Le cose belle non dicono

QHo partecipato alla Corte dei Miracoli di Siena all’Andrej. L’assenza di sé di Francesco Chiantese. Dico partecipato perché di questo si è trattato, e non di un assistere. Una stanza, al centro due sedie rosse e una tela, intorno, in uno stretto cerchio, il pubblico. Andrej è Andrej Rublëv, il pittore di icone russo, ma anche Andrei Tarkovsky, che all’artista ha dedicato uno dei suoi film migliori. Chiantese è in scena da solo, due voci fuori campo e un raggio di luce che di tanto in tanto trafigge il buio. Le voci lo interrogano, lo ammoniscono, lo inquietano. Finché giunge la sua, di voce. Che dice, tra l’altro: “Le cose belle non dicono. Le cose belle sono”.

Cosa vuol dire che le cose belle non dicono? Dire è significare, mostrare altro. Le cose belle non mostrano altro: sono qui, e null’altro. Mi viene in mente l’analisi fenomenologica del mondo che fa Heidegger nella prima parte di Essere e tempo. Le cose sono utilizzabili, sono strumenti che si rimandano l’un l’altro, in un sistema di connessioni. Stiamo nel mondo come utilizzatori di cose. Ma, dice Heidegger, accade che alcune cose non funzionino. Che uno strumento sia guasto. Questa inutilizzabilità può suscitare sorpresa – non è quello che ci aspettavamo – ma presentarsi anche come un ostacolo: essere “fra i piedi”, per usare l’espressione di Heidegger (Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 10o). Ora, se le cose belle non dicono, vuol dire che sono anch’esse un non-strumento, costituiscono anch’esse in qualche modo un ostacolo. Ma che differenza c’è tra uno strumento rotto ed una cosa bella? Quale tra una tela bucata ed una magnifica icona russa?
Pensavo a questo, alla fine della rappresentazione, quando Chiantese mi ha accolto, come ha fatto con tutti, prima che uscissi. Non sono riuscito a complimentarmi con lui, a dirgli che quella che avevo visto era una cosa bella, perché ero ancora nella domanda: cosa è una cosa bella? e cos’è un gesto scenico come quello di Andrej?
Poco fa ho ritrovato sulla mia scrivania un foglio che ho preso ieri e che mi era finito in tasca distrattamente. L’ho letto: è una lettera di Chiantese ai partecipanti. Dice, tra l’altro:
Era da un po’ che non riuscivo a portare in questa città dove molto del mio mestiere è cominciato, proprio qui in questi spazi, uno dei miei più recenti inciampi.
Chiamo così i miei spettacoli di ricerca: inciampi. Più o meno fortunati, più o meno piacevoli, inciampi. Uno questo termine perché, nel teatro di ricerca, non si va in scena per mostrare quello che si sa fare (quello, per me, è necessario in altre circostanze) ma quello che non si è ancora in grado di fare; non si mostra in scena una consapevolezza, ma un’intuizione, sghemba, fallace, fragile.
Ecco: inciampo. Ciò che viene fra i piedi, ciò che fa cadere. Mi sembra questa la risposta alla domanda sulla bellezza. Le cose belle non dicono, ma indicono. Sono inciampi che annunciano qualcosa e che denunciano qualcos’altro. Nel caso di Andrej, siamo al cospetto di un duplice gesto creativo: quello dell’artista intento alla creazione della sua opera e quello dell’attore intento a ricreare il gesto creativo. Una doppia oscenità: perché l’opera si mostra completa, e il travaglio – perché di questo si tratta – da cui nasce resta celato, difeso dallo sguardo come cosa fragile e incerta.
Nella lettera di Chiantese c’è un altro passo che merita di essere riportato:
Il teatro è artigianato delle relazioni; si compie soltanto se la mia biografia e la tua biografia si compenetrano, in qualche modo, e ne nasce qualcosa che non appartiene a me quanto non appartiene a te: lo spettacolo. Tutto, tutto, tutto dev’essere in funzione di questo.
Credo che sia bella ed importante l’idea di un artigianato delle relazioni: che vuol dire, per me, cercare modi di essere-con diversi da quelli quotidiani, che sono, ancora, quelli della reciproca utilizzabilità. L’altro, come la cosa, significa, rimanda. Mentre occorre cercare modi, forme dell’essere insieme in cui l’altro, come le cose belle, non dica, ma sia. Questo è per Chiantese è il teatro, così come per me può e deve essere l’educazione.
Durante l’opera, alcune partecipanti hanno ritenuto opportuno disturbare chiacchierando, usando lo smartphone e addirittura, pare, dileggiando Chiantese. Il quale alla fine dello spettacolo se ne è lamentato garbatamente, rivendicando il rispetto non per sé, ma per il teatro. Con molta ragione, naturalmente. Ma mi sembra un inciampo, ecco, che conferma la significatività del gesto scenico. Proprio perché le relazioni quotidiane sono improntate alla comune utilizzabilità, al rimando significativo, al quale è funzionale il sistema dei ruoli e degli status, è profondamente disturbante un gesto scenico che proponga, anche, un diverso modo di concepire la relazione, e denunci la vacuità del ruolo dell’attore e dello spettatore. Non c’è da attendersi che un artigianato delle relazioni sia facile e susciti consensi. E tuttavia è necessario.
Pubblicato su Gli Stati Generali il 28 novembre 2018.

