La bellezza oltre la mente

Emanuela Zibordi, autrice di Testi scolastici 2.0, ha realizzato un ebook del mio saggio La bellezza oltre la mente. Krishnamurti e l’educazione, uscito nel numero 5 di Educazione Democratica.
Ringraziando Emanuela, lo metto a disposizione per il download su Google Drive.
Come tutti i testi di Educazione Democratica, il saggio è rilasciato con licenza Creative Commons.

La cultura del disprezzo

Ragazzini che prendono a botte un anziano disabile a Manfredonia; altri, appena più grandi, che sulla statale 16 aggrediscono con spranghe delle ragazze rumene, una delle quali incinta. Senza pietà, senza umanità.
Sarebbe un grave errore trarre da queste notizie di cronaca – molte altre se ne potrebbero aggiungere – conclusioni generali sugli adolescenti ed i giovani di oggi. Chi come me lavora ogni giorno con i ragazzi sa che, per fortuna, ancora moltissimi ragazzi sono capaci di empatia, di rispetto, di attenzione per l’altro. E tuttavia sarebbe un errore non meno non interrogarsi su questi segnali di disumanità.
I due ragazzi arrestati per l’aggressione alle ragazze rumene hanno un profilo su Facebook. Uno dei due ha mostra il bicipite tatuato nell’immagine di copertina. Nell’immagine del profilo ha una camicia generosamente aperta sul petto che mette in mostra un grande crocifisso; occhiali enormi, come si usano adesso. In una delle foto è in posa accanto ad un cartello con una scritta in dialetto che traduce così: “Più mi guardi e più in grasso”. La sua precedente immagine di copertina, ancora visibile sul profilo, immortalava un ragazzo col cappuccio che punta una pistola. Tra le informazioni si legge: Studia presso La Cattiveria; precedentemente: La Strada e ladro.
L’altro ragazzo nella foto del profilo è in posa da pugile. Anche lui ha studiato presso la strada (questa volta con la minuscola). Sul profilo gli amici lo sostengono dopo l’arresto. Una ragazza scrive: “fai subito a uscire che dobbiamo fare altre stronzate insieme”.

Visitando questi due profili sapendo cosa hanno fatto, è facile trarre conclusioni. C’erano tutte le premesse, senza alcun dubbio. Il problema è però che quei due profili, che a posteriori appaiono come i profili di due criminali, non sono troppo diversi dai profili di tanti altri ragazzi. L’estrema cura dell’aspetto, con esiti qualche volta anche ridicoli, la palestra, i bei vestiti, le pose da duro. Dietro c’è, non è possibile non notarlo, la ricerca del personaggio: e il modello è, naturalmente, televisivo. Il duro ipercurato è un modello che a quanto pare riscuote un certo successo tra i ragazzi, quale modello umano.
Pare (non sono in grado di controllare la notizia) che uno dei due aggressori delle ragazze rumene sia vicino a CasaPound. Se fosse confermata, la notizia non stupirebbe. Il quadro umano appena delineato è ovviamente fascista, e lo è anche in mancanza di qualsiasi consapevolezza politica. E’ fascista il culto della durezza, anche quando non si traduce nell’azione vigliacca (come sempre è ogni azione fascista) contro donne o anziani, ma resta a livello di look e di posa. E’ fascista il disprezzo nei confronti dei deboli. Sono fasciste le “stronzate”, per usare il termine di quella ragazza.
C’è un humus fascista, dunque. Che va condannato, senza alcun dubbio, ma che va soprattutto compreso.
Qualche giorno fa una studentessa stava ascoltando musica in cuffia. Le ho chiesto cosa ascoltava. Mi ha detto un nome che non ho mai sentito. Poi mi sono documentato: si chiama Salmo. E’ un rapper italiano, sui trent’anni. Leggo su Wikipedia che in una sua canzone, Merda in testa, si trova un verso omofobo: “Se avessi un figlio gay sicuro lo pesterei”. Provo ad ascoltare qualcosa. Un brano si intitola “Il senso dell’odio”. Dice tra l’altro:
Non ci resta che l’odio quando tutto finisce
mi troverai ancora qui, dove il senso lo percepisce.
Non ti resta che l’odio, lui detta e io scrivo.
Fin che senti il senso dell’odio potrai dire di essere vivo!
non ci resta che l’odio…
Sia chiaro: non intendo dire che i ragazzi diventano fascisti o protofascisti perché ascoltano musica rap. Un adolescente degli anni Ottanta ascoltava Ozzy Osbourne ed AC/DC. Probabilmente musica migliore del rap di oggi, ma certo non ne traeva una visione del mondo improntata all’amore universale. La rabbia e l’odio compaiono facilmente nella psicologia adolescenziale e giovanile. Non che siano tratti naturali: gli antropologi sono lì a dimostrare che la variabilità della percezione di sé nelle culture è enorme. Ma da qualche decennio la psicologia dell’adolescente nelle società occidentali è caratterizzata da emozioni fortemente negative, spesso anche distruttive. Non è difficile individuare le ragioni di questa rabbia. Nelle nostre società ai ragazzi si nega qualsiasi partecipazione alla vita sociale. Chiusi per anni nelle scuole – luoghi poco piacevoli -, sono immersi per anni ed anni in rapporti asimmetrici. A diciott’anni uno studente a scuola deve chiedere ancora il permesso per andare in bagno, ed è fortunato se la sua aula non ha le sbarre come la cella di un carcere. Privo di qualsiasi autonomia economica, è totalmente dipendente dai suoi genitori. Gli manca il piacere di dedicarsi ad una qualsiasi attività in favore della collettività, e gli manca quel riconoscimento sociale che soltanto il lavoro è in grado di offrire.
I ragazzi vivono, dunque, una condizione di marginalità. Quello che colpisce è che, diversamente dal passato, la rabbia che scaturisce da questa marginalità non si dirige contro i genitori. Gli adolescenti di oggi considerano la famiglia un valore. Forse l’unico. La famiglia è il porto sicuro nel quale rifugiarsi. L’altro lato della medaglia è l’assoluta impoliticità. C’è una opposizione dentro/fuori. Dentro, nella famiglia, c’è tutta la sicurezza, tutta la fiducia, tutto il bene. Il fuori fa paura. E’ meglio evitare di occuparsene. Perfino gli amici possono tradire, mentre i genitori non tradiranno mai: è una idea che ho sentito mille volte dai miei studenti, e che non sarebbe mai venuta in mente ad un ragazzo degli anni Settanta o Ottanta.

C’è rabbia, dunque. Una rabbia che cerca uno sfogo, ma che non lo trova in famiglia. Dove, come sfogare la rabbia?

Ho detto che sulla statale 16 dei ventenni hanno aggredito delle ragazze rumene. I giornali hanno dato la notizia diversamente. Le ragazze diventano prostitute. Ora, la definizione non sembra errata: si tratta di ragazze che si stavano prostituendo. Ma il fatto di prostituirsi fa tout court di una ragazza una prostituta? No, se la ragazza non si prostituisce volontariamente. Una ragazza che sia costretta a prostituirsi non è una prostituta. E’ una persona vittima di violenza sessuale, ridotta in schiavitù.
Per chi le ha aggredite, erano senz’altro prostitute. E le prostitute sono da sempre disprezzate. Di qui la logica criminale da cui è scaturita quell’azione: se le ragazze rumene che stanno sulla statale 16 sono delle prostitute, e se le prostitute, per consenso unanime, sono da disprezzare, non c’è nulla di male a prenderle a sprangate.
Quello che sta succedendo è che la rabbia giovanile, che è un portato della società capitalistica, incontra una cultura del disprezzo che si sta sempre più diffondendo in seguito alla crisi economica. Quando le cose vanno male sono i più deboli a farne le spese. I veri responsabili della crisi e degli spaventosi squilibri nella distribuzione della ricchezza non perdono nulla della loro rispettabilità; pagano invece quelli che sono ai margini, quelli sui quali pesa un atavico disprezzo, che ora diventa odio e si traduce in azione.
Ecco dunque dove sfogare la rabbia. Esistono dei soggetti che, per il fatto stesso di essere ai margini della società dei consumi, sono privi di dignità umana. Corpi in vendita privi di fortuna, liberamente massacrabili. Il corpo della prostituta, il corpo del migrante, il corpo del clochard.
E’ importante che ci si indigni per l’aggressione a due ragazze, una delle quali incinta, o a un anziano. E’ un segno di umanità. Ma può essere un segno di ipocrisia, se non è inserita in una riflessione più ampia. Se non ci si è indignati anche, ad esempio, per il vergognoso accordo con il quale il governo Berlusconi, con il favore del Partito Democratico, ha consegnato i corpi e le anime, i sogni e le speranze dei migranti africani ai torturatori ed agli assassini libici. E’ ipocrisia, se si finge di non vedere la terribile violenza contro i deboli che attraversa tutta la nostra società, sostenuta da una cultura del disprezzo che si annida nelle pieghe dei discorsi pubblici e privati, nei titoli di giornale, nell’uso apparentemente innocente di termini che tolgono dignità ad un essere umano e sacralità al suo corpo.
Articolo per Stato Quotidiano.

Ancora sui bandi ad personam dell’Università di Foggia

Scambio su Facebook con il Magnifico Rettore Giuliano Volpe.
Giuliano Volpe: Vigilante sta facendo polemiche. Unifg non ha risorse per retribuire contratti di insegnamento. Forse Vigilante ignora che il sistema universitario italiano ha perso un miliardo di finanziamento statale negli ultimi anni? ignora che Unifg riceve 5 milioni in meno ogni anno rispetto al 2008-9? Ho cercato di spiegare questa situazione difficilissima in questi anni, ma evidentemente non basta. La legge Gelmini inoltre impone un limite del 5% di insegnamenti a contratto a titolo gratuito. Nel caso dei corsi di area umanistica si tratta di 2-3 contratti gratuiti (uno di questi ad esempio è tenuto dalla ex preside e professore emerito Franca Pinto Minerva). L’unica maniera per avvalerci dell’apporto gratuito di docenti esterni è grazie a convenzioni con Enti pubblici, tra cui scuole secondarie, musei, soprintendenze. Per fortuna ci sono colleghi di queste istituzioni, ovviamente dotati di titoli scientifici adeguati, che offrono gratuitamente e generosamente il loro apporto. So bene che è ingiusto non retribuire il lavoro e in particolare il lavoro intellettuale di docenti. Ma non ci sono le risorse! L’alternativa sarebbe chiudere corsi, ridurre ulteriormente l’offerta formativa, mettere in difficoltà i nostri studenti. Dov’è lo scandalo? dove l’ingiustizia? dove il nepotismo? Avevamo rapporti di collaborazione con vari docenti e con molte scuole, in alcuni casi da anni: abbiamo regolarizzato questi rapporti attraverso convenzioni, secondo quanto previsto dalla legge 240 ‘Gelmini’. Annualmente si pubblica un bando relativo alle discipline ‘scoperte’ per le quali è necessario rivolgersi all’esterno; i docenti della scuola che si è dichiarata disponibile alla collaborazione e hanno sottoscritto una collaborazione possono presentare domanda di insegnamento. In tal modo sostengono l’Università e la sua offerta formativa, la scuola e i docenti dimostrano di collaborare con una Università.

Tutto alla luce del sole. Ho già detto a Vigilante di denunciare la cosa alla magistratura se ritiene che ci siano irregolarità: in questi anni non una sola indagine della magistratura, non uno scandalo, non una indagine ci ha minimamente riguardati. Abbiamo la coscienza limpida. Anche le ultime vicende di concorsi universitari sui quali si presumono irregolarità non ha riguardato Unifg. Vigilante ora mi attacca solo perché ho ritenuto doveroso, come ho sempre fatto, rispondere, dare spiegazioni, cercare di chiarire. Se è interessato a collaborare con l’Università e se ha i titoli per farlo, nulla impedisce che faccia domanda per i bandi che riguardino i settori disciplinari di sua competenze, se per questi ovviamente non ci sono docenti interni dell’Università e se sono previsti nei nostri corsi di studio, si attivi perché la sua Scuola sottoscriva una convenzione con Unifg. Preciso che ignoro completamente a quali insegnamenti lui si riferisca, a quali docenti della sua Scuola e di altri Istituti: in questi anni mi sono occupato della gestione dell’intero Ateneo e non ho potuto seguire le vicende dirette del Dipartimento di studi umanistici, che ha un suo direttore e il cui consiglio ha deliberato in proposito. Ho solo cercato di spiegare le procedure: che possono non piacere (e non piacciono nemmeno a me), ma sono quelle fissate dalla legge. Ci dispiace solo che si facciano polemiche, si getti fango, si cerchi screditare anche quelle poche realtà che cercano di operare con trasparenza, con legalità, con serietà.
Antonio Vigilante: Gentile Rettore, glielo spiego subito dov’è lo scandalo (non ho parlato di nepotismo). Per essere chiaro fino in fondo dovrò fare nomi e cognomi, cosa che fino ad ora ho evitato (anche se i giornalisti dell’Attacco” non si sono fatti molti scrupoli nel pubblicare ciò che era stato riferito in privato).
C’è all’Università di Foggia un docente a contratto di cinematografia che si chiama Eusebio Ciccotti. E’ una persona che non conosco; non ho alcun motivo di dubitare che sia un’ottima persona e che abbia tutti i titoli per insegnare cinematografia. Ora, c’è questo bando per un insegnamento a contratto di cinematografia che – cosa stranissima – è riservato ai soli docenti dell’istituto “Majorana” di Guidonia. E’ un bando strano sia perché è singolare che si restringa la selezione ai docenti di una sola scuola, sia perché Guidonia non è proprio dietro l’angolo: se si vuole scegliere tra i docenti di una scuola, perché proprio quella? Allora faccio un rapido controllo su Google, inserendo come ricerca “Eusebio Ciccotti Majorana”. Ed ecco svelato l’arcano: il professor Eusebio Ciccotti è il dirigente scolastico dell’istituto Majorana di Guidonia. Se dunque concludo che si tratta di un bando ad personam vuol dire che sono uno che vuole gettare fango sull’università, o semplicemente ho capito quello che capirebbe un bambino di cinque anni e qualunque adulto non in malafede?
Vediamo ancora. L’altro bando è riservato ai docenti del “Roncalli”, che è la scuola in cui insegno. Questa volta si tratta di selezionare un docente di filologia. Devo credere che è solo per una singolare coincidenza, che al “Roncalli” insegna la professoressa Pierangela Izzi (anche lei, sia chiaro, ottima persona e preparata), che è stata la titolare dell’insegnamento a contratto di filologia?
E come mai, poi, se l’università fa un bando riservato ai docenti di una scuola, si dimentica poi di avvisare quella scuola del bando? Non è, ancora, semplicemente perché in realtà il bando non è indirizzato a tutti i docenti di quella scuola, ma soltanto ad uno?
Vedo che lei vuole ad ogni costo metterla su personale. Occorre dunque che glielo dica: non mi interessa collaborare con l’Università di Foggia a quelle condizioni. Non lavoro gratis. Ma se volessi, mi permetta di smentirla: non potrei semplicemente proporre la mia candidatura. Se le logiche e le prassi sono quelle, io come tanti altri non potrò concorrere lealmente ad una cattedra, sia pure a contratto. Così come ora decine e decine di studiosi, pur bravi, sono esclusi da quei bandi, per il semplice fatto di non insegnare al “Roncalli” di Manfredonia o al “Majorna” di Guidonia, se ci fossero dei bandi riguardanti filosofia o pedagogia (le mie discipline) io ne sarei escluso, perché non insegno al liceo “Paperino” di Rocca Cannuccia.
I bandi ad personam – e la prego di entrare nel merito: mi dimostri che quelli non sono bandi ad personam: che si tratta solo di incredibili coincidenze – negano a chi da anni studia con passione il diritto stesso di proporsi al mondo accademico. Ma quello che disgusta particolarmente, in quei bandi, è la sfacciata arroganza, propria di chi sa che tanto nessuno potrà farci nulla. Mancava poco che nel bando si mettesse la descrizione fisica del candidato prescelto.
E’ anche puerile, mi permetta, dire che io l’attacco perché ha ritenuto doveroso “rispondere, dare spiegazioni, cercare di chiarire”. Al contrario. Non ho alcun interesse personale ad attaccarla. L’ho sempre stimata, così come stimo il professor Saverio Russo. L’attacco perché non ha spiegato un bel niente e nega l’evidenza. Un atteggiamento che, mi creda, non le fa onore.

Giuliano Volpe: Mi scusi, ma evidentemente non sono stato chiaro. Io ho precisato, senza fare i nomi evidentemente, che con alcuni docenti (e con le loro scuole) si è consolidato un rapporto di collaborazione negli anni. Docenti che già in passato hanno vinto una selezione per l’affidamento di un dato insegnamento. Il prof. Ciccotti (visto che lei ha fatto il suo nome) tiene un corso di storia del cinema da molti anni, con grande competenza e grandissimo gradimento degli studenti, ed anche con enorme generosità visto che lo tiene gratuitamente pur venendo da lontano. Nel momento in cui la legge Gelimini ci ha impedito di proseguire con il contratto gratuito nelle forme precedenti e ha introdotto l’obbligo della convenzione con altre strutture pubbliche, abbiamo stipulato una convenzione con la Scuola cui afferisce il prof. Ciccotti. Questa è la procedura introdotta dalla legge Gelmini: anch’io la considero per molti versi assurda ma non abbiamo potuto fare diversamente, se volevamo avvalerci ancora della collaborazione del prof. Ciccotti, vista la sua disponibilità a continuare a offrire il suo insegnamento gratuitamente (cosa di cui gli siamo enormemente grati). Lo stesso è avvenuto in altri casi. Ed è quanto fanno anche altre università. L’alternativa, lo ripeto, è chiudere i corsi, mettere a tacere insegnamenti: purtroppo non abbiamo le risorse né per contratti retribuiti né tanto meno per effettuare nuove assunzioni. E’ una cosa che dispiace anche a me, a noi tutti, perché vorremmo potenziare il personale docente dell’Università soprattutto assumendo altri giovani preparati (ora siamo riusciti ad ottenere 17 nuovi posti di ricercatore con fondi regionali, che saranno banditi nei prossimi mesi) e a retribuire adeguatamente i professori a contratto. Se disponessimo di tali risorse ovviamente faremmo bandi nazionali senza alcuna limitazione, come era in passato. In ogni caso, come le ho già detto, anche per evitare situazioni ‘non chiare’, stipuleremo una convenzione con la Direzione Scolastica Regionale (sperando di poterlo fare in tempi ragionevoli) in modo che ai bandi per i contratti di insegnament a titolo gratuito possano partecipare i docenti di tutte le scuole pugliesi. Spero di essere stato chiaro e di non aver dato l’impressione di non voler entrare nel merito.

Antonio Vigilante: Sostanzialmente lei sta ammettendo che da anni ed anni all’Università di Foggia si fanno bandi ad personam perché non è possibile fare diversamente. Ho interpretato male?

Giuliano Volpe: Non è così. Intanto le norme sono cambiate recentemente e abbiamo dovuto/voluto evitare l’interruzione della necessaria continuità didattica, utilizzando lo strumento delle convenzioni previste dalla legge Gelmini. Il prof. Ciccotti, ad esempio, ha partecipato anche in passato a numerosi bandi, sempre con una rigorosa valutazione ex ante dei titoli scientifici e una valutazione ex post della qualità dell’insegnamento. Ad esempio per un bando per restauro fatto in convenzione con la Direzione regionale ai BC ci sono state più domande e una commissione ha valutato i titoli e scelto la persona più titolata.

Antonio Vigilante: Curiosa questa faccenda della continuità didattica. Se uno ha vinto un bando nel 2000, bisogna assicurargli il superamento di tutte le selezioni successive con dei bandi ad personam per garantire la continuità didattica. E se ci fosse nel frattempo qualcuno più preparato di lui? Ma non lo vede proprio, Rettore, lo scandalo di negare a molti, soprattutto giovani, il diritto di partecipare ad una selezione pubblica? Io conosco diversi giovani studiosi di filologia, che avrebbero tutti i titoli per concorrere a quella cattedra, e che non possono perché non insegnano in quel tale liceo. Gli diciamo che non hanno diritto per colpa della legge Gelmini o della continuità didattica?
Vogliamo dirlo allora chiaramente, Rettore, che quei bandi sono semplicemente una farsa, dal momento che si sa già chi deve superare la selezione? Lei lo ha detto esplicitamente, parlando di “consolidati rapporti di collaborazione negli anni”. Diciamolo in modo ancora più esplicito: cari studiosi, lasciate perdere; se non avete consolidato negli anni “rapporti di collaborazione”, non avete nemmeno il diritto di partecipare ad una selezione. Fate le valigie ed andate all’estero.

