagina Wikipedia, senza che nessuno osi fare obiezioni. Perché lui appartiene al potere, o meglio al dominio. E’ della casta, come si dice. E anche il più spregevole appartenente alla casta merita il suo riconoscimento, la sua pagina enciclopedica, la sua visibilità. Mentre anche il più nobile rappresentante dell’altra politica, quella che nasce dalla società civile, merita l’oblio, quando non lo scherno.
Gli italiani non fanno che lamentarsi della casta, ma non si accorgono che essa è incardinata profondamente nei loro schemi mentali. Un istinto più forte di loro li porta a genuflettersi di fronte ai segni del dominio, ad ammirare l’auto blu, a provare soggezione di fronte alla scorta ed ai bodyguard. E, specularmente, a considerare insignificante chiunque, pur ben diversamente dedito al bene comune, non acceda alla sfera del dominio e non mostri anche esteriormente il suo status.
Educare alla libertà attraverso la libertà
Fonte: http://onsparklingform.tumblr.com |
Che l’educazione abbia a che fare con la libertà nessuno, o quasi, lo nega. Tutti affermano che fine dell’educazione è formare persone libere ed autonome. Il problema è che la libertà è concepita come il fine, non come il mezzo dell’educazione. Ci si aspetta che la persona diventi libera attraverso un percorso formativo che comincia con l’assoluta negazione della libertà e diviene man mano meno rigido, fino a lasciare libero il soggetto ormai maturo. Il bambino è considerato un po’ come una pianta (le metafore botaniche sono frequentissime in pedagogia), che dev’essere legata, avvinta ad un palo affinché cresca dritta, e non segua le proprie disordinate inclinazioni. Quando la pianta è ormai adulta e ben formata, la si può slegare e lasciare che cresca come vuole. Come vuole? Crescerà, in realtà, come vuole chi dall’esterno ha pensato il suo sviluppo. Ed è quello che accade ai bambini. Avvinti dall’autorità, impacciati, costretti in mille modi, vengono lasciati in pace solo quando hanno interiorizzato le norme, quando hanno ormai quello che Augusto Boal chiama “il poliziotto nella testa” (flic dans la tete).
Femminicidio e cultura del dominio
Murale a Roma, quartiere San Lorenzo (fonte: roma.repubblica.it) |
Le mucche si sono estinte
La mucca come oggetto industriale |
Vorrei considerare brevemente una obiezione al vegetarianesimo che mi è stata avanzata recentemente da un collega, docente di scienze naturali. L’obiezione è così formulata:
Dino Frisullo e la vera politica
Dino Frisullo |
Cos’è la politica? A giudicare dall’operare della classe politica italiana – ma altrove non va diversamente – negli ultimi decenni, bisognerebbe rispondere così: è il movimento che distacca il centro della società dalla periferia. Grazie all’opera della politica e dei politici, ci sono un numero ristretto di persone che hanno denaro, prestigio, potere, e molte altre persone che non ne hanno. La politica, come la guerra secondo Eraclito, “gli uni fa schiavi e gli altri liberi”. E’ sufficiente considerare la distribuzione delle ricchezze in Italia e nel mondo per constatare i risultati di questa politica. Secondo dati della Banca d’Italia, il 10% delle famiglie italiane possiedono il 45% delle ricchezze del nostro paese. Nel mondo va anche peggio: secondo uno studio delle Nazioni Unite, il 2% della popolazione mondiale possiede più della metà della ricchezza mondiale complessiva.
Beppe Grillo e il test del cinese
Elio Vittorini |
In un post di due mesi fa ponevo il problema della presenza di più di qualche razzista tra i cittadini del Movimento 5 Stelle. Essendo un movimento non ideologico, notavo, il M5S ha imbarcato gente tanto di destra quanto di sinistra. Di qui la necessità di una scelta: o prendere posizione sul tema dei diritti civili, e perdere l’appoggio dei razzisti, o evitare qualsiasi presa di posizione su ciò che potrebbe dividere le due anime del movimento, quella di destra e quella di sinistra. Non avevo previsto una terza possibilità: la virata a destra. Un post di ieri l’altro sul blog di Beppe Grillo toglie ogni dubbio: è questa la via presa dal M5S.
– Vedi? – io esclamai. – Un povero cinese è più povero di tutti gli altri. Cosa pensi tu di lui?
– Al diavolo il cinese, – disse.
E io esclamai: – Vedi? Egli è più povero di tutti i poveri e tu lo mandi al diavolo. E quando lo hai mandato al diavolo e lo pensi, così povero nel mondo, senza speranza e mandato al diavolo, non ti sembra che sia più uomo, più genere umano di tutti? (1)
(1) E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, BUR, Milano 2000, p.252.
Elogio delle parole cattive
George Carlin |
Una delle prime cose che un bambino impara a scuola – se non l’ha prima imparato in famiglia – è che le parole non sono tutte uguali: esistono parole e parolacce, parole buone e parole cattive. Le prime vanno bene, le seconde no. Un bambino può e deve chiedere alla maestra di andare in bagno; non può e non deve chiederle di andare al cesso. Se lo fa, la maestra lo richiama. Se insiste, la maestra comincia a preoccuparsi: c’è nel bambino qualcosa che non va.
Quello che possiamo imparare dai rom
In occasione della Giornata Internazionale di rom e sinti, il presidente della Camera Laura Boldrini ha ricevuto a Montecitorio una delegazione di giovani rappresentanti di queste due comunità. Il post con il quale ha comunicato l’iniziativa sulla sua pagina Facebook ha dato il via ad una serie tanto prevedibile quanto preoccupante di commenti razzistici. Ne cito solo alcuni a caso: “propongo la cittadinanza onoraria rom per la signora Boldrini. così almeno si dimetterà da italiana”; “paradossalmente difenderesti anche un rom che ti stuprasse.. è la loro cultura… o che ti rubasse in casa.. (hanno milioni proventi dai furti) e sussidi????… tu sei strana… e pericolosa… una mente perversa… se non pensassi che sei italiana… mi preoccuperei… sei una scoria un pericolo per la nazione… tu Monti Napolitano dovreste essere giudicati per ‘Alto Tradimento'”; “Siate fieri della vostra identita’….(che non avete)!! Siate fieri di quello che fate,(quindi rubare)…il 90% degli Italiani non li vuole…ma sono qua e li manteniamo pure!!! Che schifo!!!!”; “Tanto un altro paio di anni e andremo a cacciarli con i forconi!!! (intendo i nostri politici)”. Ho detto che era una reazione prevedibile.
Basta che si tocchi, o che si sfiori soltanto, l’argomento dei rom, per suscitare una catena di reazioni palesemente razzistiche. Basta attaccare i rom per essere immediatamente confortati dall’approvazione generale, così come basta difenderli per ritrovarsi disperatamente soli. Essere rom in Italia, oggi, vuol dire essere in pericolo. Esiste una tensione latente, che in qualsiasi momento può esplodere e portare alla caccia al rom. La cronaca degli ultimi anni offre non pochi esempi: dalle aggressioni in seguito all’omicidio di Giovanna Reggiani, nel 2007, ai raid punitivi dell’anno seguente a Ponticelli, Napoli, dopo un controverso tentativo di rapimento di una bambina da parte di una ragazzina rom fino all’aggressione al campo rom delle Vallette, a Torino, nel gennaio del 2012, motivato dalla violenza sessuale ai danni di una ragazzina torinese da parte di due uomini rom. Violenza sessuale mai esistita, come si scoprirà poi: la sedicenne si era inventata tutto per coprire un rapporto sessuale con un fidanzatino italiano.