Le liturgie di Marina Abramovic

Qualche nota sparsa sulla mostra di Marina Abramovic “The Cleaner” (Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 20 gennaio 2019).

Due sono gli elementi centrali della sua arte: il gesto e la partecipazione del pubblico. L’insieme delle due cose è, etimologicamente, liturgia: che è appunto l’azione, il gesto, l’opera per il popolo. Non è un caso, mi pare, che Abramovic sia discendente di un santo della Chiesa ortodossa. Ciò verso cui tende è il gesto sacro, archetipico ed evocativo al tempo stesso; il gesto che richiama il passato, il sempre stato, ed apre il futuro, il non ancora. Con il rischio di scadere nel moralistico, come osservava una donna straniera che seduta accanto a me seguita il video di presentazione prima della mostra.

Come l’arte iconica, così l’arte liturgica di Abramovic attraversa le fasi del barocco, del realismo, dell’espressionismo, dell’arte di denuncia. Definirei barocche performances come “Imponderabilia” o “Luminosity”, nelle quali Abramovic cerca soprattutto il non comune, quell’insolito che, in una società nella quale la nudità dà ancora brividi, ha inevitabilmente la sfumatura dello scandaloso; espressionistica – psicanaliticamente espressionista – “The Freeing Series”; realismo (postmoderno) è quello di “The House with the Ocean View”, in cui l’artista vive per dodici giorni in una struttura sospesa, sotto gli occhi dei visitatori; arte di denuncia è quella di “Cleaning the Mirror” e di “Balkan Baroque”: due performances che hanno a che fare con la guerra, e con le ossa. Usciti dalla mostra, sono queste le immagini che restano dentro. L’immagine di un essere umano che cerca di lavare via lo sporco da uno scheletro, che è al tempo stesso protesta contro la guerra ed evocazione di un tempo in cui la morte e la vita non erano separati da una barriera invalicabile.
Abramovic ha studiato meditazione vipassana. Lo si nota in “Counting the Rice”, che mette i visitatori a dividere e contare chicchi di riso e lenticchie, vale a dire a compiere gesti minuti, attenti, apparentemente improduttivi. Liturgici.
Uscendo capita di pensare che sì, Abramovic ha compreso qualcosa di importante: che, morto Dio, morta la religione, abbiamo ancora bisogno di una liturgia, di gesti essenziali, esatti, che ci mettano in contatto con la vita e con la morte. E che la ricerca di questi gesti appartiene all’arte. A patto che non diventi anch’essa religione – sia pure la religione del mercato.

Nella foto: “Cleaning the Mirror”. Foto mia.