Aggiornamento

Il Magnifico Rettore Volpe ha deciso di annullare quei bandi:

“Vigilante ha posto un problema reale, che anche noi stiamo cercando di risolvere da tempo con gli strumenti disponibili, senza danneggiare le magrissime risorse e soprattutto la regolarità dei corsi. Abbiamo discusso, ho cercato di spiegare, alla fine lui ha dimostrato fiducia. Ma passare ora per un disonesto e un imbroglione, come sta cercando di fare quel gionale [il riferimento è ad un articolo de “Il Mattino di Foggia”], perché applicando una pessima legge si è cercato di trovare una soluzione per alcuni contratti di insegnamento gratuiti (sottolineo “gratuiti”, senza che Unifg abbia speso un solo euro) grazie alla disponibilità di docenti esterni che da anni generosamente si sacrificano per garantire dei corsi apprezzati dagli studenti, mi sembra un vero paradosso, tipico di questo paese. Altre Università pur con i conti in rosso o in pieno dissesto, hanno continuato a pagare allegramente contatti e supplenze. Noi no. In ogni caso, ho deciso di far annullare quei bandi (che, lo dico solo per completezza di informazione, sono una competenza dei dipartimenti non del rettorato; ma ovviamente mi assumo interamente le mie responsabilità ed è per questo che anche in questa occasione ho messo la faccia senza far finta di niente o senza rispondere, come forse altri ‘più furbi’ avrebbero fatto; considero questo impegno di rendere conto un dovere etico di chi governa), anche a costo di sospendere quegli insegnamenti per quest’anno; ovviamente gli studenti potrebbero avere dei problemi con i loro piani di studio; cercheremo di stipulare nei tempi più rapidi convenzioni con le direzioni scolastiche regionali, di Puglia ed eventualmente anche di altre regioni, in modo che qualsiasi docente in possesso dei titoli scientifici adeguati e disponibile a tenere un corso universitario a titolo gratuito possa partecipare alla selezione” (da Facebook).

Gli strani bandi dell’università di Foggia

Giuliano Volpe
Facciamo che tu sei un filologo. Un filologo bravo, non uno così così. Uno che ha letto un sacco di libri e ne ha scritti una decina. Libri importanti, adottati all’università. Mettiamo che l’università della città in cui vivi bandisce un posto da docente a contratto per l’insegnamento di filologia. Che bello, pensi. Cioè: si tratta di lavorare gratis – si sa che i docenti a contratto lavorano gratis o per due soldi -, ma puoi insegnare le cose che sai, ed insegnare è bello. Poi però leggi il bando e non credi ai tuoi occhi. Anche se hai scritto una decina di libri, non puoi partecipare, perché il bando è riservato ad un gruppo estremamente ristretto di persone: i docenti di un liceo della provincia.
Sembra l’inizio di un racconto surreale, ed invece è quello che accade all’università di Foggia. La quale ha bisogno di docenti di filologia, di storia del cinema e di informatica per la letteratura, ma non li cerca, come sarebbe logico, tra gli studiosi di queste discipline, ma, rispettivamente, tra i docenti del liceo “Roncalli” di Manfredonia, del liceo “Majorana” di Guidonia e dell’istituto “Don Milani” di Acquaviva delle Fonti.
Una cosa così singolare non ha che due possibili spiegazioni. La prima è che all’università di Foggia sono semplicemente impazziti. Non occorre essere particolarmente perspicaci per capire che più è ampio il numero di persone che partecipano ad una selezione, più è facile selezionare persone che valgono. L’università di Foggia invece va a cercare i suoi docenti in tre sole scuole secondarie, escludendo dalla selezione tutti quelli che insegnano in altre scuole, o non insegnano, o collaborano con l’università. Persone cui viene negato il diritto di partecipare ad una selezione pubblica.

D’altra parte, come fa l’università di Foggia ad essere sicura che al “Roncalli” vi siano dei bravissimi filologi ed al “Majorana” degli esperti di storia del cinema? Non è che si trovano in tutte le scuole figure in possesso di una così alta qualificazione professionale. E che succede se non se ne trova nessuno? Si fa un altro bando, indirizzato al liceo “Paperino” di Rocca Cannuccia? E poi ancora un altro, ed un altro ancora, fino a quando – dopo un anno, magari – per pura fortuna ci si imbatte in una scuola in cui esistono le figure richieste?
La seconda spiegazione possibile è che in realtà l’Università, facendo quei bandi, è andata sul sicuro. Ha indirizzato il bando al liceo “Roncalli” perché sa che lì c’è un docente che potrà insegnare la disciplina. O meglio: che dovrà insegnare la disciplina. Un bando ad personam. Se le cose stessero così, l’agire dell’università non sarebbe una follia. Sarebbe una porcata.
Ho chiesto conto della cosa a Giuliano Volpe, magnifico rettore uscente. Mi ha risposto che le convenzioni con altri enti pubblici – nel caso specifico le scuole – sono l’unico modo per avere docenti a contratto a titolo gratuito, in seguito alla legge Gelmini. Ora, sorvolando sulla vergogna di non pagare nemmeno il caffè o la benzina a professionisti che sono essenziali per il funzionamento dell’università, la legge Gelmini non dice proprio questo. Dice che “Le università, anche sulla base di specifiche convenzioni con gli enti pubblici di ricerca di cui all’articolo 8 del regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 30 dicembre 1993, possono stipulare contratti della durata di un anno accademico” (articolo 23, comma 1). Dunque: le università possono stipulare contratti anche sulla base di convenzioni con enti pubblici; il che non vuol dire che devono necessariamente farlo. E quali sono poi questi enti pubblici? Il Regolameno citato dalla legge Gelmini rimanda a sua volta alla legge 20 marzo 1975, n. 70, che ha in allegato una tabella che elenca questi enti pubblici ed istituzioni di ricerca. Tra gli altri: l’Accademia dei Lincei, il Centro Sperimentale di Cinematografia, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Insomma, non proprio il liceo di provincia. Perché allora l’università di Foggia cerca docenti di filologia non all’Accademia dei Lincei, ma al liceo “Roncalli” di Manfredonia, e docenti di cinematografia non al Centro Sperimentale di Cinematografia, ma al liceo “Majorana” di Guidonia? Si dirà: ma uno dell’Accademia dei Lincei non viene a Foggia a insegnare gratis, e nemmeno uno del Centro Sperimentale di Cinematografia. Verissimo. Ma cosa fa pensare che possa e voglia venire ad insegnare gratis a Foggia, invece, uno che insegna al “Majorana” di Guidonia?

Qui i tre bandi:
http://www.lettere.unifg.it/news/bando/AVVISO-DI-SELEZIONE/6493/
http://www.lettere.unifg.it/news/bando/AVVISO-DI-SELEZIONE/6494/
http://www.lettere.unifg.it/news/bando/AVVISO-DI-SELEZIONE/6495/

L’esercito nel parco

Comunicato dell’USI-AIT Puglia.

Il Parco dell’Alta Murgia è una vasta area semideserta che si estende tra la BAT (Barletta- Andria-Trani) e la provincia di Bari: un ambiente nel quale vivono, in delicato equilibrio, cinghiali e donnole, volpi e faine, usignoli ed aironi. Un ambiente da preservare dalla speculazione e dall’invadenza umana: non a caso, anni fa, la zona del Parco è stata dichiarata “area protetta”. Ma ci sono vincoli (culturali, paesaggistici, faunistici) che cadono di fronte all’arroganza del potere, ed è così che il delicato ecosistema di un’area unica in Italia può diventare al tempo stesso luogo per una servitù militare. Concetto che vuol dire, in sostanza, che i militari hanno il diritto di far strame di un certo territorio: è cosa loro. Il Parco dell’Alta Murgia diventa, così, il luogo per assurde esercitazioni militari “a fuoco” che, come è facile immaginare, mettono a serio rischio l’equilibrio naturale e rischiano di compromettere il delicato ecosistema della zona. Nella primavera appena trascorsa le esercitazioni hanno coinvolto circa tremila militari – danneggiando non solo l’ambiente e la fauna nella delicata fase della riproduzione – ma anche le realtà economiche che gravitano intorno al Parco. Le proteste dell’Ente Parco, delle associazioni, dei semplici cittadini indignati per questa insensata violenza inflitta al territorio, hanno ottenuto una sospensione delle esercitazioni in programma nel mese di settembre. E’ annunciata tuttavia la ripresa di esercitazioni a fuoco nel poligono di Torre di Nebbia nei mesi di ottobre e novembre.

Per il ministro della Difesa Mario Mauro (che è pugliese) queste esercitazioni, lungi dal mettere in pericolo l’ambiente e la stessa economia della zona, sono una benedizione per l’area: “È vero – ha dichiarato – che sono un onere ma anche lo strumento attraverso il quale viene bonificato continuamente il terreno, vengono erogati dei contributi, se non ricordo male circa 600mila euro nell’arco dell’ultimo anno, e vengono effettuati tutti quei lavori di miglioria del territorio che nel dialogo con tutte le altre Istituzioni locali e egli enti parco contribuiscono a migliorare l’ambiente”. Con un rovesciamento lessicale degno di Orwell il ministro lascia intendere che il modo migliore per “bonificare” l’ambiente ed il terreno circostante sia sparare in un’area protetta e “monetizzarne” il rischio. Per comprendere appieno la risibilità di queste affermazioni basta leggere un’indagine conoscitiva del Centro Studi della Commissione Difesa (non dunque di una associazione … “bolscevica”) del maggio 2008 in merito alle servitù militari.

Dopo aver affermato che le servitù militari possono svolgere una funzione di tutela paesaggistica, impedendo la speculazione edilizia (motivazione che non regge per un’area già protetta), il documento ammette, riferendosi alla Sardegna – una regione nella quale le servitù militari sono estremamente invadenti e nei cui poligoni di tiro si utilizzano, non di rado, proiettili a base di uranio impoverito – che: (…) “l’intensità e la concentrazione delle esercitazioni a fuoco, nonché la sperimentazione di armamenti con uso di combustibili e propellenti, hanno comunque avuto un sensibile impatto ambientale su molti territori della Regione, la cui possibile riqualificazione, in prospettiva, richiederà costose e difficili opere di bonifica e ripristino che, in alcuni casi, non potranno probabilmente essere totalmente soddisfacenti (si pensi al recupero degli ordigni inesplosi giacenti sui fondali marini)”. Questo è quello che le Forze Armate hanno fatto in Sardegna, e questo è quello che – se non saranno fermate per tempo – faranno in Puglia.

L’UNIONE SINDACALE ITALIANA -AIT Puglia chiede l’immediata e definitiva sospensione di tutte le esercitazioni militari nel Parco dell’Alta Murgia e la totale eliminazione della servitù militare nell’area. Si riserva di intraprendere – in concorso con altri soggetti sociali – tutte le iniziative idonee ad impedire lo scempio del territorio e la dilapidazione di risorse che – in tempi di crisi – andrebbero indirizzate a sostenere le fasce di popolazione impoverite da una crisi finanziaria globale che non hanno causato e di cui non hanno alcuna responsabilità.

Il furto aggravato di rifiuto

Gianfranco Grandaliano, presidente dell’AMIU (municipalizzata per la raccolta dei rifiuti) di Bari, durante un consiglio comunale monotematico dello scorso dicembre (testo riportato nel suo profilo Facebook): 

Poi c’è un altro fenomeno, quando noi vediamo quei rifiuti buttati per
fenomeno, io non sono razzista, li individuo come extracomunitari
sinceramente, che purtroppo la mattina calano in tutti i quartieri
della città, non è che ce l’hanno col Libertà, in tutti i quartieri
della città, rovistano tutti i cassonetti e mica gli interessa cosa
sta a terra. Io ho pregato il Sindaco comunque di fare un’ordinanza ad
hoc per multarli, ma stavo configurando, veniva forse da
un’esperienza mia professionale, di configurare eventualmente anche un
illecito penale al fine di consentire alle Forze dell’Ordine di
provvedere in tal senso, denunziare a piede libero comunque un arresto
in flagranza, perché stiamo configurando il furto aggravato di
rifiuto, che nel momento in cui il cittadino conferisce nel cassonetto
diventa di proprietà dell’AMIU, quindi se io vado a prendere il
rifiuto è come se mi rubassero il rifiuto. Lo so che sembra ridicolo,
però è un escamotage giuridico per fronteggiare questo problema, che è
un problema veramente serio sul punto. 

Proviamo a seguire la logica di questo ragionamento. Il furto aggravato di rifiuto è una cosa ridicola, che non sta né in cielo né in terra. Grandaliano lo sa, e lo ammette. Bisogna però inventarsi questa cosa ridicola come escamotage per mandare in galera alcune persone, che guarda caso sono extracomunitarie (i Rom sono per lo più cittadini italiani o comunitari, ma sono sottigliezze inutili: l’aggettivo extracomunitario indica ormai chiunque sia spiacevolmente diverso). Questo, in un paese in cui la classe politica sta riflettendo sull’escamotage da trovare per non mandare in galera un potente truffatore ed evasore fiscale, che è stato per molto tempo capo del governo. Siamo un paese in cui ci si inventa cose ridicole (l’agibilità politica) per non mandare in galera i potenti, anche se sono dei delinquenti, ed in cui ci si inventa cose ancora più ridicole (il furto aggravato di rifiuti) per mandare in galera i deboli, anche se non hanno compiuto alcun reato.
La cosa che più colpisce, nel presidente di una azienda che si occupa di ambiente, è la mancanza di percezione ampia del fenomeno. I Rom e gli africani che rovistano nei cassonetti lasciano della sporcizia. Questo vede il cittadino, che si indigna. Uno che abbia un po’ più di consapevolezza vedrebbe altro. Vedrebbe che rovistando nei cassonetti, quelle persone tirano fuori cose che possono essere riciclate e riutilizzate. Cioè: trasformano il rifiuto indifferenziato in una risorsa. E in questo modo rendono alla comunità un servizio per il quale bisognerebbe ringraziarli.

Le bufale e la democrazia

I simboli degli zingari sui citofoni: una bufala vecchia
ma che gode di ottima salute
L’ultima, in ordine di tempo, è la storia della bambina di undici anni morta perché un americano si è rifiutato di donarle il midollo osseo in quanto italiana. Una storia che indigna: ma che è falsa. Non è mai esistito un donatore americano. C’era un donatore tedesco tedesco che però, come ha spiegato il direttore del Centro Nazionale Trapianti, non ha potuto donare perché nel frattempo le condizioni della bambina si erano aggravate.
Una bufala, dunque. Una notizia falsa che però viene diffusa come se fosse vera. Una delle tante. Sui social network proliferano. Ogni giorno ne compare una nuova, ma tornano anche spesso quelle vecchie. Le smentite non servono a nulla, le bufale si diffondono come virus resistenti a qualsiasi antidoto. Ed è così che, per fare solo qualche esempio, c’è gente che si indigna ancora per il disegno di legge del senatore Cirenga, che istituisce un fondo per tutti i parlamentari che non trovano lavoro entro un anno dalla fine del mandato – che non esista né sia mai esistito alcun senatore Cirenga è un dettaglio trascurabile – , mentre altri si temono di essere abbordati da romeni che regalano portachiavi con microchip interni che serviranno poi a segnalare i loro movimenti ed a favorire i furti. L’elenco potrebbe continuare per un bel po’.

La diffusione delle bufale in rete è preoccupante e pericolosa, per almeno due ragioni. La prima è che molte bufale sono a sfondo razzistico, in particolare nei confronti dei Rom e dei romeni. Esse contribuiscono a diffondere odio etnico, come se nella nostra società non ve ne fosse abbastanza. La seconda ragione è che le bufale intaccano la fiducia sistemica, che è una delle cose fondamentali per il funzionamento di una società. Fiducia sistemica vuol dire credere che il sistema funzioni, che le cose vadano come devono andare. Ora, se mi si dice che un bambino può morire perché un donatore si è rifiutato di salvarlo per motivi razzistici, è evidente che il sistema in questo campo non funziona. Moltiplichiamo questo senso di insicurezza per tutte le bufale diffuse: ne viene fuori una percezione angosciante della realtà sociale.
Sia chiaro: nella società in cui siamo, ci sono ottime ragioni per provare sfiducia sistemica. Le notizie vere che riguardano malfunzionamenti del sistema non mancano, e non sono poche. Ma proprio per questo è importante distinguere il vero dal falso.
Una democrazia funziona se c’è dibattito pubblico. La qualità della democrazia è legata alla qualità di questo dibattito: una democrazia autentica è quella nella quale i cittadini discutono in modo serio, documentato, sostenuti da giornali liberi ed indipendenti e da una scuola che formi alla considerazione razionale e scientifica dei fatti. Una democrazia decadente ed in crisi si riconosce per la qualità scadente del dibattito pubblico. Per la chiacchiera che predomina sul dialogo, per gli scontri ideologici che prendono il posto del confronto democratico.
In una democrazia che funziona, il dibattito pubblico permette di identificare in modo esatto i problemi e di cercare insieme le soluzioni. In una democrazia in crisi, il dibattito pubblico è inquinato costantemente da informazioni false, che da un lato aumentano, come detto, il senso di incertezza, dall’altro impediscono di affrontarlo. Se si vuole una società meno insicura è fondamentale individuare i problemi reali. Se non si è in grado di distinguere la realtà dalla fantasia, il vero dal falso, non si può intervenire in modo intelligente sulla realtà. Se, ad esempio, non si sa quasi sono esattamente gli abusi di quella che non senza ragione si chiama “casta” politica, non si è nemmeno in grado di decidere quali provvedimenti sono necessari per sostituirla con una classe politica che faccia davvero gli interessi collettivi. Se non si è in grado di agire intelligentemente, ci si abbandonerà alla stupidità. Il che vuol dire due cose: o macerarsi nella propria impotenza, poiché il mondo là fuori è brutto e cattivo, e nessuno può farci nulla (e l’unico sfogo sarà pubblicare post indignati su Facebook), oppure gettarsi in un’azione scomposta, combattere una battaglia contro nemici per metà reali e per metà immaginari, affidandosi al primo capo carismatico che offra una semplificazione della realtà, dando l’illusione di dominare cognitivamente e politicamente quel mondo che fino a poco prima sembrava così insidioso ed oscuro.
Editoriale per Stato Quotidiano.

Perché siamo razzisti

Foto Ansa

Trentuno persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Italia. Morti annegati davanti alle coste della Libia. Tra loro nove donne. Provenivano per lo più dalla Nigeria, un paese nel quale la nostra Eni occupa 40.625 chilometri quadrati con i suoi pozzi petroliferi che stanno devastando il delta del Niger, costringendo alla fame pescatori e contadini. Leggo su Facebook i commenti alla notizia data da la Repubblica: “affondassero tutti sti gommoni………….zozzi schifosi, sostegno agli abitanti di lampedusa, che quotidianamente devono sopportare questo schifo………..” (riporto pari pari, chilometrici punti sospensivi compresi); “Tra poco li andremo a prendere nel loro paese per farci invadere!!”; “31 voti in meno per il pdmenoelle”.

Non mancano i commenti tutt’altro che razzistici, ma bisogna considerare che la Repubblica non è Il GiornaleLa Padania. Si prenda una qualsiasi notizia che riguarda gli immigrati e si leggano i commenti: non mancheranno mai, qualunque sia il sito Internet, espressioni gravissime di razzismo, che diventeranno numericamente prevalenti nei siti di destra.
Cosa sta accadendo nel nostro paese? Perché si giunge a chiamare “rozzi schifosi” delle persone morte in modo terribile, ed a rallegrarsi della loro morte? Perché un vicepresidente del Senato giunge ad insultare pubblicamente un ministro, solo perché di pelle nera? Perché siamo diventati così spaventosamente razzisti? Perché l’Italia non è, come scriveva qualche giorno fa John Foot su The Guardian, un paese non razzista in cui però il razzismo è tollerato. Se una persona come Calderoli giunge a diventare vicepresidente del Senato, se una forza politica razzista come la Lega Nord va al governo, vuol dire che il razzismo non è solo tollerato, ma serve a fare carriera politica. Le prove non mancano. Si pensi, ad esempio, all’isterismo collettivo seguito, nel 2007, all’omicidio di Giovanna Reggiani. Si scatenò allora una vera caccia al rom ed al romeno, alimentata dai giornali e dalle forze politiche di destra; ma è bene ricordare che lo stesso Walter Veltroni, leader dell’appena nato Partito Democratico, si affrettò ad attaccare la Romania ed a chiedere iniziative straordinarie sul piano della sicurezza, proprio come un qualsiasi leader di una forza xenofoba. Si era, del resto, in campagna elettorale.
Perché, dunque, siamo razzisti?