Quando si parla di rom, non si va troppo per il sottile. Gli organi d’informazione sbattono il mostro in prima pagina, i cittadini indignati recuperano immediatamente fiaccole e bastoni, pronti alla strage. Nel rapporto annuale di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo un paragrafo a parte, nella sezione che riguarda il nostro paese, è riservato ai rom. Non è difficile comprendere le ragioni di questo odio così radicato e così difficilmente scalfibile. I rom rappresentano in Italia una minoranza particolarmente vulnerabile, priva di difese. Pur essendo presenti sul nostro territorio da secoli, i rom non sono ancora riconosciuti come minoranza etnica. Pur essendo stati sterminati insieme agli ebrei nei campi di concentramento, non sono inseriti nella commemorazione annuale della Giornata della memoria. Lo sterminio dei rom – il Porrajmos – è un evento rimosso dalla memoria collettiva. Non se ne parla a scuola, non ne riferiscono i libri di storia. Perché presentare i rom come vittime, ecco, non ci piace. Ci piace immaginarli colpevoli di ogni nefandezza. Ci piace credere che i rom rubano i bambini, ad esempio. Anche se uno studio fatto da ricercatori dell’Università di Verona ha dimostrato che nessuna delle quaranta accuse di rapimento di bambini a carico di rom dal 1986 al 2007 ha portato a condanne: tutte accuse infondate (1). Un caso a dire il vero c’è. Tristissimo. Quello di Angelica Varga, la ragazza del caso di Ponticelli cui ho accennato. Condannata a tre anni e otto mesi quando aveva appena sedici anni in base alla sola accusa dell’unica testimone, la madre della bambina. Nessun altro testimone, nessuna prova. Condannata in base alla testimonianza di quella che, secondo il giornalista Giulio Di Luzio, era la figlia di un camorrista (e la camorra aveva interesse affinché i rom venissero cacciati da Ponticelli) (2).
Tacciono, i giornali, dei bambini rom sottratti dalla polizia e di cui le famiglie non hanno saputo più nulla, come ha denunciato l’europarlamentare Viktória Mohácsi; e tacciono anche sui raid notturni nei campi, dei sequestri di persona, delle violenze dei poliziotti che risultano da testimonianze raccolte dalla stessa europarlamentare. Sono fragili, dunque. E la loro fragilità attira irresistibilmente le tensioni collettive. In particolare nei periodi di crisi economica, quando aumenta la frustrazione, sono un capro espiatorio fin troppo comodo – anche per i politici. Mentre i padroni della finanza continuano i loro giochi sulla pelle di milioni di persone, ci si illude che basti dar fuoco a qualche campo rom perché le cose vadano meglio. “Siate orgogliosi della vostra identità e appartenenza. Sempre nel rispetto delle cultura degli altri, ma con la consapevolezza che avete un patrimonio da far conoscere e da tutelare”, ha detto Boldrini incontrando i giovani rom. Parole che per molti suonano come una provocazione. Identità? Orgoglio? Patrimonio? “No Signora Boldrini hanno un patrimonio da restituire… tutto quello che hanno rubato agli italiani… e non solo a loro…”, ha commentato qualcuno. I rom sono furto, e null’altro. A nessuna cultura si nega il riconoscimento di un qualche valore, tranne che a quella rom.
I furti. Sono davvero tutti ladri, i rom? No, naturalmente. Nessun rom è ladro? Nemmeno. Alcuni rom sono ladri, altri no. Proprio come gli italiani. Quando un italiano ruba, nessuno si sogna di attribuire il suo furto alla cultura italiana, come invece accade con i rom. E nessuno si sogna di considerare corresponsabile tutta un’etnia per le colpe di uno solo. C’è una lettura della realtà rom che può aiutarci a superare qualche pregiudizio, e consiste nel mettere da parte, per un momento, l’etnia, e considerare invece la classe sociale. A quale classe sociale appartengono i rom? Non sono borghesi, naturalmente; ma non sono nemmeno proletari. Sono sottoproletari, appartengono a quel “proletariato straccione” (Lumpenproletariat) costituito da disoccupati o sotto-occupati di cui parlava Marx. Persone al di fuori del ciclo produttivo che vivono di espedienti, privi di coscienza politica.
Ora, proviamo a leggere la realtà rom in quest’ottica. Confrontiamo i rom con un certo sottoproletariato napoletano o più in generale meridionale, ad esempio. Ci sono differenze? No. I mali sono gli stessi, i tentativi di porvi rimedio anche. Sia chiaro: non intendo, ora, criminalizzare il sottoproletariato per assolvere i rom. I crimini dei sottoproletari sono, spesso, il risultato di una prolungata indifferenza di chi dovrebbe curare il bene comune e invece fa gli interessi di chi ha di più. Interi quartieri abbandonati a sé stessi, tranne che nei periodi elettorali, quando torna comoda l’esistenza di una massa di disperati il cui voto si può acquistare con qualche pacco di pasta. Bambini che crescono in case fatiscenti, a volte in vere e proprie grotte senz’aria né luce, mentre con la compiacenza delle amministrazioni si costruiscono nuovi palazzi – case che i poveri non vedranno mai. Servizi sociali inesistenti, mentre si moltiplicano i centri commerciali. Ed uno Stato che è sempre pronto a sperperare per il carcere i soldi che non ha voluto investire per aiutare i poveri a vivere più dignitosamente.
Ma c’è ancora una differenza, qualcosa che fa del rom un sottoproletario sui generis. Il sottoproletariato, pur vivendo ai margini del sistema economico, ne condivide la logica, i rituali, i miti, le narrazioni. Nel sistema capitalistico il sottoproletario ha gli stessi desideri del proletario e del borghese. Come loro, è principalmente un consumatore. Ogni status symbol è da lui avidamente desiderato, quando non acquistato contraendo debiti. Pur disponendo di poco denaro, non disconosce la centralità assoluta del denaro nella vita individuale e comune. Il suo modo di vivere, se potesse, sarebbe esattamente lo stesso di quello di un borghese. Non così i rom. In una società capitalistica i rom vivono in modo non capitalistico. Non sono consumatori, come dimostra il fatto che nessun pubblicitario li ha mai considerati un target valido per qualche prodotto. Non condividono i valori dominanti della carriera, della ricerca dello status, dell’affermazione personale. Soprattutto, non condividono l’individualismo, che è essenziale per il capitalismo, e la mercificazione di ogni cosa. In un campo rom le relazioni umane sono ancora più importanti del denaro. La vita al campo si regge sullo scambio di prestazioni gratuite, sulla solidarietà e il sostegno reciproco. E’ questo legame che i rom considerano la loro più grande ricchezza – chiedendosi, ad esempio, come facciano i gagè, i non rom, ad abbandonare i genitori anziani in un ospizio. Ogni uomo, ogni donna ha qualcosa da insegnare; e così ogni popolo. Anche il popolo rom. E quello che ha da insegnare – quello che noi possiamo imparare – è forse qualcosa di molto importante: come sopravvivere al capitalismo ed alla sua universale mercificazione.
Note
(1) S. Tosi Cambini, La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007), CISU, Roma 2008.
(2) G. Di Luzio, Brutti, sporchi e cattivi. L’inganno mediatico sull’immigrazione, Ediesse, Roma 2011.
“Mattinata era una farfalla”. Una storia di vita
Nelle scienze umane le storie di vita sono uno strumento fondamentale per indagare a fondo il cambiamento sociale. Come è cambiata nel tempo la vita delle persone? Quali erano i valori condivisi qualche decennio fa? Quali le condizioni di vita? In che modo la vita dei singoli si lega ai grandi eventi storici? Per rispondere a queste e ad altre domande si può chiedere alle persone anziane di raccontare semplicemente la propria vita, con un tipo di intervista che lascia grande libertà all’intervistato, con domande che servono solo a stimolare il racconto ed a far sì che non tralasci punti importanti.
Poiché queste storie di vita sono anche un modo per ascoltare la voce degli anziani, che nel nostro mondo si avverte sempre più debolmente, ho spesso proposto ai miei studenti del liceo “Roncalli” di Manfredonia di intervistare i loro nonni, nell’ambito del corso di Metodologia della ricerca. Il risultato è spesso una narrazione di grande interesse, anche piacevole da leggere, uno spiraglio su un passato che è dietro l’angolo, ma che sembra dimenticato. Dopo il boom economico il nostro paese ha rimosso letteralmente il suo vissuto di povertà, di sofferenza, di emigrazione; gli anziani sono diventati dei testimoni scomodi di un mondo con cui non vogliamo più avere a che fare.[read more]
Qui di seguito propongo una di queste narrazioni. Si tratta della storia di vita di Lorenzo di Mauro, nato a Mattinata nel 1934. Ad intervistarlo la nipote Giusy Bisceglia.
Puoi parlare dei primi ricordi, l’infanzia, la famiglia, i giochi, la scuola…?
