Razzismo standard

A proposito di vignette vigliacche. Uno dei tanti fascisti di Facebook pubblica un vecchio manifesto fascista dal contenuto inequivocabilmente razzista: un uomo nero che violenta una donna bianca e la scritta Difendila! Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia. Segnalo la cosa a Facebook, che mi risponde che il contenuto non è stato rimosso perché hanno riscontrato che rispetta i loro Standard della comunità.
Leggo questi Standard della comunità:

Facebook non consente i contenuti che incitano all’odio, ma attua una distinzione tra contenuti seri e meno seri. Se da un lato incoraggiamo gli utenti a mettere in discussione idee, eventi e linee di condotta, non consentiamo la discriminazione di persone in base a razza, etnia, nazionalità, religione, sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia.

Poiché il manifesto è inequivocabilmente razzista ed inequivocabilmente incita all’odio contro i neri, bisogna dedurne che per Facebook si tratta comunque di un contenuto “meno serio”.
Intanto a Foggia una giornalista de l’Unità viene processata per aver commentato criticamente su Facebook un manifesto di una scuola per estetiste, che mostrava una bambina bionda, intenta a truccarsi, e la scritta Farò l’estetista. Ho sempre avuto le idee chiare.

Nous sommes Charlie Hebdo?

Lo Spirito Santo, il Figlio ed il Padre presi in una relazione non proprio spirituale. E’ una delle vignette di Charlie Hebdo che hanno preso a circolare dopo il massacro di ieri. Suscitando sconcerto in non pochi cattolici che fino a poco prima erano pronti a dire “Je suis Charlie Hebdo”, e che si sono ritrovati invece a reclamare la censura e ad affermare i limiti della libertà d’espressione. Perché sì, la satira è importante, e rivendichiamo tutti il libero pensiero come conquista dell’Occidente, ma il Figlio che prende lo Spirito Santo nel didietro…
I soggetti che oggi sono Charlie Hebdo sono abbastanza male assortiti. Ci sono i laici, gli atei, i difensori del libero pensiero: ma ci sono anche gli islamofobi, gli xenofobi, i fascisti alla Salvini. Questo singolare assortimento è una conseguenza dell’ambiguità stessa della satira, che può essere due cose diverse; o meglio: avere due valenze politiche. A fare la differenza è il tipo di gruppo sociale contro cui si scaglia. La satira ha una funzione progressiva, positiva, liberatrice quando si scaglia contro gruppi potenti, dominanti, in grado di imporre la propria volontà anche con la forza, anzi con la violenza. Una satira del genere è sempre giustificata, anche quando è blasfema, anche quando ridicolizza i valori più sacri. Diversa è la satira che si dirige contro gruppi minoritari, deboli, socialmente discriminati. Formalmente sempre di satira si tratta; ma in questo caso è satira vigliacca. E’ una satira che ha una lunga tradizione, dalle vignette del fascismo e del nazismo fino a quelle della Lega Nord.
Ora, nel caso delle vignette contro il cattolicesimo la questione è semplice. I cattolici rappresentano un gruppo potente, che in un paese come il nostro ha anche gestito direttamente il potere, attraverso il suo partito di riferimento: e lo ha fatto nel modo che sappiamo, ossia usando come mezzi di governo la corruzione, le stragi, la collusione con la mafia. Ogni satira contro il cattolicesimo è un atto di libero pensiero. Più complessa è la faccenda per quanto riguarda l’Islam. Perché i musulmani sono, al tempo stesso, un gruppo debole ed un gruppo forte. In Italia ed altrove, i musulmani rappresentano una minoranza cui spesso si negano diritti elementari, come quello di avere un luogo in cui pregare; una minoranza guardata con sospetto, spesso calunniata, culturalmente e socialmente marginalizzata. Ma l’Islam è anche quello dei terroristi che, come è accaduto ieri, vendicano con il sangue le offese alla loro religione. Terroristi che naturalmente non rappresentano l’Islam, e che tuttavia uccidono chi ha offeso l’Islam. E’ per questo che le vignette contro l’Islam sono al tempo stesso un atto di coraggio e di vigliaccheria, una manifestazione al tempo stesso di libero pensiero e di xenofobia. Il fatto che i vignettisti di Charlie Hebdo siano stati massacrati, e che dunque appaiano come martiri del libero pensiero occidentale contro il fondamentalismo islamico, avrà l’effetto di attenuare quell’ambiguità, proprio mentre, per effetto di quello stesso massacro, i musulmani europei si troveranno ad essere ancora più fragili e marginalizzati.

Aggiornamento: Ma essere Charlie Hebdo non vuol dire anche essere Naji al-Ali? A quanto pare no.

Virtualizzare l’esperienza

In un post di qualche mese fa, Roberto Cotroneo denunciava il crollo della qualità fotografica dovuto all’uso delle fotocamere dei cellulari, sia per i limiti intrinseci dello strumento, sia per il ricorso massiccio alle modifiche a posteriori, che per lo più producono foto pacchiane. Il post ha suscitato, com’era prevedibile, un mare di polemiche e di obiezioni, sintetizzabili in uno dei primi commenti: “La ‘bella foto’ è nella sensibilità di chi scatta”. Cosa incontestabile. Si possono fare belle, bellissime foto con una fotocamera giocattolo, come la Lomo, o con la fotocamera di un iPhone. Il problema però è proprio “la sensibilità di chi scatta”. 
Da qualche mese ho la fortuna di vivere in una città bellissima, meta di turisti provenienti da tutto il mondo. Da qualche mese li osservo, i turisti. Ci sono quelli che arrivano in fila indiana, seguendo la guida con l’ombrello alzato, ed hanno l’aria un po’ stanca ed un po’ smarrita: come se quello fosse un lavoro, l’adempimento di un compito, più che un piacere. Ci sono quelli che invece arrivano a gruppi di due, di tre, di quattro. Più liberi, più interessati, più rilassati. Tutti hanno in comune però una cosa: scattano fotografie. Scattano fotografie a più non posso. Cosa assolutamente normale, si dirà. Chiunque in vacanza scatta fotografie: ed era così anche quando c’erano le fotocamere analogiche, e bisognava comprare la pellicola e poi pagare lo sviluppo e la stampa (e buona parte delle foto erano da buttare). Ma c’è ora, mi sembra, qualcosa di diverso. Un tempo prima si guardava, poi si fotografava. Oggi mi pare che le cose si siano invertite: prima si fotografa, poi si guarda. Anzi, l’impressione è che, dopo aver fotografato, non si guardi nemmeno. Che si preferisca guardare il duomo di Siena o piazza del Campo non direttamente, ma attraverso lo schermo del proprio cellulare; come se questo sguardo altro, questo sguardo tecnologico e virtuale, avesse un valore maggiore. L’occhio cattura la scena e la manda alla propria memoria personale. L’occhio della fotocamera del cellulare cattura la scena e la manda a Facebook: ossia alla nostra nuova memoria collettiva. Si verificano così due cose. La prima è che la nostra esperienza viene virtualizzata. Una volta c’era l’esperienza di piazza del Campo, oggi c’è l'{esperienza di piazza del Campo}. La seconda è che questa esperienza virtualizzata è immediatamente una esperienza sociale. Naturalmente anche le vecchie fotografie analogiche venivano socializzate: l’album fotografico veniva mostrato ad amici e parenti. E tuttavia restava una cosa soprattutto personale, così come personali erano i ricordi. Ora invece quello che ho {visto} dev’essere immediatamente visto anche da altri, diventare parte di un patrimonio comune di cose {viste}. Quel che perde in intensità, l’esperienza – l'{esperienza} – lo conquista in orizzontalità. E’ come se il soggetto, al contatto con una qualsiasi realtà, se ne ritrasse quasi, e la toccasse attraverso il filtro dello schermo; e immediatamente deponesse poi il peso di questa {realtà} colta attraverso lo schermo, depositandola nell'{esperienza} collettiva. Per avviare lì un discorso sul mondo che è evidentemente più sostenibile dell’esperienza del mondo.

Ancora, ancora, ancora

Nulla è più irreligioso del desiderio di immortalità personale.
Prendiamo il signor X. Ha superato da poco i quarant’anni, ed il corpo glielo ricorda in ogni istante. Per gran parte della giornata è concentrato sui dolori: il mal di schiena, il dolore allo stomaco, il mal di testa, la pressione che non va. Eccetera. La sua giornata è scandita dall’assunzione delle medicine. La pillola del mattino, le gocce di prima di pranzo, e così via. Ed ecco la signora Y. Un tempo era bella, molto bella. Non lo è più da molto tempo. Gli anni l’hanno sformata, ingrossata, spenta. Ma lei non lo sa: si sforza di non saperlo. Continua a credersi una bella donna, appena un po’ invecchiata. A volte però la sorprende uno specchio meno pietoso degli altri. Si osserva con stupore, come se quella che si trova davanti fosse un’altra persona. Distoglie lo sguardo, poi torna a fissarlo sullo specchio, come ipnotizzata. Poi piange. Il signor Z non ha di questi cedimenti. Se lo specchio gli rimanda un’immagine poco piacevole, vuol dire che è ora di tornare dal chirurgo estetico. Il suo corpo non è un dato, ma un progetto. Come tutta la sua vita. E’ un uomo teso verso il successo, l’affermazione personale, il denaro. Continue reading “Ancora, ancora, ancora”

Gli altri comandamenti

Scrive sul suo profilo Facebook il teologo Vito Mancuso: “Benigni sui Dieci comandamenti. Ho spento la tv. Predicatorio, scontato, non fa né ridere né pensare. Mi spiace.”

A differenza di Mancuso, non ho spento la tv dopo aver constatato che Benigni che parla di dieci comandamenti non fa né ridere né pensare: ho semplicemente evitato di accenderla. Perché non mi piacciono i telepredicatori, anche quando intendono proporsi come la versione riveduta, corretta ed aggiornata del caro vecchio maestro Manzi.
Sono sicuro che più di qualcuno, in seguito alla suggestione dello spettacolo di Benigni, si sarà deciso ad aprire la Bibbia: e questa è senz’altro una buona cosa. Il problema, però, è che la Bibbia, quando ti decidi a leggerla, appare tutt’altra cosa rispetto a quello che credi che debba essere. Da un libro sacro ti aspetti che sia edificante, che dica parole di verità, che possa farti da guida. Ora, nel caso della Bibbia, tolti pochi libri, di edificante c’è ben poco.
Prendiamo questi dieci comandamenti. In realtà, nella Bibbia non esistono. Nella Bibbia c’è un corpus di comandamenti, dai quali la Chiesa ha estratto in modo arbitrario quelli che chiama dieci comandamenti. Interpretandoli, peraltro, a modo suo. Fingendo di non vedere, ad esempio, il comandamento “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra” (Esodo 20, 4), in base al quale dovrebbero scomparire dalle chiese tutte le statue di madonne e santi (e in qualche chiesa non manca la statua del Padreterno). O reinterpretando il comandamento di ” Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo” come un più generico “non mentire”, che è un’altra cosa. O ancora spezzando in due il comandamento che dice

Non desiderare la casa del tuo prossimo.
Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo. (Esodo 20, 17)

Un comandamento che considera la donna alla stessa stregua degli animali e delle cose, quali proprietà del maschio padrone. “Non commettere atti impuri” ha rovinato la vita a milioni di adolescenti, al punto tale che “atti impuri” è diventato sinonimo di masturbazione, mentre nella Bibbia indica tutt’altro: qualsiasi atto compiuto non rispettando le leggi divine riguardanti la purezza- Ad esempio, è un atto impuro, secondo la Bibbia, sedersi su una sedia su cui si sia seduta una donna con le mestruazioni.
Soprattutto, ciò di cui il nuovo lettore della Bibbia potrà accorgersi, se avrà la pazienza di leggere al di là dei percorsi già segnati, è che i cosiddetti dieci comandamenti fanno corpo con prescrizioni che oggi non possiamo che considerare inaccettabili. Nel capitolo 21 dell’Esodo, ossia quello immediatamente successivo a quello che contiene i cosiddetti dieci comandamenti, ci sono le norme da seguire se si intende vendere la propria figlia come schiava. In quello successivo ancora si legge che bisognerà ammazzare tutti quelli che avranno un culto diverso, o le donne che praticano la magia, o i figli che maledicono i genitori. Il Levitico aggiunge altri orrori: saranno messi a morte gli adulteri (20, 10), gli omosessuali (20, 13), i bestemmiatori (24, 16) e tutti coloro che saranno destinati ai sacrifici umani in onore del Signore (27, 29).
“Credo non ci sia storia più bella, il racconto dell’Esodo è un esempio rivoluzionario, è d’ispirazione per qualsiasi moto di libertà”, ha detto Benigni durante il suo spettacolo. Passata la suggestione televisiva, spero che il nuovo lettore della Bibbia si accorga che la storia biblica (Esodo compreso) è, invece, una storia orribile. La storia di un popolo che, convinto di avere un mandato divino, invade il territorio di altri popoli e li stermina senza pietà, massacrando anche donne e bambini (secondo le precise di Mosè, che oggi sarebbe considerato un criminale di guerra).

Nell’immagine: Marc Chagall, Mosè riceve le tavole della legge (particolare).

Sul terrore di Dio

Impacchettando i libri per il trasloco, vien fuori una vecchia edizione Newton Compton della Nascita della tragedia di Nietzsche, ormai rovinata dall’umidità. Nell’antiporta la mia firma, ancora con le maiuscole (dall’età di diciassette anni firmo con le iniziali minuscole) e la data: 1988. Sedici anni.
Nell’ultima pagina trovo una annotazione sicuramente posteriore, che per quello che riesco a ricordare rientra nel progetto post-adolescenziale di un libro che doveva intitolarsi Sul terrore di Dio. Eccola.

Più profondo d’ogni rito e d’ogni preghiera, più prossimo all’essenza del reale d’ogni contemplazione, è quello sguardo sconsolato sul maestoso dolore degli enti che si concreta nel presentimento d’un Dio capriccioso e terribile. Io non sono, qui, il padrone dell’Essere; io non sono che un ospite, uno che deve prendere congedo; mi fanno compagnia il dolore e la gioia, la fuga e la mancanza: così parla l’uomo che vive e soffre in sé quel momento originario della religione che chiamo “terrore di Dio”. L’uomo religioso è l’antitesi dell’uomo dell’età della tecnica: se quest’ultimo pensa alla realtà come producibilità, fa dipendere da sé la natura e le cose, orgoglioso della sua capacità di dare ordine a tutto, l’altro, il sofferente Giobbe, conosce i propri limiti, osserva lo scorrere degli eventi con calma e rassegnazione, conosce il Dio che non domina e travaglia.