Per una serie di ragioni. La prima è che, semplicemente, siamo ignoranti. Spaventosamente ignoranti. Secondo il linguista Tullio De Mauro più della metà degli italiani hanno difficoltà a comprendere un testo scritto. Non proprio analfabeti, ma quasi. Ora, chi non è in grado di comprendere un testo scritto non ha gli strumenti per uscire dai propri pregiudizi e cogliere la complessità dei fenomeni. E’ condannato ad affrontare il mondo con poche categorie concettuali, con idee semplici semplici, mai sottoposte a critica. Pregiudizi, appunto.
La seconda ragione va ricercata nel fatto che questa spaventosa ignoranza non viene combattuta, ma al contrario strumentalizzata dalla classe politica. Il nostro paese spende ogni anno 26 miliardi di euro per il suo apparato militare, mentre è penultima nell’area Ocse per le spese per l’istruzione. 
Alla classe politica italiana fa comodo l’ignoranza diffusa. Rende le cose estremamente più semplici. Una volta c’erano le ideologie, e la politica si giocava sul piano delle visioni del mondo. Oggi che le ideologie sono tramontate, la politica è questione di slogan, di piccole promesse, di minuti interessi. Una volta si prometteva una società più giusta, oggi l’abolizione di una tassa. In questo contesto, la xenofobia funziona a meraviglia per ottenere consenso.
La terza ragione è nel nostro passato recente. L’Italia è stata fascista solo qualche decennio fa. Solo qualche decennio fa il nostro paese ha visto le leggi razziali ed il colonialismo. Solo qualche decennio fa, il nostro paese ha contribuito allo sterminio di sei milioni di ebrei. Solo qualche decennio fa, il nostro paese è andato in Africa a portare la civiltà: devastando, massacrando, bruciando vivi esseri umani con i lanciafiamme, consumandoli con armi chimiche.
Tutto ciò è stato rimosso. Il mito degli “italiani brava gente” dev’essere mantenuto a costo di ogni menzogna, di ogni omissione. Il fascismo è stato solo una parentesi infelice, che non ha segnato realmente l’identità italiana. Le cose non stanno così. Il fascismo è stato davvero, in realtà, “l’autobiografia della nazione” di cui parlava Piero Gobetti. O meglio: l’autobiografia di una parte consistente della nazione, ma non di tutta. C’era un’altra Italia, nobilissima. L’Italia, per restare sul piano intellettuale, dello stesso Gobetti, dei fratelli Rosselli, dei Capitini, dei Calogero, e così via. Sul piano popolare, sarà l’Italia partigiana.
Quello che è accaduto negli ultimi decenni è che quest’altra Italia è diventata sempre più evanescente, e ciò principalmente a causa della crisi delle ideologie. L’operaio un tempo trovava nel comunismo una visione del mondo che gli consentiva di andare oltre i suoi immediati interessi, pur legittimi, e di aprirsi al mondo. Oggi non c’è più alcun ideale a riscattarlo dalla sua condizione: ed accade sempre più spesso che il pregiudizio prenda il posto dell’ideale.
Siamo stati fascisti, insomma, e per molti versi lo siamo ancora. Il fascismo non è una malattia transitoria, ma un tratto di fondo della nostra identità. Non è difficile scorgere dietro chi chiama “zozzi schifosi” dei disperati annegati in mare il volto truce del fascismo.
La quarta ragione va ricercata nei mass-media, che svolgono una funzione fondamentale in quella semplificazione del mondo che ha preso il posto delle ideologie. La natura stessa del mezzo televisivo non consente il pensiero complesso: è per questo (e non solo perché non sappiamo che farcene) che i filosofi da qualche decennio non compaiono più in televisione (a meno che non facciano i politici). In televisione bisogna esprimere il proprio pensiero in pochi minuti: ed in genere si è interrotti prima di aver finito. Tutto resta – deve restare – alla superficie. Negli ultimi anni i mezzi di informazione di massa, e principalmente la televisione, hanno contribuito ad alimentare il razzismo dando costantemente una visione distorta dei fenomeni, riservando una attenzione morbosa a casi di cronaca aventi come protagonisti gli stranieri e passando sotto silenzio quelli nei quali, al contrario, gli stranieri sono vittime. Si crea così una visione distorta dei fenomeni, alimentata anche dai social network (nei quali c’è almeno la possibilità di imbattersi in qualcuno che la pensi diversamente).
La quinta ragione è nella crisi economica. E’ un fenomeno ben noto alle scienze sociali: nei momenti di crisi economica, si diffondono posizioni di violenza verso chi è diverso. Il meccanismo è semplice: se le cose vanno male, la colpa deve essere di qualcuno. Di chi? Per rispondere in modo serio a questa domanda bisognerebbe capire a fondo la realtà economica attuale, quel sistema terribilmente complesso che Gallino chiama finanzcapitalismo: ma è una cosa difficile. Più facile è trovare un capro espiatorio. E dunque: siamo in crisi perché ci sono troppi extracomunitari, perché li manteniamo (affermazione ripetuta con la massima convinzione contro ogni evidenza: gli stranieri producono il 12% del Prodotto Interno Lordo), perché ci rubano il lavoro, e così via.
Da uomo di scuola, non posso fare a meno di interrogarmi anche sulle responsabilità del sistema scolastico. Integrazione e lotta al razzismo sono tra le parole chiave della politica scolastica degli ultimi anni, ma sono buone intenzioni che si scontrano con un deficit strutturale della nostra scuola, e che riguarda la natura della cultura che vi si trasmette (e il fatto che la si trasmetta, semplicemente, è un altro dei problemi della scuola italiana). Nella scuola in cui insegno si è diffusa la notizia che sono buddhista. Mi è capitato più volte, durante una supplenza in qualche classe non mia, di sentirmi fare domande sulla mia religione. Domande del tipo: “Ma voi buddhisti siete quelli che pregano facendo così?” (minando la genuflessione dei musulmani). Nessuno ha messo in grado questi studenti di conoscere il buddhismo e l’islam, che solo due tra le maggiori religioni mondiali. La scuola italiana intende combattere il razzismo con le migliori intenzioni, ma non comprende che per farlo occorre in primo luogo conoscere le culture diverse dalla nostra. Offrendo un programma culturale interamente italocentrico ed eurocentrico, si trasmette il messaggio latente che nulla di significativo è stato fatto, scritto, pensato al di fuori del continente europeo. Che noi, in fondo, siamo i migliori, e nulla abbiamo da apprendere dagli altri.
Editoriale per Stato Quotidiano.

Dove vogliamo andare?

Il centro commerciale Mongolfiera di Foggia
Settant’anni fa i bombardamenti che rasero al suolo Foggia, facendo migliaia di vittime (il numero esatto è controverso, ma certo si tratta di diverse migliaia). A chi chiedeva le ragioni dell’accanimento sulla nostra città degli anglo-americani, questi rispondevano, pare, con l’argomento del compasso. Si punti un compasso su Foggia, dicevano; si traccerà intorno un’area che comprende l’Italia meridionale ed i Balcani: ossia una zona di altissima importanza strategica per le operazioni militari.
A distanza di sessant’anni l’argomento del compasso torna nelle parole di Bernardo Marinelli, amministratore delegato della Genera Consulting. Intervistato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, dice: “Fissate un compasso su Foggia e allargate il raggio, vi renderete conto che la grande ricchezza di questa città è la sua posizione geografica”. Da un lato, il Foggiano è facilmente raggiungibile dal Barese, ma anche da parte della Lucania e della Campania; dall’altro, si tratta di una zona interessata da un forte flusso legato alle attrattive turistiche del Gargano ed a quelle più o meno religiose di San Giovanni Rotondo. E’ la zona ideale, insomma, per sistemare una impresa economica ambiziosa. E quella della Genera Consulting, gruppo marchigiano, è ambiziosissima: più di duecentocinquanta milioni di investimento e mille e cinquecento posti di lavoro per un grande parco acquatico, con ipermercato, hotel, terme eccetera. Il progetto prevede anche un parco archeologico che ingloberebbe l’area della tomba della Medusa, attualmente in stato di abbandono.
Due cambiamenti importanti per la nostra città sono stati negli ultimi anni la nascita del primo ipermercato, La Mongolfiera, e più recentemente quella della Città del Cinema. Due strutture con le quali la piccola città di provincia ha provato l’ebbrezza del non-luogo. Il successo è stato immediato e privo di oscillazioni. La Mongolfiera è diventata meta di vere e proprie gite – gente che arriva dalla provincia e passa nell’ipermercato tutta la giornata -, la Città del cinema è riuscita ad attirate anche chi il cinema non l’ha mai amato. Le conseguenze per la città non sono state lievi. Molti piccoli negozi hanno chiuso i battenti, incapaci di fronteggiare la concorrenza della grande distribuzione. Il negozietto di quartiere della nostra infanzia è diventato sempre più un ricordo sbiadito. Gli stessi supermercati soffrono, schiacciati dagli ipermercati. La nascita della Città del Cinema ha provocato la chiusura di quasi tutti i cinema cittadini: il Capitol, l’Ariston, il Cicolella (il Falso Movimento ha chiuso per altre ragioni, sostituito dalla Sala Farina, che benché parrocchiale si sforza di mantenere la tradizione del buon cinema).
Quello che sta succedendo, a Foggia e altrove, è che la città si sta progressivamente svuotando in favore di strutture dedicate interamente al consumo. E’ l’anima stessa della nostra società, il consumo; l’acquisto è il rituale sacro che la tiene in vita, il gesto che dà senso all’individuo e lo lega alla collettività. Se questo è ciò che conta, allora i luoghi più significativi saranno quelli nei quali meglio potrà realizzarsi il rituale del consumo. La trasformazione della città in palinsesto semicancellato dalle vetrine dei negozi non è più sufficiente. Essa cede al luogo del consumo puro o del puro divertimento (che è anch’esso consumo). L’ipermercato è il luogo nel quale l’individuo si abbandona felicemente alla massa e in essa di oblia. Ne è attratto come la farfalla dal fuoco, come il mistico da Dio. In questo abbandono prova un piacere particolarissimo, il piacere di chi compie la sua missione. Perché, come avvertiva Baudrillard, nella società dei consumi il consumo non è un diritto o un piacere, ma un dovere del cittadino.
Se il progetto venisse approvato ed andasse in porto, si accelererebbe una movimento che già procede per conto suo, apparentemente inarrestabile, e che può essere caratterizzato come la periferizzazione del centro. La città diventa satellite della sua periferia. La gente passa sempre più tempo nelle grandi aree commerciali al di fuori del centro abitato; la città come luogo di scambio umano diventa poco significativa, poiché poco significativo è lo scambio umano. La realizzazione di una grande area dedicata al consumo ed al divertimento favorirebbe la trasformazione della città in semplice luogo da attraversare per andare altrove, un quasi dormitorio privo di interesse, in cui qualche attrattiva riuscirebbe ad avere soltanto la via centrale con i negozi alla moda.
Ho usato poco fa le parole sviluppo e progresso come se fossero sinonimi. Per Pasolini, come è noto, non lo erano. Lo sviluppo era quello che volevano gli industriali che producono merci e beni, ed hanno bisogno di gente che li compri; il progresso lo volevano gli altri: gli operai, i contadini, gli intellettuali. Ha ancora senso, oggi, questa distinzione? Esistono ancora persone che vogliono il progresso? E’ evidente che il consumo non è più, solo, una faccenda da industriali. Il consumo non lo vuole solo chi produce beni inutili. Esso, come detto, è ormai un dovere sociale oltre che una necessità psicologica.
La più grande trasformazione italiana dell’ultimo secolo, quella del “boom economico” della fine degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta del secolo scorso, si è svolta con una rapidità ed una forza di persuasione che non ha quasi incontrato ostacoli. Pasolini è stato tra i pochissimi a tentare di opporsi, e non è probabilmente azzardato scorgere nella sua morte tragica ed avvolta ancora nel mistero un segno dello scacco di chi cerca di fronteggiare, a mani nude e con la sola forza della sua intelligenza, dinamiche tanto più grandi di lui. Se ci chiediamo cosa resta del suo impegno – e di quello di tanti altri: ad esempio il mite ed inquieto Alex Langer – ci imbattiamo in qualche domanda: dove vogliamo andare? siamo sicuri di volere questo sviluppo? è questa davvero la società che vogliamo?
Queste domande sono oggi al centro del dibattito economico, filosofico e sociologico: basti pensare ad autori come Serge Latouche, Amartya Sen, Vandana Shiva. Autori che si interrogano sui limiti dello sviluppo e sulle sue contraddizioni. E tuttavia, benché molti di questi autori siano conosciuti anche al di fuori della cerchia dei cosiddetti intellettuali, le loro idee stentano a suscitare un dibattito pubblico.
Un cambiamento importante come quello legato alla creazione di una grande area commerciale a ridosso della città non può essere affidato soltanto alla classe politica. Ogni cambiamento dovrebbe essere discusso, analizzato, soppesato. E dietro questa discussione dovrebbe esserci la riflessione più ampia sulle domande di cui s’è detto. Dove vogliamo andare? Una comunità che non si interroga su questo – che non trova i luoghi ed i modi per farlo – è condannata a subire i cambiamenti che la riguardano. Per essere precisi, non è nemmeno più una comunità, ma una ossimorica massa fatta di atomi che nulla hanno in comune tra loro. E’ appena il caso di notare che questo dovrebbe essere il compito della politica: interrogare, suscitare domande e cercare insieme le risposte, avviare il dialogo e favorire l’autocoscienza. Chiedere incessantemente: dove vogliamo andare? Ove manchi questo inesausto interrogare, si può esser certi che siam in presenza di cattiva politica: quella che non fa il bene comune, ma persegue gli interessi privati.
Editoriale per  Stato Quotidiano.

La relazione educativa

Una scuola ad Islamabad. Foto di Muhammad Muheisen
Una delle convinzioni più radicate in chi educa è che la relazione educativa debba essere inevitabilmente asimmetrica: l’educatore in alto (il padre, il professore), l’educando in basso (il figlio, lo studente). Certo, i segni esteriori di questa asimmetria – le tante cattedre con la pedana che ancora esistono nelle nostre scuole, ad esempio – suscitano qualche disagio, ma la struttura mentale, per così dire, è ancora ben salda. Da chi è nella posizione di figlio o di studente ci si aspetta un atteggiamento di sottomissione più o meno palese. A scuola il professore dà del tu allo studente, il quale darà del lei o addirittura (soprattutto al sud) del voi al docente. Uno degli affronti che i docenti tollerano meno è quando lo studente “risponde”, vale a dire quando tenta di porre il confronto con il docente su un piano di parità. I docenti ne parlano come di un azzardo inaudito, che bisogna rintuzzare prontamente; e quando si tratta di attribuire il voto di condotta, a fine anno, non si mancherà di tener conto di questi azzardi. L’alunno da nove o dieci in condotta è per definizione l’alunno che “non risponde”.
Una delle lamentele più diffuse nella pubblicistica pedagogica di largo consumo riguarda l’assottigliarsi reale o presunto di questa asimmetria. I genitori, si dice, oggi non vogliono più fare i genitori. Accorciano le distanze con i loro figli: vogliono essere loro amici. Non solo non sono più autoritari, non sanno essere nemmeno autorevoli. C’è qualcosa di vero in queste lamentele. E’ vero, mi sembra, che oggi non vi sia in giro molta voglia di impegnarsi in una relazione educativa, vale a dire in una relazione profonda, impegnativa, anche destabilizzante. E’ una conseguenza della deriva generale delle nostre relazioni umane, legata al tipo di società che abbiamo creato – o che abbiamo lasciato che altri creassero. Da un lato c’è l’individualismo, il mito dell’io, che ostacola (ma non sempre) la dedizione all’altro senza la quale non c’è educazione; dall’altro c’è il consumismo che brucia il tempo della relazione, erode la calma necessaria per un incontro significativo, mercifica tutto quello che può mercificare, rendendo sempre più esigui gli spazi – umani, sociali, esistenziali – per essere oltre sé stessi.

Una relazione educativa è una relazione umana autentica. Essa si riconosce in primo luogo per l’impegno: ci coinvolge, ci prende, ci costringe a metterci a nudo, ad abbandonarci. In una relazione educativa non solo si comunica, ma ci si comunica, ossia si mette in comune il proprio essere. In secondo luogo, in una relazione educativa l’altro è fine e non mezzo. Se l’io fa ombra al tu, se chiediamo all’altro di farci da specchio e di rimandarci un’immagine gratificante di noi stessi, che sostenga ed alimenti il nostro narcisismo, non siamo in una relazione educativa. Infine, una relazione educativa è dinamica, è uno star-dentro, ma anche un camminare-verso. L’educazione è sempre una situazione di ricerca – del bene, del vero, del bello, del giusto. Cose che non sono mai un possesso, ma indicano una direzione verso la quale muoversi.
Nulla di tutto ciò è possibile in una relazione asimmetrica. Non è possibile il coinvolgimento personale. In una relazione asimmetrica chi occupa la posizione superiore è distante, nascosto dietro la maschera del suo ruolo, e di sé comunica solo ciò che il ruolo prevede. Non c’è comunicazione, ossia lo scambio reciproco di due persone che mettono in comune il loro essere e cercano una forma di comunione, ma mera trasmissione, secondo la distinzione di Danilo Dolci. Per comunicare bisogna essere sullo stesso piano, altrimenti c’è il semplice passaggio di un messaggio dall’emittente al destinatario, che non ha facoltà di replica (o ha una facoltà di replica molto parziale). In una relazione educativa (meglio: pseudo-educativa) asimmetrica, chi educa rappresenta il modello verso il quale l’educando deve muoversi, l’ideale umano che deve adeguare e realizzare. L’io dell’educatore occupa tutto lo spazio della relazione educativa, schiacciando il tu dello studente. Peraltro, il proporsi come modelli ha come inevitabile risvolto l’inautenticità, poiché chiunque ha debolezze più o meno gravi, fragilità, contraddizioni, incoerenze. Per proporsi come modelli occorre nasconderli agli occhi dell’educando; una cosa non difficile, se si resta dietro la maschera del ruolo.
In una relazione asimmetrica il dinamismo è parziale. C’è un movimento che va dall’educando all’educatore. L’educatore è il modello, l’educando si muove verso di lui. Così, almeno, crede l’educatore. Provate a chiedere a degli studenti se considerano i loro docenti dei modelli. Molti di loro risponderanno semplicemente ridendo. In famiglia va diversamente – la famiglia è il valore fondamentale dei ragazzi di oggi: le ribellioni degli anni Settanta sembrano essere definitivamente alle spalle -, ma non sono comunque molti i genitori percepiti come modelli dai figli.
C’è vera educazione quando il dinamismo è totale, ossia riguarda tanto l’educatore quanto l’educando. Il dinamismo, in realtà, fa saltare anche questa distinzione terminologica. Poiché l’educazione è un processo che non ha mai fine, l’educatore non esiste: ognuno è sempre un educando. Il cosiddetto educatore si sta educando, e molto può imparare dal cosiddetto educando. Nella relazione educativa abbiamo dunque due soggetti in formazione che si muovono insieme. Può essere che uno sia più avanzato, che cammini davanti all’altro, ma il cammino resta comune. Nessuno sa esattamente dove porterà il cammino. Quello che si sa, è cosa spinge a mettersi in cammino: la ricerca della verità, della giustizia, del bene. Nella società delle cose, i valori sono non-cose per eccellenza; non sono mai dati, disponibili, tangibili. Sono stelle distanti, a volte occultate dalle nuvole, spesso così fioche che sembra che stiano per spegnersi.
Gli pseudo-educatori, quelli con la maschera, fanno un gran parlare di valori. Interpretano il loro ruolo come quello di chi consegna e trasmette i valori più sacri. Ma i valori di cui parlano spesso non sono affatto valori. Un valore si riconosce anch’esso per il dinamismo: esso è al di là dell’esistente, lo giudica, lo inquieta, lo costringe al cambiamento. I valori di cui parlano gli pseudo-educatori sono invece i valori dell’esistente, l’accettazione e glorificazione della società così com’è: ossia ingiusta, falsa, violenta, inautentica. Gli pseudo-educatori sono rappresentanti dell’ordine costituito, sicari dello status quo, nemici del sogno e dell’utopia. Quella che chiamano educazione è la riproduzione dell’esistente, la replica delle vecchie generazioni nelle nuove.
Il compito dell’educazione sembra essere quello di fare in modo che la società cambi pur restando la stessa. Cambino pure le tecnologie, le abitudini, gli stili di vita, purché restino immutati i rapporti di potere. Le istituzioni scolastiche educano all’individualismo, alla ricerca personale del profitto e del successo. Ad inserirsi nel modo migliore nel mondo così com’è, senza avere la presunzione di cambiarlo.
Per cambiarlo bisognerebbe uscire dall’individualismo. Legarsi all’altro, comunicare con lui, condividere il proprio disagio – che ordinariamente ognuno soffre per sé: perché è convinzione diffusa che, se si è infelici nella società del benessere, è per mancanza propria, non del sistema – e cercare insieme una via d’uscita. Per questo la vera educazione, intesa come un muoversi insieme alla ricerca dei valori, è sempre anche politica.
Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.

Nulla di eclatante

Renato Accorinti

L’elezione di Renato Accorinti a sindaco di Messina è una delle notizie più confortanti degli ultimi anni. Esiste in Italia una tradizione politica nobilissima, per quanto sotterranea. E’ la tradizione di Aldo Capitini, di Danilo Dolci, di Lanza del Vasto, di Ernesto Balducci, di Tonino Bello, di Alex Langer, di migliaia di uomini e donne che hanno lottato per la pace, per la giustizia, per un rinnovamento sociale che parte dalla considerazione dell’ultimo, dell’escluso, di colui che è schiacciato o espulso dal sistema. Nella mia analisi, si tratta di una tradizione che interpreta il terzo principio del motto della rivoluzione francese: quello della fraternità. Abbiamo avuto nel Novecento una tradizione politica centrata sul valore della libertà (quella liberale) ed una tradizione politica fondata sulla giustizia (quella comunista). La nonviolenza rappresenta la terza via: la via di una politica della fraternità. E’ evidente che si tratta di una politica diversa. La giustizia e la libertà sono valori che possono concretizzarsi giuridicamente, incarnarsi in leggi e provvedimenti governativi. Nel caso della fraternità, questo è possibile solo parzialmente. Certo, leggi in favore della solidarietà e dell’inclusione degli svantaggiati vanno nella direzione di una società fraterna; ma per realizzare realmente un ideale simile non è sufficiente la politica dall’alto. Occorre un mutamento, una trasformazione della vita individuale. Occorre uscire dall’individualismo e dall’atomismo giuridico per acquistare il senso della necessità dell’altro, l’urgenza della sua presenza accanto. Occorre un cambiamento morale e spirituale. E’ per questo che quella della nonviolenza è una via così difficile. Perché opera, per dirla con Langer, più lentamente, più profondamente, più dolcemente (lentius, profundius, suavius).