Lettera aperta a un leghista foggiano

Gentile Joseph Splendido,

fino a qualche giorno fa ignoravo la sua esistenza; ieri l’altro mi sono imbattuto per caso nel suo profilo Facebook. C’era un video dell’incendio che qualche giorno fa ha colpito il ghetto di Borgo Mezzanone, uno dei luoghi in cui una concezione feudale dei rapporti di lavoro – Fabrizio Gatti parlava semplicemente di schiavitù – costringe a vivere i lavoratori africani delle campagne della Capitanata. Baracche di lamiera e legno che spesso vanno a fuoco, come è successo lo scorso anno al Gran Ghetto di Rignano, dove sono morti tra le fiamme due braccianti del Mali, mentre ad agosto dodici braccianti hanno perso la vita mentre tornavano dal lavoro in uno dei tanti furgoni privi dei requisiti minimi di sicurezza con i quali il caporalato gestisce gli spostamenti dei lavoratori-schiavi. L’incendio dell’altro giorno ha fatto diversi feriti, alcuni gravi. Sul suo profilo lei ha commentato così: “La nostra Puglia continua a subire l’onta dell’illegalità e dell’immigrazione clandestina”. Ha ragione. E’ motivo di vergogna che esistano clandestini, e che siano costretti a vivere in baracche che vanno a fuoco. Ho qualche dubbio però sul fatto che si tratti di qualcosa che la Puglia subisce. Ma vorrei parlarle di un’altra cosa. Continue reading “Lettera aperta a un leghista foggiano”

L’ENI, l’Africa e noi

African Metropolis è la grande mostra che il MAXXI  di Roma dedica alla nuova arte africana. Un evento in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e con la partnership dell’Eni, che all’interno della mostra ha creato un suo spazio espositivo, DATAFRICA, con installazioni che presentano semplici dati sul continente, senza alcuna immagine. Un percorso interattivo tra cifre, mappe, diagrammi, che è accompagnato da una narrazione tranquillizzante. Nella pagina del sito dell’Eni dedicata all’evento è messa in bella mostra una citazione tratta dal Corriere della Sera: “Da parecchi anni noi investiamo in 14 Paesi africani, dall’Angola alla Nigeria passando per Congo e Mozambico, con l’obiettivo di affiancare all’attività estrattiva programmi di sostegno delle economie e delle comunità locali: centrali elettriche, impianti eolici, solare fotovoltaico per dare energia alle famiglie e alle imprese di vari Paesi. Ma anche investimenti in agricoltura e in riforestazione.”  A parlare è l’amministratore delegato Claudio Descalzi. Una narrazione che l’ENI ha, naturalmente, i mezzi economici per diffondere sulla stampa, compreso l’acquisto di un vistoso spazio pubblicitario sulla presente testata. Ma è una narrazione vera?

Consideriamo alcuni dati che con ogni probabilità mancano nel percorso del MAXXI.

161 su 180. E’ il posto che, secondo Trasparency International, il Congo francese occupa a livello mondiale nella classifica dei paesi con maggiore corruzione percepita.

15 milioni di euro. E’ la cifra irrisoria che, secondo un’inchiesta dell’Espresso, l’Eni avrebbe speso per acquistare, nel corrottissimo Congo francese, il Marine XI, un enorme giacimento petrolifero sottomarino. L’operazione sarebbe avvenuta attraverso un complesso sistema di società offshore.

1,3 miliardi di dollari. A tanto ammonterebbe, secondo la procura di Milano, la tangente pagata da Claudio Descalzi per l’acquisizione di una concessione petrolifera in Nigeria.

40 anni. E’ l’aspettativa di vita del Delta del Niger, dove si trovano la maggior parte dei pozzi petroliferi dell’Eni, mentre nel resto della Nigeria è di 53-55 anni.

2 milioni di euro. E’ il risarcimento che cinquemila abitanti di una tribù del Delta del Niger chiedono come risarcimento per un disastro ambientale avvenuto nel 2010.