Israele nel deserto

Con ogni probabilità, il passo più terribile della Bibbia – una raccolta di testi in cui non mancano i passi terribili: violenti, atroci, osceni – è quello del libro dei Numeri (in ebraico Be-Midbar, “Nel deserto”) in cui Mosè comanda di sterminare donne e bambini. Consideriamo il contesto. Il popolo del Signore è accampato nel deserto, in una località chiamata Sittim. Qui gli ebrei si mettono a “trescare con le figlie di Moab”, partecipando ai loro sacrifici religiosi ed adorando i loro dèi. Il Signore si arrabbia ed ordina a Mosè di far impiccare tutti i capi del popolo, per placare la sua ira. E’ singolare che i cristiani, che lamentano (ed a ragione) le persecuzioni cui in diverse parti del mondo sono sottoposti coloro che si convertono al cristianesimo, ritengano sacro un libro in cui si parla di impiccare chi pratica la libertà religiosa – perché di questo si tratta. Ma procediamo. Un certo Fineas, sommo sacerdote, scopre che un ebreo ha portato nella sua tenda una moabita, e non ci pensa due volte: prende una lancia e li uccide. Il Signore è talmente contento per il suo gesto – l’assassinio di due innocenti – che fa cessare la sua ira su Israele. Non prima, però, di aver massacrato 24.000 persone (Numeri, 25, 1-9). L’edizione che sto citando, quella curata da Bernardo Boschi per le Edizioni Paoline, spiega in nota che questo Fineas “testimonia la radicale ed esemplare fedeltà della sua classe allo Jahvismo nello spirito della Tradizione Sacerdotale”. Un gran brav’uomo, insomma.
La storia non finisce qui. Gli ebrei hanno tradito Dio, e la carneficina non è sufficiente. Occorre la vendetta. Di cosa siano colpevoli i poveri moabiti non è ben chiaro: usando lo stesso criterio, oggi, i seguaci di qualsiasi religione si potrebbero ritenere in diritto di muover guerra e massacrare chiunque faccia proselitismo presso di loro, a cominciare dai cristiani. Mosè manda contro i madianiti un esercito di dodicimila uomini, che massacrano tutti i maschi, incendiano le città, depredano tutto. Ma i capi dell’esercito risparmiano i bambini e le donne. Per umanità, immagino. Mosè tuttavia si arrabbia: “Avete lasciato in vita tutte le femmine? Furono esse, per suggerimento di Balaam, a stornare dal Signore i figli d’Israele nel fatto di Peor e ad attirare il flagello sulla comunità del Signore. Ora uccidete ogni maschio fra i bambini e ogni donna che si sia unita con un uomo. Tutte le ragazze che non si sono unite con un uomo le lascerete vivere per voi” (Numeri, 31, 15-17). Tralasciamo quest’ultima notazione, anch’essa terribile (è facile immaginare la fine delle ragazze vergini), e chiediamoci: di cosa sono davvero colpevoli le donne? Cosa hanno fatto, per essere uccise? Hanno seguito la loro religione, esattamente come gli ebrei seguono la loro. Il massacro di queste donne, a battaglia vinta, è un semplice crimine di guerra. Ma soprattutto la domanda è: cosa hanno fatto i bambini? Cosa? Perché massacrarli? Non esiste nessuna ragione. Se il massacro delle donne è un crimine di guerra, il massacro dei bambini è un crimine di guerra al quadrato.
Mi è tornato in mente questo passo guardando un video raccapricciante, disponibile su Internet, nel sito di OummaTv, la televisione dei musulmani francesi. Il video riprende una manifestazione di ebrei, felici per gli attacchi contro i palestinesi. Cantano cori da stadio. A un certo punto intonano: “Il n’y aura pas d’école demain, on a tué tous les enfants”. Non ci sarà scuola domani, abbiamo ucciso tutti i bambini.
E’, questa, la cosa più spaventosa che ho visto e sentito da gran tempo. Sono sicuro che non sono molti gli ebrei felici per il massacro dei bambini palestinesi, e tuttavia il fatto che una simile barbarie sia possibile, sia pure presso pochi esaltati, dà da pensare. Chi ha letto la Bibbia, sa che c’è un filo rosso che unisce questi cori alla storia sacra di un popolo che ha dovuto strappare con la violenza ad altri popoli la terra promessa dal suo Dio.
Prima che mi si accusi di antisemitismo (una accusa sempre pronta contro chiunque metta in discussione le politiche sioniste), aggiungo che il massacro palestinese mi ha fatto venire in mente un altro testo che appartiene alla tradizione dell’ebraismo. Si tratta di un libretto di Chaim Nachman Bialik, lo scrittore ucraino considerato il poeta nazionale di Israele. Nel 1903 avviene un terribile pogrom a Kishinev, attuale capitale della Moldavia. In due giorni vengono uccisi quarantanove ebrei, mentre cinquecento sono i feriti. Di fronte ad una tale devastazione si resta senza parole. Ma Bialik è un poeta, un grande poeta. E le parole le trova. Nella città del massacro, il poemetto scritto per raccontare, per piangere, per denunciare il pogrom, è poesia pura, vibrante, che tocca le corde più intime e commuove profondamente. Comincia con queste parole, Bialik: “Un cuore di ferro e acciaio, freddo, duro e muto, / batte in te, vieni uomo! / entra nella città del massacro, devi vedere con i tuoi occhi, / toccare con le tue mani…” (trad. R. A. Cimmino). E nel resto del poemetto il lettore in effetti vede con i suoi occhi e tocca con le sue mani l’orrore.
I versi più intensi dell’opera sono quelli nei quali Bialik descrive la Shekinah, “nera, stanca, disperata”, che piange in silenzio. Quella di Shekinah è una delle concezioni più affascinanti della teologia e della mistica ebraica. Il termine deriva dal verbo shakan, abitare: indica dunque la presenza, la dimora di Dio sulla terra. Una manifestazione di Dio che ha i caratteri del mistero e della gloria, nella tradizione. Ma con Bialik avviene un cambiamento importante. La Shekinah, la gloriosa manifestazione di Dio, ora si limita a stare accanto alle vittime. Subisce la loro stessa sofferenza, accetta su di sé il dolore degli afflitti. Il pensiero va anche a quella pagina memorabile de La Notte in cui Elie Wiesel racconta di un bambino impiccato ad Auschwitz. “Dov’è Dio?”, chiede qualcuno. E Wiesel scrive: “E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: – Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”.
C’è una straordinaria rivoluzione teologica in queste parole. Dio non è più nei cieli, non si manifesta più nella distanza e nella potenza, ma sta accanto a chi soffre. Chi soffre in questo caso è il popolo eletto, ma il passo verso un Dio che sta con chiunque soffra è breve. E’ una intuizione – questa di un Dio dei poveri, dei deboli, degli afflitti – che si affaccia in diverse tradizioni religiose: dal cristianesimo (e non a caso alcuni cabalisti troveranno affinità tra la Shekinah e il Cristo) allo hinduismo, con l’idea del Daridranarayana, “Dio nei poveri”, che si trova in Vivekananda en Gandhi. La considero la più alta concezione religiosa dopo quella del Dio-non Dio di Meister Eckhart.
Le parole di Bialik si potrebbero leggere, in questi giorni, come un canto che dice la tragedia delle migliaia di palestinesi massacrati dall’esercito israeliano. Un ebreo ha trovato le parole per dire l’indicibile, ed ora quelle parole non gli appartengono più, come non appartengono più al solo popolo ebraico. Rappresentano il contributo del popolo ebraico alla comune umanità: dire la tragedia, raccontare l’orrore, pensare un Dio che sta con la vittima. La concezione della Shekinah, liberata da ogni nazionalismo, può mettere gli ebrei in condizione di avvertire l’umanità offesa dalle bombe, di percepire il Divino negli occhi delle vittime. Di superare quella etnolatria, quella esaltazione violenta dell’identità nazionale che esige lo sterminio del nemico, che si esprime in quel passo del libro dei Numeri.
In una guerra non sempre colui che ha vinto è il vincitore effettivo. Le conseguenze di una vittoria possono essere devastanti. Credo che sia questo il rischio attuale per Israele. Potrà continuare a sterminare la popolazione civile palestinese, con il tacito assenso della comunità nazionale. Ma il prezzo da pagare sarà un imbarbarimento di cui i cori di cui ho detto sono un indizio tangibile e preoccupante, insieme ad altri. A prevalere sarà il Dio degli Eserciti, violento e capriccioso, che esige lo sterminio di donne e bambini. Sarà quella demonizzazione biblica dell’altro che nella storia occidentale ha agito al di fuori dell’ebraismo, e di cui gli stessi ebrei sono stati vittime. Sarà quella crisi religiosa che sempre precede e causa la crisi e la decadenza generale (civile, morale, politica) di un popolo. Che lo conduce nuovamente be-midbar, nel deserto.

L’immagine è tratta da Footnotes in Gaza di Joe Sacco.

Editoriale per Stato Quotidiano.

I matrimoni su Mercurio

Una mattina che osserva Mercurio, il misteriosissimo cavaliere di Béthune s’imbatte in un uomo che gli porge un microscopio filosofico, col quale riesce ad osservare la vita degli abitanti sul pianeta. L’uomo è un Rosacroce che gli propone di entrare nell’Ordine. Dopo una singolare iniziazione, gli affida la Relazione sul mondo di Mercurio, che il cavaliere dovrà tradurre dall’arabo (lingua che lo stesso Rosacroce gli ha insegnato con le sue arti magiche). Apprendiamo così dall’ignoto autore arabo e dal suo traduttore Béthune che Mercurio è abitato da uomini alti come ragazzini di quindici anni, che sono governati da un imperatore inviato dal Sole, che curano con la massima attenzione la propria spiritualità, considerando degni di servire solo coloro che non hanno sviluppato a sufficienza i loro talenti (colpa grave anche perché sul pianeta i talenti possono essere acquistati come da noi i gioielli, o anche solo frequentando e diventando allievi di coloro che li possiedono), che parlano con gli animali usando la lingua dei segni: e che hanno un sistema matrimoniale particolarmente efficace ed intelligente. Poiché amano la diversità, mai potrebbero legarsi per tutta la vita ad una persona. Per questo i matrimoni hanno una durata limitata. Nelle case in cui vi sono ragazze in età da marito, esiste una appartamento ben arredato, che si chiama Sphinx. Quando due giovani si piacciono, chiedono ai genitori di lei l’uso dell’appartamento per conoscersi fisicamente. All’uscita dall’appartamento, possono dire di essersi sbagliati, o stipulare il contratto che segue.

Traduco da: Béthune (chevalier de), Relation du monde de Mercure, Barillot et fils, Genève 1750, t. 1, pp. 113-117.
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I contratti sono sempre composti da pochissimi articoli. Il primo concerne gli abiti, i gioielli, i mobili che si mettono in comune: regola anche i vantaggi che uno fa all’altro, e che ognuno di loro deve ritirare alla contratto.

Il secondo stabilisce un arbitro, uomo o donna a scelta delle due parti, davanti al quale si porteranno le contestazioni domestiche o altri piccoli fastidi matrimoniali: questo arbitro è giudice sovrano, è condanna all’ammenda o a qualche pena usitata chi gli sembra che abbia torto.
Il terzo regola il numero di piccole scappatelle coniugali o di vere e proprie infedeltà, che sono obbligati a perdonarsi l’un l’altro per conservare la pace nel ménage: durante i primi tre mesi non è gran cosa, ed è più per precauzione che per necessità che se ne fa menzione nel contratto; ma in seguito ciascuno fa uso del suo diritto, e soprattutto le dame, anche se fosse solo, dicono, per non far prescrivere un privilegio che considerano il fiore più bello della loro corona.
Oltre a queste bricconerie autorizzate, ne scappano altre, durante un matrimonio di due anni, non previste dal contratto: ma in genere non vi si bada più che ad errori di ortografia.
In ragione di ciò, fin dal giorno dopo le sue nozze, una donna può civettare, far moine, parlare a bassa voce, provocare, uscire sola, tornare tardi, farsi riaccompagnare e anche, in caso di bisogno, dormire fuori casa: le basta dare ragioni plausibili della sua assenza, come, ad esempio, “mi sono divertita”, “il divertimento mi ha trattenuta”, “mi sono lasciata trascinare dal piacere”. Ciò è normalmente ben accettato, ma quando si trova un marito stizzoso, la donan è libera di fare il broncio e dire: “Oh! ecco come siete, non si può fare nulla che voi non troviate cattivo, e per farvi contento bisognerebbe farsi seppellire in una camera e non vedere nessuno per tutta la vita. Raramente si giunge a tanto, ma male che i bisticci domestici non vanno oltre ciò.
Il quarto articolo esorta i coniugi a non mostrarsi mai trascurati l’uno all’altro, nemmeno a letto: anche l’estrema nudità, dicono, è suscettibile di essere adeguatamente ornata con qualche oggetto semplice e di buon gusto.
Quando il termine del contratto, vale a dire i due anni di matrimonio, sono passati, le due famiglie si riuniscono accompagnate da un Giudice di Polizia. Questo pubblico ufficiale si presenta per dar atto ai coniugi della libertà reciproca che essi hanno di stipulare tra loro un nuovo contratto o di separarsi: è odrinariamente quello che accade. Allora per are una forma materiale alla dissoluzione del contratto si presenta all’uomo e alla donna una pagliuzza e gli si ordina di spezzarla per marcare la loro volontà di separarsi. A quanto pare è da lì che Moliere ha tratto il suo proverbio:
Una paglia spezzata tra gente d’onore conclude un affare.
Immagine 1: particolare del frontespizio.
Immagine 2: illustrazione all’antiporta.

Gabriel de Foigny, o la rivendicazione del desiderio

Mappa di Jan Hanssonius del 1657

Il paradiso esiste, ed è terribile. Così si può sintetizzare il messaggio enigmatico e sconcertante di quella che Andreas H. Voigt ha definito la prima utopia anarchica della storia: La Terre Australe connue che Gabriel de Foigny pubblicò a Ginevra nel 1676. L’autore è l’incarnazione del perfetto libertino, blasfemo e donnaiolo, dalla vita travagliata e maledetta. Finito in un convento francescano, ne viene rigettato perché umano, troppo umano – gli piacciono le donne, per farla breve. A Ginevra cerca protezione convertendosi al cristianesimo, ma il problema sessuale continua a travagliarlo, insieme ad una qualche tendenza all’ubriachezza: seduce cameriere e vomita durante i sacri riti. Dopo il carcere, l’inevitabile penitenza in un convento della Savoia, dove muore nel 1692 (era nato nel 1630).

Come lui, il protagonista del suo romanzo utopistico, Jacques Sadeur, è un diverso: un ermafrodito, per la precisione. Questa singolarità fisica, insieme alla circostanza della morte dei suoi genitori nel tentativo di salvarlo durante un naufragio, fanno di lui un essere maledetto, destinato a cercare la sua terra altrove, attraverso una serie impressionante di nuovi naufragi, fino all’approdo – dopo l’ennesimo naufragio – alla Terra Australe. Che sia una terra diversa dalle altre, Sadeur lo capisce piuttosto presto. Si tratta di una terra abitata da ermafroditi, infatti: la terra nella quale la sua mostruosità è normale, ed i cui abitanti considerano anzi mostruosa la divisione dei sessi. L’ermafrodito è l’uomo completo, perfetto. Al di fuori di questa condizione (apprende Sadeur conversando con un vecchio abitante del paese) non è possibile alcuna vera razionalità, poiché la ragione può essere esercitata pienamente solo da chi è in possesso della pienezza del proprio essere. Quale ragione possono esercitare dei mezzi uomini come quelli che abitano l’Europa? Lo stesso può dirsi dell’amore. L’amore degli ermafroditi è pieno e completo perché completamente spirituale, privo di ogni tentazione carnale. E’ pura benevolenza. Gli ermafroditi hanno in orrore il sesso, si riproducono di nascosto e considerano grave qualsiasi cenno alle faccende sessuali durante la conversazione. Hanno in orrore la carne e le sue faccende.
Sono esseri liberi, gli ermafroditi. Vanno in giro nudi, possiedono tutto ciò che occorre alla loro sopravvivenza ma non accumulano nulla, credono che l’essenza dell’uomo sia la libertà, e che togliergliela significhi ridurlo allo stato animale. Per questo non hanno autorità. Non ne hanno bisogno: essendo esseri razionali, seguono facilmente all’unisono ciò che vedono essere il bene, a differenza dei mezz’uomini, che hanno solo un barlume di ragione e per questo sono in contrasto su tutto. La via della ragione, si sa, è una via piana: ed ecco che gli industriosi ermafroditi spianano tutte le montagne del paese. Niente ascensioni mistiche. In fatto di religione, seguono il più apprezzabile buon senso. A che negare Dio? Bisogna essere ciechi per negare che vi sia un Principio. E tuttavia, che dire di questo Principio? Basta dire che c’è, il resto è chiacchiera – o oscenità. Gli ermafroditi credono nello Haab, l’Incomprensibile, ma una legge inviolabile proibisce di parlarne, perché troppo facilmente l’uomo può dire del Principio qualcosa di inesatto, o peggio di offensivo. Di Dio non si parla, conclude il vecchio interlocutore di Sadeur. La migliore religione è non parlare di Dio. Cosa veramente buona e giusta, viene da dire: l’avesse capito per tempo, l’Europa, non avremmo avuto le guerre di religione. Per tempo l’aveva capito il Taoismo: chi conosce il Tao non parla del Tao, dice il Tao-Te Ching (cap. LVI). E non si è mai sentito di crociate in nome del Tao. Forse perché un Principio sfuggente non può essere invocato come Signore degli Eserciti, né puoi farlo finire nel motto Gott mit uns.
Fin qui – soprattutto per quest’ultima discrezione riguardo alle cose sacre – questa Terra Australe pare un paradiso. E invece, a sentire il vecchio che fa da guida a Sadeur, è un inferno. O meglio, sono gli ermafroditi che ci stanno con l’inferno dentro: pensano che la vita sia una brutta faccenda, e che morire sia meglio che vivere. Per questo tutti si davano la morte, finché per legge è stato stabilito che ci si può uccidere solo dopo una certa età, e solo dopo aver trovato qualcuno che prenda il proprio posto. L’essere umano – sostengono – è fatto di carne e spirito, elementi inconciliabili e sempre in lotta tra loro. La vita è questa lotta sfiancante. La morte è il gradito riposo.
Il problema, ahimé, è quello della carne. Gli ermafroditi non accettano la corporeità, rifiutano il sesso, mangiano i frutti della natura ma lo fanno vergognandosi. Sono esseri spirituali in lotta con la carne. O, se si preferisce: esseri razionali che combattono le passioni e l’irrazionale. Come succede, questa lotta ha aspetti crudeli. Gli australiani hanno diversi nemici: i grandi uccelli urg, ma soprattutto il popolo dei Fondin, che essi combattono senza alcuna pietà, abbandonandosi ai peggiori massacri. In questo paradiso infelice, Sadeur finirà per essere condannato a morte, con due capi d’accusa: aver provato pietà per qualche donna dei Fondin – tra i Fondin vi sono le donne più belle che abbia mai visto – ed aver suscitato eccitazione sessuale. Il desiderio e la comprensione sono le due colpe di Sadeur, che riuscirà ad evitare la morte solo fuggendo rocambolescamente dal suo paradiso a cavalcioni di un uccello urg – che mi piace considerare, in questo contesto, una icona del desiderio. E forse il messaggio di questa strana utopia, di questo singolare viaggio immaginario è che la ragione senza il desiderio rende l’uomo feroce ed infelice. Cosa che forse il tormentato Gabriel de Foigny aveva constatato prima nel convento francescano e poi nella austera Ginevra calvinista.