Non esistevano… Non gioco e no niente… Che gioco dovevamo avere prima? Che ci stava? Non ci stava niente. Non ci stava manco la sedia.
La scuola non l’hai frequentata?
Un anno e mezzo di scuola ho fatto. Il motivo perché è morto mio padre. Mio padre è morto a trentun anni, io non ho potuto andare a scuola per motivi di soldi, che non ci stava la lira, non ci stava niente, mia madre era sola, perciò non ho potuto andare a scuola, sono stato sotto a un padrone a lavorare, perciò ho dovuto rifiutare la scuola per andare a lavorare, perché non c’era niente da mangiare, non avevo dei genitori, mia madre era sola, e mia madre per darci a mangiare a noi andare a lavare della roba per guadagnare qualcosa.
Come vestivi da giovane?
Da giovane mancava tutto, mancavano i divertimenti, non ci stava niente, da giovane posso dire una cosa io, che i divertimenti non esistevano proprio, non esistevano proprio i divertimenti, e io posso dire che in quell’anno e mezzo di scuola che ho fatto sono stato vestito da balilla, nel periodo fascista, tutto vestito nero, però… si stava bene come ordine, però il resto mancava tutto, non esisteva niente, esisteva molta povertà. Nel ’43 è stata la guerra e non ci stava niente da mangiare, ma niente di niente, e quando si comprava un po’ di grano, il grano, si metteva a cuocere il grano, si metteva un po’ di zucchero sopra e mangiavano il grano, perché mancava il pane, mancava la pasta, mancava tutto.
La sera quando andavo a letto non potevo dormire perché la pancia era vuota, avevo fame, non potevo dormire. E comunque la vita di prima non facciamo cambio con quella di adesso, perché adesso, adesso si butta il pane, ci siamo dimenticati il passato, però adesso il pane si butta perché c’è, ma prima mancava tutto tutto tutto. Durante la guerra non ci stava niente.
E tuo padre come è morto?
Mio padre è andato sotto le armi, dopo di cinque giorni che è venuto da sotto le armi l’ha preso un male di pancia e è morto con l’appendicite, il 1936 è morto, io avevo due anni. Quando sentivo di chiamare papà, tatà si diceva allora, agli altri bambini, io chiamavo pure io, e chiamando piangevo. Io vedevo che mia madre piangeva e dicevo “ma’, perché piangi” e mamma non diceva a noi “è morto tuo padre”, visto che noi ci siamo fatti un po’ grandi lo abbiamo capito, no? E comunque per me con quattro fratelli la vita è stata dura, siamo stati costretti sempre a lavorare, da piccoli, all’età di nove dieci anni stavamo già sotto i padroni a lavorare. E come andavo a scuola, se dentro la mia casa mancava tutto? Non soltanto dentro la mia casa, allora mancava dappertutto, allora le scuole le facevano quelli che avevano un po’ di soldi.
E i dottori non potevano curare l’appendicite di tuo padre?
No, è stato un dolore… così… subito, perché con l’appendicite a peritonite prima si moriva. Che poi il dolore che è venuto a mio padre è stato di sera, quando usciva la processione a Mattinata l’hanno operato, al ritorno della processione mio padre è morto.
Quando il dottore l’ha operato ha detto alla mamma, alla mia nonna, di andare a Monte Sant’Angelo a prendere il dottore, e mancavano pullman, non è che stava l’aereo come adesso che per prendere una medicina vai a Roma a prenderla, mancava tutto, e così è uscito la processione e l’hanno operato, e al ritorno della processione è morto, aveva trentun anni.
Ma parecchi morivano per l’influenza, anche?
Sì, sì, perché mancava tutto, mancavano i dottori, mancava… non è che ci stava l’ospedale come adesso, che adesso, che adesso un piccolo male e subito c’è il dottore, prima si faceva in casa, l’hanno operato in casa a mio padre, senza anestesia, niente. Si metteva la pentola dell’acqua bollente sul fuoco, si metteva la forbice dentro, gli accessori dentro, e il dottore operava. Tra parentesi a Mattinata a quell’ora ne sono morti tre o quattro, tanti anni fa, e comunque adesso come dottori, come ospedali, cose… adesso stiamo bene, ogni minima cosa siamo nell’ordine di essere aiutati, ma prima mancava tutto tutto tutto.
Avevi amici?
Io? Sì, ma prima uno come faceva a tenere gli amici, perché non è… uno può tenere gli amici se va all’asilo, e l’asilo, c’hai gli amici se uno va a scuola, e durante la scuola, quando esci dalla scuola c’hai gli amici, ma prima le scuole chi le faceva?
Andavi a lavorare, non potevi trovare qualche amico?
Sì, sì, mentre che lavoravi tutt’al più potevi avere un amico, due amici, tre quattro persone durante il lavoro, ma non come adesso, adesso c’è il pallone, si sente la partita al pallone, esci in piazza e trovi a centinaia gli amici, ma prima non esisteva proprio questo qua.
Tua moglie è stata la tua prima ragazza?
Sì, sì, mia moglie è stata la prima, la prima, e se ti dico perché mi sono sposato piccolo, perché ci siamo sposati piccoli, perché dentro a casa nostra, povera, non è che aspettavano che tu stavi fino a trent’anni e avevi la possibilità di avere il corredo, eh, soltanto il vestito che portavi addosso, perché mancavano i soldi per fare il corredo, tra parentesi io mi sono sposato perché… eh, la mia avventura è stata lunga, mio padre è morto a trentun anni, io avevo la mamma, e mia madre s’è sposata di nuovo, ha avuto tre figli, e cinque ne aveva il primo marito, e quattro ne eravamo noi, e due loro, quattordici persone, perciò io ho passato una vita in mezzo a quattordici persone, dentro una casa, e non è che ci stavano quattordici piatti, come adesso, un piatto ciascuno, si metteva in mezzo un piatto soltanto e si mangiava dentro quel piatto, quello che ci stava, e dovevi mangiare sempre al posto tuo, no che ti dovevi spostare dal posto tuo, ti dovevi mettere vicino al posto tuo con la forchetta in mano, dovevi mangiare sempre vicino al tuo posto, e non è che eri sicuro di mangiare, perché parecchie volte la pentola bolliva e mancava la roba da mettere dentro, l’acqua bolliva e mancava la pasta, mancava la farina, e io oppure qualche altro mio fratello andavamo al negozio, dicevo “signo’, ha detto mia madre mi puoi dare due chili di farina, che poi quando fa i soldi li porta”, e ti rispondeva “dì a tua madre che mi deve pagare ancora un chilo, due chili di prima”, perché non ci stava niente, insomma, la vita di prima è stata una vita… però una cosa era bella prima, che ci stava il rispetto familiare, un grande rispetto, quello che non c’è adesso, perché adesso sorelle e sorelle non si parlano, fratelli e fratelli non si parlano, un figlio se deve stare un mese senza andare a casa dei genitori, ci sono, invece prima no, prima i genitori non venivano lasciati soli, quel pezzettino di pane che ci stava veniva diviso tutti uniti, e se andava a terra un pezzetto di pane, quando si prendeva il pane si baciava, e dopo lo mettevi in bocca, invece adesso il pane lo trovi nei secchi della spazzatura, lo trovi per terra, nemmeno i cani lo mangiano, e io quando vedo queste cose qua, mi fa male il cuore veramente, e io lo prendo il pane e lo cerco di proteggere, di mettere da qualche parte, invece ci sono bambini che adesso il panino per terra lo prendono a calci, e non lo mangiano nemmeno i cani, perché ce n’è.
E’ stato difficile trovare lavoro?
Ecco, mo ti dico questo qua. Venticinque febbraio ’57 sono sposato, di giovedì, dopo di due settimane ho avuto la chiamata per partire all’estero, sono andato in Austria, e non avevo nemmeno il bagaglio, la valigia, da mettere la roba dentro, sono andato al negozio, dal tabaccaio, l’ho presa la valigia e… che poi quando sono andato là l’ho mandato i soldi della valigia, e mi è stato così duro di lasciare mia moglie due settimane sposata, quando sono arrivato a salire sulla montagna, mi sono girato dietro e ho guardato Mattinata. Ho pianto.