Se dovessi indicare un personaggio politico da porre agli antipodi di Accorinti – un personaggio cioè politicamente ed umanamente squallido ed insignificante – avrei, purtroppo, l’imbarazzo della scelta. Tra i tanti, mi viene in mente Antonio Razzi. Eletto nel 2006 nelle fila dell’Italia dei Valori, è stato rieletto nel 2013 con il Popolo delle Libertà. Di qualche giorno fa è un suo intervento in Senato a proposito del corridoio ferroviario Pescara-Roma. Un intervento nel quale questo senatore della Repubblica italiana si è dimostrato incapace si esprimersi correttamente in lingua italiana e di esporre con passabile chiarezza il suo pensiero.
Chi volesse saperne di più su questo figuro può leggere la pagina Wikipedia a lui dedicata. Dalla quale può apprendere anche gli squallidi retroscena del suo voto di fiducia al governo Berlusconi nel dicembre 2010:

« […] Andavamo e dicevamo “Presidente, siamo noi due, quanto ci molla? […] Qui, ce ne date un milione?” E io e lui, con un milione ci facevamo una campagna elettorale, facevamo un partito nuovo. […] Perché per noi due il governo s’è salvato. Che 314 a 311. Se io e Scilipoti andavamo di là per un voto cadeva, cadeva Berlusconi. […] Io avevo già deciso da un mese prima [di votare la fiducia, ndr]. […] Io non avevo la pensione ancora. Dieci giorni mi mancavano. E per dieci giorni mi inculavano. Perché se si votava dal 28 come era in programma, il 28 di marzo, io per dieci giorni non pigliavo la pensione. […] »

Cerchiamo ora la pagina Wikipedia dedicata a Renato Accorinti. Fortunatamente c’è, ed è anche approfondita. Ma è una pagina che ha avuto un percorso travagliato, come è possibile constatare leggendo la Discussione che la accompagna.  “Che cosa ha fatto di cosi eclatante o di carattere enciclopedico Renato Accorinti per finire su wikipedia?”, si chiede qualcuno. Già, che cosa ha fatto Accorinti? Ha lottato contro l’installazione della base militare a Comiso, si è impegnato contro la mafia, per i diritti civili, per l’ambiente ed i beni culturali. Nulla di eclatante.
Molte cose eclatanti ha fatto, invece, il senatore Razzi. Cose per le quali merita una pagina Wikipedia, senza che nessuno osi fare obiezioni. Perché lui appartiene al potere, o meglio al dominio. E’ della casta, come si dice. E anche il più spregevole appartenente alla casta merita il suo riconoscimento, la sua pagina enciclopedica, la sua visibilità. Mentre anche il più nobile rappresentante dell’altra politica, quella che nasce dalla società civile, merita l’oblio, quando non lo scherno.
Gli italiani non fanno che lamentarsi della casta, ma non si accorgono che essa è incardinata profondamente nei loro schemi mentali. Un istinto più forte di loro li porta a genuflettersi di fronte ai segni del dominio, ad ammirare l’auto blu, a provare soggezione di fronte alla scorta ed ai bodyguard. E, specularmente, a considerare insignificante chiunque, pur ben diversamente dedito al bene comune, non acceda alla sfera del dominio e non mostri anche esteriormente il suo status.

Educare alla libertà attraverso la libertà

Fonte: http://onsparklingform.tumblr.com

Che l’educazione abbia a che fare con la libertà nessuno, o quasi, lo nega. Tutti affermano che fine dell’educazione è formare persone libere ed autonome. Il problema è che la libertà è concepita come il fine, non come il mezzo dell’educazione. Ci si aspetta che la persona diventi libera attraverso un percorso formativo che comincia con l’assoluta negazione della libertà e diviene man mano meno rigido, fino a lasciare libero il soggetto ormai maturo. Il bambino è considerato un po’ come una pianta (le metafore botaniche sono frequentissime in pedagogia), che dev’essere legata, avvinta ad un palo affinché cresca dritta, e non segua le proprie disordinate inclinazioni. Quando la pianta è ormai adulta e ben formata, la si può slegare e lasciare che cresca come vuole. Come vuole? Crescerà, in realtà, come vuole chi dall’esterno ha pensato il suo sviluppo. Ed è quello che accade ai bambini. Avvinti dall’autorità, impacciati, costretti in mille modi, vengono lasciati in pace solo quando hanno interiorizzato le norme, quando hanno ormai quello che Augusto Boal chiama “il poliziotto nella testa” (flic dans la tete).

Libertà è, essenzialmente, autonomia. La parola autonomia rimanda a due cose: sé stessi (autos) e la legge (nomos). Autonomia può voler dire due cose: o offrirsi spontaneamente, da sé, alla legge, oppure darsi la legge da sé. La prima è la concezione conservatrice della libertà e dell’autonomia. Libero, si dice, è soltanto colui che è giunto a consentire interiormente con la legge, fino al punto di non volere se non ciò che la legge stessa vuole. Un soggetto libero così inteso non viola la legge perché l’ha interiorizzata al punto tale da essere tutt’uno con essa. Non si può dire che la legge venga dall’esterno a limitare la sua azione; la legge è tutt’uno con lui. La seconda concezione considera la legge come qualcosa che il soggetto non interiorizza, ma conquista da sé: e può essere che vi sia un contrasto tra ciò che lui ritiene buono e giusto e ciò che la società impone come buono e giusto. Una libertà di questo genere è indubbiamente pericolosa per la società, poiché mette in discussione i valori, le norme, i rituali condivisi; al tempo stesso è per essa una benedizione, perché le offre il dinamismo che è necessario per farla evolvere, per aprirla a nuove posizioni morali, a più avanzate conquiste civili. Chi oggi è un deviante, domani appare come un precursore. L’obiettore di coscienza che oggi è un criminale da sbattere in galera, domani apparirà come colui che ha difeso il sacrosanto diritto di non uccidere, che non può che essere riconosciuto dallo Stato.

E’ chiaro che i conservatori, quando parlano di libertà, si riferiscono a qualcosa che libertà non è. Ciò spiega il curioso paradosso riguardante i fini ed i mezzi. Come è evidente, esiste una relazione necessaria tra fini e mezzi: non è possibile raggiungere certi fini, se non con mezzi che ad essi sono omologhi. C’è un rapporto tra il seme e l’albero, tra l’azione e la sua conseguenza. Educare alla libertà attraverso la coercizione è semplicemente impossibile, se intendiamo la libertà come darsi da sé la legge. Una persona che fin dalla prima infanzia è stata educata a seguire la legge imposta da un’autorità difficilmente riuscirà, da adulta, ad essere realmente autonoma. Ciò non vuol dire che non potrà esserlo affatto. Fortunatamente, l’educazione ha influenza sullo sviluppo personale solo fino ad un certo punto. Il processo educativo è guidato dall’interno non meno che dall’esterno; e spesso accade che il movimento interiore contrasti efficacemente l’azione esteriore e prevalga su essa (ed abbiamo allora i ragazzi rivoluzionari figli di conservatori). La libertà cui si educherebbe in questo modo è la stessa del cane che, ben addestrato, può essere lasciato senza guinzaglio, poiché si è certi che non scapperà. Ma essere liberi vuol dire essere capaci di scappare.
Non si educa alla libertà se non attraverso la libertà. Tornando alla metafora botanica, ciò significa riconoscere alla pianta il diritto di crescere come vuole. C’è una saggezza vitale nella pianta, come nel bambino. A Maria Montessori va riconosciuto il merito di aver richiamato l’attenzione sul grande, straordinario lavoro che il bambino fa da sé – non un foglio bianco su cui gli adulti scrivono cose via via più complesse, ma un progetto che si svolge progressivamente da sé, assimilando ciò di cui ha bisogno dall’ambiente. Non c’è nulla che un bambino reclami con più forza del fare da sé: è un suo bisogno evolutivo. Ed è compito di chi lo educa provare un profondo rispetto per questo bisogno e riconoscere al bambino tutte le volte che è possibile il diritto e l’agio di muoversi autonomamente.
Coloro che negano la libertà al bambino in nome dell’educazione sono guidati da una visione positiva del mondo adulto. Essi sono consapevoli del potenziale rivoluzionario che c’è nel bambino, e per questo ritengono necessario intervenire al più presto per inquadrarlo, per fargli accettare il sistema socio-economico con le sue regole. Questa consapevolezza del potenziale rivoluzionario infantile è alla base anche dell’educazione libertaria. La differenza è che tale potenziale è in questo caso percepito positivamente, poiché si è dolorosamente consapevoli delle storture della società. Nel bambino, nella sua libertà, nella sua gioia si riconosce la leva per trasformare un mondo malato di tristezza, di autorità, di violenza. Educare il bambino vuol dire al tempo stesso andare alla sua scuola, imparare la sua lezione, ascoltare la sua voce.
Articolo per Il bambino naturale.

Femminicidio e cultura del dominio

Murale a Roma, quartiere San Lorenzo
(fonte: roma.repubblica.it)
Nei giorni scorsi alcune donne ed alcuni uomini si sono incontrati a Foggia, convocati dalla associazione Donne in rete (presieduta da Rita Saraò), per discutere insieme di violenza sulle donne. E’ l’inizio di un percorso comune di riflessione e di autoanalisi di cui non si può non avvertire la necessità e l’urgenza, ed al quale auguro di fare molta strada e di coinvolgere quante più persone possibile.
L’avvio di questa riflessione comune non può che essere la domanda che sempre torna a tormentarci di fronte alla violenza: perché? Perché accade? Perché si violenta, si tortura, si uccide? E perché lo si fa alle donne? Vorrei azzardare qualche ipotesi, offrendo il mio minimo contributo alla discussione. Lo faccio da persona che si è occupata a lungo, con esiti che non sta a me giudicare, del problema della violenza. E lo faccio con la consapevolezza, che mi viene da quegli stessi studi, che ogni tentativo di pensare la violenza non è che un balbettio.
Perché, dunque, la violenza sulle donne? Per cercare di rispondere a questa domanda ci sono due vie: si può considerare la violenza sulle donne come un fatto a sé stante o la si può considerare una forma di una violenza più generale. Il mio tentativo di analisi seguirà questa seconda via. La violenza sulle donne mi preoccupa, ma non è l’unica forma di violenza che mi preoccupa. Mi preoccupa la violenza dell’uomo sull’uomo (e sulla donna) che prende la forma dello sfruttamento economico, mi preoccupa la violenza sui bambini, mi preoccupa la violenza sui diversi, siano omosessuali, Rom o extracomunitari, mi preoccupa la terribile violenza sugli animali. Credo che ci sia un nesso essenziale tra tutte queste forme di violenza, al punto tale che non sia possibile combattere una senza combattere anche le altre. Mi rendo conto che alle donne può dar fastidio che la loro causa sia accostata a quella degli animali; d’altra parte, vi sono anche antispecisti come Leonardo Caffo, cui dà fastidio che la causa degli animali sia accostata a quella delle donne. Eppure credo che l’antispecismo politico – la posizione di chi afferma che le lotte di liberazione umana ed animale debbano procedere di pari passo – abbia ottime ragioni.

Quale è la radice della violenza? Proviamo ad immaginare una situazione in cui non esista violenza. Non riesco a figurarmela se non come una situazione simmetrica dal punto di vista relazionale: vi sono persone che sono sullo stesso piano, dotate di pari dignità, che sono in grado di vivere insieme. Poiché sono antispecista, mi piace immaginare che in questa situazione ideale la simmetria riguardi anche gli animali. Immaginiamo ora che qualcosa venga a turbare questa armonia originaria. Accade, ecco, che qualcuno si sottrae alla simmetria. Si pone in una posizione superiore, costringendo gli altri in una posizione inferiore. L’armonia è infranta.
Questa è la situazione che io chiamo di dominio. Ed è, esattamente, la situazione nella quale siamo da qualche millennio. Non da sempre. Che il dominio, e la violenza che esso comporta, siano fatti naturali, nati con l’essere umano, è una affermazione che si può confutare con la semplice considerazione delle società di caccia e raccolta. Le quali non erano società comuniste, come vuole qualcuno, ma nemmeno conoscevano le disuguaglianze e lo sfruttamento delle società che sono venute dopo. Si dirà: ma si tratta di società arcaiche, lontane, che nulla hanno più da dirci. Non è proprio così. Le società acquisitive coprono circa il 90% della vita dell’uomo sulla terra; cioè: nella gran parte della sua vicenda su questo pianeta, l’uomo è vissuto così.
Oggi vive diversamente. Che è accaduto? E’ accaduto che è nata la proprietà, che è per eccellenza il fattore di separazione e di gerarchizzazione. Con le società agricole e pastorali e poi con le prime organizzazioni statali, si è impiantato il dominio. L’uomo si è separato dalla donna (la distinzione di ruoli era molto debole nelle società acquisitive) e dall’animale. E’ nata una cultura del dominio che ha giustificato e codificato questa distinzione. La Bibbia, espressione di una società pastorale, è interamente attraversata dalla cultura del dominio. C’è un Dio che è Padre, ed è un padre violento, collerico, mutevole, perfino capriccioso ed arbitrario, che si presenta come Signore degli eserciti ed esige lo sterminio dei nemici. C’è il mandato di dominare la natura e gli animali, dato al maschio da questo Dio maschio. E c’è la donna considerata come una proprietà maschile, una cosa tra le altre. Nel comandamento dell’Esodo è evidente la logica del dominio: “Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Esodo, 20, 17). La casa, la donna, lo schiavo, l’animale. Le cose e gli esseri viventi ridotti a cose. La reificazione è l’essenza stessa del dominio: poiché essenza delle cosa è l’usabilità, la passività, l’essere sempre disponibile.
Il capitalismo è la massima espressione storica della cultura del dominio, nata con le prime società agricole e pastorali. E’ il sistema economico culturale che industrializza la violenza sugli animali, portando la reificazione della vita animale a livelli prima assolutamente inconcepibili. L’animale come essere vivente autonomo semplicemente non esiste più. Fin dalla nascita è una cosa al servizio dell’uomo. E’ il sistema economico che ha bisogno di milioni, di miliardi di schiavi, nonostante annunci la liberazione dal bisogno e dalla povertà. La produzione continua di merci a buon mercato non è possibile se non grazie a una manodopera a costo bassissimo. E’ il sistema che devasta la natura, privata ormai di qualsiasi sacralità e considerata un campo di risorse da sfruttare. Ed è, anche, il sistema che fa del corpo della donna un oggetto da usare per il piacere del maschio; anzi, di più: la donna diventa una moneta, una cosa buona per acquistare altre cose (ne parla Walter Siti in Resistere non serve a niente). Non è possibile non scorgere un nesso essenziale tra tutte queste reificazioni.
I giornali si occupano di femminicidio soprattutto quando le donne vengono uccise. Ma c’è un femminicidio meno apparente, ma non meno grave. E’ la terribile riduzione a cose di migliaia di donne – spesso ragazzine, a volte anche minorenni – che vengono rese schiave e costrette alla prostituzione sulle nostre strade. C’è qualcosa di più, in questo fenomeno, del bisogno di soddisfare un bisogno sessuale. C’è il bisogno non solo di possedere un corpo, ma di umiliarlo, degradarlo, di ridurlo davvero a cosa. Basta leggere le testimonianze raccolte da una ex schiava nigeriana, Isoke Aikpitanyi, in Le ragazze di Benin City (Melampo editore) per rendersi conto delle terribili violenze che quotidianamente migliaia di maschi italiani fanno subire a migliaia di donne, segnate per di più dall’essere straniere, e dunque ai loro occhi doppiamente disprezzabili.
Ma, si chiederà, perché questa violenza caratterizza il nostro paese più che altri? Per una serie di ragioni. Per il modo particolare in cui si è affermato nel nostro paese il capitalismo, spazzando via nel giro di pochi anni la civiltà contadina (che era anch’essa segnata dalla violenza sulle donne) ed affermandosi in una forma particolarmente rozza e volgare. Per il fascismo, questa vera e propria malattia dello spirito da cui il nostro paese non è mai davvero guarito. La commistione delle due cose – un capitalismo rozzo ed il persistere di una mentalità fascista – ha dato vita a quel tipo di italiano rappresentato alla perfezione dall’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi: un uomo che non avrebbe avuto il successo elettorale che ha avuto se gli italiani – i maschi italiani – non si fossero identificati con lui e con il suo delirio di dominio. E, infine, per il peso della tradizione cattolica, che ha impedito ed impacciato il diffondersi di una sessualità liberata e liberante, sana e priva di tabù, riproponendo peraltro lo stereotipo della donna moglie e madre che è funzionale al dominio maschile (completata, naturalmente, dalla figura della schiava-prostituta).
Se questa analisi non è sbagliata, lottare contro il femminicidio vuol dire diverse cose. Vuol dire lottare contro la cultura da cui vediamo – decostruirla, per dirla con Derrida. Ripensare, ad esempio, il Dio-Padre, Signore degli Eserciti, come un Dio-Madre (il Dio della partoriente diverso dal Dio delle zecche, diceva Danilo Dolci). Vuol dire lottare contro un sistema economico che riduce a cose, una cultura che, sotto l’apparenza del benessere, è malata di necrofilia e di violenza. E vuol dire cercare, qui ed ora, si creare situazioni simmetriche, progettare aree sociali libere dal dominio, zone autonome nelle quali uomini e donne (e, mi piace immaginare, anche animali) possano incontrarsi e comunicare in modo diverso.
Editoriale per Stato Quotidiano.

Le mucche si sono estinte

La mucca come oggetto industriale

Vorrei considerare brevemente una obiezione al vegetarianesimo che mi è stata avanzata recentemente da un collega, docente di scienze naturali. L’obiezione è così formulata: 

Se si diffondesse il vegetarianesimo, molte specie animali – quelle attualmente sfruttate per scopri alimentari – si estinguerebbero. Gli asini, ad esempio, erano quasi estinti; stanno ricominciando a diffondersi da quando si è tornati a mangiare la loro carne e bere il loro latte.

Mi pare che a questo argomento si possa replicare con quattro controargomenti.
1. Cosa vuol dire che una specie non si è estinta? Quando una specie esiste? Richiamiamo alla mente la situazione del film Matrix: gli esseri umani sono sfruttati dalle macchine come semplici fonti di energia, chiusi ed immobili in distese sterminate di baccelli. Si può dire, in quel caso, che la specie umana esiste ancora? E’ lecito dubitarlo, poiché un essere umano non è una batteria. Lo stesso vale anche per gli animali. Il criterio generale è: un essere vivente non è una cosa. Quando viene ridotto a cosa, semplicemente non esiste più come essere vivente. Le mucche ed i polli ridotti a cose dal sistema industriale non esistono più come mucche e polli. Si sono estinti. 

2. Esistono molte specie animali che sono al di fuori del sistema di sfruttamento industriale, senza per questo essere a rischio di estinzione. Non esiste dunque (per fortuna) alcun nesso essenziale tra la mancanza di sfruttamento industriale e l’estinzione di una specie vivente.
3. Se si diffondesse il vegetarianesimo fino al punto di smantellare il sistema industriale di sfruttamento degli animali, si diffonderebbe con esso anche la sensibilità ecologica che ne è alla base. E dunque si tutelerebbe la biodiversità e si difenderebbero le specie a rischio di estinzione.
4. Chi è vegetariano non lo è soltanto perché ama gli animali e vorrebbe liberarli dallo sfruttamento, ma anche perché il sistema industriale di sfruttamento animale è tra le cause principali a) della mancanza di cibo sufficiente per tutti gli esseri umani, b) della compromissione dell’ecosistema. In genere chi si preoccupa di questi due aspetti è anche sensibile alla salvaguardia delle vite animali; tuttavia l’eventuale estinzione di specie animali non è un argomento valido contro i punti a) e b).

Dino Frisullo e la vera politica

Dino Frisullo

Cos’è la politica? A giudicare dall’operare della classe politica italiana – ma altrove non va diversamente – negli ultimi decenni, bisognerebbe rispondere così: è il movimento che distacca il centro della società dalla periferia. Grazie all’opera della politica e dei politici, ci sono un numero ristretto di persone che hanno denaro, prestigio, potere, e molte altre persone che non ne hanno. La politica, come la guerra secondo Eraclito, “gli uni fa schiavi e gli altri liberi”. E’ sufficiente considerare la distribuzione delle ricchezze in Italia e nel mondo per constatare i risultati di questa politica. Secondo dati della Banca d’Italia, il 10% delle famiglie italiane possiedono il 45% delle ricchezze del nostro paese. Nel mondo va anche peggio: secondo uno studio delle Nazioni Unite, il 2% della popolazione mondiale possiede più della metà della ricchezza mondiale complessiva.