Fontenelle [?], Lettera sulla nudità dei selvaggi

Immagine tratta da: Barone di Lahontan, Illustrations de Mémoires de l’Amérique septentrionale… Les Frères l’Honoré La Haye 1704.

Come già fecero tanti prima di lui, e come tanti altri faranno dopo, nel 1674 S. van Doelvelt si mette in viaggio per terre sconosciute, alla ricerca di fama ed avventura. Dopo l’immancabile provvidenziale naufragio, approda in una delle terre del mondo d’Utopia: si tratta, questa volta, dell’isola di Ajao, ovvero la Repubblica dei Filosofi. L’abitano degli uomini saggi, adoratori della ragione e della Natura: e per giunta materialisti, atei e comunisti. Noi adoreremmo loro, se non fosse per una certa crudeltà verso i loro schiavi – i quali sono i vecchi abitanti dell’isola di Ajao, gente indolente e superstiziosa, che certo merita di essere schiacciata così come l’errore dev’essere distrutto dalla ragione.

L’avventura di van Doelvelt è raccontata da Fontenelle nella sua Repubblica dei Filosofi, uscita a Ginevra nel 1768: uno dei tanti romanzi utopistici della Francia moderna, dalla Histoire de Calejava (o meglio, dalla utopia proto-femminista di Christine Pizan) a quella Icaria di Etienne Cabet in cui qualcuno vedrà una precisa anticipazione e prefigurazione onirica dell’Unione Sovietica.
In appendice al romanzo utopistico c’è una divertente lettera sulla nudità dei selvaggi, scritta in risposta ad alcuni quesiti di una ignota Madame. Il suo ignoto autore tocca temi di non poca importanza, con una licenziosità così garbata che, quando giunge ad affermare che il coso che noialtri abbiamo tra le gambe è un Dio, e la cosa che quelle lì hanno tra le loro gambe è il suo tempio, a nessuno, sono certo, vien voglia di protestare.
Traduco da: Bernard Le Bouyer de Fontenelle, La République des philosophes, ou Histoire des Ajaoiens, Genève, s.n., 1768, pp. 164-199.
Lettera a Madame la Marchesa di *** sulla nudità dei selvaggi
Madame,
non so come rispondere alla lettera che mi avete fatto l’onore di scrivermi, né come trattare questo argomento della nudità dei selvaggi, senza offendere la vostra modestia: l’argomento è molto delicato; mi asterrò dalle oscenità, ma non so se potrò tenersi al riparo da idee oscene.
Come, dite voi, è possibile sopportare, senza arrossire di vergogna, la presenza di uomini e di donne tutti nudi? Come è possibile vedere nelle chiese, senza distrarsi, delle cose simili? In che modo i ministri del Signore, che non tollerano che si stia in chiesa senza avere il seno e le braccia coperti, possono permettere che quelle genti entrino nel tempio e le donne portino scoperto un seno che nelle giovani ballonzola come degli agnelli sul prato, e che gli uomini, la cui carnagione e l’espressione naturale dei muscoli annunciano e promettono i felici effetti del vigore maschile? Come può avvenire ciò senza che il bel sesso ne sia turbato e i maschi ne siano eccitati, senza offendere il pudore che possediamo dalla nascita e che è naturale? Voi siete sicura, Madame, che non può essere altrimenti. L’esperienza tuttavia distrugge le vostre ragioni, e mostra che ciò che si chiama pudore non deve essere considerato al rango delle idee che chiamiamo innate, e che non è che un effetto della educazione, del costume e dell’uso.
Se la Natura avesse donato all’uomo qualche parte realmente vergognosa, da non esporre alla vista, essa è troppo saggia per non averlo dotato al contempo di qualche altra parte, con cui coprirle e nasconderle alla vista. Solo quando hanno imparato le conseguenze della nudità e l’idea che ci si forma del pudore, i bambini cominciano ad arrossire come i loro genitori e i loro maestri.
Prova che questo pudore è effetto dell’educazione è il fatto che il bel sesso non arrossisce vedendo nei quadri dei bambini che rappresentano degli amorini, dei quali nulla è nascosto; ma tutti protesterebbero, se questi amorini fossero femmine. Si cammina tranquillamente in un giardino pieno di belle statue tutte nude, che rappresentano fauni ed atleti, senza esserne turbati e senza arrossire. Un grande principe, che aveva fatto coprire con dei pampini fatti di tufo, fece dire a una Dama: Oh, che belle cose vedremo quest’autunno, quando le foglie cadranno!
Si guarda con una sorta di indignazione chi conserva nel suo studio dei quadri o delle incisioni che contengono delle nudità considerate oscene, mentre si ammirano un Ercole, una Venere Medicea, ed altre divinità dell’antichità pagana, esposte agli occhi del pubblico, in palazzi i cui proprietari sono di primo rango tra i ministri della religione. Convenitene, Madame, si tratta degli effetti dell’educazione, del costume, della prevenzione. Ecco una prova ancora più efficace: voi non arrossite certamente, Madame, nell’esporre allo sguardo ed all’ammirazione pubblica il vostro bel viso cosparso di rose, i vostri begli occhi e tutte le grazie con le quali la Natura vi ha favorito, mentre la più bella ottomana, non dico la sultana del serraglio, ma la sposa di un semplice maomettano, crederebbe di aver perso il proprio onore, se un uomo diverso dal marito vedesse il suo viso. Salendo in battello sul Nilo da Alessandria al grande Cairo, ho visto spesso delle egiziane che venivano ad attingere acqua e si gettavano sulla testa l’orlo della camicia per coprirsi il viso, a rischio di mostrare ai nostri occhi ciò che voi sareste addolorata, Madame, di mostrare a chiunque al mondo.
In altri paesi, non è meno vergognoso per le donne mostrare i piedi, che spesso storpiano ferrandoli, per renderli più piccoli. Gli Azenagi, popolo del Senegal, coprono le loro bocche con più cura delle parti naturali. Forse che il viso, la bocca, i piedi di queste genti sono parti vergognose, che non si osa mostrare senza offendere il pudore e perdere l’onore? No, certamente, mi direte voi, per chi non abbia un tale sentimento e creda, al contrario, che sia bello e naturale mostrarli, come anche abbellirli ed aumentarne le attrattive; e voi vi burlate, ed a ragione, delle idee ridicole di questi popoli. Essi, al contrario, credono che certe idee debbano essere innate nelle loro donne, come voi credete che sia naturale coprire le altre parti del vostro bel corpo.
Se il pudore fosse qualche cosa di naturale in noi, Adamo ed Eva, creati nudi nel paradiso terrestre, sarebbero arrossiti per il loro stato, mentre la vergogna li ha sorpresi solo dopo il loro peccato, ed il pudore, che noi consideriamo una virtù, fu quasi una punizione per la loro disobbedienza. Allora coprirono la loro nudità con una foglia di fico – non dispiaccia a quelli che, pensando che una tale foglia fosse troppo piccola, la sostituirono con una foglia di banano, che misura da cinque e dieci piedi di lunghezza su due di larghezza. Io dico che una tale foglia non era necessaria, li avrebbe indubbiamente imbarazzati, se l’avessero presa come primo pezzo dell’armatura d’un cavaliere, come si esprime Rabelais, vale a dire per usarla come brachetta: d’altra parte, donarle una così larga copertura significa fare torto ad Eva, e quand’anche Adamo fosse stato simile al Dio di Lampsaco, una tale foglia gli sarebbe stata larga. La Camisa dei Caraibici, come già vi ho fatto notare, Madame, non è più grande di una normale foglia di fico, eppure copre interamente la loro nudità: e lo straccio che gli uomini portano attaccato alle reni non è largo che quattro pollici; il resto del loro corpo è nudo, ma non se ne vergognano.
E perché dovrebbero arrossire? Prima dell’invenzione delle arti e dei mestieri, prima che si fabbricassero le stoffe, gli uomini non andavano nudi? E questo uso di andar nudo è dovuto durare molto a lungo, perché nei tempi eroici gli Ercole, gli Alcide e gli altri eroi della Grecia originaria erano coperti solo con pelli di leone o di altre bestie che avevano ucciso, e le cui spoglie usavano come abbigliamento più che come trofeo. Queste pelli coprivano loro le spalle, ma non potevano bastare per coprire le nudità: è così almeno che li si rappresenta. A questo proposito, Madame, permettete che vi racconti un piccolo aneddoto. Diverse dame e cavalieri di fermarono davanti alla statua di un Ercole antico, e dopo averla analizzata ed ammirata, uno dei cavalieri volle imprudentemente far loro osservare che un difetto, che consisteva in un errore di proporzione: “Oh! ribatté una dama del gruppo, se voi foste tutto nudo come questo Ercole, con il freddo che fa, probabilmente troveremmo in voi ancor meno proporzione.”
Non sono soltanto i Caraibici che vanno nudi; sono tutti i popoli che si trovano in quel vasto continente: i rigori delle zone glaciali, la varietà di quelle temperate e gli ardori di quella torrida non sono riusciti a far prendere loro degli abiti. Solo i selvaggi del nord del Canada si coprono con alcune pelli, quando il paese è pieno di nevi e di ghiaccio; il loro corpo avvezzo alle intemperie li rende quasi insensibili al freddo dell’inverno, e lo stesso corpo abituato ai grandi calori gli impedisce di avvertire i raggi brucianti del sole: poiché tutte le piume, tutti i ninnoli che usano i Messicani e i Peruviani sono bizzarrie che non li difendono né dal freddo né dal caldo e che, lasciando scoperte tutte le parti del loro corpo, non fanno che velare quelle che si chiamano naturali.
Tutti gli Africani vanno ugualmente nudi. Gli Ottentotti del Capo di Buona Speranza non sono coperti che della sporcizia e degli orridi escrementi degli animali, di cui si cospargono il loro corpo. Se si cercasse con più cura, si scoprirebbe che molti Asiatici vanno ugualmente nudi; soprattutto, si troveranno nelle Indie Orientali i Brahmini e i Fachiri, e nell’Impero Ottomano i Dervisci, gli uni e gli altri tipi di uomini religiosi che, giunti a un punto di pretesa santità, vanno impunemente nudi in pubblico. Da ciò che dico consegue che quasi la metà degli uomini che sono sulla terra vanno nudi senza vergognarsi della loro nudità; e quindi ciò che chiamiamo pudore non è una cosa innata in noi.
Quei popoli che sono abituati a vedere scoperte tutte le parti del corpo umano non sono più turbati di quanto lo siamo noi vedendo il volto di una donna. Quale ragione infatti c’è per nascondere alcune parti del corpo e mostrarne altre? Quelle che nascondiamo, si dirà, sono gli scarichi naturali del cormo umano, che giustamente si ha vergogna di mostrare. Ma la bocca, il naso, le orecchie, non sono sudici come le altre parti? Le esalazioni spesso infette, gli sputi, il muco non sono più disgustosi dei liquidi che escono dalle parti naturali?
C’è qui certamente qualche altra ragione. Perpetuare la specie umana non dovrebbe essere più vergognoso che conservare l’individuo. Il filosofo Cinico aveva le sue buone ragioni per dire che poteva tranquillamente concepire un uomo in pubblico, così come mangiava in strada quando aveva fame. L’azione che conserva la specie umana dovrebbe essere più nobile, ed in effetti lo è. Quante feste, quanto giubilo, quante cerimonie anche religiose si fanno in occasione delle nozze? E qualcuno ignora a che scopo ci si sposa? Tutti sanno quale atto ne segue, ne abbiamo delle idee chiare e distinte; tuttavia le leggi dell’onore e del pudore ci impediscono di nominarlo e di praticarlo in pubblico. E’ una cosa che si confida in segreto, ed è un crimine violare il segreto; non se ne può parlare che con giri di parole; ci si nasconde con cura per compiere un’azione di cui poi ci si gloria; si ha vergogna di procreare in pubblico un bambino, eppure si è tutti felici, tutti gloriosi per averlo fatto; si pronunciano arditamente i nomi di tutti i crimini, uccidere, rubare, assassinare, crimini che distruggono il genere umano; ci si vergogna di nominare ciò che lo conserva, che lo perpetua: quale è la ragione di una bizzarria, di una varietà così grande di sentimenti riguardo ad una stessa azione?
Ecco, Madame, cosa credo. Il pensiero o il fatto di confessare le nostre imperfezioni e le nostre debolezze, causa ciò che chiamiamo vergogna: ognuno cerca di allontanare da sé questa confessione, fino a che gli è possibile; e benché non dipenda da noi essere belli e ricchi, noi ci vergogniamo della bruttezza e della povertà, o di qualche infermità naturale che abbiamo. E’ lo stesso se non abbiamo alcune qualità che convengono al nostro stato: il soldato si vergogna della sua viltà, il dottore della sua ignoranza, il marchese della sua rozzezza; ma l’uomo di paese non ha alcuna vergogna d’essere grossolano, l’uomo di chiesa si evitare i pericoli della guerra, i nobili di essere ignoranti; un damerino si gloria di fare il simpatico appresso al bel sesso, mentre un magistrato si crederebbe disonorato, se facesse la stessa cosa. Da ciò deduco che la vergogna consiste in ciò che marca una differenza con i nostri simili, tanto riguardo al corpo quanto riguardo allo spirito.
Ciò non mette capo a niente, direte; esporre agli occhi del pubblico ciò che è naturale e uguale in tutti gli uomini non dovrebbe essere vergognoso, perché non in ciò non c’è nulla che possa mortificare il nostro amor proprio e il desiderio interiore che abbiamo di meritare la stima degli uomini.
Perché allora è vergognoso mostrare certe parti del nostro corpo, mentre ci gloriamo di esporre le altre? Non possono essere una prevenzione, un costume, l’effetto dell’educazione, delle idee che ci sono state inculcate, che ci fanno arrossire quando mostriamo scoperti il ventre, il seno, le natiche, nei paesi in cui si usano gli abiti. Queste ragioni fanno ugualmente trovare vergognoso mostrare il viso, la bocca, i piedi, presso i popoli in cui è proibito mostrarli.
Piuttosto, direte voi, avviene che gli uomini, ciascuno nel proprio cantone, si sono posti delle leggi ed hanno imposto una punizione, un disprezzo per chi le viola, di modo che sia increscioso non conformarsi ad esse. Nei paesi in cui sono prescritti gli abiti, dove c’è il costume e la regola di coprire i corpi, si ha vergogna di comparire nudi e di mostrare le parti che si è convenuto di nascondere: di più, in certi paesi non è possibile comparire in pubblico che con gli abiti propri di ogni stato; un prete, un magistrato arrossirebbero se dovessero comparire in pubblico con gli abiti da paesano o da cavaliere, o un galantuomo vestito e acconciato da donna; ed il monaco che sarebbe disonorato se portasse la spada ed il pennacchio in Francia e in Italia sembrerebbe arditamente in stato di guerriero in Inghilterra ed Olanda. Le Maomettane Arabe, Beduine, sarebbero considerate infami in una città della Turchia, se vi comparissero a viso scoperto, mentre sono donne molto oneste nei loro Douar (1), quando mostrano il viso, le braccia e una parte del corpo nudi.
La vergogna non consiste dunque nel comparire nudi o vestiti, ma nel violare le leggi, gli usi, i costumi stabiliti dalle leggi proprie di ciascun paese: di conseguenza i selvaggi e gli altri popoli, in cui vige la nudità, possono andare nudi senza arrossire, senza vergognarsene, senza offendere il pudore, perché non contravvengono a nessuna legge e seguono i costumi stabiliti.
Cerchiamo, Madame, qualche altra buona ragione che abbia portato a stabilire il pudore e la vergogna di andare nudi. Gli uomini, nelle loro idee differenti, considerano come virtù ciò che gli altri stimano come vizio: non c’è vergogna nel comparire in pubblico fuori di sé presso gli Svizzeri e i Tedeschi, mentre in Spagna si perde l’onore se ci si ubriaca; derubando i passanti si è puniti alla ruota in certi paesi, mentre presso gli Arabi Saraceni è motivo di gloria essere trovati cariche delle spoglie dei viaggiatori; e così per mille altre azioni degli uomini. Ma il matrimonio è sembrato una cosa assolutamente necessaria alla società in tutti i popoli: agli uni è stata ordinata una sola donna, mentre agli altri è stata permessa la poligamia, e presso tutti è stata ricercata l’unione delle famiglie. Il dettaglio del vantaggio del matrimonio è troppo lungo da esporre: per goderne si è creduto che bisognasse renderlo politico e religioso, e permettere onestamente con una cerimonia pubblica l’atto che segue necessariamente il matrimonio e lo rende sacro; e per ovviare agli abusi che questo atto, naturale e necessario alla propagazione, conservazione, moltiplicazione della specie umana avrebbe potuto comportare se fosse stato troppo frequente e troppo pubblico, si è stabilita ovunque una legge, una convenzione: che i piaceri dell’amore si prendano in segreto.
Si sono visti dei Legislatori che, nell’intento di rendere quest’atto più fruttuoso, non permettevano ai giovani coniugi di vedersi che in segreto e quadi furtivamente, essendo vergognoso per loro essere sorpresi, anche solo in conversazione familiare, con le loro spose, e ciò in base a questo assioma: Noi amiamo ciò che ci è proibito.
Altri popoli hanno reso esecrabili le donne nel tempo della loro indisposizione periodica, ritenendo sudicio tutto ciò che toccano. Le cerimonie religiose degli abati Banier e Mascrier (2) contengono tutte le leggi su questo argomento, ma ripetute così spesso e con tanta affettazione, che annoiano e disgustano: vi si trova un accanimento su questo tema che irrita e annoia, e sarebbe così anche se questi sette volumi in folio, che questi abati hanno fatti stampare, si riducessero della metà, che sarebbe poi il loro giusto valore. Il motivo di tutte queste leggi contro l’impurità delle donne non può derivare che da una idea fisica, poiché se ci si avvicina alle donne in questo periodo di infermità si fanno dei bambini malati; e per evitare queste spiacevoli conseguenze, si è fatto tutto il possibile per allontanare gli uomini dalle loro donne, quando loro sono in quel periodo: per meglio riuscirvi si sono unite le leggi politiche, quelle dell’onestà, quelle della proprietà, alle terribili leggi religiose che, presso tutti i popoli, costringono gli uomini al loro dovere e li costringono ad eseguire la legge.
Le stesse leggi politiche che hanno voluto che l’atto non fosse troppo frequente, temendo di renderlo infruttuoso, e mille altre buone ragioni hanno stabilito la legge della purezza, della buona creanza, dell’onestà: si sono dichiarati impudenti, lussuriosi, impudichi e anche infami coloro che violano queste leggi; ne è seguito un orrore verso quelli che si accoppiano pubblicamente ed agli occhi di tutti. Lo stesso Sant’Agostino, nel suo libro La città di Dio (3), crede che sia impossibile consumarlo in pubblico. Ecco come lo spiega: perdonatemi, Madame, questo latino è necessario per provare ciò che dico; ma, poiché voi non lo intendete, ecco, Madame, la traduzione che ne fa Michel Montaigne nei suoi Saggi (4).
“Come io penso, è per una opinione delicata e rispettosa che un grande Autore religioso ritiene che tale azione sia così necessariamente occulta ed alla vergogna, che nella licenza degli accoppiamenti dei cinici non riesce a persuadersi il desiderio giungesse al suo compimento, ma che ci si limitasse a rappresentare dei movimenti lascivi, giusto per mantenere l’impudenza della professione della loro scuola, e che per far gonfiare ciò che la natura aveva costretto e ritirato avessero bisogno di cercare l’ombra.”
Illum (Diogenem) vel alios qui hoc fessisce referuntur, potius arbitror concumbentium motus dedisse oculis hominum nescientium quod sub pullio gereretur, quam humano premente conspectu potuisse illam peragi voluptatem; ibi enim philosophi non erubescant videri se velle concumbere ubi libido ipsa erubesceret surgere.
Questo latino è licenzioso almeno quanto il francese di Montaigne.
Si è voluto che quest’atto si compisse in segreto e che di conseguenza si nascondessero le parti che servono a questo atto, pensando che le nudità sono capaci di saziarci prima del tempo e disgustarci. A noi piace indovinare: e i quadri più licenziosi ci eccitano meno di uno che rappresenti un letto con con le tendine perfettamente chiuse, ma da cui fuoriescano quattro piedi, due rivolti verso l’alto e due rivolti verso il basso. Malgrado ciò, non si è potuto fare a meno di dare a queste parti un nome eccellente e molto bello; le si è chiamate parti naturali, con le quali la Natura opera la più nobile delle sue opere, la più utile delle sue operazioni, che è la conservazione della specie, la moltiplicazione del genere umano. Montaigne dice che bisognerebbe chiamare bruti coloro che definiscono brutale tale azione, cui la Natura ci spinge così vivamente.
Si sono rese queste parti rispettabili e onorabili da parte di tutti rendendole simili a certi Re Indiani, che conservano la venerazione e la specie di adorazione che i loro sudditi hanno per loro solo rendendosi quasi invisibili ai loro occhi; si è voluto che fossero sempre nascoste. In effetti è degno di considerazione il fatto che i maestri di questo mestiere ordinano, come rimedio alla passione amorosa, la vista del corpo nudo che si cerca; per raffreddare la passione basta vedere liberamente ciò che si ama. “Un tale, dice Ovidio, per aver visto allo scoperto le parti segrete che amava s’è trovato d’un colpo libero da ogni passione.” Montaigne fa ancora una bella riflessione: “Tutti corrono per assistere alla morte di un uomo, e nessuno per vederlo nascere: si cerca un vasto campo per compiere battaglie che distruggono il genere umano, e ci si mura in qualche cavità profonda per formarlo e produrlo.”
Quando queste parti onorevoli sono state deificate, con il nome di Dei dei Giardini, sono stati fatti dei simulacri molto piccoli, ben lontani dalle loro dimensioni naturali: è così che li vediamo negli studi dei curiosi antiquari. Non si è permesso che tale Dio apparisse in trionfo, o troppo attraente per il sesso femminile, affinché le ragazze non se ne curassero troppo, e le donne non avessero troppa voglia di possederlo; affinché tutte potessero dire:
Giammai un così fragile stiletto
ci fece soccombere.
Quindi si è coperto d’orrore a tutte le rappresentazioni nelle quali questo Dio potesse essere visto in procinto di entrare nel suo tempio, per fare lui stesso o ricevere delle libagioni. E’ state chiamato osceno e impudico tutto ciò che potesse darne l’idea, sia con delle rappresentazioni che con dei discorsi. Le posture dell’Aretino, che si vedono in Vaticano, non ne sono state esentate, nonostante la santità del palazzo. Così sono stati coperti di vergogna e di disonore a tutti coloro che tengono dei discorsi che descrivono o rappresentano il compimento o l’accingersi all’atto; si è nascosto, si è velato con tutta la cura possibile non solo l’ingresso nel tempio, ma anche i boschi che lo circondano: perché questi tempi del corpo umano sono, come le pagode o i templi degli idoli dei Baniani e degli Indiani Orientali, sempre circondati da un boschetto. Si è concepito un orrore per la sporcizia e le periodiche zozzure che escono da questo tempio così caro, così necessario, per il quale, non so perché, si è ispirato al tempo stesso tanto rispetto e tanto orrore.
Ecco, Madame, a cosa penso, le ragioni che hanno fatto stabilire presso quasi tutti i popoli la legge di coprire le nudità, le parti naturali, e di esercitare di nascosto l’atto della generazione. E nondimeno è opera bellissima in sé dare la vita a un essere eccellente come l’uomo; e le parti che servono a questo scopo non hanno nulla di meno vergognoso e laido delle altre. Adamo ed Eva avevano torto di arrossire della loro nudità; erano soli al mondo, formati l’uno per l’altra dalla mano del Creatore. Queste parti avevano peccato meno della bocca che era servita a mangiare il frutto proibito: è quella che bisognerebbe punire, da cui ci vengono tanti mali. Ma, forse, dopo il peccato di Adamo queste parti si sono trovate in uno stato o troppo trionfante o troppo umile, il che, in un modo o nell’altro, ha indotto Adamo ed Eva ad arrossire. Bisogna ancora sapere in quale dei due stati si trovava Noè allorché il vino lo fece uscire di senno, e per quale ragione Cam si fece beffa di lui: fu per aver visto l’ardore o la fiacchezza del padre?
Per finire questa lettera vi dirò, Madame, che è certo che tutti nasciamo nudi; che i nostri primi progenitori, nell’infanzia del mondo, dovettero restare in questo stato di nudità, e di conseguenza abituare i loro occhi a certi oggetti, che erano loro indifferenti come lo sono ai bambini ed ai popoli che sono abituati a vederli; e che solo molto tempo dopo ci si è cominciati a vestire. Ascoltiamo Montaigne:
“Certo, quando mi immagino l’uomo tutto nudo (sì, quel sesso che sembra aver ricevuto più bellezza), le sue tare, la sua dipendenza dalla natura, le sue imperfezioni, trovo che abbiamo molte più ragioni di qualsiasi altro animale di coprirlo. Siamo scusabili per aver preso in prestito ciò che la Natura ha dato loro più che a noi, di ornarci delle loro bellezze e di nasconderci sotto le loro spoglie di lana, di piume, di pelo, di seta. Del resto, notiamo che siamo gli unici animali i cui difetti offendono i compagni, gli unici che si nascondono le azioni naturali della propria specie.”
Sono, forse, queste ragioni vergognose per l’uomo, che lo hanno fatto acquisire l’abitudine e l’hanno costretto ad usare degli abiti ed a coprire le parti naturali e quelle del suo corpo che ha creduto di dover nascondere alla vista. Quante donne sarebbero indispettite comparendo nude, e quanto perderebbero mostrando al naturale quelle parti imbellettate, che sanno così bene abbellire, e che sono spesso la maggior parte del loro finto merito!
Sono stati accusati di estrema impudenza i debosciati che si spogliano gli uni davanti agli altri, mischiando anche i differenti sessi ed esponendo le loro nudità agli occhi di tutti. Sono state considerate con orrore quelle sette religiose, ma abominevoli, che per imitare i primi uomini si spogliano interamente dei loro abiti e che nelle loro assemblee religiose pregano tutti nudi e al tempo stesso si uniscono indifferentemente gli uni con gli altri, senza distinzioni di parentela, volendo osservare esattamente il precetto della legge: Crescete e moltiplicatevi.
Ma mi accorgo che sto insensibilmente entrando in argomenti astratti, che non sono di gusto delle dame; e che, mentre mi ero proposto di scrivere una lettera scherzosa per divertire una persona di spirito come voi, Madame, sto diventando filosofo e politico, e mi sto toccando argomenti della religione, che bisogna sempre rispettare e di cui bisogna parlare il meno possibile, temendo di smarrirsi e di imbatterci in gente rispettabile di qualsiasi popolo e in ministri della religione, quale che sia, che non sappiano stare allo scherzo: e così taccio, assicurandovi che l’uso che autorizza la nudità dei Caraibici non ha nulla di immodesto, impudente, disonesto presso di loro, nello stato di pura natura che hanno conservato; e che, se voi foste abituata come noi, ammirereste il loro buono stato, la pelle liscia e lucida, la loro sanità perfetta, senza che altre idee offendano il vostro pudore e la vostra modestia: perché vi assicuro, Madame, che tutto è solo costume, prevenzione, effetto dell’educazione, e che non c’è niente di innato in noi.
Ho l’onore di essere, ecc.
(1) Villaggio (N. d. T.)
(2) Allude alla Histoire Générale des Cérémonies, moeurs et coutumes religieuses de tous les peuples du monde, (7 volumi, Paris, Rollin 1741) degli abati Banier e Mescrier (N. d. T.).
(3) Lib. XIV, cap. 20.
(4) Lib. II, cap. 12.