Ho pianto veramente. Poi sono andato a Verona, sono stato cinque giorni a Verona, poi sono partito in Austria, e andavo a lavorare dentro una fabbrica di marmo, con gli stivali ai piedi, con i guanti alle mani, e dentro una baracca, a dormire dentro una baracca, che poi piano piano ci hanno dato la sistemazione buona, e poi ho fatto sei anni ancora all’estero in Germania, sono stato ancora sei anni all’estero in Germania, e sono stato uno che… sempre attaccato alla famiglia, che anche in Germania di fronte al letto dove dormivo avevo il quadro con tutta la famiglia, di mia nonna, di mia moglie, dei figli e di tutto, tra parentesi all’estero non è che era bello starci, lontano dalla famiglia è la più cosa brutta di stare lontano dalla famiglia.
Dunque, quando sono partito in Germania io ero un operaio comune, ho fatto il contratto da manovale meccanico, e io non sapevo tenere nemmeno il martello in mano, sono andato nella fabbrica, quattro settimane nel reparto solo a guardare, e piano piano, piano piano, piano piano ci ho messo delle mani, ed ho imparato tante, tante cose, a distanza di un anno io lavoravo come i tedeschi, e mi davano la busta paga identica come i tedeschi.
E’ stato difficile imparare la lingua?
Per imparare la lingua… se uno c’ha tante scuole, non ci fa tanta attenzione, se uno non c’ha scuole, c’ha qualcosa così, ci fa tanta, tanta attenzione a imparare. Io ho imparato la lingua tedesca… un anno sono stato in Austria, e in Austria parlano il tedesco… quando sono partito in Germania mi hanno chiesto chi sa parlare il tedesco, e io perché sono stato già un anno in Austria, sapevo qualcosa, e sono andato a lavorare dentro questa fabbrica qua, e piano piano piano piano l’ho imparato, ma bene bene bene bene, che quello che mi chiedevano sapevo rispondere tutto, durante il lavoro lo stesso, tra parentesi… non dico il cento per cento, ma il settanta per cento, lo so parlare.
E poi dopo di tre anni che ho lavorato in fabbrica ho lavorato tre anni alla posta, all’ufficio postale, e prima di assumermi a lavorare mi hanno domandato alcune domande in tedesco, e io gli ho risposto bene, mi hanno preso a lavorare, ho lavorato tre anni all’ufficio postale a Stoccarda… tra parentesi mi sono trovato bene, ho imparato il tedesco, ho… ti so rispondere in tedesco anche quando uno sogna la notte… ti dico che ancora adesso che sono dal ’65 che sono tornato a casa lo so bene bene bene, non mi sono dimenticato di niente, perché ho lavorato per quasi vent’anni in campeggio pure, in campeggio ci stanno i tedeschi, ho avuto sempre contatti a parlare, a parlare, a parlare… in conclusione dei fatti il tedesco è difficile, però se uno c’ha la volontà, impara.
Quando sei tornato dalla Germania le condizioni di vita erano migliorate?
Sì, erano migliorate, ho comprato la casa, ho comprato un po’ di terreno, ho fatto tutto per tutto per i figli, ci siamo voluti sempre bene, siamo una famiglia unita, e tra parentesi la più che ho avuto troppo stretta è stata mia moglie, perché non ci siamo mai abbandonati, io le mandavo i soldi e lei li sapeva gestire.
Dopo la nascita dei figli ci sono state ancora difficoltà, altri sacrifici?
No, sacrifici non ce ne sono stati, perché si dice che nella famiglia numerosa ti aiuta Dio, però quello che mi ha lasciato perplesso è che io mi sono sposato, due settimane e sono partito in Germania, ritorno dopo un anno e trovo un figlio, a Matteo, in due settimane abbiamo costruito, e sono partito, dopo un anno vengo a casa e trovo un bambino, e il bambino quando mi ha visto prendeva paura di me, nel letto, diceva “questo qua chi è?”, e è stata una cosa dolorosa proprio, perché la lontananza dei figli… e poi venivo sempre in ferie nello stesso periodo e ho avuto cinque sei figli, sempre nella data di gennaio sono nati… Cinque, cinque figli tutti e cinque a gennaio.
Com’era Mattinata una volta?
Mattinata nel periodo della guerra era bella, era una farfalla come paese, era troppo bella, a Mattinata s’è costruito nel periodo quando hanno emigrato in guerra, e s’è costruito un po’ di Mattinata, s’è fatto più grande, poi quando che hanno cominciato a migrare al Belgio, in Francia e in Germania, Mattinata s’è sviluppata almeno almeno per dieci volte di quando era prima, perché emigrando i soldi si sono guadagnati e ognuno s’è fatto la casa, chi s’è fatto la casa, s’è fatto il terreno, c’è stato un miglioramento di vita, però adesso, adesso, non è più come una volta, adesso la casa dei giovani non la fa più nessuno, perché la Germania è finita, la Francia è finita, tutte le nazioni che abbiamo emigrato lavoro non ce ne hanno nessuna nemmeno per conto loro, e tra parentesi i giovani di oggi per traversare questa, questo passaggio qua è dura, tra parentesi si sposano anche di meno, adesso.
Ora si usa la convivenza…
Ecco. Perché… manca la possibilità, manca il lavoro, manca tutto… sì, fanno le scuole, ma anche che fanno le scuole, quando uno è fatto ragioniere, è fatto maestro di scuola, non prende il posto nemmeno a quarant’anni… e non è che un maestro può migrare in Germania, che ci va a fare in Germania, che in Germania lavoro non ce n’è più, deve emigrare al nord, e al nord se trova un posto di lavoro, se no… eh.. oggi è critica, stiamo meglio come mangiare, assistenza e tutto, però stiamo attraversando pure un periodo non tanto bello.
Quanti figli hai?
Ce ne ho nove. Per fortuna i figli che c’ho tutti otto sono sposati e uno non ancora, che i figli non è che c’hanno nove figli come ho fatto io, massimo due, per ogni figlio, tra parentesi tutti i nipoti ne sono diciassette, tra parentesi se avessero fatto nove come ho fatto io avrei ottanta nipoti, i figli adesso non si fanno più per la paura di portarli avanti, perché oggi i figli costano, anche allora costavano i figli, ma allora allora era un altro…
Ma non costavano di più i figli allora?
No no, a tenere la famiglia numerosa per me è stato… niente, ho attraversato una vita tranquilla, per nove figli, ti dico che io mi sono trovato bene, però sono stato un grande lavoratore, ho sempre lavorato, i figli sono stati sempre uniti a noi, hanno lavorato anche loro, portando i soldi a casa.
So che ti piace vedere i telegiornali, soprattutto la politica. Perché?
Vedi, io… se devo dire la verità… perché ho passato… il passato quando non esisteva pane, quando non esisteva niente, ho passato una vita brutta, che il padrone ha fatto sempre il suo interesse, ma io come operaio con i padroni so’ stato sempre un collaboratore, che collaboravo coi padroni, ma i padroni cercavano di fare sempre a non pagarmi, e sono stato sempre un sindacalista, ma sindacalista sono stato, che mi piaceva fare il mio dovere e pretendevo anche quello che mi spettava, tra parentesi adesso mi piace a sentire la politica, mi piace a sentire la politica, io no… se sto a Mattinata, se sto in casa, lo sento dieci volte al giorno il telegiornale, che mi piace a sentire, perché delle cose che stanno accadendo adesso, dei politici, sono poco quello che fanno nei riguardi del basso popolo, pensano sempre per i grandi.[/read]
Un razzista a 5 stelle*
Come era prevedibile, in una città in cui razzismo ha solide basi, si scatena la protesta dei bravi cittadini per quei soldi impiegati per i Rom, mentre ci sono ben altre priorità.