La cosiddetta classe politica rientra, naturalmente, nel nucleo ricco e privilegiato della società, e ciò senza differenze di rilievo tra la cosiddetta destra e la cosiddetta sinistra. I politici sono fondamentalmente uomini e donne d’affari, ben attenti a difendere i propri interessi economici anche quando parlano di solidarietà e giustizia sociale.
Ma la politica – bisogna dirlo con chiarezza – non è questa. La politica è altro; ed altri sono i politici. La politica è il movimento che cerca con sforzo continuo, inesausto, di portare al centro della società coloro che sono alla periferia. La politica non tollera l’esclusione, la marginalizzazione, il rifiuto. E’ costruzione della polis intesa come il luogo in cui tutti sono liberi e nessuno è inferiore a nessuno. C’è politica ovunque qualcuno lotta perché qualche altro possa ottenere il riconoscimento pieno dei suoi diritti. C’è politica ovunque qualcuno scopre il volto dell’altro.
Come il sacro, la politica autentica la trovi dove meno te l’aspetti: non nelle chiese, il primo; non nei parlamenti, il secondo. La trovi, la politica, lì dove qualcuno aiuta una prostituta, un pregiudicato, un clandestino, un lavoratore sfruttato a conquistare la propria piena umanità. Ed è lì che in genere trovi anche il sacro.

La politica escludente, la politica degli uomini e delle donne d’affari, esalta i suoi eroi. Dedica loro strade e piazze, scopre targhe, erige busti. I protagonisti della politica autentica sono invece per lo più uomini e donne che agiscono in silenzio, senza che nessuno conosca i loro nomi. E quando si giunge a parlare di loro, è solo per qualche tempo: presto vengono dimenticati. Forse è giusto così – lo esige l’umiltà che sempre accompagna chi lavora davvero per il bene comune -, ma forse non lo è. Forse è giusto, doveroso, necessario ricordarli, trarli dall’oblio, presentarli per quello che sono stati: uomini e donne coraggiosi, che hanno tentato di accendere una luce nel buio che ci circonda.
Dieci anni fa, il 5 giugno del 2003, è scomparso uno di questi politici autentici: Dino Frisullo. E’ nato a Foggia, ma a Foggia non sono molti a ricordarsi di lui. Non ci sono vie o piazze dedicate a lui: ed è bene così. Ma non è un bene l’oblio, la dimenticanza.
Di Frisullo i giornali italiani si occuparono nel 1998, quando finì nelle terribili carceri turche per la sua difesa ferma, coraggiosa, ma sempre priva di qualsiasi atto di violenza, dei diritti del popolo curdo. I giornali lo chiamavano pacifista, e per qualche tempo si appassionarono anche alle vicende di quel personaggio singolare, che finiva in galera per i diritti di un popolo di cui in Italia non importava nulla a nessuno. Ma non era pacifista, Frisullo, benché fosse una persona assolutamente pacifica ed aliena dalla violenza. Nel bellissimo Testamento, scritto quando già la malattia aveva minato il suo fisico, si definisce “un comunista avido di conoscenza e d’amore, vissuto e morto povero e curioso”. Il suo comunismo consisteva nel mettere in pratica le parole del Che Guevara: “Soprattutto, siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo”. E Frisullo le sentiva nel più profondo, fin dentro la carne, le ingiustizie commesse contro i curdi, ma anche le infinite ingiustizie commesse contro i migranti, contro coloro che cercano una vita degna di un essere umano e trovano discriminazioni, violenze, disumanità, disprezzo.
Una raccolta di suoi scritti pubblicata dopo la sua morte si intitola Con lo sguardo delle vittime. E’ una frase che sintetizza alla perfezione la sua prospettiva, che è la stessa di chiunque faccia politica in senso autentico. Visto dall’alto, anche il peggiore degli inferni può sembrare un paradiso. Non c’è deserto che non abbia le sue oasi, e chi sta nell’oasi può ritenere che ovunque ci sia acqua e verde in abbondanza. Fare politica è uscire dall’oasi e affrontare il deserto. E’ guardare il mondo dal basso, dal di fuori, da prospettive eccentriche. Far proprio il punto di vista dell’escluso. Gandhi chiamava Sarvodaya la considerazione di un sistema economico dal punto di vista dei più deboli. Dal punto di vista capitalistico, conta l’incremento dal PIL, l’aumento della ricchezze generale: e poco importa se questa ricchezza finisca nelle mani di una ristretta élite, mentre la maggioranza della gente resta povera. Dal punto di vista di una politica autentica, si può anche perseguire l’obiettivo di diminuire la ricchezza e lo sviluppo generale (lo sostiene, con ottime ragioni, il movimento per la decrescita), lottando invece affinché nessuno resti indietro ed a tutti siano garantite condizioni di vita degne di un essere umano.
Negli ultimi decenni la vita pubblica italiana ha subito un processo di involuzione. Siamo diventati sempre più chiusi, più feroci, più miopi nella difesa della nostra tranquillità quotidiana, del nostro miserabile benessere borghese, pronti a qualsiasi violenza verso chiunque sia al di fuori della cerchia della nostra pseudo-rispettabilità. Abbiamo inventato la figura del clandestino, abbiamo portato al governo miserabili leghisti, abbiamo rigettato a mare i migranti. Ed abbiamo fatto guerre per difendere i nostri interessi economici.
Questa è stata, questa è la normalità della nostra vita pubblica. Dino Frisullo, con pochi altri, ha provato a insegnarci che no, non è normalità questa. Che la vita – la possibilità della gioia – è altrove. Un altrove che va conquistato giorno per giorno, lottando contro quella cultura necrofila che “gli uni fa schiavi e gli altri liberi”.

Beppe Grillo e il test del cinese

Elio Vittorini

In un post di due mesi fa ponevo il problema della presenza di più di qualche razzista tra i cittadini del Movimento 5 Stelle. Essendo un movimento non ideologico, notavo, il M5S ha imbarcato gente tanto di destra quanto di sinistra. Di qui la necessità di una scelta: o prendere posizione sul tema dei diritti civili, e perdere l’appoggio dei razzisti, o evitare qualsiasi presa di posizione su ciò che potrebbe dividere le due anime del movimento, quella di destra e quella di sinistra. Non avevo previsto una terza possibilità: la virata a destra. Un post di ieri l’altro sul blog di Beppe Grillo toglie ogni dubbio: è questa la via presa dal M5S. 

Kabobo d’Italia, titola Grillo: e fa l’elenco degli immigrati che in Italia hanno compiuto reati gravi. Un gioco facile, nel migliore stile leghista. Un gioco idiota, nel migliore stile leghista. Perché dimentica, Grillo, Gianluca Casseri, il fascista vicino a Casapound che nel dicembre del 2011 a Firenze ha ucciso in strada due senegalesi. Dimentica, Grillo, gli spari contro i lavoratori africani a Rosarno, nel gennaio del 2010. Dimentica i sei immigrati africani – tutti estranei a qualsiasi traffico illecito – massacrati dalla camorra a Castelvolturno nel settembre del 2008. Dimentica i migliaia di lavoratori sfruttati e ridotti in schiavitù nelle nostre campagne. E dimentica le migliaia di ragazze africane e dell’est ridotte in schiavitù sulle nostre strade e violentate dal maschio italiano – lo stesso che è responsabile della grande maggioranza delle violenze (uccisioni e stupri) sulle stesse donne italiane.
Dica quel che vuole, d’ora in poi, Grillo. Cianci di quello che gli pare, mandi a fare in culo chi vuole. Non mi interessa. C’è un criterio semplice per valutare un movimento politico. Potremmo chiamarlo il test del cinese. Ricordate Vittorini? Ricordate quel capitolo meraviglioso di Conversazione in Sicilia? Ecco:

– Vedi? – io esclamai. – Un povero cinese è più povero di tutti gli altri. Cosa pensi tu di lui?
– Al diavolo il cinese, – disse.
E io esclamai:  – Vedi? Egli è più povero di tutti i poveri e tu lo mandi al diavolo. E quando lo hai mandato al diavolo e lo pensi, così povero nel mondo,  senza speranza e mandato al diavolo, non ti sembra che sia più uomo, più genere umano di tutti? (1)


Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle (perché, benché Grillo e Casaleggio affermino di non esserne i leader, di fatto il Movimento non ha mostrato alcuna autonomia) non hanno superato il test del cinese. Il che vuol dire che, semplicemente, non hanno da dare nulla alla nostra democrazia ed alla nostra vita civile.



(1) E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, BUR, Milano 2000, p.252.

Elogio delle parole cattive

George Carlin

Una delle prime cose che un bambino impara a scuola – se non l’ha prima imparato in famiglia – è che le parole non sono tutte uguali: esistono parole e parolacce, parole buone e parole cattive. Le prime vanno bene, le seconde no. Un bambino può e deve chiedere alla maestra di andare in bagno; non può e non deve chiederle di andare al cesso. Se lo fa, la maestra lo richiama. Se insiste, la maestra comincia a preoccuparsi: c’è nel bambino qualcosa che non va.

Cosa c’è che non va in un bambino che dice cesso invece di bagno? A pensarci, la parola cesso e la parola bagno indicano esattamente la stessa cosa. Coprono, cioè, lo stesso campo semantico, sono due significanti che hanno lo stesso significato. Cesso non è dunque una parola imprecisa. Perché allora non va bene? Perché ha un brutto suono, dirà qualcuno. Le parolacce sono tali perché suonano male? Ma se così fosse, dovrebbero essere parolacce anche messo, nesso, lesso. Sono tutte parole che hanno un suono quasi identico a cesso: eppure non sono considerate parolacce. Culo è una parolaccia, ma mulo va benissimo. Cazzo è una parolaccia, ma pazzo e razzo no. Perché, allora, il bagno non si può chiamare cesso, il sedere non si può chiamare culo, il pene non si può chiamare cazzo? Perché siamo in una società stratificata. Una società, cioè, in cui non c’è uguaglianza. Esistono le classi sociali, ovvero ci sono persone che hanno più soldi e persone che hanno meno soldi, persone che hanno più potere e persone che hanno meno potere, persone che hanno più status e persone che hanno meno status. Ci sono, insomma, i ricchi e i poveri. E i ricchi sono quelli che decidono, per così dire, le regole del gioco. Sono quelli che controllano le istituzioni, a cominciare dalla scuola, e grazie a questo controllo hanno il potere di decidere quali, tra le idee in circolazione, sono giuste e quali sbagliate, quali accettabili e quali inaccettabili. La stessa cosa fanno con le parole. I ricchi decidono quali parole sono parole e quali parole sono parolacce. Non è difficile capire perché, allora, bagno va bene e cesso no. Bagno è la parola che usano i ricchi, cesso la parola che usano i poveri. E le parole che usano i poveri non sono parole, ma parolacce.

I ricchi sembrano ossessionati dal sesso. Ci pensano talmente spesso, che avvertono il bisogno di rimuovere tutto ciò che vi fa riferimento. Non riescono ad avvertire il sesso come qualcosa di naturale. Ne sono attratti irresistibilmente e, proprio per questo, lo temono. E’ per questo che gli innumerevoli termini che i proletari usano per riferirsi al sesso ed ai suoi strumenti sono, per i ricchi, parole oscene. Se proprio bisogna parlare di quello che uomini e donne hanno tra le gambe, bisognerà usare parole dal sapore scientifico: pene e vagina. Cazzo e fica non vanno bene, così come il rapporto sessuale è fare l’amore, non scopare. Soprattutto, il sesso è come il nome di Dio nella Bibbia: non bisogna nominarlo invano. I poveri hanno questo spiacevole vezzo, di infilare di continuo nel discorso termini sessuali. Anche questo non sta bene. Lo fanno anche i ricchi, a dire il vero, ma loro sanno che c’è differenza tra sfera pubblica e sfera privata, tra ciò che si può dire in pubblico e ciò che è bene dire in privato. Probabilmente la vita politica sarebbe più facile e comprensibile se, poniamo, un presidente della Repubblica alle prese con una difficile crisi di governo, sbottasse: “Mi sono rotto i coglioni”. Ma non starebbe bene. Occorre che faccia dei giri di parole per dire più o meno la stessa cosa.
Una parola ha un solo compito: quella di essere precisa. Di indicare esattamente qualcosa. Ogni parola che indica esattamente qualcosa è una parola, ogni parola ambigua – che sembra indicare una cosa, ma in realtà ne indica un’altra – è una parolaccia. Le parole cattive, le parolacce, sono le parole ipocrite, quelle che vengono usate per ingannare. Esiste un’etica della parola che si può riassumere in questo semplice imperativo: usa le parole per dire la verità o per cercarla insieme agli altri, mai per ingannare e per far apparire le cose diverse da come sono. Sono parolacce, parole oscene, tutte quelle che coprono la realtà invece di svelarla. A ben vedere, siamo immersi nelle cattive parole, ma non sono quelle che crediamo. Sono le parole della politica, sono le parole dell’economia, sono le parole della pubblicità. Anche parole straordinariamente belle subiscono un processo di corruzione e finiscono per non significare più nulla di preciso. Cosa vuol dire, oggi, libertà? Un tempo era la parola che usavano gli oppressi ed indicava l’ideale perseguito nella loro lotta contro gli oppressori. Oggi è una parola di cui si sono appropriati gli oppressori, ed indica appunto la possibilità di opprimere senza troppi impacci.
Permettetemi, allora, un elogio dei quelle altre parole: quelle che sembrano cattive, ma cattive non sono. Le parole dei poveri, che non hanno diritto di cittadinanza a scuola ma che non mancano di comparire nella letteratura, perché per fortuna i poeti e gli scrittori veri sono ben diversi dai professori di italiano; le parole degli oppressi, dei disprezzati, dei diversi; le parole incerte di coloro che sono in cammino per liberarsi dall’oppressione e cercano la verità nell’epoca dell’inganno eretto a sistema.

Quello che possiamo imparare dai rom

In occasione della Giornata Internazionale di rom e sinti, il presidente della Camera Laura Boldrini ha ricevuto a Montecitorio una delegazione di giovani rappresentanti di queste due comunità. Il post con il quale ha comunicato l’iniziativa sulla sua pagina Facebook ha dato il via ad una serie tanto prevedibile quanto preoccupante di commenti razzistici. Ne cito solo alcuni a caso: “propongo la cittadinanza onoraria rom per la signora Boldrini. così almeno si dimetterà da italiana”; “paradossalmente difenderesti anche un rom che ti stuprasse.. è la loro cultura… o che ti rubasse in casa.. (hanno milioni proventi dai furti) e sussidi????… tu sei strana… e pericolosa… una mente perversa… se non pensassi che sei italiana… mi preoccuperei… sei una scoria un pericolo per la nazione… tu Monti Napolitano dovreste essere giudicati per ‘Alto Tradimento'”; “Siate fieri della vostra identita’….(che non avete)!! Siate fieri di quello che fate,(quindi rubare)…il 90% degli Italiani non li vuole…ma sono qua e li manteniamo pure!!! Che schifo!!!!”; “Tanto un altro paio di anni e andremo a cacciarli con i forconi!!! (intendo i nostri politici)”. Ho detto che era una reazione prevedibile.

Basta che si tocchi, o che si sfiori soltanto, l’argomento dei rom, per suscitare una catena di reazioni palesemente razzistiche. Basta attaccare i rom per essere immediatamente confortati dall’approvazione generale, così come basta difenderli per ritrovarsi disperatamente soli. Essere rom in Italia, oggi, vuol dire essere in pericolo. Esiste una tensione latente, che in qualsiasi momento può esplodere e portare alla caccia al rom. La cronaca degli ultimi anni offre non pochi esempi: dalle aggressioni in seguito all’omicidio di Giovanna Reggiani, nel 2007, ai raid punitivi dell’anno seguente a Ponticelli, Napoli, dopo un controverso tentativo di rapimento di una bambina da parte di una ragazzina rom fino all’aggressione al campo rom delle Vallette, a Torino, nel gennaio del 2012, motivato dalla violenza sessuale ai danni di una ragazzina torinese da parte di due uomini rom. Violenza sessuale mai esistita, come si scoprirà poi: la sedicenne si era inventata tutto per coprire un rapporto sessuale con un fidanzatino italiano.

Quando si parla di rom, non si va troppo per il sottile. Gli organi d’informazione sbattono il mostro in prima pagina, i cittadini indignati recuperano immediatamente fiaccole e bastoni, pronti alla strage. Nel rapporto annuale di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo un paragrafo a parte, nella sezione che riguarda il nostro paese, è riservato ai rom. Non è difficile comprendere le ragioni di questo odio così radicato e così difficilmente scalfibile. I rom rappresentano in Italia una minoranza particolarmente vulnerabile, priva di difese. Pur essendo presenti sul nostro territorio da secoli, i rom non sono ancora riconosciuti come minoranza etnica. Pur essendo stati sterminati insieme agli ebrei nei campi di concentramento, non sono inseriti nella commemorazione annuale della Giornata della memoria. Lo sterminio dei rom – il Porrajmos – è un evento rimosso dalla memoria collettiva. Non se ne parla a scuola, non ne riferiscono i libri di storia. Perché presentare i rom come vittime, ecco, non ci piace. Ci piace immaginarli colpevoli di ogni nefandezza. Ci piace credere che i rom rubano i bambini, ad esempio. Anche se uno studio fatto da ricercatori dell’Università di Verona ha dimostrato che nessuna delle quaranta accuse di rapimento di bambini a carico di rom dal 1986 al 2007 ha portato a condanne: tutte accuse infondate (1). Un caso a dire il vero c’è. Tristissimo. Quello di Angelica Varga, la ragazza del caso di Ponticelli cui ho accennato. Condannata a tre anni e otto mesi quando aveva appena sedici anni in base alla sola accusa dell’unica testimone, la madre della bambina. Nessun altro testimone, nessuna prova. Condannata in base alla testimonianza di quella che, secondo il giornalista Giulio Di Luzio, era la figlia di un camorrista (e la camorra aveva interesse affinché i rom venissero cacciati da Ponticelli) (2).

Tacciono, i giornali, dei bambini rom sottratti dalla polizia e di cui le famiglie non hanno saputo più nulla, come ha denunciato l’europarlamentare Viktória Mohácsi; e tacciono anche sui raid notturni nei campi, dei sequestri di persona, delle violenze dei poliziotti che risultano da testimonianze raccolte dalla stessa europarlamentare. Sono fragili, dunque. E la loro fragilità attira irresistibilmente le tensioni collettive. In particolare nei periodi di crisi economica, quando aumenta la frustrazione, sono un capro espiatorio fin troppo comodo – anche per i politici. Mentre i padroni della finanza continuano i loro giochi sulla pelle di milioni di persone, ci si illude che basti dar fuoco a qualche campo rom perché le cose vadano meglio. “Siate orgogliosi della vostra identità e appartenenza. Sempre nel rispetto delle cultura degli altri, ma con la consapevolezza che avete un patrimonio da far conoscere e da tutelare”, ha detto Boldrini incontrando i giovani rom. Parole che per molti suonano come una provocazione. Identità? Orgoglio? Patrimonio? “No Signora Boldrini hanno un patrimonio da restituire… tutto quello che hanno rubato agli italiani… e non solo a loro…”, ha commentato qualcuno. I rom sono furto, e null’altro. A nessuna cultura si nega il riconoscimento di un qualche valore, tranne che a quella rom.

I furti. Sono davvero tutti ladri, i rom? No, naturalmente. Nessun rom è ladro? Nemmeno. Alcuni rom sono ladri, altri no. Proprio come gli italiani. Quando un italiano ruba, nessuno si sogna di attribuire il suo furto alla cultura italiana, come invece accade con i rom. E nessuno si sogna di considerare corresponsabile tutta un’etnia per le colpe di uno solo. C’è una lettura della realtà rom che può aiutarci a superare qualche pregiudizio, e consiste nel mettere da parte, per un momento, l’etnia, e considerare invece la classe sociale. A quale classe sociale appartengono i rom? Non sono borghesi, naturalmente; ma non sono nemmeno proletari. Sono sottoproletari, appartengono a quel “proletariato straccione” (Lumpenproletariat) costituito da disoccupati o sotto-occupati di cui parlava Marx. Persone al di fuori del ciclo produttivo che vivono di espedienti, privi di coscienza politica.

Ora, proviamo a leggere la realtà rom in quest’ottica. Confrontiamo i rom con un certo sottoproletariato napoletano o più in generale meridionale, ad esempio. Ci sono differenze? No. I mali sono gli stessi, i tentativi di porvi rimedio anche. Sia chiaro: non intendo, ora, criminalizzare il sottoproletariato per assolvere i rom. I crimini dei sottoproletari sono, spesso, il risultato di una prolungata indifferenza di chi dovrebbe curare il bene comune e invece fa gli interessi di chi ha di più. Interi quartieri abbandonati a sé stessi, tranne che nei periodi elettorali, quando torna comoda l’esistenza di una massa di disperati il cui voto si può acquistare con qualche pacco di pasta. Bambini che crescono in case fatiscenti, a volte in vere e proprie grotte senz’aria né luce, mentre con la compiacenza delle amministrazioni si costruiscono nuovi palazzi – case che i poveri non vedranno mai. Servizi sociali inesistenti, mentre si moltiplicano i centri commerciali. Ed uno Stato che è sempre pronto a sperperare per il carcere i soldi che non ha voluto investire per aiutare i poveri a vivere più dignitosamente.