abbé Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre, Sulla dolcezza

Acquaforte di Eugène André Champollion

Nella storia del pensiero politico, l’abate di Saint-Pierre conta per il suo Progetto per rendere la pace perpetua in Europa (1712), che anticipa la più nota riflessione di Kant; progetto che affidava la pace europea ad una assemblea di stati, nella quale le controversie venissero risolte attraverso l’arbitrato, e che aveva, come notò Rousseau, un solo, grande limite: ai sovrani non interessa la pace, poiché la guerra ne rende più stabile il potere. In questo scritto degli ultimi anni, quel modello di conciliazione razionale delle controversie, che proponeva agli stati, è esteso a tutti i rapporti umani. La pace, che non giunge dalla volontà del politico, può nascere dal diffondersi di un nuovo atteggiamento umano, da una generale rinuncia all’animosità nelle dispute, siano esse intellettuali, religiose o economiche.

Traduco da: abbé Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre,  De la douceur, Briasson, Paris 1740, pp. 3-11.
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In un grande spirito, la dolcezza è prova di grandezza d’animo.
La dolcezza è la virtù meglio ricompensata in questo mondo.
Dal momento che considerano vergognoso cedere con dolcezza, anche se occorre più ragione e più coraggio per cedere che per resistere, la maggior parte degli uomini fanno i bambini.

Quelli che non hanno abbastanza forza per cedere con dolcezza, si piccano spesso di essere fermi; ma quando questa fermezza è priva di ragione, non è più una virtù, non è che umore, rigidità, testardaggine, falso eroismo.
La dolcezza suppone l’equanimità e la tranquillità dell’anima, a volte ne è l’effetto ed altre la causa.