Tra gli altri, si distingue questo tizio:
Ora, per chi avrà votato questo soggetto? Ipotizzo:
Beppe Grillo, il parresiaste
Beppe Grillo |
Non occorre essere dei fini politologi per capire le ragioni della vittoria di Beppe Grillo: basta chiederlo a chi l’ha votato. Perché chi ha votato Grillo, a differenza di chi ha votato Berlusconi, non si nasconde; al contrario: sembra orgoglioso della sua scelta. E chiedete, dunque: perché avete votato per Grillo? Io ho ricevuto il più delle volte una risposta di questo tipo: “perché Grillo è uno che dice le cose come stanno”. Beppe Grillo è il comico che, dopo aver fatto ridere come tanti altri comici, ha cominciato a diventare scomodo, ed è stato espulso dal sistema. Anche se è scomparso dagli schermi televisivi, la gente si è ricordata di quel comico lì, quello che dava fastidio. Ed ora si è accorta di aver bisogno di lui. Perché? I Greci avevano il concetto di parresia, la capacità di dire la verità, di esprimersi liberamente di fronte al potere, che consideravano essenziale per la democrazia. Il concetto è presente anche nel Nuovo Testamento, quale franchezza nell’annuncio del Vangelo da parte degli apostoli, anche a costo della persecuzione. Mi pare che si possa interpretare in questo modo l’esito delle ultime elezioni. Gli italiani, estenuati da un potere che si è alimentato e sostenuto con la dissimulazione, l’inganno, la segretezza, la distorsione sistematica della verità, hanno scelto la figura del parresiaste, del comico scomodo che dice al re che è nudo. Il fatto che sia un comico è un punto a suo favore: è estraneo al mondo politico, considerato una casta indistinta che persegue scopi comuni, al di là delle differenze di ideologia e di bandiera. E’ vero che un leader politico rappresenta sempre una proiezione, l’incarnazione di un ideale umano condiviso. Mandando al potere Berlusconi, gli italiani hanno dato forma ad una delle loro anime – quella lazzarona, furba, cialtrona, maschilista, sostanzialmente mafiosa. Se la mia analisi non è errata, Grillo incarna il contrario: colui che si oppone al potere in nome della verità, e dunque esprime istanze ideali ed etiche (ed anche, certo, la rabbia trattenuta troppo a lungo contro il triste spettacolo della politica, il vaffanculo liberatorio indirizzato tanto alla destra quanto alla sinistra).
Questa esigenza spiega, forse, il voto di pancia di molti, ad esempio di non pochi pensionati e di molti giovani al primo voto. C’è poi il voto più meditato di quelli per i quali Grillo non è il comico cacciato dalla televisione, ma il blogger influente che ha creato un movimento in grado di controllare il potere.
In un sistema democratico il potere è sempre sotto controllo, e questo controllo impedisce che degeneri in dominio. In Italia non è mai stato così. Era fuori controllo il potere democristiano, che viveva di segretezza, di trame oscure, di servizi segreti deviati, di stragi di Stato, di accordi con la mafia. La breve stagione di Tangentopoli ha dato l’illusione che la magistratura potesse controllare il potere, come previsto dalla Costituzione. Ma le cose sono andate diversamente. Nella Seconda Repubblica il potere è stato fuori controllo non meno che nella prima, anche se in modo diverso. Si è posto fuori dal controllo in due modi: in primo luogo grazie ai mass media, che in un sistema democratico funzionante sono, insieme alla magistratura, la principale struttura per il controllo del potere, e che sono diventati invece uno strumento al servizio del potere per la manipolazione delle masse; in secondo luogo impedendo alla magistratura di esercitare la sua funzione attraverso le leggi ad personam. Chiunque avesse a cuore le sorti della nostra democrazia avrebbe dovuto considerare quale primo punto dell’agenda politica il tema del controllo del potere. Altri sono stati invece i temi imposti all’opinione pubblica dai mass media controllati dalla politica: quelli della sicurezza e dell’immigrazione in primis.
Oggi le forze politiche uscite sconfitte dalle ultime elezioni – in sostanza tutte, tranne il Movimento 5 Stelle – evocano foschi scenari: la nostra democrazia, che ha resistito (ma ha davvero resistito?) alla mafia democristiana, alle ruberie socialiste ed alla telecrazia berlusconiana, sarebbe ora in crisi per i vaffanculo di Beppe Grillo. Non manca la reductio ad Hitlerum: su Facebook gira un falso discorso di Hitler di cui si rimarca la pretesa somiglianza con quelli di Grillo. Sarebbe interessante compiere la stessa operazione con (l’ex) papa Benedetto XVI (Hitler non diceva Gott mit uns?) o con Gandhi (che in Hind Swaraj dice tutto il male possibile del Parlamento).
Piaccia o meno – ed ho appena spiegato perché dovrebbe piacere, e molto – con il Movimento 5 Stelle il tema del controllo del potere conquista il primo posto nell’agenda politica. L’idea di Grillo e Casaleggio è che il potere ha bisogno di un contropotere che lo controlli e lo tenga nei suoi limiti. Questo contropotere non è rappresentato né dai mass media né dalla magistratura; è rappresentato dalla Rete. I mass media si possono controllare con il denaro, la magistratura con il denaro e le leggi ad personam. Il Web no: sfugge ad ogni controllo. L’esito fallimentare delle avventure in rete di politici come Clemente Mastella o Romano Prodi dimostra l’impossibilità di usare la rete come uno strumento. La rete è per sua natura orizzontale, non tollera il “lei non sa chi sono io”. L’onorevole che apre un suo profilo Facebook o un suo blog deve dialogare a tu per tu con i suoi lettori. Non esistono autorità, VIP, sue santità in rete: lo dimostra (anche tristemente) l’esito infelice del profilo Twitter di Benedetto XVI. In rete si va per discutere, non per pontificare. E chi pontifica presto si rende ridicolo e viene espulso.
I nuovi eletti al Parlamento del Movimento 5 Stelle promettono di essere politici di nuova specie, non onorevoli ma cittadini che rispondono ai cittadini attraverso la rete. Lo saranno davvero? Difficile dirlo, così come è difficile dire se funzionerà realmente – anche tecnicamente – il sistema di democrazia digitale legato al blog di Beppe Grillo. Soprattutto, occorrerà vedere in che modo l’aspetto orizzontale, partecipativo ed aperto del Movimento (ben espresso dal motto “uno vale uno”) possa conciliarsi con la presenza del leader. In un articolo di tre anni fa scrivevo:
O i grillini sono seguaci del guru Grillo, e lo applaudono anche quando insulta Rita Levi Montalcini o rimpiange la sacralità dei confini nazionali contro l’invasione dei Rom, oppure sono persone che discutono apertamente ed orizzontalmente dei problemi comuni. È evidente la grottesca contraddizione di un movimento di persone che vogliono pensare con la propria testa, e al tempo stesso dipendono dalle parole d’ordine, dalle rivelazioni, persino dagli umori del loro leader. È una contraddizione che non può durare: o il movimento finirà per emanciparsi da Grillo, e farà politica autentica (esito improbabile, benché auspicabile), oppure finirà per essere schiacciato dalla figura ingombrante del suo stesso fondatore (1).
In un libro pubblicato successivamente a quell’articolo, Grillo e Casaleggio sostengono che per la Rete il concetto di leader “è una bestemmia”, e che esistono solo “portavoce delle istanze dei cittadini” (2). Nemmeno Beppe Grillo, dunque, è nulla più che un semplice portavoce. Ma le cose al momento non stanno così. Grillo è, che lo voglia o no, il leader del Movimento; e la sua opinione, che gli piaccia o meno, vale più di quella degli altri. Nel forum del Movimento non è infrequente il ricorso all’ipse dixit, per mettere a tacere chi la pensa diversamente.
C’è poi il problema culturale. Abbiamo alle spalle (sono in vena di ottimismo) decenni di politica clientelare. I politici hanno corrotto profondamente la fibra morale del paese e degradato la politica fino a farne un miserabile mercanteggiare. Uscirne sarà impresa meno facile del previsto. Ecco un messaggio comparso qualche minuto fa nel forum del Movimento:
carissimoBeppe io ti ho votato con il cuore credimi posso dimostrarlo ,.ti chiedo un favore enorme io ho perso il lavoro da 2anni sono sposato con due figli.ho 47 anni e 33 anni di contributi non riesco a trovare nulla come dobbiamo vivere visto che siamo totalmente abbandonati da tutti specialmente dai parenti grazie
C’è poi la questione dei diritti civili. Nel programma del Movimento 5 Stelle (più un elenco di cose da fare che un programma argomentato) mancano del tutto questioni come le unioni di fatto, i matrimoni omosessuali, il testamento biologico, l’integrazione dei Rom, la cittadinanza ai figli degli immigrati e l’immigrazione in generale, eccetera. Su alcune di questi punti Grillo si è espresso: ha parlato ad esempio di “confini sconsacrati” dall’immigrazione selvaggia e della proposta “senza senso” di dare la cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati in Italia. Posizioni che manifestano un limite reale, politico ed anche umano, di Grillo. Poiché Grillo non è il Movimento, di cui non è nemmeno il leader, bisognerà vedere come e quanto il Movimento riuscirà ad aprirsi ai diritti civili (una interessante apertura sullo ius soli viene ad esempio dal Movimento 5 Stelle di Monza).