Ma c’è ancora una differenza, qualcosa che fa del rom un sottoproletario sui generis. Il sottoproletariato, pur vivendo ai margini del sistema economico, ne condivide la logica, i rituali, i miti, le narrazioni. Nel sistema capitalistico il sottoproletario ha gli stessi desideri del proletario e del borghese. Come loro, è principalmente un consumatore. Ogni status symbol è da lui avidamente desiderato, quando non acquistato contraendo debiti. Pur disponendo di poco denaro, non disconosce la centralità assoluta del denaro nella vita individuale e comune. Il suo modo di vivere, se potesse, sarebbe esattamente lo stesso di quello di un borghese. Non così i rom. In una società capitalistica i rom vivono in modo non capitalistico. Non sono consumatori, come dimostra il fatto che nessun pubblicitario li ha mai considerati un target valido per qualche prodotto. Non condividono i valori dominanti della carriera, della ricerca dello status, dell’affermazione personale. Soprattutto, non condividono l’individualismo, che è essenziale per il capitalismo, e la mercificazione di ogni cosa. In un campo rom le relazioni umane sono ancora più importanti del denaro. La vita al campo si regge sullo scambio di prestazioni gratuite, sulla solidarietà e il sostegno reciproco. E’ questo legame che i rom considerano la loro più grande ricchezza – chiedendosi, ad esempio, come facciano i gagè, i non rom, ad abbandonare i genitori anziani in un ospizio. Ogni uomo, ogni donna ha qualcosa da insegnare; e così ogni popolo. Anche il popolo rom. E quello che ha da insegnare – quello che noi possiamo imparare – è forse qualcosa di molto importante: come sopravvivere al capitalismo ed alla sua universale mercificazione.  

Note  
(1) S. Tosi Cambini, La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007), CISU, Roma 2008.
(2) G. Di Luzio, Brutti, sporchi e cattivi. L’inganno mediatico sull’immigrazione, Ediesse, Roma 2011.

Editoriale per Stato Quotidiano

“Mattinata era una farfalla”. Una storia di vita

Nelle scienze umane le storie di vita sono uno strumento fondamentale per indagare a fondo il cambiamento sociale. Come è cambiata nel tempo la vita delle persone? Quali erano i valori condivisi qualche decennio fa? Quali le condizioni di vita? In che modo la vita dei singoli si lega ai grandi eventi storici? Per rispondere a queste e ad altre domande si può chiedere alle persone anziane di raccontare semplicemente la propria vita, con un tipo di intervista che lascia grande libertà all’intervistato, con domande che servono solo a stimolare il racconto ed a far sì che non tralasci punti importanti.
Poiché queste storie di vita sono anche un modo per ascoltare la voce degli anziani, che nel nostro mondo si avverte sempre più debolmente, ho spesso proposto ai miei studenti del liceo “Roncalli” di Manfredonia di intervistare i loro nonni, nell’ambito del corso di Metodologia della ricerca. Il risultato è spesso una narrazione di grande interesse, anche piacevole da leggere, uno spiraglio su un passato che è dietro l’angolo, ma che sembra dimenticato. Dopo il boom economico il nostro paese ha rimosso letteralmente il suo vissuto di povertà, di sofferenza, di emigrazione; gli anziani sono diventati dei testimoni scomodi di un mondo con cui non vogliamo più avere a che fare.[read more]

Qui di seguito propongo una di queste narrazioni. Si tratta della storia di vita di Lorenzo di Mauro, nato a Mattinata nel 1934. Ad intervistarlo la nipote Giusy Bisceglia.

Puoi parlare dei primi ricordi, l’infanzia, la famiglia, i giochi, la scuola…?
Non esistevano… Non gioco e no niente… Che gioco dovevamo avere prima? Che ci stava? Non ci stava niente. Non ci stava manco la sedia.

La scuola non l’hai frequentata?
Un anno e mezzo di scuola ho fatto. Il motivo perché è morto mio padre. Mio padre è morto a trentun anni, io non ho potuto andare a scuola per motivi di soldi, che non ci stava la lira, non ci stava niente, mia madre era sola, perciò non ho potuto andare a scuola, sono stato sotto a un padrone a lavorare, perciò ho dovuto rifiutare la scuola per andare a lavorare, perché non c’era niente da mangiare, non avevo dei genitori, mia madre era sola, e mia madre per darci a mangiare a noi andare a lavare della roba per guadagnare qualcosa.

Come vestivi da giovane?
Da giovane mancava tutto, mancavano i divertimenti, non ci stava niente, da giovane posso dire una cosa io, che i divertimenti non esistevano proprio, non esistevano proprio i divertimenti, e io posso dire che in quell’anno e mezzo di scuola che ho fatto sono stato vestito da balilla, nel periodo fascista, tutto vestito nero, però… si stava bene come ordine, però il resto mancava tutto, non esisteva niente, esisteva molta povertà. Nel ’43 è stata la guerra e non ci stava niente da mangiare, ma niente di niente, e quando si comprava un po’ di grano, il grano, si metteva a cuocere il grano, si metteva un po’ di zucchero sopra e mangiavano il grano, perché mancava il pane, mancava la pasta, mancava tutto.
La sera quando andavo a letto non potevo dormire perché la pancia era vuota, avevo fame, non potevo dormire. E comunque la vita di prima non facciamo cambio con quella di adesso, perché adesso, adesso si butta il pane, ci siamo dimenticati il passato, però adesso il pane si butta perché c’è, ma prima mancava tutto tutto tutto. Durante la guerra non ci stava niente.

E tuo padre come è morto?
Mio padre è andato sotto le armi, dopo di cinque giorni che è venuto da sotto le armi l’ha preso un male di pancia e è morto con l’appendicite, il 1936 è morto, io avevo due anni. Quando sentivo di chiamare papà, tatà si diceva allora, agli altri bambini, io chiamavo pure io, e chiamando piangevo. Io vedevo che mia madre piangeva e dicevo “ma’, perché piangi” e mamma non diceva a noi “è morto tuo padre”, visto che noi ci siamo fatti un po’ grandi lo abbiamo capito, no? E comunque per me con quattro fratelli la vita è stata dura, siamo stati costretti sempre a lavorare, da piccoli, all’età di nove dieci anni stavamo già sotto i padroni a lavorare. E come andavo a scuola, se dentro la mia casa mancava tutto? Non soltanto dentro la mia casa, allora mancava dappertutto, allora le scuole le facevano quelli che avevano un po’ di soldi.

E i dottori non potevano curare l’appendicite di tuo padre?
No, è stato un dolore… così… subito, perché con l’appendicite a peritonite prima si moriva. Che poi il dolore che è venuto a mio padre è stato di sera, quando usciva la processione a Mattinata l’hanno operato, al ritorno della processione mio padre è morto.
Quando il dottore l’ha operato ha detto alla mamma, alla mia nonna, di andare a Monte Sant’Angelo a prendere il dottore, e mancavano pullman, non è che stava l’aereo come adesso che per prendere una medicina vai a Roma a prenderla, mancava tutto, e così è uscito la processione e l’hanno operato, e al ritorno della processione è morto, aveva trentun anni.

Ma parecchi morivano per l’influenza, anche?
Sì, sì, perché mancava tutto, mancavano i dottori, mancava… non è che ci stava l’ospedale come adesso, che adesso, che adesso un piccolo male e subito c’è il dottore, prima si faceva in casa, l’hanno operato in casa a mio padre, senza anestesia, niente. Si metteva la pentola dell’acqua bollente sul fuoco, si metteva la forbice dentro, gli accessori dentro, e il dottore operava. Tra parentesi a Mattinata a quell’ora ne sono morti tre o quattro, tanti anni fa, e comunque adesso come dottori, come ospedali, cose… adesso stiamo bene, ogni minima cosa siamo nell’ordine di essere aiutati, ma prima mancava tutto tutto tutto.

Avevi amici?
Io? Sì, ma prima uno come faceva a tenere gli amici, perché non è… uno può tenere gli amici se va all’asilo, e l’asilo, c’hai gli amici se uno va a scuola, e durante la scuola, quando esci dalla scuola c’hai gli amici, ma prima le scuole chi le faceva?

Andavi a lavorare, non potevi trovare qualche amico?
Sì, sì, mentre che lavoravi tutt’al più potevi avere un amico, due amici, tre quattro persone durante il lavoro, ma non come adesso, adesso c’è il pallone, si sente la partita al pallone, esci in piazza e trovi a centinaia gli amici, ma prima non esisteva proprio questo qua.

Tua moglie è stata la tua prima ragazza?
Sì, sì, mia moglie è stata la prima, la prima, e se ti dico perché mi sono sposato piccolo, perché ci siamo sposati piccoli, perché dentro a casa nostra, povera, non è che aspettavano che tu stavi fino a trent’anni e avevi la possibilità di avere il corredo, eh, soltanto il vestito che portavi addosso, perché mancavano i soldi per fare il corredo, tra parentesi io mi sono sposato perché… eh, la mia avventura è stata lunga, mio padre è morto a trentun anni, io avevo la mamma, e mia madre s’è sposata di nuovo, ha avuto tre figli, e cinque ne aveva il primo marito, e quattro ne eravamo noi, e due loro, quattordici persone, perciò io ho passato una vita in mezzo a quattordici persone, dentro una casa, e non è che ci stavano quattordici piatti, come adesso, un piatto ciascuno, si metteva in mezzo un piatto soltanto e si mangiava dentro quel piatto, quello che ci stava, e dovevi mangiare sempre al posto tuo, no che ti dovevi spostare dal posto tuo, ti dovevi mettere vicino al posto tuo con la forchetta in mano, dovevi mangiare sempre vicino al tuo posto, e non è che eri sicuro di mangiare, perché parecchie volte la pentola bolliva e mancava la roba da mettere dentro, l’acqua bolliva e mancava la pasta, mancava la farina, e io oppure qualche altro mio fratello andavamo al negozio, dicevo “signo’, ha detto mia madre mi puoi dare due chili di farina, che poi quando fa i soldi li porta”, e ti rispondeva “dì a tua madre che mi deve pagare ancora un chilo, due chili di prima”, perché non ci stava niente, insomma, la vita di prima è stata una vita… però una cosa era bella prima, che ci stava il rispetto familiare, un grande rispetto, quello che non c’è adesso, perché adesso sorelle e sorelle non si parlano, fratelli e fratelli non si parlano, un figlio se deve stare un mese senza andare a casa dei genitori, ci sono, invece prima no, prima i genitori non venivano lasciati soli, quel pezzettino di pane che ci stava veniva diviso tutti uniti, e se andava a terra un pezzetto di pane, quando si prendeva il pane si baciava, e dopo lo mettevi in bocca, invece adesso il pane lo trovi nei secchi della spazzatura, lo trovi per terra, nemmeno i cani lo mangiano, e io quando vedo queste cose qua, mi fa male il cuore veramente, e io lo prendo il pane e lo cerco di proteggere, di mettere da qualche parte, invece ci sono bambini che adesso il panino per terra lo prendono a calci, e non lo mangiano nemmeno i cani, perché ce n’è.

E’ stato difficile trovare lavoro?
Ecco, mo ti dico questo qua. Venticinque febbraio ’57 sono sposato, di giovedì, dopo di due settimane ho avuto la chiamata per partire all’estero, sono andato in Austria, e non avevo nemmeno il bagaglio, la valigia, da mettere la roba dentro, sono andato al negozio, dal tabaccaio, l’ho presa la valigia e… che poi quando sono andato là l’ho mandato i soldi della valigia, e mi è stato così duro di lasciare mia moglie due settimane sposata, quando sono arrivato a salire sulla montagna, mi sono girato dietro e ho guardato Mattinata. Ho pianto.
Ho pianto veramente. Poi sono andato a Verona, sono stato cinque giorni a Verona, poi sono partito in Austria, e andavo a lavorare dentro una fabbrica di marmo, con gli stivali ai piedi, con i guanti alle mani, e dentro una baracca, a dormire dentro una baracca, che poi piano piano ci hanno dato la sistemazione buona, e poi ho fatto sei anni ancora all’estero in Germania, sono stato ancora sei anni all’estero in Germania, e sono stato uno che… sempre attaccato alla famiglia, che anche in Germania di fronte al letto dove dormivo avevo il quadro con tutta la famiglia, di mia nonna, di mia moglie, dei figli e di tutto, tra parentesi all’estero non è che era bello starci, lontano dalla famiglia è la più cosa brutta di stare lontano dalla famiglia.
Dunque, quando sono partito in Germania io ero un operaio comune, ho fatto il contratto da manovale meccanico, e io non sapevo tenere nemmeno il martello in mano, sono andato nella fabbrica, quattro settimane nel reparto solo a guardare, e piano piano, piano piano, piano piano ci ho messo delle mani, ed ho imparato tante, tante cose, a distanza di un anno io lavoravo come i tedeschi, e mi davano la busta paga identica come i tedeschi.

E’ stato difficile imparare la lingua?
Per imparare la lingua… se uno c’ha tante scuole, non ci fa tanta attenzione, se uno non c’ha scuole, c’ha qualcosa così, ci fa tanta, tanta attenzione a imparare. Io ho imparato la lingua tedesca… un anno sono stato in Austria, e in Austria parlano il tedesco… quando sono partito in Germania mi hanno chiesto chi sa parlare il tedesco, e io perché sono stato già un anno in Austria, sapevo qualcosa, e sono andato a lavorare dentro questa fabbrica qua, e piano piano piano piano l’ho imparato, ma bene bene bene bene, che quello che mi chiedevano sapevo rispondere tutto, durante il lavoro lo stesso, tra parentesi… non dico il cento per cento, ma il settanta per cento, lo so parlare.
E poi dopo di tre anni che ho lavorato in fabbrica ho lavorato tre anni alla posta, all’ufficio postale, e prima di assumermi a lavorare mi hanno domandato alcune domande in tedesco, e io gli ho risposto bene, mi hanno preso a lavorare, ho lavorato tre anni all’ufficio postale a Stoccarda… tra parentesi mi sono trovato bene, ho imparato il tedesco, ho… ti so rispondere in tedesco anche quando uno sogna la notte… ti dico che ancora adesso che sono dal ’65 che sono tornato a casa lo so bene bene bene, non mi sono dimenticato di niente, perché ho lavorato per quasi vent’anni in campeggio pure, in campeggio ci stanno i tedeschi, ho avuto sempre contatti a parlare, a parlare, a parlare… in conclusione dei fatti il tedesco è difficile, però se uno c’ha la volontà, impara.

Quando sei tornato dalla Germania le condizioni di vita erano migliorate?
Sì, erano migliorate, ho comprato la casa, ho comprato un po’ di terreno, ho fatto tutto per tutto per i figli, ci siamo voluti sempre bene, siamo una famiglia unita, e tra parentesi la più che ho avuto troppo stretta è stata mia moglie, perché non ci siamo mai abbandonati, io le mandavo i soldi e lei li sapeva gestire.

Dopo la nascita dei figli ci sono state ancora difficoltà, altri sacrifici?
No, sacrifici non ce ne sono stati, perché si dice che nella famiglia numerosa ti aiuta Dio, però quello che mi ha lasciato perplesso è che io mi sono sposato, due settimane e sono partito in Germania, ritorno dopo un anno e trovo un figlio, a Matteo, in due settimane abbiamo costruito, e sono partito, dopo un anno vengo a casa e trovo un bambino, e il bambino quando mi ha visto prendeva paura di me, nel letto, diceva “questo qua chi è?”, e è stata una cosa dolorosa proprio, perché la lontananza dei figli… e poi venivo sempre in ferie nello stesso periodo e ho avuto cinque sei figli, sempre nella data di gennaio sono nati… Cinque, cinque figli tutti e cinque a gennaio.

Com’era Mattinata una volta?
Mattinata nel periodo della guerra era bella, era una farfalla come paese, era troppo bella, a Mattinata s’è costruito nel periodo quando hanno emigrato in guerra, e s’è costruito un po’ di Mattinata, s’è fatto più grande, poi quando che hanno cominciato a migrare al Belgio, in Francia e in Germania, Mattinata s’è sviluppata almeno almeno per dieci volte di quando era prima, perché emigrando i soldi si sono guadagnati e ognuno s’è fatto la casa, chi s’è fatto la casa, s’è fatto il terreno, c’è stato un miglioramento di vita, però adesso, adesso, non è più come una volta, adesso la casa dei giovani non la fa più nessuno, perché la Germania è finita, la Francia è finita, tutte le nazioni che abbiamo emigrato lavoro non ce ne hanno nessuna nemmeno per conto loro, e tra parentesi i giovani di oggi per traversare questa, questo passaggio qua è dura, tra parentesi si sposano anche di meno, adesso.

Ora si usa la convivenza…
Ecco. Perché… manca la possibilità, manca il lavoro, manca tutto… sì, fanno le scuole, ma anche che fanno le scuole, quando uno è fatto ragioniere, è fatto maestro di scuola, non prende il posto nemmeno a quarant’anni… e non è che un maestro può migrare in Germania, che ci va a fare in Germania, che in Germania lavoro non ce n’è più, deve emigrare al nord, e al nord se trova un posto di lavoro, se no… eh.. oggi è critica, stiamo meglio come mangiare, assistenza e tutto, però stiamo attraversando pure un periodo non tanto bello.

Quanti figli hai?
Ce ne ho nove. Per fortuna i figli che c’ho tutti otto sono sposati e uno non ancora, che i figli non è che c’hanno nove figli come ho fatto io, massimo due, per ogni figlio, tra parentesi tutti i nipoti ne sono diciassette, tra parentesi se avessero fatto nove come ho fatto io avrei ottanta nipoti, i figli adesso non si fanno più per la paura di portarli avanti, perché oggi i figli costano, anche allora costavano i figli, ma allora allora era un altro…

Ma non costavano di più i figli allora?
No no, a tenere la famiglia numerosa per me è stato… niente, ho attraversato una vita tranquilla, per nove figli, ti dico che io mi sono trovato bene, però sono stato un grande lavoratore, ho sempre lavorato, i figli sono stati sempre uniti a noi, hanno lavorato anche loro, portando i soldi a casa.

So che ti piace vedere i telegiornali, soprattutto la politica. Perché?
Vedi, io… se devo dire la verità… perché ho passato… il passato quando non esisteva pane, quando non esisteva niente, ho passato una vita brutta, che il padrone ha fatto sempre il suo interesse, ma io come operaio con i padroni so’ stato sempre un collaboratore, che collaboravo coi padroni, ma i padroni cercavano di fare sempre a non pagarmi, e sono stato sempre un sindacalista, ma sindacalista sono stato, che mi piaceva fare il mio dovere e pretendevo anche quello che mi spettava, tra parentesi adesso mi piace a sentire la politica, mi piace a sentire la politica, io no… se sto a Mattinata, se sto in casa, lo sento dieci volte al giorno il telegiornale, che mi piace a sentire, perché delle cose che stanno accadendo adesso, dei politici, sono poco quello che fanno nei riguardi del basso popolo, pensano sempre per i grandi.[/read]

Un razzista a 5 stelle*

Alcuni militanti del Movimento 5 Stelle di Foggia hanno denunciato, con un video, le disastrose condizioni igieniche del campo Rom di Arpinova, nel quale vivono anche otto famiglie foggiane.
In seguito alla denuncia, il sindaco ha annunciato sulla sua pagina Facebook un intervento di pulizia straordinaria:

Come era prevedibile, in una città in cui razzismo ha solide basi, si scatena la protesta dei bravi cittadini per quei soldi impiegati per i Rom, mentre ci sono ben altre priorità.
Tra gli altri, si distingue questo tizio:

Ora, per chi avrà votato questo soggetto? Ipotizzo:


A quanto pare ci ho preso:
Lo scambio seguente tra Vincenzo Rizzi, attivista del Movimento 5 Stelle da tempo impegnato nella difesa dell’ambiente, è piuttosto istruttivo:
Sono ben lontano dal ritenere che il Movimento 5 Stelle sia un movimento razzista; ma non è nemmeno, come sostiene Vincenzo Rizzi, un movimento apertamente antirazzista. E’ un movimento che sul tema dei diritti civili non ha preso posizioni chiare ed inequivocabili. Negli scritti di Grillo e Casaleggio si trovano spunti apprezzabili, ad esempio sulla condizione carceraria, ma al riguardo il programma del Movimento 5 Stelle è reticente. Grillo e Casaleggio hanno voluto che il loro movimento fosse post-ideologico, al di dà delle distinzioni tradizionali tra destra e sinistra (se un’ideologia c’è, è un’ideologia procedurale: l’ideologia della Rete come luogo e strumento della democrazia diretta). Ciò ha consentito al M5S di prendere voti tanto dai delusi dalla sinistra, quanto da destra. La conseguenza è questa: un movimento che ha imbarcato gente come questo razzista che vuole cacciare i Rom. Adesso mi pare che il movimento non abbia che due vie: o prendere posizione netta sui temi dei diritti civili, e perdere l’appoggio di razzisti ed altra gente di destra (chi è razzista in genere è anche poco sensibile, diciamo così, ai diritti dei detenuti, eccetera), oppure fare una politica che, per evitare la scissione e la perdita di consenso, risulterà inevitabilmente bloccata su un gran numero di questioni di importanza cruciale per la nostra democrazia.
* Il titolo iniziale di questo post era Razzisti a 5 stelle. L’ho modificato perché fuorviante: non sostengo affatto che il Movimento 5 Stelle sia un movimento razzista, ma che abbia imbarcato alcuni razzisti.