La dolcezza non ci rende indifferente ai piaceri, ma qualche volta ci spinge a fare qualche sacrificio per l’amicizia e la riconoscenza.
L’uomo impaziente e maldestro si inganna molto spesso sui mezzi per stabilire ad assicurare il suo dominio e la sua autorità; egli trova degli ostacoli quando usa delle maniere altezzose, minacciose, per effetto dell’impazienza: cambierebbe modi, avrebbe dei modi dolci se facesse attenzione al fatto che lui stesso ama essere dominato dalla dolcezza.
Si suppongano gli uomini in qualsiasi stato di superiorità, di padre, di signore, di re: è la dolcezza dei loro modi che dà il fondamento più solido alla loro autorità, come la dolcezza di coloro che sono subordinati è il miglior modo di conciliarsi con i superiori.
La violenza di certe imprese fa nascere degli ostacoli che solo la dolcezza può superare.
Gli uomini hanno cominciato a gioire tranquillamente dei loro beni nei tempi in cui i loro costumi si sono addolciti.
Per quale fatalità gli uomini, che avrebbero potuto mettere a profitto la loro felicità, il vantaggio di essere riuniti nel corpo sociale, non si sono occupati, il più delle volte, che a infastidirsi, a nuocersi reciprocamente? Mancano di conoscere il loro più grande interesse, di essere dolci; manca la dolcezza nelle relazioni umane.
In mancanza di armi, ci vantiamo di altri mezzi: ci diffondiamo in discorsi ingiuriosi, seminiamo scritti satirici; e quale è il frutto delle nostre collere? I colpi che diamo ci attirano le offese che riceviamo, cosa triste e tanto più spiacevole perché è opera nostra, quando manchiamo di dolcezza e di pazienza.
L’uomo dolce gioisce di una sorte molto tranquilla: non ferisce l’amor proprio degli altri, non ne urta le passioni, nelle avversità non lo si vede scoppiare in lamenti, nella prosperità non dimentica il proprio passato; quando un uomo volubile gli fa i capricci, egli se l’aspetta: legge gli effetti nelle cause, e considera i cattivi trattamenti, come le ingiurie, nulla più che le conseguenze di un temperamento che è stato smascherato.
In altre occasioni l’uomo dolce, se insultato, sospetta di essersi attirato lui stesso le ingiurie che subisce.
L’aria modesta e attenta, i gesti misurati, il tono moderato, la favella un po’ lenta, le parole graziose, gli occhi bassi; tutto serve a esprimere il carattere della donna dolce.
La dolcezza ci annuncia il rispetto, l’approvazione, la confidenza, la considerazione, la sottomissione, l’obbedienza, il desiderio di piacerci, la gaiezza: come può non piacerci più delle altre virtù?
La dolcezza marcia insieme alla presenza di spirito, decisiva in ogni sorta di lotta.
Non confondiamo la dolcezza virtuosa con quelle insipide compiacenze servili, che sono piuttosto segni di piccineria e di debolezza.
Colui i cui costumi sono dolci, è ai nostri occhi uomo di quasi tutte le virtù; si è dolci perché si è equi, perché si è giusti, perché si è disinteressati, perché si è pazienti ed indulgenti.
Nulla di più opposto alla dolcezza, nulla le dispiace più della collera; questo carattere annuncia da una parte ogni sorta di ingiustizie, e dall’altra ogni sorta di sventura e di dispiacere della vita.
L’uomo dolce non commetterà che mancanze lievi in società.
L’uomo virtuoso che non è dolce e che ci ha urtato con la sua rudezza, non può riconciliarsi con noi grazie alla pratica delle altre virtù. E’ nobile e generoso, ma noi non siamo l’oggetto della sua benevolenza; mantiene le promesse, ma noi non abbiamo preso alcun impegno con lui.
I vizi ingiusti eccitano il nostro odio e lo giustificano, ma quanto ai difetti, sembra che abbiano diritto alla indulgenza delle persone che hanno della dolcezza nei rapporti umani.
L’uomo dolce si trova facilmente contento degli altri, e ciò è il vero segreto per farsi apprezzare lui stesso.
Che sarà di una assemblea dalla quale sia stato bandito lo spirito della dolcezza? Sarà una assemblea di uomini che non sanno che temersi, combattersi ed odiarsi.
Le persone dolci riescono più facilmente delle altre a convenire nella discussione di una questione.
Senza questa dolcezza, le dispute invece di chiarire le questioni non servono che a inasprirle, ad alienare gli spiriti.
L’uomo dolce fa ordinariamente parlare la lingua del cuore, lingua ben superiore e ben più eloquente di quella dell’ingegno.
In un conflitto di opinioni, l’uomo dolce è ben più vicino al vero di colui che si lascia trasportare dalla collere, o da qualche altra passione.
Dicendovi “io non sono ancora della vostra opinione”, l’uomo dolce disputa poco, vi lascia la vostra opinione, e non vi toglie la speranza di accettarla, un giorno; così non ferisce l’amor proprio.
La misura della stima che si ha per l’uomo dolce dà la misura di quanto si cerca di piacergli e di farsi apprezzare da lui.
L’uomo dolce durante la disputa prende i colpi e non li restituisce. Egli ci insegna che la differenza di opinioni non deve turbare il buon ordine della società: spesso bisogna solo darsi credito gli uni con gli altri per qualche tempo, per pensare un giorno allo stesso modo.
Il vantaggio dell’uomo che ha dei costumi dolci è che sembra agire secondo la volontà altrui, quando non fa che accontentare se stesso.
La compiacenza che noi abbiamo verso l’uomo dolce è il frutto delal compiacenza che lui ha verso di noi.
La dolcezza è una via più sicura per conquistare la maggior parte degli uomini, più sicura della via dei favori.
L’esempio di Socrate presso gli antichi e di San Francesco di Sales presso i moderni ci dimostra che la dolcezza può conquistarsi ad un livello altissimo, malgrado un temperamento brusco e petulante. E’ vero che occorrono coraggio e costanza per rilevare, durante cinque o sei mesi, i minimi moti d’impazienza che precedono una collera vergognosa, poiché irragionevole.
La dolcezza che procura all’uomo la calma e la tranquillità, tiene il suo spirito preparato a gustare giorno dopo giorno i piaceri innocenti, sia della vita campestre sia della vita della capitale, ognuno nella sua condizione.
Senza questa calma, frutto naturale della dolcezza, nello spirito non c’è che agitazione, ansia per i mali futuri, dolore per i mali presenti, una sorta di febbre continua, per cui senza dolcezza non c’è felicità, e più si è dolci, più si è felici: “Beati mites”.
Poiché non è possibile avere una grande dolcezza senza avere molte virtù, non si raccomanderà mai troppo ai bambini la pratica della dolcezza.
Se sono molto dolci, si guarderanno bene dall’offendere i loro compagni.
Se saranno molto dolci, perdoneranno facilmente le offese che riceveranno dai loro compagni.
Se daranno molto dolci, saranno sempre disposti alla piacevolezza.
Quale accordo c’è nei rapporti umani, quando non si teme di essere offesi e quando si trovano gli altri disposti a farci piacere!

L’inferno e l’ossessione della violenza

André Gonçales, L’Inferno
Una delle domande più tormentose della filosofia – che è la disciplina che si occupa delle domande tormentose: e che è, per questo, una disciplina in via di estinzione – può essere così formulata: ammesso che si riesca a capire, per qualche via, cos’è il bene, ed a distinguerlo nettamente dal male, per quale ragione dovremmo fare il bene e non fare il male? Perché, insomma, dovremmo essere buoni?
Un primo modo per rispondere a questa domanda consiste nel dire che chi fa il bene è felice, mentre chi fa il male si condanna all’infelicità. E’ quello che sostiene Socrate nel Gorgia platonico: “Io dico che chi è onesto e buono, uomo o donna che sia, è felice, e che l’ingiusto è malvagio e infelice” (470E; trad. G. Reale). Una tesi che contesta con veemenza il sofista Callicle, per il quale bene è “lasciar crescere i propri desideri il più possibile” (491E) e “togliersi il gusto di tutto ciò di cui continuamente gli possa venir voglia” (492A), fare quello che si vuole senza curarsi del bene e del male.

Socrate è l’eroe della filosofia occidentale, almeno fino a Nietzsche. Da Nietzsche in poi, le tesi di Callicle hanno preso decisamente il sopravvento. Che essere buoni serva ad essere felici è oggi una tesi decisamente debole; di più: alla filosofia l’uomo buono pare sospetto. Bisogna interrogarlo sulla sua bontà, fare la genealogia delle sue inclinazioni, scoprire il male dietro la sua facciata buona. L’uomo buono, in pace con sé stesso, è un brav’uomo, uno superficiale e mediocre, un borghesotto che non è mai cresciuto abbastanza da fare i conti con la sua stessa ombra.
Tra i non molti sostenitori della tesi socratica c’è papa Francesco, che nell’udienza generale dello scorso 11 giugno, parlando del timore di Dio, ha dichiarato: “Quando una persona vive nel male, quando bestemmia contro Dio, quando sfrutta gli altri, quando li tiranneggia, quando vive soltanto per i soldi, per la vanità, o il potere, o l’orgoglio, allora il santo timore di Dio ci mette in allerta: attenzione! Con tutto questo potere, con tutti questi soldi, con tutto il tuo orgoglio, con tutta la tua vanità, non sarai felice.” Può succedere, naturalmente. Anzi, succede spesso. Il mondo è pieno di persone ricche e potenti che sono infelici. Ma non va meglio con i buoni, ammesso che esistano da qualche parte. Per quelli della mia generazione, ci sono due figure emblematiche per l’uno e l’altro caso. Una è quella di Raul Gardini, il potentissimo imprenditore che si suicidò nel 1993, in seguito ad una storia di tangenti. L’altra è quella, nobilissima, di Alex Langer, il politico che si suicidò nel 1995, a conclusione di una vita spesa per il dialogo e la pace. Nel computer di Langer, dopo la sua morte, è stato ritrovato un file con una serie di domande che mettono a nudo la sua purezza morale, ma anche il tormento della sua coscienza. Tra queste: “Vivresti effettivamente come sostieni che si dovrebbe vivere?”. E: “Passeresti il tuo tempo con coloro ai quali rivolgi la tua solidarietà?”. Domande che dicono quanto sia difficile, oggi, vivere socraticamente. La voce di Callicle-Nietzsche ormai è interiorizzata, diventa l’intima inquietudine dell’uomo buono mai sicuro della sua bontà.
Probabilmente nemmeno il papa crede davvero alla tesi socratica, se subito dopo, in quell’udienza, sente la necessità di puntellarla con una seconda tesi. I buoni sono felici e i cattivi infelici, ma non solo; i cattivi, si sappia, andranno all’inferno. Nulla di nuovo: è a dottrina cattolica. Il discorso ha fatto parlare, però, perché papa Francesco, questa volta, ha individuato i cattivi nei corrotti, nei trafficanti di uomini e nei fabbricanti di armi. E’ sicuramente un segno positivo che i cattolici siano giunti ad individuare il male nella corruzione e della progettazione della guerra, dopo che per secoli se la sono presa con gli eterodossi, gli atei ed i ragazzini che si masturbavano. Meglio tardi che mai. Ma il discorso di papa Francesco fila? Direi di no.
Delle due l’una: o chi fa il bene è felice e chi fa il male è infelice, o chi fa il bene è infelice, ma può consolarsi pensando che otterrà una ricompensa nell’aldilà, mentre i malvagi saranno puniti. Se il bene è autogratificante, per così dire, non c’è alcun bisogno di credere o sperare nel paradiso e nell’inferno. Ma c’è un altro problema, più grave. Non si tratta della non esistenza dell’inferno, ma della sua desiderabilità. Ammettiamo pure che esista l’inferno, ossia un luogo in cui, come insegna la dottrina cattolica, i cattivi vengono puniti in eterno per il male che hanno fatto. E’ desiderabile un esito simile, una simile uscita dalla storia? E’ desiderabile che, a compimento della vicenda umana, si abbia in eterno la distinzione tra i buoni ed i cattivi? Il teologo Vito Mancuso, commentando il discorso di papa Francesco su la Repubblica del 13 giugno, sostiene che si tratta di “una convinzione universale”, e cita il Libro dei morti egiziano. E’ vero, il bisogno di vedere il bene premiato ed il male punito è un bisogno universale. E’ un bisogno che attraversa tutta la Bibbia e la inquieta. Perché l’ingiusto prospera e il giusto soffre? E’ la domanda di Qohelet e di Giobbe. Ed è interessante notare che alla domanda di Giobbe Dio non risponde mostrandogli la sua giustizia e ragionevolezza, ma al contrario umiliandolo, mettendo a nudo la sua pochezza nell’economia dell’universo. La sua risposta, cioè, è: chi sei tu per fare questa domanda?
Ma c’è un’altra aspirazione cui forse possiamo riconoscere una qualche universalità. E’ l’aspirazione a portarsi in una posizione di prossimità nei confronti di chi opera il male, di vedere anche in lui un fratello, di desiderare il suo bene e la sua felicità nonostante il male che ha fatto a noi stessi. E’ l’aspirazione che costituisce il momento più alto del Vangelo e ne fa un testo nobile anche per il non credente. E’ l’aspirazione che, cinquecento anni prima di Cristo, fa dire al Buddha che, nel caso in cui del malfattori ci facessero a pezzi, noi ci rivolgeremo loro “con una mente intrisa di gentilezza amorevole e, a partire da quella persona [chi ci sta facendo a pezzi], pervaderemo il mondo con una mente intrisa di gentilezza amorevole, una mente immensa, grande, incommensurabile, priva di inimicizia e priva di malevolenza” (Kakacupamasutta, trad. F. Sferra).
Ora, per chi giunga a questa percezione l’idea dell’inferno è intollerabile. Che qualcuno, per aver operato il male, debba essere condannato in eterno, soffrire senza fine e senza possibilità di evoluzione, è un’idea che non dà pace e soddisfazione, ma tormento all’uomo buono. La bontà radicale – la bontà della mente immensa del buddhismo o dell’amore del nemico evangelico – non tollera alcuna separazione dei buoni dai cattivi, poiché la separazione stessa è diabolica, è male: è una ferita che non consente di parlare di salvezza, né di compimento.
Chiedere l’inferno, la resa dei conti, sia pure per i fabbricanti di armi, rivela una concezione del bene per smontare la quale non occorre l’acume genealogico di un Nietzsche. Non è difficile scorgere in un angolo il rancore, la rabbia, la voglia di rivalsa: la violenza. E’ importante riflettere sul fatto che la nostra più o meno universale aspirazione alla giustizia è stata frustrata da una più o meno universale pratica della violenza. Per l’Occidente cristiano la tentazione di mandare qualcuno all’inferno prima del tempo è stata irresistibile: la nostra storia è una storia di guerre, di massacri, di esecuzioni. C’è motivo di credere che la dissacrazione dell’altro, implicita nella convinzione che alcuni, alla fine dei tempi, abbiano in destino di essere torturati in eterno, abbia qualcosa a che vedere con questa tradizione di violenza, dalla quale dovremo cercare di liberarci (e forse la domanda più importante della filosofia – questa disciplina in estinzione – oggi è: da dove viene la violenza da cui siamo ossessionati? e come possiamo liberarcene?).

Articolo apparso su l’Attacco del 19 giugno, con il titolo Il confine tra bene e male e la difficiloltà (oggi) di vivere socraticamente.

Materialismo mistico

Se dovessi sintetizzare con un’espressione la visione cui sono giunto, nessuna mi sembrerebbe più efficace di questa (pur con i limiti di tutte le definizioni): materialismo mistico. Materialismo, perché non credo in nessuna essenza o sostanza spirituale. Non credo in Dio, non credo nell’anima, non credo negli angeli e nei demoni. Credo che la cosiddetta materia sia tutto quel che c’è, e che il pensiero non sia che un suo epifenomeno, ed in nessun modo una sostanza separata ed autosufficiente. Non credo nella vita dopo la morte, nel paradiso e nell’inferno; non credo nemmeno nel karma e nella rinascita.
D’altra parte, sono ben lontano dal considerare la materia al modo del senso comune: come la solidità delle cose, la pesanteur – il corpo, anzi i corpi. A voler essere paradossali, si potrebbe dire che la materia non è nulla di materiale, senza per questo diventare qualcosa di spirituale. La base materiale delle cose è sostanziata di vuoto. Vuoto è gran parte dell’atomo, vale a dire la struttura di tutto quello che esiste. Ogni cosa che vediamo è tessuta di vuoto. Ogni scena che vediamo non è che una interpretazione dovuta alla opacità dei nostri organi di senso. Vedo questa scrivania, questo muro, questa finestra, l’albero sul balcone e le rondini che volano nel cielo di giugno perché non sono in grado di percepire l’autentica struttura delle cose, vale a dire gli atomi. Se potessi farlo, nulla più di tutto questo esisterebbe. Scomparirebbe il mondo, ma scomparirebbe anche l’io. Perché l’io non è che il correlato del mondo. L’io esiste come soggetto che percepisce il mondo; la materialità delle cose, comunemente intesa come solidità e forma, è la membrana esteriore che lo sorregge e gli permette di esistere. 
Ecco dunque la base più solida del misticismo. Non Dio, non una qualsiasi entità spirituale trascendente, ma la stessa base delle cose, la natura vuota della materia. Considerare l’essere vuoto delle cose suscita un grande terrore. L’io si ritrae con spavento. Oltre questo spavento, c’è la liberazione.

Joseph Tusiani e Pasquale Soccio

Joseph Tusiani
Molti anni fa (dodici? tredici?) frequentavo la casa d’un filosofo e scrittore prossimo ai novant’anni, dal profilo reso ascetico dall’età, quasi del tutto cieco. Il mio lavoro – perché di un lavoro si trattava – consisteva nel leggergli i libri e giornali, nel commentarli con lui e nello scrivere ciò che lui dettava; in particolare, nel metter mano ad un brogliaccio dal quale sarebbe venuto fuori un libro sul mito e Giambattista Vico. Sporadicamente, mi capitava di fargli da segretario. 
Una mattina gli lessi una lettera di Eugenio Garin, alla quale si propose di rispondere immediatamente. Ed io avrei dovuto prestargli le mie mani. Ora, le lettere di Garin, scritte da lui o non so da chi, erano ammirevoli per il nitore, l’eleganza, la bellezza della scrittura, oltre che per il contenuto; e Garin era un autore sulle cui pagine avevo passato non poche giornate. La mia scritture invece era, ed è, penosamente contorta, sofferta, esasperata ed esasperante. Insomma, temevo un esito disastroso. E temevo bene: ché il timore mi fece per giunta sudare la mano, e mille sbavature s’aggiunsero a rendere completo il disastro. 
Quel filosofo e scrittore si chiamava Pasquale Soccio. Mi è tornata in mente, quella spiacevole mattina degli anni Novanta, leggendo ora le Lettere di Joseph Tusiani a Pasquale Soccio (1974-1993), pubblicate dalle Edizioni del Rosone per celebrare i novant’anni di Tusiani.