(1) A. Vigilante, Il problema del pubblico, Dewey e Beppe Grillo. Limiti e contraddizioni del guru digitale in Diogene. Filosofare oggi, n. 20, 2010.
(2) B. Grillo, G. Casaleggio, Siamo in guerra. Per una nuova politica, Chiarelettere, Milano 2011, p. 11.
Vegetarianesimo e demitarianism
La copertina del rapporto Our Nutrient World |
Chi diventa vegetariano (o vegano) lo fa per une delle tre seguenti ragioni: perché ritiene che la vita non umana abbia valore, e che sfruttare, torturare e distruggere miliardi di vite animali sia un crimine; perché considera la dieta carnea dannosa per la salute; perché pensa che la dieta ricca di proteine animali dei paesi ricchi sia una delle cause della fame diffusa nei paesi poveri. La prima ragione è etica, la seconda salutistica, la terza politica. Nel primo caso si tratta di fare qualcosa per gli animali, nel secondo di fare qualcosa per se stessi, nel terzo di fare qualcosa per l’umanità. Naturalmente, una ragione non esclude l’altra, e si può essere vegetariani al tempo stesso per ragioni etiche, salutistiche e politiche.
People can lower the consumption of animal protein by eating less frequent meat and dairy. In some coun-tries people are being mobilized to have a “meat-free” day.
Another important route is the reduce portion size. A third way is to shift to poultry meat, as this is usually as-sociated with less pollution than pork and beef.
Finally, approaches have been encouraged that foster a middle path between typical meat consumption in the developed world and vegetarian diets. In the “demitar-ian” approach the aim is to consume half the normal local amount of animal products. (1)
a. For many developed countries, individuals eat more animal products than is necessary for a healthy balanced diet, so that, for many people, reducing per capita meat consumption has the potential to give significant health benefits;b. In many developing countries, increased nutrient availability is needed to improve diets, while in other developing countries, per capitaconsumption of animal products is fast increasing to levels which are less healthy and environmentally unsustainable;c. For the reasons outlined above, reducing per capita consumption of animal products in the developed world has the potential to improve nutrient use efficiency, reduce overall production costs and reduce environmental pollution;d. While vegetarianism represents an option for some, this remains an unwanted ambition for many people;e. There is a need to encourage options of medium ambition, making it easier for those who choose to reduce the consumption of animal products. (2)
(1) Global Partnership on Nutrient Management (GPNM), Our nutrient world. The challenge to produce more food and energy with less pollution, Centre for Ecology and Hydrology (CEH), Edinburgh UK 2013, p. 70.
(2) NinE, The Barsac Declaration: Environmental Sustainability and the Demitarian Diet.
Marcello Bernardi e la pornocrazia
Marcello Bernardi |
Ne La maleducazione sessuale di Marcello Bernardi si trova una analisi esemplare per limpidezza dei rapporti tra sesso e potere. Il sesso, sostiene l’anarchico Bernardi, è ciò che manda in crisi il potere, poiché è per essenza l’esatto contrario di ogni forma di sopraffazione, si sottomissione, di odio, di discriminazione. Da sempre il potere si esercita operando la rimozione del sesso, attraverso il senso di colpa e l’educazione repressiva. Il buon cittadino borghese investe le energie sessuali rimosse nel lavoro e il particolare nel denaro, il vero surrogato del sesso. Nella società borghese l’individuo è chiamato a sublimare le pulsioni sessuali e ad investirli in campi compatibili con l’economia capitalistica e il suo bisogno di produzione continua di beni.
Naturalmente, Berlusconi è solo la più avanzata antropomorfizzazione di una generale tendenza al godimento distruttivo. Oggigiorno il capitale/Super-ego ci dà un ordine preciso: “Godi!”. Non sto dicendo nulla di nuovo, è una situazione ben nota (1).
(1) Wu Ming 1, Note sul “Potere Pappone” in Italia, 1a parte: Berlusconi non è il padre.
(2) M. Bernardi, La maleducazione sessuale, Emme Edizioni, Milan 1977, p. 142.
(3) Ivi, p. 143.
(4) Ivi, p. 145.
(5) La distinzione tra potere e dominio si trova in Danilo Dolci. Potere è l’esercizio delle proprie possibilità vitali, che non contrasta ma si concilia con l’esercizio delle possibilità di altri. Il dominio al contrario è un esercizio delle proprio possibilità che si alimenta della impossibilità di altri: al dominatore è possibile ciò che agli altri non è possibile. Il potere è simmetrico ed orizzontale, il dominio asimmetrico e gerarchico. Per un approfondimento rimando al mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, Edizioni del Rosone, Foggia 2012.
Fenomenologia dell’intellettuale di destra
Lo scorso dicembre lo Stato italiano ha raggiunto con l’Unione Buddhista Italiana e l’Unione Induista Italiana una intesa che comporta la piena libertà di culto e, tra l’altro, la possibilità di riscuotere l’otto per mille. Si tratta, con ogni evidenza, di un provvedimento per il quale bisognerebbe rallegrarsi indipendentemente dalle proprie convinzioni religiose o irreligiose, poiché dà sostanza a quel principio di libertà religiosa affermato dall’articolo 19 della nostra Costituzione, senza il quale non può darsi autentica democrazia.
Ma non tutti la pensano così. Commentando la notizia in un articolo sul Giornale intitolato La mutua passa pure Buddha e Visnù, Marcello Veneziani scrive:
Mille cose urgenti e importanti il Parlamento non è riuscito ad approvare. In compenso è riuscito a varare in extremis, e oggi entra in vigore, il riconoscimento di Stato del buddismo e dell’induismo.
Sarà riconosciuto il loro culto, sorgerà una pagoda a Roma, saranno ammesse le loro festività e soprattutto potranno ottenere l’otto per mille.
Ha vinto la laicità dello Stato, esultano; cattolici, fate la fila come gli altri. Però due tradizioni così antiche e maestose che predicano il distacco dal mondo e reputano la realtà un’illusione, che se ne fanno del nullaosta del piccolo e storto Stato italiano? Volete Buddha col sussidio statale e il certificato di Visnù rilasciato dal Comune?
Capisco le religioni più legate alla storia e fiorite in Occidente, come il cristianesimo e l’ebraismo; ma il buddismo e l’induismo sono vie metafisiche, c’entrano con l’eterno, non con l’erario. Dopo la Dc avremo Democrazia Buddista e Rifondazione Bramina?
Buddisti e induisti sono poche migliaia in Italia; tanti lo sono da diporto, ovvero per esotismo o terapia antistress, perché praticano lo yoga, amano i ristoranti cinesi e i buddha bar, fanno massaggi ayurvedici, agopuntura e bevono tisana. Lo Stato firma con loro un’intesa e non invece con gli islamici che in Italia sono tanti, forse troppi, e sono davvero praticanti, anche troppo, e non vaghi appassionati di narghilè e kebab.
Libertà di culto, certo, ma non supermarket delle fedi e religioni passate dalla mutua. Non rovinate Buddha con le buddanate.
Proviamo a rispondere punto per punto a Veneziani.
– Perché mai l’attuazione di un principio costituzionale – attuazione che attende da anni – non dovrebbe essere “urgente e importante”?
– Perché mai i cattolici non dovrebbero “fare la fila come gli altri”? Democrazia è quel sistema in cui tutti hanno diritti, indipendentemente dal fatto di essere maggioranza o minoranza; tutti fanno la stessa fila.
– Tutte le religioni predicano il distacco dal mondo e dal denaro; anche il cristianesimo. Eppure i cattolici chiedono soldi allo stato: ed anche molti soldi.
– Solo un ignorante può dire che il Buddhismo è una via metafisica.