Beppe Grillo, il parresiaste

Beppe Grillo

Non occorre essere dei fini politologi per capire le ragioni della vittoria di Beppe Grillo: basta chiederlo a chi l’ha votato. Perché chi ha votato Grillo, a differenza di chi ha votato Berlusconi, non si nasconde; al contrario: sembra orgoglioso della sua scelta. E chiedete, dunque: perché avete votato per Grillo? Io ho ricevuto il più delle volte una risposta di questo tipo: “perché Grillo è uno che dice le cose come stanno”. Beppe Grillo è il comico che, dopo aver fatto ridere come tanti altri comici, ha cominciato a diventare scomodo, ed è stato espulso dal sistema. Anche se è scomparso dagli schermi televisivi, la gente si è ricordata di quel comico lì, quello che dava fastidio. Ed ora si è accorta di aver bisogno di lui. Perché? I Greci avevano il concetto di parresia, la capacità di dire la verità, di esprimersi liberamente di fronte al potere, che consideravano essenziale per la democrazia. Il concetto è presente anche nel Nuovo Testamento, quale franchezza nell’annuncio del Vangelo da parte degli apostoli, anche a costo della persecuzione. Mi pare che si possa interpretare in questo modo l’esito delle ultime elezioni. Gli italiani, estenuati da un potere che si è alimentato e sostenuto con la dissimulazione, l’inganno, la segretezza, la distorsione sistematica della verità, hanno scelto la figura del parresiaste, del comico scomodo che dice al re che è nudo. Il fatto che sia un comico è un punto a suo favore: è estraneo al mondo politico, considerato una casta indistinta che persegue scopi comuni, al di là delle differenze di ideologia e di bandiera. E’ vero che un leader politico rappresenta sempre una proiezione, l’incarnazione di un ideale umano condiviso. Mandando al potere Berlusconi, gli italiani hanno dato forma ad una delle loro anime – quella lazzarona, furba, cialtrona, maschilista, sostanzialmente mafiosa. Se la mia analisi non è errata, Grillo incarna il contrario: colui che si oppone al potere in nome della verità, e dunque esprime istanze ideali ed etiche (ed anche, certo, la rabbia trattenuta troppo a lungo contro il triste spettacolo della politica, il vaffanculo liberatorio indirizzato tanto alla destra quanto alla sinistra).

Questa esigenza spiega, forse, il voto di pancia di molti, ad esempio di non pochi pensionati e di molti giovani al primo voto. C’è poi il voto più meditato di quelli per i quali Grillo non è il comico cacciato dalla televisione, ma il blogger influente che ha creato un movimento in grado di controllare il potere.
In un sistema democratico il potere è sempre sotto controllo, e questo controllo impedisce che degeneri in dominio. In Italia non è mai stato così. Era fuori controllo il potere democristiano, che viveva di segretezza, di trame oscure, di servizi segreti deviati, di stragi di Stato, di accordi con la mafia. La breve stagione di Tangentopoli ha dato l’illusione che la magistratura potesse controllare il potere, come previsto dalla Costituzione. Ma le cose sono andate diversamente. Nella Seconda Repubblica il potere è stato fuori controllo non meno che nella prima, anche se in modo diverso. Si è posto fuori dal controllo in due modi: in primo luogo grazie ai mass media, che in un sistema democratico funzionante sono, insieme alla magistratura, la principale struttura per il controllo del potere, e che sono diventati invece uno strumento al servizio del potere per la manipolazione delle masse; in secondo luogo impedendo alla magistratura di esercitare la sua funzione attraverso le leggi ad personam. Chiunque avesse a cuore le sorti della nostra democrazia avrebbe dovuto considerare quale primo punto dell’agenda politica il tema del controllo del potere. Altri sono stati invece i temi imposti all’opinione pubblica dai mass media controllati dalla politica: quelli della sicurezza e dell’immigrazione in primis.
Oggi le forze politiche uscite sconfitte dalle ultime elezioni – in sostanza tutte, tranne il Movimento 5 Stelle – evocano foschi scenari: la nostra democrazia, che ha resistito (ma ha davvero resistito?) alla mafia democristiana, alle ruberie socialiste ed alla telecrazia berlusconiana, sarebbe ora in crisi per i vaffanculo di Beppe Grillo. Non manca la reductio ad Hitlerum: su Facebook gira un falso discorso di Hitler di cui si rimarca la pretesa somiglianza con quelli di Grillo. Sarebbe interessante compiere la stessa operazione con (l’ex) papa Benedetto XVI (Hitler non diceva Gott mit uns?) o con Gandhi (che in Hind Swaraj dice tutto il male possibile del Parlamento).
Piaccia o meno – ed ho appena spiegato perché dovrebbe piacere, e molto – con il Movimento 5 Stelle il tema del controllo del potere conquista il primo posto nell’agenda politica. L’idea di Grillo e Casaleggio è che il potere ha bisogno di un contropotere che lo controlli e lo tenga nei suoi limiti. Questo contropotere non è rappresentato né dai mass media né dalla magistratura; è rappresentato dalla Rete. I mass media si possono controllare con il denaro, la magistratura con il denaro e le leggi ad personam. Il Web no: sfugge ad ogni controllo. L’esito fallimentare delle avventure in rete di politici come Clemente Mastella o Romano Prodi dimostra l’impossibilità di usare la rete come uno strumento. La rete è per sua natura orizzontale, non tollera il “lei non sa chi sono io”. L’onorevole che apre un suo profilo Facebook o un suo blog deve dialogare a tu per tu con i suoi lettori. Non esistono autorità, VIP, sue santità in rete: lo dimostra (anche tristemente) l’esito infelice del profilo Twitter di Benedetto XVI. In rete si va per discutere, non per pontificare. E chi pontifica presto si rende ridicolo e viene espulso.
I nuovi eletti al Parlamento del Movimento 5 Stelle promettono di essere politici di nuova specie, non onorevoli ma cittadini che rispondono ai cittadini attraverso la rete. Lo saranno davvero? Difficile dirlo, così come è difficile dire se funzionerà realmente – anche tecnicamente – il sistema di democrazia digitale legato al blog di Beppe Grillo. Soprattutto, occorrerà vedere in che modo l’aspetto orizzontale, partecipativo ed aperto del Movimento (ben espresso dal motto “uno vale uno”) possa conciliarsi con la presenza del leader. In un articolo di tre anni fa scrivevo:

O i grillini sono seguaci del guru Grillo, e lo applaudono anche quando insulta Rita Levi Montalcini o rimpiange la sacralità dei confini nazionali contro l’invasione dei Rom, oppure sono persone che discutono apertamente ed orizzontalmente dei problemi comuni. È evidente la grottesca contraddizione di un movimento di persone che vogliono pensare con la propria testa, e al tempo stesso dipendono dalle parole d’ordine, dalle rivelazioni, persino dagli umori del loro leader. È una contraddizione che non può durare: o il movimento finirà per emanciparsi da Grillo, e farà politica autentica (esito improbabile, benché auspicabile), oppure finirà per essere schiacciato dalla figura ingombrante del suo stesso fondatore (1).

In un libro pubblicato successivamente a quell’articolo, Grillo e Casaleggio sostengono che per la Rete il concetto di leader “è una bestemmia”, e che esistono solo “portavoce delle istanze dei cittadini” (2). Nemmeno Beppe Grillo, dunque, è nulla più che un semplice portavoce. Ma le cose al momento non stanno così. Grillo è, che lo voglia o no, il leader del Movimento; e la sua opinione, che gli piaccia o meno, vale più di quella degli altri. Nel forum del Movimento non è infrequente il ricorso all’ipse dixit, per mettere a tacere chi la pensa diversamente.
C’è poi il problema culturale. Abbiamo alle spalle (sono in vena di ottimismo) decenni di politica clientelare. I politici hanno corrotto profondamente la fibra morale del paese e degradato la politica fino a farne un miserabile mercanteggiare. Uscirne sarà impresa meno facile del previsto. Ecco un messaggio comparso qualche minuto fa nel forum del Movimento:

carissimoBeppe io ti ho votato con il cuore credimi posso dimostrarlo ,.ti chiedo un favore enorme io ho perso il lavoro da 2anni sono sposato con due figli.ho 47 anni e 33 anni di contributi  non riesco a trovare nulla come dobbiamo vivere visto che siamo totalmente abbandonati da tutti specialmente dai parenti grazie 

Per chi avrà votato, in passato, questo disoccupato? Si badi al “posso dimostrarlo”. Votare per un politico e dimostrarlo è il meccanismo del voto di scambio, vale a dire una delle infinite porcate che hanno violentato la nostra democrazia. Per quest’uomo votare il Movimento 5 Stelle non ha comportato in alcun modo un cambiamento di logica: è ancora interamente immerso nella logica clientelare-mafiosa. La domanda è: quanti hanno votato il Movimento 5 Stelle mossi dalla stessa logica? Quante richieste di questo genere arriveranno a Grillo ed ai grillini? E sapranno spiegare a quest’uomo che la politica è un’altra cosa?
C’è poi la questione dei diritti civili. Nel programma del Movimento 5 Stelle (più un elenco di cose da fare che un programma argomentato) mancano del tutto questioni come le unioni di fatto, i matrimoni omosessuali, il testamento biologico, l’integrazione dei Rom, la cittadinanza ai figli degli immigrati e l’immigrazione in generale, eccetera. Su alcune di questi punti Grillo si è espresso: ha parlato ad esempio di “confini sconsacrati” dall’immigrazione selvaggia e della proposta “senza senso” di dare la cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati in Italia. Posizioni che manifestano un limite reale, politico ed anche umano, di Grillo. Poiché Grillo non è il Movimento, di cui non è nemmeno il leader, bisognerà vedere come e quanto il Movimento riuscirà ad aprirsi ai diritti civili (una interessante apertura sullo ius soli viene ad esempio dal Movimento 5 Stelle di Monza).

(1) A. Vigilante,  Il problema del pubblico, Dewey e Beppe Grillo. Limiti e contraddizioni del guru digitale in Diogene. Filosofare oggi, n. 20, 2010.
(2) B. Grillo, G. Casaleggio, Siamo in guerra. Per una nuova politica, Chiarelettere, Milano 2011, p. 11.

Vegetarianesimo e demitarianism

La copertina del rapporto
Our Nutrient World

Chi diventa vegetariano (o vegano) lo fa per une delle tre seguenti ragioni: perché ritiene che la vita non umana abbia valore, e che sfruttare, torturare e distruggere miliardi di vite animali sia un crimine; perché considera la dieta carnea dannosa per la salute; perché pensa che la dieta ricca di proteine animali dei paesi ricchi sia una delle cause della fame diffusa nei paesi poveri. La prima ragione è etica, la seconda salutistica, la terza politica. Nel primo caso si tratta di fare qualcosa per gli animali, nel secondo di fare qualcosa per se stessi, nel terzo di fare qualcosa per l’umanità. Naturalmente, una ragione non esclude l’altra, e si può essere vegetariani al tempo stesso per ragioni etiche, salutistiche e politiche.

Delle tre giustificazioni, la prima è probabilmente quella più forte per chi è vegetariano e più debole per chi, essendo vegetariano, cerca di convincere altri a fare la stessa scelta. Percepire lo scandalo della violenza sugli animali è una sorta di rivelazione improvvisa, dopo la quale non si può restare come prima. Ma si tratta, appunto, di una illuminazione. Se qualcuno considera gli animali come delle semplici cose, che possiamo usare a nostro piacimento, o ritiene che siano stati creati da Dio per noi (è un argomento particolarmente puerile, ma molto diffuso), c’è poco da obiettare. Difficile è dimostrare un valore a chi lo nega. Più efficace sembra essere il secondo argomento, poiché siamo in una società fortemente individualistica, in cui molto conta la cura di sé e c’è quasi il mito della salute. Ma molti rifiutano di considerare la salute come il risultato inevitabile di uno stile di vita sano: ci si affida piuttosto all’azione salvifica del farmaco ed all’azione demiurgica del medico. La salute è una cosa che viene ristabilita dallo specialista, quando occorre. E’ appena il caso di notare che si tratta di una illusione: e in genere lo si scopre quando è troppo tardi. Efficace può essere, invece, il terzo argomento, poiché quello della vita umana (di ogni vita umana) è un valore unanimemente riconosciuto, e il diritto alla vita è sancito dalla Dichiarazione dei diritti umani. Il vegetarianesimo come scelta di rispettare la vita non umana ha un carattere supererogatorio, va cioè al di là di ciò che richiede e impone la morale corrente; il vegetarienesimo come scelta salutistica comporta un imperativo ipotetico in senso kantiano (se vuoi stare in salute, allora è meglio non mangiare carne), e dunque non è vincolante per tutti; il vegetarianesimo come scelta politica può essere considerato invece moralmente obbligatorio, poiché quello di non uccidere (esseri umani) è un imperativo categorico, un obbligo al quale nessun essere umano può sottrarsi.
Resta da dimostrare che mangiare carne significhi uccidere, che vi sia un nesso causale tra l’alimentazione carnea dei paesi ricchi e la fame nei paesi poveri. Gli studi non mancano: da Diet for a Small Planet di Frances Moore Lappè (1971) a Ecocidio di Jeremy Rifkin (1992) ed oltre. Una conferma interessante giunge da una recente ricerca commissionata dall’United Nations Environment Programme (UNEP) sulle cause e le conseguenze dell’inquinamento ambientale. Nel rapporto finale, intitolato Our Nutrient World. The Challenge to Produce More Food and Energy With Less Pollution la riduzione (volontaria) del consumo di proteine animali è indicata come uno dei passi necessari per diminuire l’inquinamento ed aumentare la disponibilità di cibo per tutti:

People can lower the consumption of animal protein by eating less frequent meat and dairy. In some coun-tries people are being mobilized to have a “meat-free” day.
Another important route is the reduce portion size. A third way is to shift to poultry meat, as this is usually as-sociated with less pollution than pork and beef.
Finally, approaches have been encouraged that foster a middle path between typical meat consumption in the developed world and vegetarian diets. In the “demitar-ian” approach the aim is to consume half the normal local amount of animal products. (1)

La proposta demitariana, quale soluzione di compromesso tra la dieta carnea e la soluzione vegetariana, è stata avanzata per la prima volta nella Barsac Declaration, esito di un workshop del gruppo di lavoro Nitrogen in Europe (NinE) sulle possibilità di contribuire con il proprio stile di vita alla riduzione delle emissioni di azoto nell’ambiente. Nella dichiarazione si legge:
a. For many developed countries, individuals eat more animal products than is necessary for a healthy balanced diet, so that, for many people, reducing per capita meat consumption has the potential to give significant health benefits;
b. In many developing countries, increased nutrient availability is needed to improve diets, while in other developing countries, per capitaconsumption of animal products is fast increasing to levels which are less healthy and environmentally unsustainable;
c. For the reasons outlined above, reducing per capita consumption of animal products in the developed world has the potential to improve nutrient use efficiency, reduce overall production costs and reduce environmental pollution;
d. While vegetarianism represents an option for some, this remains an unwanted ambition for many people;
e. There is a need to encourage options of medium ambition, making it easier for those who choose to reduce the consumption of animal products. (2)
Questa soluzione di compromesso appare inaccettabile a chi sceglie il vegetarianesimo per ragioni etiche: sarebbe come dire “ammazzate con moderazione”. Ci sono però due aspetti estremamente interessanti di questa impostazione del problema. Il primo è che una riduzione del consumo di carne appare ragionevole a molte persone e non richiede alcuna scelta di fondo: c’è dunque da sperare che, intervenendo con campagne di sensibilizzazione, il demitarianism si diffonda e cambi in modo significativo lo stile alimentare dei paesi ricchi. Il secondo è che, se non si tratta più di difendere la vita gli animali, il cui valore è percepito solo da alcuni, ma di combattere l’inquinamento, la crisi ambientale e la fame nei paesi poveri, allora c’è un preciso obbligo da parte delle istituzioni di intervenire per operare favorire questo cambiamento. Mi sembra che sia questa la strada da percorrere anche per chi, come chi scrive, ritiene che la vita non umana abbia valore intrinseco e che lo sfruttamento industriale degli animali sia un intollerabile scandalo.

(1) Global Partnership on Nutrient Management (GPNM), Our nutrient world. The challenge to produce more food and energy with less pollution, Centre for Ecology and Hydrology (CEH), Edinburgh UK 2013, p. 70.
(2) NinE, The Barsac Declaration: Environmental Sustainability and the Demitarian Diet.

Marcello Bernardi e la pornocrazia

Marcello Bernardi

Ne La maleducazione sessuale di Marcello Bernardi si trova una analisi esemplare per limpidezza dei rapporti tra sesso e potere. Il sesso, sostiene l’anarchico Bernardi, è ciò che manda in crisi il potere, poiché è per essenza l’esatto contrario di ogni forma di sopraffazione, si sottomissione, di odio, di discriminazione. Da sempre il potere si esercita operando la rimozione del sesso, attraverso il senso di colpa e l’educazione repressiva. Il buon cittadino borghese investe le energie sessuali rimosse nel lavoro e il particolare nel denaro, il vero surrogato del sesso. Nella società borghese l’individuo è chiamato a sublimare le pulsioni sessuali e ad investirli in campi compatibili con l’economia capitalistica e il suo bisogno di produzione continua di beni.

Pare che poche tesi possano essere meno attuali di questa. La società in cui ci troviamo sembra sconfessare in modo radicale la tesi di Bernardi. Lungi dall’essere rimosso, il sesso è oggi onnipresente – richiamato sulle copertine delle riviste, nella pubblicità, negli spettacoli televisivi eccetera. Soprattutto, il contrasto tra sesso e potere sembra superato da quella forma di potere che è il berlusconismo. Berlusconi è un leader politico ossessionato dal sesso, che vanta pubblicamente le sue virtù erotiche e celebra festini con decine di ragazze disposte a favori sessuali, senza preoccuparsi troppo della possibilità dello scandalo. Scrive Wu Ming 1 (Roberto Bui):

Naturalmente, Berlusconi è solo la più avanzata antropomorfizzazione di una generale tendenza al godimento distruttivo. Oggigiorno il capitale/Super-ego ci dà un ordine preciso: “Godi!”. Non sto dicendo nulla di nuovo, è una situazione ben nota (1).

Lungi dall’essere un atto rivoluzionario, il sesso si inserisce invece pienamente nel sistema consumistico-capitalistico. Il soggetto-suddito-consumatore dev’essere un soggetto desiderante, che non segue il principio di realtà, ma quello di piacere: voglio, voglio ora, dunque acquisto. E da questo punto di vista esaltare le pulsioni sessuali sembra il modo migliore per garantire il mantenimento del sistema.

Ma c’è dell’altro, in Bernardi. Il suo libro è del ’77. Il berlusconismo era lontano, ma la società dei consumi aveva già qualche anno: quanto bastava per fare emergere la riconduzione dello stesso sesso al sistema dei consumi. Analizzando la mercificazione del sesso, Bernardi sostiene che essa risponde a due esigenze del potere: quella di “assorbire la contestazione sessuale e utilizzarla ai propri fini” e quelle di “coprire lo spazio lasciato libero dal lavoro mediante accorgimenti che permettano un incessante controllo sull’individuo” (2). Il sesso mercificato non ha più alcun valore eversivo, rientra pienamente nelle logiche di mercato e consente anzi ottimi affari; l’industria del sesso invade il tempo libero, tende ad occupare tutti gli spazi liberi, proponendosi quale “surrogato a un autentico esercizio della sessualità e come compensazione al lavoro alienato che la opprime” (3). Naturalmente non c’è, più, alcuna autentica liberazione sessuale. Il sesso è ovunque, ed i moralisti fingono di indignarsene. Sanno bene, in realtà, che questo sesso onnipresente è un sesso addomesticato. Non sorprende, così, che i conservatori siano in genere favorevoli alla prostituzione, quale “strumento di detensione sessuale” (4). 
Ma se le cose stanno così, quale sessualità è oggi eversiva? Non c’è ancora del moralismo nel distinguere una sessualità sana ed eversiva da una sessualità mercificata e asservita al potere?
C’è un aspetto della sessualità che sembra sfuggire a Barnardi. Il sesso sta a metà tra l’amore e l’odio, e può legarsi all’uno o all’altro. L’atto sessuale può essere celebrazione del corpo dell’altro, ma può essere anche una pratica di degradazione, di umiliazione, di sottomissione dell’altro. In altri termini, il sesso non è solo asservito al potere, ma può essere esso stesso una pratica di potere, o meglio di dominio (5). Quanto più è diffuso, in una società, il dominio, tanto più in quella società sarà diffuso il sesso non come merce, ma come esercizio di dominio (le due cose possono stare insieme oppure no); in particolare come dominio dell’uomo sulla donna. Di qui l’umiliazione costante e pubblica del corpo femminile, di qui la pornocrazia berlusconiana – e di qui, anche, il femminicidio, come conseguenza tanto tragica quanto logica di pratiche continue di  degradazione e di sottomissione. E’ eversiva, allora, ogni sessualità che sfugga al dominio. Il sesso come potere, vale a dire come godimento reciproco, piacere che non costa nulla, che non compra nulla, che si alimenta di sé e di nulla ha bisogno, resta eversivo. Chi fa l’amore, e lo fa con gioia e rispetto, esce dal sistema dei consumi: può essere felice anche senza possedere nulla. Particolarmente eversiva, poi, è la sessualità omosessuale, perché al di fuori degli schemi del dominio, della contrapposizione tra maschile e femminile. Il dominio si presenta come il maschile che domina il femminile e si alimenta di una sessualità brutale, umiliante, senza amore: la sessualità berlusconiana. I moralisti, che guardano di buon occhio la prostituzione come sfogo, alzano i toni invece quando si tratta di omosessualità. Ed il loro principale argomento è che la sessualità omosessuale è non produttiva: non genera, dunque non serve alla società. Hanno ragione: la sessualità è tanto più eversiva quanto più è lontana dalla logica produttivistica della società del dominio. L’immagine del capo che sottomette sessualmente più donne è una icona del dominio, che attira proprio perché vi si scorge confusamente qualcosa di decisivo: è un significante il cui significato è il sistema stesso, la logica che lo attraversa e lo sostiene. Per questo l’omosessualità oggi in Italia ha un significato che va al di là del costume sessuale ed assume una valenza politica, quale contestazione del dominio e della sua espressione più eclatante: la sottomissione del femminile al maschile. 