Devo confessare che non ho mai amato molto Tusiani. Persona di straordinaria cultura, ci mancherebbe; grande poeta in latino e grande traduttore in inglese di classici italiani: ma circondato, almeno qui, da quella stessa quasi-santificazione che a molti rendeva antipatico lo stesso Soccio (dimenticato poi rapidamente dopo la morte), da quella piaggeria che in genere si mostra verso la falsa grandezza, e che spesso finisce per mortificare anche la grandezza vera.
Mi piacciono, invece, queste lettere. Mi piace lo stile, accurato senza essere artefatto, ma più ancora la sincerità dell’affetto, la sintonia intellettuale, la sensibilità comune per la terra garganica, con le sue dolcezze e le sue asprezze. La prosa di Soccio voleva essere poesia, e spesso lo era davvero. Qua e là si divertiva a disseminare i suoi scritti di endecasillabi. Tusiani, lettore attentissimo e sensibile, prontamente li ritrova e li segnala in Lucera minore (“Come in regale volontaruio esilio, / nelle sere d’0estate e nei meriggi… / gli occhietti d’oro della camomilla”) e nel libro sul convento di San Matteo. Ma le stesse lettere di Tusiani tendono alla poesia ed all’endecasillabo. Tra tutti, mi sembrano degni di nota questi versi finali d’una lettera in endecasillabi datata New York, 30 giugno 1980:
Ah, non m’è giunta risposta a due lettere
e per due brevi istanti (poi fugati
dalla certezza del tuo vivo raggio)
mi son sentito in luogo oscuro e solo;
ma finalmente, pochi giorni or sono,
di te m’ha scritto novità gioiose
il gran pittore delle mie radici.
Ei ti dirà, se presto tu lo veda,
che la frase blasfema conclusiva
mi fu dettata da malinconia –
quella nebbia sottile e insidiosa
che, grazie alla tua luce che mi salva,
or che ti scrivo più non so che sia.
E’ un endecasillabo anche la firma: Un abbraccio dal tuo Joseph Tusiani.

I nomi e il Nome

Scrive Tommaso da Celano nella Vita prima che Francesco d’Assisi raccoglieva ogni scritto che trovava, anche se di argomento profano, “riponendolo in luogo sacro o almeno decoroso, nel timore che vi si trovasse il nome del Signore, o qualcosa che lo riguardasse”. Ed a chi gli chiedeva come mai conservasse con tale religioso rispetto anche i libri dei pagani,rispose: “Figlio mio, perché tutte le lettere possono comporre quel nome santissimo; d’altronde, ogni bene che si trova negli uomini, pagani o no, va riferito a Dio, fonte di qualsiasi bene” (Tommaso da Celano, Vita Prima, XXIX, 462-463, in Fonti Francescane, Edizioni Messaggero – Movimento francescano, Padova-Assisi 1983, p. 475).
Non è forse esagerato affermare che in quest’abitudine del frate di Assisi
si trova uno dei suoi più alti insegnamenti; un insegnamento che ci è necessario quanto il pane e l’acqua.
Si ricorda, come uno degli episodi più luminosi della vita di Francesco, la sua missione tra i saraceni nel pieno di un conflitto di cui ben si conoscono le asprezze e le crudeltà. In realtà non fu una missione di pace. Francesco non andò dal sultano per parlare con lui: andò a predicare. A portarlo nel campo avverso non fu l’intento di cercare un’intesa, un dialogo con il nemico, ma la ricerca del martirio. Leggendo l’episodio nella Leggenda maggiore di Bonaventura da Bagnoregio si è colpiti piuttosto dalla saggezza e dal buon senso del sultano, che rifiuta la prova propostagli dal frate per la conversione del suo popolo – buttarsi nel fuoco -, e lo rimanda dai suoi, non senza avergli prima offerto del denaro da distribuire ai cristiani poveri.
Il Francesco che raccoglie gli scritti dei pagani ha compiuto un progresso enorme, rispetto al Francesco che aspirava al martirio. Ha compreso una cosa fondamentale: il rispetto del diverso. E’ questo, insieme al meraviglioso sentimento della natura, a fare di lui un uomo (un santo, per chi ha la fede) moderno.
L’Occidente ha mandato al rogo i libri, spaventato dalle verità che contenevano. E dal rogo dei libri si è passati al rogo delle persone.
L’Occidente ha voluto una sola Verità, un solo Libro. In quel gesto di Francesco c’e’ la crisi di ogni fanatismo. Come nel suo splendido Cantico il mondo torna a colorarsi, così in quel gesto torna ad essere possibile il dialogo, l’umano parlarsi ed ascoltarsi.
Dalla violenza contro i libri si passa sempre alla violenza contro le persone; e viceversa: dal rispetto per i libri nasce il rispetto per le persone.
Anche le lettere dei libri pagani possono comporre il nome di Dio, dice Francesco. E se ognuno di noi fosse una lettera? Se il mondo fosse un poema grandioso, composto da tante lettere quanti sono i viventi? Un tale poema non andrebbe inteso come perfettissima opera in endecasillabi e terzine, ma come un libero fluire di significati, pieno di imperfezioni formali, ma pure bello e gioioso nell’insieme.
Racconta ancora Tommaso da Celano che Francesco, quando dettava qualcosa, “non permetteva che si cancellasse alcuna lettera o sillaba, anche se superflua o errata”. E voleva dire, forse, che nessuno è realmente errato, che nessuno va cancellato. Che e’ preferibile un Tutto imperfetto, pieno di lettere fuori posto (o apparentemente fuori posto) ad una Perfezione raggiunta a costo di cancellature, soppressioni, violenze.

Giustizia e diritti

La giustizia, scrive Simone Weil, consiste “nel vigilare che non sia fatto del male agli uomini” (La persona e il sacro, Adelphi, Milano 2012, p. 47). E “viene fatto del male a un essere umano quando grida interiormente: ‘Perché mi viene fatto del male?'”.
Il diritto, per Weil, è altra cosa. Esso nasce dalla domanda: “Perché l’altro ha più di me?”.
Per Weil bisogna distinguere il grido della giustizia da quello dei diritti: ascoltare il primo e mettere a tacere il secondo “con la minore brutalità possibile, servendosi di un codice, dei tribunali e della polizia” (p. 48). Il che vuol dire che la ricerca dell’uguaglianza, per Weil, dev’essere repressa con la forza dallo Stato.
Ci sono due limiti in questo discorso. Quello più evidente è che mi si fa del male, se le disuguaglianze economiche non mi consentono di vivere una vita degna. Un povero è una vittima, non uno che prova invidia; ed esiste una violenza sistemica che non è meno grave della violenza diretta. Il limite meno evidente è la considerazione del solo essere umano. Anche agli animali viene fatto del male. Anzi, soprattutto a loro. E, se non hanno parola, tuttavia gridano. Non è anche il loro grido un fondamento della giustizia?
(Solita compresenza, nelle pagine di Weil, di idiozie e di cose sublimi. In questo stesso libretto ci sono cose esatte sulla dimensione transpersonale del bene.)

L’educazione è pace

E’ uscito il mio libro L’educazione è pace. Scritti per una pedagogia nonviolenta (Edizioni del Rosone), con una presentazione di Paolo Vittoria, che è anche il direttore della nuova collana Praxis, in cui il libro compare.
Dalla quarta di copertina:
“L’unico modo per favorire il sorgere di future generazioni di persone giuste, vere, democratiche è quello di creare per loro fin d’ora situazioni che siano libere dall’intossicazione del falso, dalla competizione egoistica, dall’ipocrisia, dalla sopraffazione. Gran parte dell’educazione consiste nel far entrare aria pulita – moralmente, intellettualmente pulita – nelle situazioni umane.”

Glasperlenspiel #1

“Dunque, amandoti necessariamente del maggiore amore che tu sei capace, necessariamente desideri il più che puoi la felicità propria; e non potendo mai di gran lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che è sommo, resta che tu non possi fuggire per nessun verso di non essere infelice.”
Giacomo Leopardi, Dialogo di Malambruno e Farfarello, in Operette Morali.
“Analogamente, o monaci, tutto ciò che non è vostro abbandonatelo. Quando lo avrete abbandonato, ciò sarà per voi di vantaggio e felicità per lungo tempo. E cosa non è vostro? La forma materiale non è vostra… La sensazione non è vostra… La percezione non è vostra… Le formazioni non sono vostre… La coscienza non è vostra. Quando avrete abbandonato tutto ciò, ne riceverete vantaggio e felicità per lungo tempo.”
Alagaddupamasutta, in La rivelazione del Buddha, vol. I, Mondadori, Milano 2001, p. 248.
“Ma questo come può avvenire?
Elimina ogni cosa.”
Plotino, Enneadi, V, 3, 17, trad. G. Faggin, Rusconi, Milano 1992, p. 855.

Abilitazione

“Il candidato presenta un numero adeguato di monografie originali e organiche. La sua produzione scientifica si occupa principalmente della tradizione del pensiero non violento di ispirazione religiosa nella realtà italiana del XX secolo. In particolare il candidato si è occupato del pensiero e dell’opera di Danilo Dolci e di Aldo Capitini cui ha dedidato due monografie informate e esaustive, in particolare la prima che presenta, accanto ad una ricostruzione storica accurata, una seconda parte interamente dedicata al concetto di maieutica elaborato da Danilo Dolci con chiari riferimenti filosofici al pensiero di Socrate. Inoltre ha preso in esame l’opera del fondatore del pensiero e della pratica della non violenza nel Novecento, il Mahatma Gandhi, con una monografia approfondita e interessante. Presenta altresì traduzioni da Kropoktin e altri interventi su questioni legate alla pratica della non violenza. Il profilo del candidato risulta coerente con i criteri stabiliti dalla commissione nella seduta di insediamento. La commissione dichiara a maggioranza il candidato abilitato alla II fascia di insegnamento di Filosofia Morale.”

Il groviglio di Piazza Mercato

Foto ripresa dal sito www.ispastrutture.it
Tra le ragioni per le quali la vita è un groviglio c’è il fatto che le ciambelle raramente riescono col buco. Il che vuol dire che c’è uno scarto tra il progetto e la sua esecuzione, tra l’idea e la sua concretizzazione, tra quel che si vorrebbe fare – spesso con le migliori intenzioni – e quello che si riesce davvero a fare.
Una ciambella penosamente malriuscita è stato l’incontro di domenica mattina tra il sindaco ed i cittadini per discutere del futuro di Piazza Mercato. Nelle intenzioni del sindaco doveva essere un bel momento di democrazia partecipata: cosa rara di questi tempi, rarissima a Foggia, e quanto mai opportuna in campagna elettorale. Ne ė venuta fuori invece una gazzarra delle peggiori, che ha messo a dura prova la flemma mongelliana: a un certo punto ha dovuto far la voce grossa (per quanto sia possibile far la vice grossa a Mongelli) per imporre ordine e disciplina.
Le contestazioni più dure sono state per l’ex assessore Maria Rosaria Lo Muzio, che ha preso la parola per ricordare che quella piazza oggi tanto contestata quando era ancora un progetto venne apprezzata in una mostra a Bruxelles e inserita dalla Fondazione Agnelli tra trenta opere di grandi architetti italiani. Dal pubblico la interrompono: “Ci vuole un coraggio… No, fa schifo questa piazza”. Eppure non aveva tutti i torti, l’ex assessore. La piazza progettata e la piazza realizzata, quello che doveva essere e quello che è stata ed è, sono due cose diverse. Ancora una volta lo scarto, il groviglio. Nelle intenzioni di chi l’ha progettata, quella piazza doveva essere un centro di aggregazione sociale, ospitare iniziative culturali, diventare uno dei luoghi più vivi del cuore storico della città. Se è andata diversamente, la responsabilità non è di chi l’ha progettata, ma di chi non è riuscito a farla funzionare. E’ molto triste, ed è un indice del degrado civile e non solo politico della città, che non si riesca a Foggia a far funzionare uno spazio culturale (si pensi, oltre a Piazza Mercato, all’abbandono delle strutture di parco San Felice), mentre a Manfredonia con i fondi della Regione hanno trasformato il mercato del pesce in un laboratorio culturale che, affidato ad una cooperativa, ospita ogni giorno concerti, corsi di musica, mostre d’arte, convegni e conferenze.

Oggi si vorrebbero abbattere le contestate strutture metalliche della piazza – il “trenino” – e lasciare solo la pavimentazione. Anche qui rischia di esserci uno scarto, e tra i peggiori, tra il progetto e la sua realizzazione. Perché il dato più impressionante che è emerso dall’incontro di domenica è l’altissimo malessere della gente di quel quartiere, di quel centro storico che è diventato, dicono, terra di nessuno. Il timore, fondato, è che, liberata dalle strutture metalliche, quella piazza finisca per diventare un buco nero nel bel mezzo del centro storico, un pisciatoio e vomitatoio a due passi dalla cattedrale.
All’incontro di domenica mattina è intervenuta anche una ragazza dai capelli rossi. Il problema del centro storico non si risolve, ha detto, facendo le multe, ma dando ai giovani degli spazi, perché quello che accade è sintomo di un disagio. Il sindaco s’è detto d’accordo: “Ci vogliono le multe, ma ci vogliono anche altre cose”. Quali altre cose? E’ una domanda difficile, ed è proprio dal modo in cui riesce a rispondere ad una domanda del genere che si può valutare l’operato di una amministrazione. E’ certo che con l’amministrazione Mongelli sono mancate sia le multe che le “altre cose”. E indubbiamente smantellare una struttura che doveva essere uno spazio culturale, invece di lavorare per ripristinarla e farla funzionare, mettendo a tacere gli opposti egoismi, appare come una sconfitta della politica delle “altre cose”.
Articolo per Stato Quotidiano.

Perché i ravanelli sì?

Francesco Pullia segnala questo articolo di Claudio Sabelli Fioretti su Io Donna, che presenta una obiezione non infrequente al vegetarianesimo/veganesimo: perché mangiare i vegetali non sarebbe violenza? Ricordo di aver scritto un post sul tema quasi dieci anni fa sul mio vecchio blog, Minimo Karma. Blog che non è più accessibile per l’improvvisa chiusura del server. Grazie a Web Archive sono riuscito a recuperare il post, che ripropongo, dal momento che la mia posizione sull’argomento non è cambiata.


Una sera mi trovavo a casa di un amico molto morale, ecologico, vegetariano e nonviolento: mi stava preparando una cena tutta a base di vegetali. Sul tavolo si allineavano i corpicini gialli, rossi e verdi: carote, pomodori e lattughe. Con le faccine tonde ornate da una lieve barbetta, braccia alzate, fibre vive e gonfie d’acqua, un mazzo di ravanelli agonizzava in un canto: il mio amico ne prese una per le verdi braccine e con un morso ne addentò la rossa testolina. […] Se non bisogna mai uccidere, perché i ravanelli sì?

Questo interrogativo venne posto una decina d’anni fa da Sandro Gindro in un articolo pubblicato su Studi cattolici (389-390, 1993) (e viene citato ora nel bel saggio di Adriano Mariani, Do per cibo il verde dell’erba. Il cristianesimo alla prova della condizione animale, “Quaderni Satyagraha” n. 8, Pisa 2005). Naturalmente la descrizione dei corpicini che agonizzano fa sorridere, ma la domanda non è affatto oziosa. Perché mangiare i vegetali invece degli animali?