– Quanti sono i cattolici “da diporto”? La stragrande maggioranza dei cattolici sono tali solo per il battesimo, ma in realtà non seguono nessuna religione.
Non occorre essere particolarmente sagaci né preparati per rispondere punto per punto ad un articolo del genere; potrebbe farlo anche un ragazzino. E dunque viene da chiedersi: come mai? Perché Veneziani usa argomenti così scandenti, che è così facile smontare? Veneziani non è, come si potrebbe pensare leggendo quell’articolo, un idiota. E’ uno dei maggiori intellettuali di destra del nostro paese. Perché allora scrive sciocchezze?
La risposta è che scrive sciocchezze proprio perché è un intellettuale di destra. Quell’articolo è un ottimo esempio di articolo di destra: basta aprire un qualsiasi giornale di destra per trovarne decine di altri esempi. Ad accomunarli sono l’uso di argomenti grossolani, il ricorso alla ridicolizzazione, l’imprecisione, una certa sciatteria di fondo. Perché? Per quel certo disprezzo della ragione che è proprio della destra. Perché presentare argomenti seri vuol dire entrare in una discussione: e riconoscere l’interlocutore. Potete immaginarvi l’intellettuale di destra come uno che, in un salotto, se ne sta in un angolo a sorseggiare del whisky e ridacchiando fa battute. Se qualcuno lo prendesse sul serio e rispondesse alle sue battute con argomenti, dimostrerebbe di non aver capito nulla. Ed otterrebbe solo altre battute, altro sarcasmo, altre palesi assurdità.
E’ appena il caso di notare che il diffondersi di questo stile è un pericolo per la democrazia. La democrazia esige la discussione pubblica dei problemi. Compito degli intellettuali – e dei giornalisti – è quello di favorire questa discussione pubblica presentando dati ed argomenti, il più possibile comprensibili e verificabili. Dati ed argomenti che saranno diversi, opposti anche, ma inseriti in una cornice comune, che è quella della ragione, e che comprende alcune semplici regole riguardanti la discussione. L’intellettuale di destra si sottrae a questa cornice comune. Rifiuta la ragione, rifiuta le regole dell’argomentazione. Ha un talento particolare per squalificare la comunicazione, ricorrendo a quelle strategia analizzate da Watzlawick ed altri nella Pragmatica della comunicazione umana: contraddirsi, dire cose palesemente insensate, rispondere in modo vago eccetera. In quello che scrive, l’atteggiamento fa aggio sull’argomento. Non gli importa spiegare perché i buddhisti e gli hinduisti gli sono antipatici e non vuole che abbiano gli stessi diritti dei cattolici. Non deve argomentare sul serio. Importa solo dire l’antipatia – e torna utile la ridicolizzazione. Del resto, diceva Giuseppe Rensi (uno dei primissimi teorici del fascismo), il prevalere di un argomento sull’altro non è legato alla forza della ragione, ma alla forza bruta. Tanto vale rinunciare del tutto ad argomentare.
Il paradigma dell’imbuto e il paradigma della situazione
Un paradigma ben consolidato in campo educativo è quello dell’imbuto. Che se ne sia consapevoli o meno, si pensa che il compito di chi educa sia quello di selezionare, tra i comportamenti dell’educando, gli unici che sono degni di restare, e di far in modo che gli altri scompaiano. All’inizio c’è un soggetto con una molteplicità di modi di essere, alla fine c’è un soggetto che è adatto ad entrare in società, che si è lasciato alle spalle ogni sgradevolezza. Tra l’inizio e la fine – tra la bocca larga dell’imbuto e la sua uscita stretta – c’è l’azione di modellamento dell’educazione, la cui essenza è quella di vietare alcune cose e di permetterne altre.
A causa della diffusione del paradigma dell’inbuto la situazione educativa è spesso, per chi la vive, una situazione di malessere. Nei posti in cui si fa intenzionalmente educazione – nelle scuole e nelle famiglie, prima di tutto – si sta più male che bene.
Alcuni degli scrittori maggiori del Novecento hanno demitizzato la famiglia, mettendo a nudo quel groviglio di ostilità, incomprensioni, ossessioni, piccineria borghese, violenza che è la quotidianità di molte famiglie; alcuni dei maggiori pedagogisti del secolo hanno invece demitizzato la scuola, evidenziando le dinamiche di dominio, la passivizzazione, le logiche di classe, la mancanza di vera conoscenza e di creatività. Il malessere degli studenti si esprime in forme diverse, ma ugualmente eclatanti: dai dolori psicosomatici dei bambini più piccoli fino agli atti vandalici degli adolescenti.
E’ diffusa la convinzione che questo star male, che paradossalmente caratterizza i luoghi dell’educazione, sia tuttavia necessario in vista del bene futuro. La convinzione da cui muove questo studio si situa esattamente all’opposto. La situazione educativa è tale, come vedremo, solo se consente al soggetto di sperimentare una forma di benessere e di pienezza; ogni situazione di disagio e malessere è diseducativa.
Il paradigma dell’imbuto porta in primo piano domande come: quando è lecito dire di no ai propri figli? Cosa bisogna consentire e cosa vietare? E’ il problema di come far sì che l’educando, una volta entrato nell’imbuto, si riduca progressivamente fino ad uscire dall’altra parte ed a riversarsi nel recipiente della società. Molti genitori sinceramente preoccupati dell’educazione dei loro figli pensano che sia importante saper dire di no, evitare di assecondarli costantemente e di non frustrarli, saper porre loro limiti e divieti. Quello educativo è il rapporto tra un soggetto che va limitato ed un altro che deve limitarlo; e questa limitazione, questa progressiva selezione dei comportamenti è l’educazione.
Non è difficile accorgersi che il paradigma dell’imbuto è fondato sul disconoscimento di quello che il bambino è. L’educazione è erudizione nel suo senso peggiore. Il bambino è rude, rozzo, incivile, e l’educazione è dirozzamento, raffinamento, eliminazione delle scorie e del superfluo. Il processo è unidirezionale: l’educatore non ha nulla da imparare dal bambino, è al di qua del suo mondo, è un rappresentante della società e delle sue richieste. La socializzazione è il fine dell’educazione secondo il paradigma dell’imbuto; la scolarizzazione uno dei suoi mezzi più efficaci. Scolarizzare vuol dire adattare un soggetto alle richieste di una istituzione totale. Abituato al movimento libero ed alla libera parola, a scuola il bambino impara a stare seduto per cinque ore ed a parlare solo quando vuole l’insegnante; il suo dare del tu a tutti lascia il posto ad un rispettoso lei, offerto a chi rappresenta l’autorità pedagogica; la possibilità di seguire i propri interessi cede il passo allo studio imposto di cose che gli risultano per lo più indifferenti. Il paradigma dell’imbuto giustifica qualsiasi situazione in vista del risultato finale. Esso impedisce di porsi altre domande, che dovrebbero invece essere al centro della riflessione dell’educazione. Il genitore che si chiede: quando e come devo dire di no a mio figlio?, potrebbe e dovrebbe invece chiedersi: quali cose belle posso fare insieme a mio figlio? E’ tutto qui il passaggio dal paradigma dell’imbuto al paradigma della situazione. L’insegnante che programma la propria azione educativa, che mette per iscritto che tipo di persona vuole che i suoi studenti diventino, potrebbe e dovrebbe riflettere invece su quale tipo di situazione vuole che vi sia nella classe. Quanta serenità c’è a scuola? Quanta gioia? Quanta curiosità? Quanta creatività? Quanta ricerca? La scuola è un luogo in cui si sta con piacere, in cui gli studenti vorrebbero andare anche se non fossero costretti? Fare in modo che lo sia dovrebbe essere l’unica preoccupazione degli insegnanti, e l’analisi della situazione e la riflessione su come cambiarla dovrebbe prendere il posto dell’astratta programmazione.
Secondo il paradigma dell’imbuto l’educazione è una questione di contrazione, di selezione, di limitazione. Secondo il paradigma della situazione, al contrario, l’educazione ha a che fare con l’espansione, con l’ampiamento dell’esperienza: è vita nel senso più pieno. L’educazione, scriveva Dewey ne Il mio credo pedagogico, «è vita, e non preparazione alla vita». La vita è ciò che accade qui ed ora; la vita è situazione. In quali situazioni la vita si esprime nella sua pienezza? E’ questo il problema educativo fondamentale. Le situazioni nelle quali la vita è piena sono le situazioni nelle quali l’educazione accade; ed educare non è altro che creare le condizioni perché si realizzino queste situazioni.