(1) Wu Ming 1, Note sul “Potere Pappone” in Italia, 1a parte: Berlusconi non è il padre.
(2) M. Bernardi, La maleducazione sessuale, Emme Edizioni, Milan 1977, p. 142.
(3) Ivi, p. 143.
(4) Ivi, p. 145.
(5) La distinzione tra potere e dominio si trova in Danilo Dolci. Potere è l’esercizio delle proprie possibilità vitali, che non contrasta ma si concilia con l’esercizio delle possibilità di altri. Il dominio al contrario è un esercizio delle proprio possibilità che si alimenta della impossibilità di altri: al dominatore è possibile ciò che agli altri non è possibile. Il potere è simmetrico ed orizzontale, il dominio asimmetrico e gerarchico. Per un approfondimento rimando al mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, Edizioni del Rosone, Foggia 2012.



Fenomenologia dell’intellettuale di destra

Lo scorso dicembre lo Stato italiano ha raggiunto con l’Unione Buddhista Italiana e l’Unione Induista Italiana una intesa che comporta la piena libertà di culto e, tra l’altro, la possibilità di riscuotere l’otto per mille. Si tratta, con ogni evidenza, di un provvedimento per il quale bisognerebbe rallegrarsi indipendentemente dalle proprie convinzioni religiose o irreligiose, poiché dà sostanza a quel principio di libertà religiosa affermato dall’articolo 19 della nostra Costituzione, senza il quale non può darsi autentica democrazia.
Ma non tutti la pensano così. Commentando la notizia in un articolo sul Giornale intitolato La mutua passa pure Buddha e Visnù, Marcello Veneziani scrive:

Mille cose urgenti e importanti il Parlamento non è riuscito ad approvare. In compenso è riuscito a varare in extremis, e oggi entra in vigore, il riconoscimento di Stato del buddismo e dell’induismo.
Sarà riconosciuto il loro culto, sorgerà una pagoda a Roma, saranno ammesse le loro festività e soprattutto potranno ottenere l’otto per mille.
Ha vinto la laicità dello Stato, esultano; cattolici, fate la fila come gli altri. Però due tradizioni così antiche e maestose che predicano il distacco dal mondo e reputano la realtà un’illusione, che se ne fanno del nullaosta del piccolo e storto Stato italiano? Volete Buddha col sussidio statale e il certificato di Visnù rilasciato dal Comune?
Capisco le religioni più legate alla storia e fiorite in Occidente, come il cristianesimo e l’ebraismo; ma il buddismo e l’induismo sono vie metafisiche, c’entrano con l’eterno, non con l’erario. Dopo la Dc avremo Democrazia Buddista e Rifondazione Bramina?
Buddisti e induisti sono poche migliaia in Italia; tanti lo sono da diporto, ovvero per esotismo o terapia antistress, perché praticano lo yoga, amano i ristoranti cinesi e i buddha bar, fanno massaggi ayurvedici, agopuntura e bevono tisana. Lo Stato firma con loro un’intesa e non invece con gli islamici che in Italia sono tanti, forse troppi, e sono davvero praticanti, anche troppo, e non vaghi appassionati di narghilè e kebab.
Libertà di culto, certo, ma non supermarket delle fedi e religioni passate dalla mutua. Non rovinate Buddha con le buddanate.

Proviamo a rispondere punto per punto a Veneziani.
– Perché mai l’attuazione di un principio costituzionale – attuazione che attende da anni – non dovrebbe essere “urgente e importante”?
– Perché mai i cattolici non dovrebbero “fare la fila come gli altri”? Democrazia è quel sistema in cui tutti hanno diritti, indipendentemente dal fatto di essere maggioranza o minoranza; tutti fanno la stessa fila.
– Tutte le religioni predicano il distacco dal mondo e dal denaro; anche il cristianesimo. Eppure i cattolici chiedono soldi allo stato: ed anche molti soldi.
– Solo un ignorante può dire che il Buddhismo è una via metafisica.
– Quanti sono i cattolici “da diporto”? La stragrande maggioranza dei cattolici sono tali solo per il battesimo, ma in realtà non seguono nessuna religione.
Non occorre essere particolarmente sagaci né preparati per rispondere punto per punto ad un articolo del genere; potrebbe farlo anche un ragazzino. E dunque viene da chiedersi: come mai? Perché Veneziani usa argomenti così scandenti, che è così facile smontare? Veneziani non è, come si potrebbe pensare leggendo quell’articolo, un idiota. E’ uno dei maggiori intellettuali di destra del nostro paese. Perché allora scrive sciocchezze?
La risposta è che scrive sciocchezze proprio perché è un intellettuale di destra. Quell’articolo è un ottimo esempio di articolo di destra: basta aprire un qualsiasi giornale di destra per trovarne decine di altri esempi. Ad accomunarli sono l’uso di argomenti grossolani, il ricorso alla ridicolizzazione, l’imprecisione, una certa sciatteria di fondo. Perché? Per quel certo disprezzo della ragione che è proprio della destra. Perché presentare argomenti seri vuol dire entrare in una discussione: e riconoscere l’interlocutore. Potete immaginarvi l’intellettuale di destra come uno che, in un salotto, se ne sta in un angolo a sorseggiare del whisky e ridacchiando fa battute. Se qualcuno lo prendesse sul serio e rispondesse alle sue battute con argomenti, dimostrerebbe di non aver capito nulla. Ed otterrebbe solo altre battute, altro sarcasmo, altre palesi assurdità.
E’ appena il caso di notare che il diffondersi di questo stile è un pericolo per la democrazia. La democrazia esige la discussione pubblica dei problemi. Compito degli intellettuali – e dei giornalisti – è quello di favorire questa discussione pubblica presentando dati ed argomenti, il più possibile comprensibili e verificabili. Dati ed argomenti che saranno diversi, opposti anche, ma inseriti in una cornice comune, che è quella della ragione, e che comprende alcune semplici regole riguardanti la discussione. L’intellettuale di destra si sottrae a questa cornice comune. Rifiuta la ragione, rifiuta le regole dell’argomentazione. Ha un talento particolare per squalificare la comunicazione, ricorrendo a quelle strategia analizzate da Watzlawick ed altri nella Pragmatica della comunicazione umana: contraddirsi, dire cose palesemente insensate, rispondere in modo vago eccetera. In quello che scrive, l’atteggiamento fa aggio sull’argomento. Non gli importa spiegare perché i buddhisti e gli hinduisti gli sono antipatici e non vuole che abbiano gli stessi diritti dei cattolici. Non deve argomentare sul serio. Importa solo dire l’antipatia – e torna utile la ridicolizzazione. Del resto, diceva Giuseppe Rensi (uno dei primissimi teorici del fascismo), il prevalere di un argomento sull’altro non è legato alla forza della ragione, ma alla forza bruta. Tanto vale rinunciare del tutto ad argomentare.

Il paradigma dell’imbuto e il paradigma della situazione

Un paradigma ben consolidato in campo educativo è quello dell’imbuto. Che se ne sia consapevoli o meno, si pensa che il compito di chi educa sia quello di selezionare, tra i comportamenti dell’educando, gli unici che sono degni di restare, e di far in modo che gli altri scompaiano. All’inizio c’è un soggetto con una molteplicità di modi di essere, alla fine c’è un soggetto che è adatto ad entrare in società, che si è lasciato alle spalle ogni sgradevolezza. Tra l’inizio e la fine – tra la bocca larga dell’imbuto e la sua uscita stretta – c’è l’azione di modellamento dell’educazione, la cui essenza è quella di vietare alcune cose e di permetterne altre.

A causa della diffusione del paradigma dell’inbuto la situazione educativa è spesso, per chi la vive, una situazione di malessere. Nei posti in cui si fa intenzionalmente educazione – nelle scuole e nelle famiglie, prima di tutto – si sta più male che bene.

Alcuni degli scrittori maggiori del Novecento hanno demitizzato la famiglia, mettendo a nudo quel groviglio di ostilità, incomprensioni, ossessioni, piccineria borghese, violenza che è la quotidianità di molte famiglie; alcuni dei maggiori pedagogisti del secolo hanno invece demitizzato la scuola, evidenziando le dinamiche di dominio, la passivizzazione, le logiche di classe, la mancanza di vera conoscenza e di creatività. Il malessere degli studenti si esprime in forme diverse, ma ugualmente eclatanti: dai dolori psicosomatici dei bambini più piccoli fino agli atti vandalici degli adolescenti.
E’ diffusa la convinzione che questo star male, che paradossalmente caratterizza i luoghi dell’educazione, sia tuttavia necessario in vista del bene futuro. La convinzione da cui muove questo studio si situa esattamente all’opposto. La situazione educativa è tale, come vedremo, solo se consente al soggetto di sperimentare una forma di benessere e di pienezza; ogni situazione di disagio e malessere è diseducativa.
Il paradigma dell’imbuto porta in primo piano domande come: quando è lecito dire di no ai propri figli? Cosa bisogna consentire e cosa vietare? E’ il problema di come far sì che l’educando, una volta entrato nell’imbuto, si riduca progressivamente fino ad uscire dall’altra parte ed a riversarsi nel recipiente della società. Molti genitori sinceramente preoccupati dell’educazione dei loro figli pensano che sia importante saper dire di no, evitare di assecondarli costantemente e di non frustrarli, saper porre loro limiti e divieti. Quello educativo è il rapporto tra un soggetto che va limitato ed un altro che deve limitarlo; e questa limitazione, questa progressiva selezione dei comportamenti è l’educazione.
Non è difficile accorgersi che il paradigma dell’imbuto è fondato sul disconoscimento di quello che il bambino è. L’educazione è erudizione nel suo senso peggiore. Il bambino è rude, rozzo, incivile, e l’educazione è dirozzamento, raffinamento, eliminazione delle scorie e del superfluo. Il processo è unidirezionale: l’educatore non ha nulla da imparare dal bambino, è al di qua del suo mondo, è un rappresentante della società e delle sue richieste. La socializzazione è il fine dell’educazione secondo il paradigma dell’imbuto; la scolarizzazione uno dei suoi mezzi più efficaci. Scolarizzare vuol dire adattare un soggetto alle richieste di una istituzione totale. Abituato al movimento libero ed alla libera parola, a scuola il bambino impara a stare seduto per cinque ore ed a parlare solo quando vuole l’insegnante; il suo dare del tu a tutti lascia il posto ad un rispettoso lei, offerto a chi rappresenta l’autorità pedagogica; la possibilità di seguire i propri interessi cede il passo allo studio imposto di cose che gli risultano per lo più indifferenti. Il paradigma dell’imbuto giustifica qualsiasi situazione in vista del risultato finale. Esso impedisce di porsi altre domande, che dovrebbero invece essere al centro della riflessione dell’educazione. Il genitore che si chiede: quando e come devo dire di no a mio figlio?, potrebbe e dovrebbe invece chiedersi: quali cose belle posso fare insieme a mio figlio? E’ tutto qui il passaggio dal paradigma dell’imbuto al paradigma della situazione. L’insegnante che programma la propria azione educativa, che mette per iscritto che tipo di persona vuole che i suoi studenti diventino, potrebbe e dovrebbe riflettere invece su quale tipo di situazione vuole che vi sia nella classe. Quanta serenità c’è a scuola? Quanta gioia? Quanta curiosità? Quanta creatività? Quanta ricerca? La scuola è un luogo in cui si sta con piacere, in cui gli studenti vorrebbero andare anche se non fossero costretti? Fare in modo che lo sia dovrebbe essere l’unica preoccupazione degli insegnanti, e l’analisi della situazione e la riflessione su come cambiarla dovrebbe prendere il posto dell’astratta programmazione.
Secondo il paradigma dell’imbuto l’educazione è una questione di contrazione, di selezione, di limitazione. Secondo il paradigma della situazione, al contrario, l’educazione ha a che fare con l’espansione, con l’ampiamento dell’esperienza: è vita nel senso più pieno. L’educazione, scriveva Dewey ne Il mio credo pedagogico, «è vita, e non preparazione alla vita». La vita è ciò che accade qui ed ora; la vita è situazione. In quali situazioni la vita si esprime nella sua pienezza? E’ questo il problema educativo fondamentale. Le situazioni nelle quali la vita è piena sono le situazioni nelle quali l’educazione accade; ed educare non è altro che creare le condizioni perché si realizzino queste situazioni.

[Da uno studio in preparazione.]

Il libro e l’opera: nota sull’editoria elettronica

LEGGO in questo post su Penna Blu una lista di pro e contro del libro cartaceo e di quello elettronico. Possiedo un ebook reader da circa un anno e mezzo:  se dovessi fare una mia lista, i pro del libro elettronico sarebbero molti di più dei contro, e il confronto tra ebook e libro cartaceo andrebbe tutto a favore del primo. Probabilmente perché sono quasi del tutto insensibile al fascino della carta stampata, all’odore del libro eccetera; mentre mi pare che l’ebook essenzializzi, per così dire, il libro; o meglio: che liberi l’opera dal libro. L’opera è il libro inteso dal punto di vista ideale, il libro è la concretizzazione, la materializzazione dell’opera. La Divina Commedia può avere mille aspetti diversi, a seconda delle diverse edizioni, dei diversi libri in cui si concretizza: può essere rilegata o in brossura, di carta pregiata o scadente, con illustrazioni o meno. Ora, le cose sono due: o il libro influenza l’opera, oppure no.

Cioè: o il modo concreto in cui un’opera si presenta nelle nostre mani, sotto i nostri occhi, influenza il nostro modo di avvicinarla e di goderla, oppure ciò non accade. I sostenitori del piacere della carta stampata dovrebbero rispondere a questa domanda. E’ evidente che, se la veste tipografica di un’opera è inessenziale, perché quando leggiamo ci immergiamo nell’opera e il libro passa in secondo piano fin quasi a scomparire, allora è indifferente leggere un libro di carta o un libro elettronico. Se invece la veste tipografica è essenziale, e influisce sul piacere della lettura, bisognerebbe allora preoccuparsi della crescente sciatteria dei libri cartacei, sempre più spesso pubblicati con carta scadente, con una stampa approssimativa, con una rilegatura fragile: eccetera. Mi aspetterei dunque che gli oppositori del libro elettronico fossero, al tempo stesso, oppositori della pessima tipografia; che chiedessero non solo libri di carta, ma bei libri di carta, rispettosi del piacere della lettura.

Personalmente ritengo che un’opera sia quasi del tutto indifferente al suo supporto concreto, e che una volta iniziata la lettura restino solo le parole. Con alcune eccezioni, naturalmente: i libri illustrati non sono proprio la stessa cosa, in formato elettronico; e così, forse, le poesie.

Ci sono poi due particolarità del libro elettronico che me lo fanno apprezzare particolarmente.

Tutti modifichiamo in qualche modo i libri che leggiamo. Li annotiamo, evidenziamo, logoriamo; ma a volte cerchiamo anche di migliorarli: rivestiamo la copertina, soccorriamo la rilegatura quando si mostra fragile, se siamo capaci li rileghiamo perfino. Aldo Capitini, se non ricordo male, aveva l’abitudine di far riallestire in legatoria i libri cui teneva particolarmente, in modo da introdurre pagine bianche che poi avrebbe usato per le sue annotazioni. Il libro cartaceo diventava così interattivo. Ora, questa interattività, che si può ottenere nel libro cartaceo con difficoltà ed in modo parziale, è facile e totale nel caso di libro elettronico. Un ebook si può sottolineare, evidenziare, annotare come un libro di carta, ma se ho un minimo di competenze posso fare di più. Se sono un tipografo, non posso comunque cambiare la struttura tipografica di un libro di carta; non posso correggere errori di impaginazione o cambiare il font. Nel caso di un ebook, posso farlo. Utilizzando un programma come Sigil, posso intervenire sul testo in modo anche radicale. Posso ad esempio decidere di allineare a sinistra un testo giustificato, posso  cambiare il colore dei titoli, posso anche correggere eventuali errori. Ma soprattutto posso intervenire sull’opera stessa. Posso fare, in modo infinitamente più semplice, quello che faceva Capitini con i libri di carta: posso inserire i miei appunti nel testo, e fare in modo che diventino parte integrante dell’opera. Le note, che nei libri cartacei sono a margine, entrano ora nel testo; e non è difficile immaginare la possibilità di opere aperte e di riscritture collettive, di annotazioni collaborative di un testo. Insomma: l’ebook è, più del libro di carta, un libro aperto. Posso metterci le mani in modo molto più disinvolto che con il libro di carta.

La seconda particolarità è legata alla prima. Per fare un libro di carta occorrono degli specialisti. Si può imparare da soli ad impaginare usando un programma come InDesign, e diventare così bravi da impaginarsi da sé il proprio libro; ma se si vuole un libro di carta bisogna rivolgersi poi ad un tipografo; ad un editore, se lo si vuole vendere. La cosa ha un costo: per l’editore, ma molto spesso anche per l’autore, cui l’editore chiede un contributo per la pubblicazione del libro. In molti casi l’opera così pubblicata non arriva mai sul mercato: l’autore paga l’editore e riceve in cambio qualche scatola con le copie del suo libro, che regalerà ad amici e parenti. Nel caso in cui l’editore, più onesto, mettesse realmente in distribuzione il libro, lo stesso resterebbe relegato in un angolo, inevitabilmente schiacciato dalle proposte dei grandi editori.

Ora, l’editoria elettronica introduce delle novità interessanti. La prima è l’autopubblicazione. Un autore può acquisire senza troppi sforzi la capacità di creare da sé il proprio libro in formato elettronico e può distribuirlo attraverso la rete. Se il suo obiettivo è farsi leggere, lo raggiungerà molto più facilmente in questo modo, che pubblicando a proprie spese con un piccolo o medio editore. Magari l’ebook non gli verrà perfetto, ma del resto anche grandi editori pubblicano ebook imperfetti, e lo stesso si può dire dei libri di carta (mi è capitato ultimamente tra le mani un libro della Guerini e Associati, non proprio l’ultima casa editrice, con grossolani errori di impaginazione). La seconda novità è la possibilità, su questo campo, di sfidare le grandi case editrici. Un grande editore può pubblicare un libro a prezzi molto più bassi di un piccolo o medio editore; può giovarsi di una distribuzione capillare, che ha un costo che i piccoli editori non possono permettersi; può promuovere il suo libro con una pubblicità martellante. Con i libri elettronici le cose vanno diversamente. Un piccolo editore, magari nativo digitale, può pubblicare un ebook a prezzi anche più bassi di quelli dei grandi editori, e può distribuirlo e venderlo attraverso la rete. Si dirà: ma venderà comunque poco, mentre i grandi editori venderanno molto grazie alla pubblicità. Non è detto. La rete è uno spazio che non del tutto penetrabile dalle logiche commerciali. Il passaparola, la reti sociali, i network di lettori hanno nella rete un maggiore della pubblicità e della promozione commerciale; un libro elettronico, se vale, può emergere e trovare i suoi lettori. Gli esempi non mancano.

Libro elettronico vuol dire, dunque, libertà di pubblicazione; e la libertà di pubblicazione è una delle declinazioni della libertà. L’obiezione, naturalmente, è: se ognuno pubblica quello che vuole, ci sarà un calo generale della qualità di ciò che si pubblica. La risposta è che ognuno già ora pubblica quello che vuole, regalando qualche migliaia di euro a qualche piccolo editore; e che anche non pochi editori medi e grandi sono disponibili a pubblicare quasi tutto, dietro adeguato compenso (soprattutto nel campo della saggistica). Nel sistema artificiale del mercato dei libri (di carta) un saggio acquista immediata rispettabilità se pubblicato da un editore noto (ad esempio nei concorsi universitari), anche se l’autore ha pagato per pubblicarlo. Nel sistema nato dall’incontro tra lo spazio dialogico della rete e l’editoria elettronica – sistema che sta nascendo, e che rappresenta forse la più grande rivoluzione culturale degli ultimi anni – un libro conta per le discussioni cui dà vita (nel caso di un saggio) o per le emozioni che suscita nei lettori (nel caso di un romanzo), non per la fama dell’editore o la sua azione di promozione.