La risposta più semplice è che gli animali soffrono ed i vegetali no. E’ una risposta insoddisfacente. Se la sofferenza fosse l’unico argomento contro l’uccisione di animali a scopo alimentare, bisognerebbe approvare l’uccisione indolore di animali allevati in condizioni di vita accettabili. Io sono dell’opinione che vada riconosciuto agli animali un valore intrinseco. Non direi un diritto all’esistenza, perché i soggetti che hanno diritti sono soltanto quelli che fanno parte di una comunità di soggetti giuridici, e questo con ogni evidenza non si può dire degli animali. Proprio per questo, però, si può contestare che gli uomini abbiano il diritto di uccidere gli animali ad uso alimentare. Proprio perché noi possiamo avere diritti solo su chi fa parte di una comunità di soggetti di diritti, non possiamo averne sugli animali, che di tale comunità non fanno parte. Uccidere un animale per cibarsene non è l’esercizio di un diritto, ma un atto di forza. Per trasformarlo in un diritto occorre una metafisica o una mitologia, che attribuisca il creato a Dio e faccia dire a Dio che tutto è finalizzato all’uomo. E’ precisamente la metafisica, la mitologia cristiana e cattolica; la quale anche, ponendo una comunità di uomini ed animali sotto la giurisdizione di Dio, potrebbe consentire di parlare di diritti animali: forse.
Una seconda risposta è che gli animali sono esseri più perfetti dei vegetali. Io contesto questo modo di vedere. Considero vegetali, piante ed alberi gli esseri più perfetti della natura, certamente più perfetti degli animali e dell’uomo. Non c’è nessuno, credo, che non sia stato colto almeno una volta nella vita da un senso di profonda ammirazione al cospetto di un albero; anzi, da un vero sentimento religioso. Non è improbabile, del resto, che alcune tra le prime pratiche religiose siano nate nelle selve, in mezzo a questi esseri meravigliosi. Unici nella natura, i vegetali riescono a vivere senza uccidere altri esseri. Ed a restare immobili, privi di pensiero. Credo che questa condizione – l’immobilità priva di pensiero – sia quanto di meglio possa desiderare un essere tahat ha-shamesh. Non sono lontano dal desiderio di quel poeta zen:

Di tutte le cose del mondo
vorrei essere una patata dolce
appena dissotterrata.

Rinuncerei però all’ultima condizione. Vorrei essere una patata dolce sotterrata, senza il contatto profanante della mano dell’uomo.
E allora: perché i ravanelli sì?
Se fosse possibile una semplice scelta tra vite animali e vite vegetali, sarebbe difficile scegliere. Ma le cose stanno diversamente. La sarcofagia non esclude, anzi implica l’uccisione dei vegetali. La sarcofagia ha bisogno di immensi allevamenti di animali. Questi milioni di animali mangiano vegetali. E quindi la sarcofagia richiede un immenso sterminio di vegetali. Oltre alla distruzione di foreste per far spazio agli allevamenti. Mangiare carne vuol dire distruggere una quantità immensa di sostanze di origine vegetale che potrebbero servire, tra l’altro, all’alimentazione umana, dando un contributo notevole alla soluzione del problema della fame nel mondo.
Volendo formalizzare il discorso, si può dire questo: 1) né gli animali né le piante hanno alcun diritto, in quanto non fanno parte di una comunità di soggetti giuridici; 2) per la stessa ragione, però, non abbiamo alcun diritto né su animali né sulle piante; 3) ogni uccisione di un essere vivente è un atto di forza, e non l’esercizio di un diritto; 4) la sarcofagia comporta la soppressione di vite vegetali e animali, mentre l’alimentazione vegetariana comporta la soppressione delle sole vite vegetali; 5) l’alimentazione vegetariana è quindi preferibile, se non moralmente doverosa.

Appunti di ateologia #4

L’ateo nega Dio e con Dio la religione. L’ateologo nega il discorso su Dio, ma non l’esperienza religiosa.
Cos’è l’esperienza religiosa? Chiamo religiosa ogni esperienza che abbia il carattere della transpersonalità, mentre è non religiosa o irreligiosa ogni esperienza personale.
Il rapporto con un Dio-Persona è sempre irreligioso. Il Dio-Persona è un portato dell’io; un appendi-io trascendente.

L’ebook conviviale

Ivan Illich
Quale mezzo di trasporto favorisce maggiormente la libertà, l’automobile o la bicicletta? La risposta sembra facile: la prima. L’automobile è forse l’unico simbolo rimasto della libertà; non c’è pubblicità che manchi di sottolineare questo aspetto. Ma Ivan Illich, uno dei più grandi pensatori della seconda metà del secolo scorso (autore, tra l’altro, di un Elogio della bicicletta), non era d’accordo. Per comprendere la sua posizione, possiamo riformulare la questione in altri termini. Quale strumento possiamo dominare meglio, l’automobile o la bicicletta? Posta così la questione, qualche dubbio verrà anche al più entusiasta sostenitore delle virtù della tecnologia automobilistica. Perché è vero che l’automobile ci porta dove vogliamo, ma è anche vero che sono in molti ad avvertire che l’automobile ed il sistema di cui fa parte al tempo stesso hanno potere su di noi. Avere l’automobile vuol dire pagare la tasse, pagare la benzina (e dunque dipendere dai petrolieri), pagare i parcheggi, pagare le autostrade, e così via. Quando poi si rompe, cosa che accade spesso, bisogna portarla dal meccanico. E’, insomma, uno strumento che ci sfugge di mano. La bicicletta al contrario è semplice da usare (non occorre la patente), si rompe difficilmente, è facile da riparare, non richiede benzina né tasse. Illich chiama strumento conviviale uno strumento che io posso padroneggiare. Gli strumenti industriali in generale non sono strumenti conviviali, non si lasciano dominare ma al contrario ci dominano: si può dire che è l’uomo che si adatta alla macchina e non il contrario.
Chiediamoci ora: cosa direbbe Illich dell’ebook? Lo considererebbe più o meno conviviale del libro di carta? Considerando l’ostilità del filosofo verso il mondo industriale e la sua scelta dell’austerità, la risposta sembra scontata: l’ebook sta al caro vecchio libro di carta come l’automobile sta alla bicicletta. Ma le cose stanno davvero così? Forse no.
Per produrre un libro di carta, come per produrre un ebook, occorre in primo luogo scriverlo. Poi, nel percorso tradizionale, il libro viene affidato ad un editore, e da questo momento sfugge al controllo dell’autore. Il libro viene impaginato da un tecnico, quindi mandato in stampa, quindi alla distribuzione. Il libro così prodotto viene acquistato dal lettore, che lo legge e lo studia. Sul libro di carta il lettore può compiere una serie di operazioni: può sottolineare, può evidenziare, può segnare la pagina piegando l’angolo.
Consideriamo ora l’ebook. L’autore lo scrive, dopo di che può considerare due vie. Può mandarlo ad un editore, che sceglierà se pubblicarlo o meno, lo impaginerà e creerà il libro elettronico da mandare alla distribuzione. Ma può anche scegliere la via dell’autopubblicazione. In questo caso sarà lui stesso a creare il libro elettronico ed a distribuirlo. Il lettore acquisterà il libro da una libreria on-line e lo trasferirà sul proprio computer, o sul tablet, o sul lettore ebook. Anche sul libro elettronico il lettore può compiere le stesse operazioni possibili sul libro di carta. Può evidenziare, annotare, mettere segnalibri. Più qualche altra cosa. Può, ad esempio, fare una ricerca nel testo.
Ma c’è una differenza più significativa tra libro di carta e libro elettronico. Poniamo che dopo aver comprato un libro di carta io mi accorga che è fatto male. Che ci sono errori di impaginazione o di stampa. Non posso farci nulla; al massimo, manderò il libro alla casa editrice per chiederne la sostituzione. Se invece mi capita un ebook fatto male (cosa che succede abbastanza spesso), ed ho un minimo di competenza tecnica (cosa facile da acquisire), posso sistemare gli errori e rifare l’ebook. Non solo. Nel libro di carta posso aggiungere al testo delle mie annotazioni, ma limitatamente. Posso farlo al margine della pagina, che può essere più o meno ampio. Nel caso del libro elettronico, le mie annotazioni non hanno alcun limite di spazio, ma soprattutto non devono essere necessariamente sistemate a margine del testo. Se voglio, posso costruire un nuovo testo che comprenda il testo originale più le mie annotazioni a margine. Se mi piace, posso riscrivere il testo, dialogando con l’autore. 
Insomma, se il libro di carta è una cosa, un oggetto chiuso, il libro elettronico è aperto, modificabile, ripensabile. Cioè, è più conviviale.
Illich è noto soprattutto come teorico della descolarizzazione. Sosteneva che bisognerebbe liberare la società dalle scuole, perché le scuole non sono realtà conviviali. La scuola non risponde a bisogni reali delle persone; al contrario: crea il falso bisogno di istruzione, che ritiene di essere l’unica a poter soddisfare. La scuola si presenta come l’unica istituzione in grado di dare una istruzione valida, squalificando qualunque altra fonte di istruzione  e qualunque conoscenza ottenuta al di fuori di essa. Ma che succede se chiudiamo le scuole? Quali le alternative? Per Illich sono tanti i modi in cui ci si può istruire, da soli o insieme ad altri. Ci si può istruire se è possibile “accedere a cose, a luoghi, a processi, a eventi e a documenti” senza l’ostacolo costituito dalla mercificazione. E’ importante che sia facilitato l’accesso alle risorse formative di ogni genere. Illich pensava a luoghi fisici, ma è chiaro che la diffusione di Internet ha reso tutto ciò molto più facile. In rete è possibile accedere ad informazioni di ogni tipo, guardare film, leggere giornali, ed anche contattare persone con gli stessi interessi per studiare insieme. In Internet, soprattutto, è possibile trovare migliaia di libri elettronici gratuiti. Libri privi di licenza e di pubblico dominio, ma anche libri con copyright che sono stati piratati. Mi rendo conto del rischio di fare apologia di reato, ma trovo commovente che vi siano persone che impiegano una parte considerevole del proprio tempo per passare allo scanner libri di filosofia per metterli gratuitamente a disposizione di tutti. Come gli amanuensi nei conventi medioevali, queste persone lavorano non perché la cultura in generale non vada persa, ma perché non vada persa una certa concezione della cultura: quella della cultura come attività libera e gratuita, cui tutti possano accedere senza ostacoli legati alla disponibilità economica.
Sospetto che Illich sarebbe d’accordo.
Editoriale per Stato Quotidiano.

Appunti di ateologia #3

“Su di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, diceva Wittgenstein.
Dio è ciò di cui non si può parlare per eccellenza, poiché ogni discorso oggettivizza ciò su cui verte, ed un Dio oggettivizzato non è Dio. La teologia, discorso su Dio, è segno sicuro di alienazione religiosa.
L’ateologia di differenzia dall’ateismo per questo. Non nega Dio, ma il discorso su Dio: la teologia. Tolta la teologia, resta il silenzio su Dio. Questo silenzio su Dio è qualcosa di altro dall’ateismo.

Tutti cercano la vita, tutti hanno paura della morte

Alcuni anonimi hanno creato un gruppo in difesa della sperimentazione animale scegliendosi come nome nientemeno che Resistenza Razionale. Nel loro blog trovo un articolo sul “cortocircuito logico dell’antispecismo” cui proverò a rispondere, non prima però di aver fatto qualche osservazione preliminare. Gli autori del blog, che preferiscono restare anonimi per via, dicono, delle minacce degli animalisti, scrivono: “Noi siamo assolutamente persuasi di avere dalla nostra i fatti scientifici, e con strumenti del genere nelle mani si vince sempre”. Una convinzione piuttosto ingenua, sia perché si può discutere a lungo di cosa siano i fatti scientifici, sia soprattutto perché le questioni morali non sono riconducibili ai fatti scientifici, qualunque cosa siano.
Secondo l’autore o gli autori dell’articolo, l’affermazione da cui partono gli antispecisti è la seguente: “Chi vi da diritto di disporre della vita degli animali? Sono uguali a noi.” Ora, l’obiezione è semplice. Come sono gli animali? Come si comportano? Quali sono le leggi di natura? Semplice:

Ebbene sì: qualsiasi essere vivente, animale o vegetale, in natura è profondamente egoista, crudele, cinica, razzista e specista. Qualsiasi essere vivente, compreso l’uomo. In natura. Cioè prima della civiltà. 

Per cui la conclusione è semplice: se l’uomo è come gli animali, allora dovrebbe comportarsi come loro, e dunque distruggere le altre vite senza porsi alcun problema etico; se si pone problemi etici, è perché invece si distingue nettamente da loro: “solo ammettendo che l’uomo sia diverso abbiamo il diritto di essere noi a decidere cosa è giusto, e solo con la presunzione di essere superiori possiamo pensare che questa decisione sia giusta”.
C’è qui il rovesciamento – o meglio: il tentato rovesciamento – di un argomento frequente di coloro che sono contrari alla sperimentazione animale. E cioè: si ricorre alla sperimentazione animale perché si ritiene che gli animali siano simili agli esseri umani (altrimenti le conclusioni degli esperimenti condotti su di loro non sarebbero estensibili agli esseri umani); ora, se gli animali sono simili agli esseri umani, allora hanno anche lo stesso diritto al rispetto dell’integrità corporea: e dunque la sperimentazione è sbagliata.
Consideriamo ora l’affermazione di partenza. In che senso i sostenitori dei diritti degli animali – antispecisti o animalisti – affermano che “gli animali sono uguali a noi”? La questione è posta fin dalle prime pagine di Liberazione animale di Peter Singer, uno dei testi fondamentali del movimento per i diritti degli animali. Alla fine del Settecento comparve in Inghilterra un libro intitolato A Vindication of the Rights of Brutes. Ne era autore il filosofo Thomas Taylor e voleva essere una satira della Vindication of the Rights of Woman di Mary Wollstonecraft. Il ragionamento era semplice: se le donne rivendicano dei diritti, perché non dovrebbero farlo le bestie? Su quali basi si sostiene l’uguaglianza di uomini e donne? E’ evidente, osserva Singer, che non si tratta della loro uguaglianza reale. Uomini e donne sono fisiologicamente diversi. Cosa vuol dire allora che sono uguali? La domanda riguarda ogni altro genere di uguaglianza riguardante gli esseri umani. Quando affermiamo che gli esseri umani sono uguali “senza distinzioni di razza, sesso o religione”, stiamo sostenendo che tutti gli esseri umani sono effettivamente identici? No, evidentemente, se parliamo appunto di distinzioni. Ed in cosa consiste allora l’uguaglianza? Come scrive efficacemente Singer, essa è “un’idea morale, non un’asserzione di fatto”:

Il principio dell’uguaglianza degli esseri umani non è una descrizione di una pretesa uguaglianza reale: è una prescrizione sul modo in cui gli esseri umani dovrebbero essere trattati. [1]

Affinché due esseri abbiano gli stessi diritti non occorre dunque che siano identici. Occorre tuttavia che abbiano comunque qualcosa in comune. Sembra piuttosto arduo sostenere l’uguaglianza tra esseri umani e pietre, ad esempio. Se si afferma che gli animali hanno diritti come gli esseri umani (e non, evidentemente, tutti gli stessi diritti), è perché c’è qualcosa che i primi ed i secondi hanno in comune. Di cosa si tratta? Una prima risposta è: la capacità di soffrire. Un cane o una scimmia soffrono come un essere umano. O meglio: è difficile sapere se la sofferenza è esattamente la stessa, perché nella percezione della sofferenza nel caso dell’essere umano intervengono elementi che possono non essere presenti nell’animale. Che un animale soffra, tuttavia, è innegabile. E sappiamo per esperienza che la sofferenza è un male. Ma la soppressione della vita animale diventa accettabile, se fatta con metodi non dolorosi? E: gli esseri viventi non dotati di sistema nervoso non hanno alcun diritto alla vita? Un criterio diverso è quello che si trova in testi scritti molti secoli prima che si cominciasse a parlare di animalismo ed antispecismo: i sutra buddhisti. Nel Dhammapada si legge (verso 129):

Sabbe tasanti dandassa
sabbe bhayanti maccuno
attanam upamam katva
na haneyya na ghataye.