[Da uno studio in preparazione.]
Il libro e l’opera: nota sull’editoria elettronica
LEGGO in questo post su Penna Blu una lista di pro e contro del libro cartaceo e di quello elettronico. Possiedo un ebook reader da circa un anno e mezzo: se dovessi fare una mia lista, i pro del libro elettronico sarebbero molti di più dei contro, e il confronto tra ebook e libro cartaceo andrebbe tutto a favore del primo. Probabilmente perché sono quasi del tutto insensibile al fascino della carta stampata, all’odore del libro eccetera; mentre mi pare che l’ebook essenzializzi, per così dire, il libro; o meglio: che liberi l’opera dal libro. L’opera è il libro inteso dal punto di vista ideale, il libro è la concretizzazione, la materializzazione dell’opera. La Divina Commedia può avere mille aspetti diversi, a seconda delle diverse edizioni, dei diversi libri in cui si concretizza: può essere rilegata o in brossura, di carta pregiata o scadente, con illustrazioni o meno. Ora, le cose sono due: o il libro influenza l’opera, oppure no.
Cioè: o il modo concreto in cui un’opera si presenta nelle nostre mani, sotto i nostri occhi, influenza il nostro modo di avvicinarla e di goderla, oppure ciò non accade. I sostenitori del piacere della carta stampata dovrebbero rispondere a questa domanda. E’ evidente che, se la veste tipografica di un’opera è inessenziale, perché quando leggiamo ci immergiamo nell’opera e il libro passa in secondo piano fin quasi a scomparire, allora è indifferente leggere un libro di carta o un libro elettronico. Se invece la veste tipografica è essenziale, e influisce sul piacere della lettura, bisognerebbe allora preoccuparsi della crescente sciatteria dei libri cartacei, sempre più spesso pubblicati con carta scadente, con una stampa approssimativa, con una rilegatura fragile: eccetera. Mi aspetterei dunque che gli oppositori del libro elettronico fossero, al tempo stesso, oppositori della pessima tipografia; che chiedessero non solo libri di carta, ma bei libri di carta, rispettosi del piacere della lettura.
Personalmente ritengo che un’opera sia quasi del tutto indifferente al suo supporto concreto, e che una volta iniziata la lettura restino solo le parole. Con alcune eccezioni, naturalmente: i libri illustrati non sono proprio la stessa cosa, in formato elettronico; e così, forse, le poesie.
Ci sono poi due particolarità del libro elettronico che me lo fanno apprezzare particolarmente.
Tutti modifichiamo in qualche modo i libri che leggiamo. Li annotiamo, evidenziamo, logoriamo; ma a volte cerchiamo anche di migliorarli: rivestiamo la copertina, soccorriamo la rilegatura quando si mostra fragile, se siamo capaci li rileghiamo perfino. Aldo Capitini, se non ricordo male, aveva l’abitudine di far riallestire in legatoria i libri cui teneva particolarmente, in modo da introdurre pagine bianche che poi avrebbe usato per le sue annotazioni. Il libro cartaceo diventava così interattivo. Ora, questa interattività, che si può ottenere nel libro cartaceo con difficoltà ed in modo parziale, è facile e totale nel caso di libro elettronico. Un ebook si può sottolineare, evidenziare, annotare come un libro di carta, ma se ho un minimo di competenze posso fare di più. Se sono un tipografo, non posso comunque cambiare la struttura tipografica di un libro di carta; non posso correggere errori di impaginazione o cambiare il font. Nel caso di un ebook, posso farlo. Utilizzando un programma come Sigil, posso intervenire sul testo in modo anche radicale. Posso ad esempio decidere di allineare a sinistra un testo giustificato, posso cambiare il colore dei titoli, posso anche correggere eventuali errori. Ma soprattutto posso intervenire sull’opera stessa. Posso fare, in modo infinitamente più semplice, quello che faceva Capitini con i libri di carta: posso inserire i miei appunti nel testo, e fare in modo che diventino parte integrante dell’opera. Le note, che nei libri cartacei sono a margine, entrano ora nel testo; e non è difficile immaginare la possibilità di opere aperte e di riscritture collettive, di annotazioni collaborative di un testo. Insomma: l’ebook è, più del libro di carta, un libro aperto. Posso metterci le mani in modo molto più disinvolto che con il libro di carta.
La seconda particolarità è legata alla prima. Per fare un libro di carta occorrono degli specialisti. Si può imparare da soli ad impaginare usando un programma come InDesign, e diventare così bravi da impaginarsi da sé il proprio libro; ma se si vuole un libro di carta bisogna rivolgersi poi ad un tipografo; ad un editore, se lo si vuole vendere. La cosa ha un costo: per l’editore, ma molto spesso anche per l’autore, cui l’editore chiede un contributo per la pubblicazione del libro. In molti casi l’opera così pubblicata non arriva mai sul mercato: l’autore paga l’editore e riceve in cambio qualche scatola con le copie del suo libro, che regalerà ad amici e parenti. Nel caso in cui l’editore, più onesto, mettesse realmente in distribuzione il libro, lo stesso resterebbe relegato in un angolo, inevitabilmente schiacciato dalle proposte dei grandi editori.
Ora, l’editoria elettronica introduce delle novità interessanti. La prima è l’autopubblicazione. Un autore può acquisire senza troppi sforzi la capacità di creare da sé il proprio libro in formato elettronico e può distribuirlo attraverso la rete. Se il suo obiettivo è farsi leggere, lo raggiungerà molto più facilmente in questo modo, che pubblicando a proprie spese con un piccolo o medio editore. Magari l’ebook non gli verrà perfetto, ma del resto anche grandi editori pubblicano ebook imperfetti, e lo stesso si può dire dei libri di carta (mi è capitato ultimamente tra le mani un libro della Guerini e Associati, non proprio l’ultima casa editrice, con grossolani errori di impaginazione). La seconda novità è la possibilità, su questo campo, di sfidare le grandi case editrici. Un grande editore può pubblicare un libro a prezzi molto più bassi di un piccolo o medio editore; può giovarsi di una distribuzione capillare, che ha un costo che i piccoli editori non possono permettersi; può promuovere il suo libro con una pubblicità martellante. Con i libri elettronici le cose vanno diversamente. Un piccolo editore, magari nativo digitale, può pubblicare un ebook a prezzi anche più bassi di quelli dei grandi editori, e può distribuirlo e venderlo attraverso la rete. Si dirà: ma venderà comunque poco, mentre i grandi editori venderanno molto grazie alla pubblicità. Non è detto. La rete è uno spazio che non del tutto penetrabile dalle logiche commerciali. Il passaparola, la reti sociali, i network di lettori hanno nella rete un maggiore della pubblicità e della promozione commerciale; un libro elettronico, se vale, può emergere e trovare i suoi lettori. Gli esempi non mancano.
Libro elettronico vuol dire, dunque, libertà di pubblicazione; e la libertà di pubblicazione è una delle declinazioni della libertà. L’obiezione, naturalmente, è: se ognuno pubblica quello che vuole, ci sarà un calo generale della qualità di ciò che si pubblica. La risposta è che ognuno già ora pubblica quello che vuole, regalando qualche migliaia di euro a qualche piccolo editore; e che anche non pochi editori medi e grandi sono disponibili a pubblicare quasi tutto, dietro adeguato compenso (soprattutto nel campo della saggistica). Nel sistema artificiale del mercato dei libri (di carta) un saggio acquista immediata rispettabilità se pubblicato da un editore noto (ad esempio nei concorsi universitari), anche se l’autore ha pagato per pubblicarlo. Nel sistema nato dall’incontro tra lo spazio dialogico della rete e l’editoria elettronica – sistema che sta nascendo, e che rappresenta forse la più grande rivoluzione culturale degli ultimi anni – un libro conta per le discussioni cui dà vita (nel caso di un saggio) o per le emozioni che suscita nei lettori (nel caso di un romanzo), non per la fama dell’editore o la sua azione di promozione.