Tutti hanno paura del bastone
tutti temono la morte.
Facendo un confronto con se stessi
non si colpirebbe e non si ucciderebbe. [2]

La cosa che accomuna tutti gli esseri viventi – che si tratti di un essere animale, di un cane o di una pianta – è il fatto di evitare la morte e di cercare la vita. Come dice un verso successivo (131), tutti gli esseri sono “in cerca di felicità”. In termini nietzscheani, potremmo dire che ogni essere vivente esprime un sì alla vita. E’ facile osservare in natura questa ricerca della vita: si pensi al modo in cui le piante si sporgono verso la luce o si adattano per sopravvivere anche in condizioni difficili. Di fronte a questo sì alla vita, che è lo stesso che muove l’essere umano, è doveroso il rispetto. Che vuol dire, in concreto, considerare vandalismo la distruzione gratuita ed evitabile di qualsiasi essere vivente.
Si dirà – ed è quello che dice l’autore dell’articolo – che in natura ogni vita, affermando sé stessa, lo fa a scapito delle altre vite. In natura nessun essere vivente esprime rispetto per il sì alla vita di altri esseri viventi. E’ una convinzione che si può discutere. Non mancano, da Kropotkin a Danilo Dolci, coloro che hanno considerato il mondo naturale ed animale come un campo di grandi insegnamenti morali. Una cosa è certa: in natura la violenza su altre vite è normalmente finalizzata alla sopravvivenza. Il leone sbrana la gazzella se ha fame. Un leone sazio è pacifico, come sanno quelli che lavorano nei circhi (di cui auspico la rapida scomparsa, nella loro forma attuale). La distruzione della vita, dunque, non è gratuita ed evitabile. Ed è esattamente questo che i difensori dei diritti degli animali chiedono. Non di evitare la distruzione di qualsiasi vita animale, ma di evitare ogni distruzione di vita animale gratuita ed evitabile. Per alimentarsi occorre uccidere: non si sfugge. Ma, si dirà, non è dunque giusto allevare, uccidere e mangiare animali per soddisfare il bisogno primario della sussistenza? Qui entra in gioco l’altro criterio, quello della sofferenza. Tutti gli esseri viventi cercano la vita, tutti cercano di sfuggire alla morte. Alcuni, però, a differenza di altri hanno la capacità di soffrire. Potendo scegliere quale vita distruggere per soddisfare il bisogno primario si alimentarsi, è doveroso scegliere la vita che non è capace di sofferenza. Si può obiettare che qui è all’opera un criterio ancora antropocentrico: si salva l’animale perché ha qualcosa che lo accomuna all’essere umano, mentre si condanna la pianta che è più lontana dall’essere umano. E’ una obiezione seria, anche se al senso comune può sembrare provocatoria, perché siamo abituati a percepire le piante come quasi-cose. In mancanza di altri criteri per distinguere la vita sacrificabile da quella non sacrificabile, mi pare però che questo sia un criterio ragionevole.
Un’ultima osservazione. Nelle specie animali è molto raro che gli scontri tra i singoli individui siano mortali. La violenza interspecifica è in genere frenata da meccanismi di pacificazione. Quando nello scontro diventa evidente chi è il più forte, ad esempio, l’altro si sottomette, e lo scontro finisce. Nella specie umana questi meccanismi non funzionano. Se dicessi che la specie umana nel corso della sua vita sulla terra si è massacrata da sola, direi il falso, perché per la gran parte della sua vita sulla terra la specie umana si è espressa in società di caccia e raccolta che erano sostanzialmente pacifiche, e certo non conoscevano lo sterminio. Gli esseri umani si massacrano da qualche secolo. Da quando, diciamo, hanno introdotto l’agricoltura, la proprietà, lo Stato. Forse anche la religione.
Perché gli esseri umani si massacrano? Una risposta plausibile è la seguente. Il nemico, che viene massacrato, in virtù della sua differenza (di etnia, di religione, di ideologia ecc.) non è più percepito come un appartenente alla stessa specie. E’ come se non fosse più un essere umano, ma un animale. In questo senso la violenza interspecifica diventa violenza intraspecifica.
Se le cose stanno così, abbiamo una ragione in più per considerare urgente la questione della violenza sulle specie animali. Non è escluso che qui sia la chiave per risolvere anche il problema della violenza sull’essere umano.

[1] P. Singer, Liberazione animale, tr. it., il Saggiatore, Milano 2010, p. 21. Corsivo nel testo.
[2] Traduzione di Luigi Martinelli: Dhammapada, Mondadori, Milano 1990.

Appunti di ateologia #2

Una cosa che accomuna le cosiddette religioni orientali e la mistica speculativa cristiana è il fatto di considerare la Realtà ultima come qualcosa di radicalmente altro rispetto all’essere umano. Ed è in questo che l’esperienza religiosa incontra la scienza. Il conflitto tra scienza e religione esiste soltanto per la religione alienata ed alienante, quella che mette l’essere umano al centro di un cosmo fittizio, e la cui funzione consiste nel creare una “dimora metafisica” (Buber) per un soggetto insicuro, il cui io viene puntellato da quel Grande Io che è Dio.
La Radice delle cose non è umana. Non c’è un Dio Persona che crea il mondo e lo governa. Questa è una percezione superficiale, oltre la quale c’è il Radicalmente Altro. La fisica, inoltrandosi nella natura dell’universo, scopre l’inadeguatezza delle nostre concezioni correnti di tempo e di spazio e dell’idea stessa di “cosa”. Ma lo sapeva già l’autore del Daodejing (I): “Il Dao che può essere nominato non è il Dao eterno”. E così il Sutra del cuore: “Iha śāriputra: rūpaṃ śūnyatā śūnyataiva rūpaṃ” (Shariputra, la forma è vuoto, il vuoto è forma).

Il Vuoto. Il Senza Nome. L’Indicibile. Alla radice delle cose c’è la non-cosa, ciò che la nostra lingua non può nominare, ciò che la nostra mente non può cogliere fino a quando non si libera delle sue categorie correnti. Il mondo con le sue identità, con le cose e i nomi e le forme, non è la realtà ultima. 
Questa consapevolezza provoca angoscia, ed è esattamente questa angoscia che avvia l’esperienza religiosa. La falsa religione che i più professano serve a placare l’angoscia esistenziale; rassicura il soggetto, dicendogli che non morirà davvero, che dopo la morte avrà una vita nuova migliore di quella attuale. La religione autentica, al contrario, parte dall’angoscia e la usa come strumento di conoscenza. Non dice al soggetto che la morte non c’è; gli dice che lui, qui ed ora, è già morto. Che lui non c’è. Che il suo io non è che una interpretazione. 
C’è esperienza religiosa quando un soggetto si mette in cammino contro sé stesso. L’altro radicale – il Vuoto, il Senza Nome – è qualcosa che tu devi essere. Fino a quando resta altro, siamo ancora nell’alienazione religiosa. Essere questo altro, lasciando cadere il corpo e la mente, il nome e la forma, è esperienza religiosa. Essere il Senza Nome vuol dire rinunciare alla parola: stare nel silenzio. Farsi silenzio.

Appunti di ateologia

La cosiddetta fede in Dio consiste di tre cose: etnolatria, antropolatria, egolatria.
L’etnolatria è propria dell’ebraismo. Attraverso Dio, si rende culto in realtà al popolo ebraico; Dio è colui che conduce l’esercito verso lo sterminio dei nemici.
L’antropolatria è propria del cristianesimo. Dio si sacrifica per l’uomo, muore in croce per lui. Ma ciò per cui ci si sacrifica, è ciò che più conta. Con il cristianesimo Dio muore e l’Uomo prende il suo posto. Il cristianesimo è ateismo ed umanesimo.
L’egolatria rappresenta la degenerazione del cristianesimo nella società dei consumi. Al centro ora non è più l’Uomo, ma questo-uomo-qui. Dio è il sostegno metafisico delle sue insicurezze. Il messaggio è: “Dio ti ama, dunque non soffrire”. La fede e Dio sono dei beni di consumo. Di Dio, come di qualunque altro prodotto, si magnificano le virtù ed i benefici.

Se il sindaco non risponde (e cancella chi lo critica)

Gianni Mongelli, sindaco di Foggia
Il sindaco di Foggia, Gianni Mongelli, mi ha cancellato dai suoi contatti Facebook. Ha fatto esattamente quello che avrei fatto io se qualcuno dei miei contatti avesse scritto sulla mia pagina le cose che ho scritto io sulla pagina del sindaco. L’ultima delle quali è stata che Mongelli non risponde sulla sua pagina Facebook perché non è in grado di mettere insieme dieci parole senza fare errori ortografici. Constatazione difficilmente contestabile – basta rileggere qualcuna delle rare testimonianze autografe mongelliane -, ma sicuramente antipatica. E tuttavia io non sono il sindaco di Foggia. Questa cosa – il non essere sindaco di Foggia – qualche vantaggio l’ha. Essendo un privato cittadino, posso permettermi qualche libertà che un cittadino pubblico non può permettersi. Tra queste, quella di cancellare da Facebook chi non mi piace.
Devo confessare che non ho mai compreso per quale ragione Mongelli abbia voluto aprire una pagina Facebook. Nell’era dei social network, la politica si fa anche su Facebook e su Twitter. I social network sono il luogo virtuale in cui i politici incontrano i cittadini, con le loro richieste reali, e si sforzano di dare risposte. Mongelli no. Apre la sua pagina Facebook e la abbandona a sé stessa. Interviene solo, di tanto in tanto, per augurare buongiorno o buon Natale. Se qualcuno gli dice ciao, risponde ciao. Se qualcuno gli fa una domanda politica, tace. Se qualcuno gli fa una critica, tace. Se qualcuno gli fa una richiesta, tace. Se qualcuno gli fa una segnalazione, tace. Chiunque acceda alla pagina Facebook di Mongelli, si fa di lui questa idea: il sindaco che tace. E’, più o meno, l’impressione che chiunque può farsi dell’amministrazione passeggiando per la città. Una città in cui la politica tace.

Diamo uno sguardo agli ultimi interventi sulla pagina del sindaco. Qualcuno pubblica la foto del pronao della villa comunale, imbrattato dalle scritte, e chiede di dare dignità a uno dei simboli della città. Il sindaco non risponde. Altri fanno notare che nonostante l’ordinanza che vietava la vendita dei botti, la città in questi giorni è stata piena di baracche abusive di venditori di botti. Mongelli non ha nulla da dire. Un’altra cittadina chiede che si permetta di pagare la Tares fino alla fine di gennaio. Mongelli tace. Un cittadino protesta perché gli abitanti dei palazzi di nuova costruzione passeranno le vacanze natalizie senza gas e riscaldamenti. Mongelli non ha nulla da dire.
Sia chiaro: non tutti quelli che intervengono sulla pagina del sindaco lo fanno con educazione e rispetto, né tutte le richieste sono sensate, né tutte le responsabilità sono del sindaco. Ma se la risposta è, invariabilmente, il silenzio, tutto diventa indifferente. La bacheca, che doveva essere il luogo del confronto, diviene un muro delle lamentazioni sul quale lo sfogo volgare e scomposto e la critica ragionata, l’insulto e la segnalazione di un disagio reale hanno lo stesso peso specifico. L’impressione – mi si passi l’immagine un po’ forte – è quella delle chiacchiere nella stanza del morto. Con la differenza che i parenti raccolti intorno alla salma in genere parlano bene del defunto. In questo caso, invece, per lo più ne parlano male.
Devo confessare che quando ho scoperto che Mongelli mi ha cancellato dei suoi contatti ho sorriso. Ed ho pensato: oh, dunque esiste. Mongelli respira, è vivo. C’è. E tuttavia penso che non vada bene se un sindaco cancella un cittadino dai suoi contatti. Immaginiamo la scena al di fuori di un social network. Il sindaco sta al Comune. La gente va al Comune, con le sue domande. “Sindaco, la Tares”. “Sindaco, ci manca il riscaldamento”. “Sindaco, non ho la casa”. Il sindaco tace. La gente continua a protestare, ed il sindaco continua a tacere. Finché, a un certo punto, ha uno scatto di orgoglio. Decide di fare qualcosa. Rispondere? No, troppo difficile. Chiama i vigili urbani e fa allontanare uno a caso. Diciamo il più antipatico, anche se non il più violento.
Ammetto che si tratta di un paragone un po’ forzato. Per fortuna, la pagina Facebook del sindaco non è il Comune, ed essere cancellati dai contatti non è la stessa cosa che essere allontanati con la forza dai vigili. Ma la sostanza non cambia molto. C’è un sindaco che non vuole sentire chi lo critica. Che chiude la comunicazione.
Anche chi è meno duro nei confronti di Mongelli riconosce che non ha grandi capacità comunicative. E considera questa come una pecca trascurabile, un peccato veniale.
Bisogna intendersi su cosa vuol dire comunicare. Per molti la comunicazione che ha a che fare con la politica è la stessa comunicazione della pubblicità: consiste nel saper vendere un prodotto. Il politico comunicatore è uno che sa vendersi. Sa come atteggiarsi, come parlare, come vestirsi. Sa dire le parole giuste, sa risultare gradevole e positivo.
Mongelli non è un grande comunicatore in questo senso. Non sa scegliere le parole; di più: non è in grado nemmeno di pronunciare la nostra lingua in modo corretto. E devo ammettere che, per quanto mi infastidisca che un sindaco non sappia esprimersi correttamente in italiano, la cosa me lo rende quasi simpatico. Non amo i comunicatori-imbonitori.
Ma la comunicazione ha a che fare con la politica anche in un altro senso, più vero e più profondo. Comunicare è ascoltare e parlare; c’è vera comunicazione solo se ci sono queste due cose insieme. Per questo il politico comunicatore, così come è comunemente inteso, non è in realtà un comunicatore ma, appunto, un imbonitore. Il politico autentico ascolta le domande e poi cerca di dare delle risposte serie. Non solo: riesce anche a far comunicare gli altri. La vera politica si riconosce da questo: elimina i blocchi comunicativi, fa circolare le idee e le domande, apre uno spazio pubblico per il confronto. E’ in questo secondo senso, più vero, che Mongelli non è un buon comunicatore. E non solo perché non sa usare un social network e cancella chi gli dà fastidio.
Come altre città meridionali, Foggia ha vissuto e vive la miseria di una politica da pitocchi, del voto di scambio e del clientelismo, che sempre porta all’abbandono ed al degrado. Una fotografia scattata in uno dei tanti quartieri degradati della nostra città potrebbe essere intitolata “Effetti del cattivo governo in città”, come l’affresco di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena. Per i foggiani dei Quartieri Settecenteschi o di Candelaro il politico è il santo in paradiso al quale scroccare la cena elettorale o la promessa di lavoro. Il rapporto con il politico è di reciproco sfruttamento: ed è un rapporto privato, fatto di incontri al chiuso, di cose sussurrate tra quattro pareti. Un sindaco di rottura in questa città dovrebbe combattere soprattutto questa logica. Passare dalla comunicazione privata alla comunicazione pubblica. Andare nei quartieri, una volta al mese o anche meno spesso, ed incontrare la gente. Ascoltare le lamentele, raccogliere le richieste, rispondere alle critiche. Avviare la stagione del confronto. Educare alla cittadinanza reale persone che sono state ridotte da decenni di miserabile politicanteria a vendersi il voto per un pacco di pasta. Andare nei posti del degrado – che a Foggia sono tanti – e cercare insieme una via d’uscita.
Mongelli non è stato e non è nulla di tutto questo.

La Via (Daodejing, I)

道可道 非常道

Dào kě dào fēi cháng dào

La Via che è capace di essere Via non è la Via eterna.
Oppure:
La Via che sa farsi Parola non è la Via eterna.
L’ideogramma include  (shǒu), testa e  辵 (chuò), camminare.
(cháng) può significare anche: convenzionale, comune, costante.
E dunque si può anche tradurre:
La Via capace di essere Via non è una Via comune.
La Via che può essere nominata non è la Via convenzionale.

Duyvendak traduce:
La Via veramente Via non è una via costante.
Julien:
La voie qui peut être exprimée par la parole n’est pas la Voie éternelle.
Waley:
The Way that can be told of is not an Unvarying Way
Si distingue Wilhelm:
Der Sinn, der sich aussprechen läßt, ist nicht des ewige Sinn.

Due punti di discordanza, dunque. Il secondo  va interpretato come Parola, o resta Via? e: sta per eterno o costante?
Le interpretazioni possibili sono due. O il passo vuol dire che la Via autentica è al di là della parola, e quella Via che giunge alla parola non è la vera via, non è la Via eterna. Oppure vuol dire che la Via, correttamente intesa (la Via che è veramente Via) è incostante.

La bellezza oltre la mente

Emanuela Zibordi, autrice di Testi scolastici 2.0, ha realizzato un ebook del mio saggio La bellezza oltre la mente. Krishnamurti e l’educazione, uscito nel numero 5 di Educazione Democratica.
Ringraziando Emanuela, lo metto a disposizione per il download su Google Drive.
Come tutti i testi di Educazione Democratica, il saggio è rilasciato con licenza Creative Commons.