11.000. E’ il numero di bambini che secondo uno studio dell’Università di St. Gallen, in Svizzera, sono morti entro il primo anno di età a causa delle perdite di petrolio nel Delta del Niger.  Secondo l’Eni e le altre compagnie petrolifere, lo sversamento di petrolio è dovuto alle azioni di vandalismo delle popolazioni, che cercano di spillare il petrolio dalle condutture per rivenderlo, ma non è da escludere che molte perdite siano dovute allo fatiscenza delle condutture. “Qualunque sia la causa – osserva Amnesty International -, secondo la legge nigeriana le compagnie petrolifere sono responsabile di contenere e ripulire le perdite e riportare le aree contaminate al loro stato originario. Tuttavia, ciò accade di rado. Di conseguenza, la gente nel Delta del Niger vive con l’impatto cumulativo di decenni di inquinamento”.

Corruzione, inquinamento, morte. Non compaiono nel giallo rassicurante dell’advertising di Eni, né nella retorica neo-coloniale che accompagna l’iniziativa, nella quale si parla perfino di “un futuro inclusivo”.

“Sono le bugie che sono state martellate / nelle tue orecchie per una generazione / […] E’ questo / caro amico, che trasforma il nostro mondo / in una tetra prigione”, scriveva il poeta nigeriano Ken Saro-Wiwa. Lo scriveva nel 1991, quattro anni prima di essere condannato a morte per aver reclamato i diritti della gente del Delta del Niger contro le multinazionali del petrolio.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 23 ottobre 2018.

Palio: il dialogo necessario


Siena ama i cavalli. E’ l’argomento ricorrente, in questi giorni in cui la città è tornata al centro delle polemiche per la morte di un cavallo durante il palio straordinario. Siena ama i cavalli: e dunque li protegge; e se qualcuno muore, è stata una fatalità. E’ lecito avere qualche dubbio, nel caso dell’ultimo palio, riascoltando quanto detto dal sindaco De Mossi in una intervista subito dopo la fine della gara. “Non fa mai piacere vedere un cavallo che cade però direi che il fatto che il lotto fosse di sette cavalli nuovi e quindi un po’ meno esperti della pista un pochino ha creato un po’ questa specie di palio all’antica, cioè con tanti cavalli scossi che era tantissimo che non vedevamo. E’ un po’ la cifra del palio, è una pista che necessita di un adattamento”, diceva De Mossi. Ma se sai che la pista necessita di adattamento, e mandi in pista dei cavalli che invece non hanno avuto il tempo di adattarsi, puoi aspettarti che qualche cavallo si faccia male, che qualche cavallo magari muoia.
Dopo la morte del cavallo della Giraffa (morte inattesa, perché il comunicato del Comune della sera del palio non lasciava affatto presagire un esito simile) il sindaco sul suo profilo Facebook ha risposto come segue alle polemiche: “Il dispiacere è di tutta la città che ama i cavalli e li rispetta, e non accetta provocazioni da chiunque abbia solo l’interesse a farsi pubblicità, non conoscendo la nostra cultura, tradizione, rispetto e cura dei cavalli.”

“Non fa piacere”, “il dispiacere”. La città è dispiaciuta, perché ama i cavalli. Non si fatica a crederlo. Ma il dispiacere è la mancanza di piacere – e certo sarebbe ben grave se una città intera si rallegrasse e provasse piacere per la morte di un cavallo -, non dolore. Non sono sicuro che De Mossi sappia interpretare i sentimenti della città. In molti la vista di un cavallo che si lancia a fortissima velocità contro una curva e si spezza una gamba suscita qualcosa di diverso dal semplice dispiacere. Suscita ribrezzo, scandalo, dolore. E no, non si tratta di “presunti” animalisti. Si tratta di animalisti veri, ma anche di molta gente senza etichette, cui la violenza sugli animali fa orrore (e per fortuna di gente così ce n’è ancora molta). E molti di questi sono senesi. Contradaioli nei quali la morte di Raol ha suscitato non meno dolore che negli animalisti. Con l’aggiunta di una ancora più dolorosa dissonanza cognitiva, perché quel fatto terribile è in contrasto con molte cose cui attribuiscono il massimo valore: la tradizione, l’identità, la festa collettiva. Un dramma psicologico-culturale che la rozza difesa del sindaco non riesce e cogliere. Nelle sue parole sembra esserci un altro processo psicologico: la proiezione. Perché ritenere che chi critica il palio sia mosso da bassi interessi non è solo una forma particolarmente puerile di processo alle intenzioni; è una uscita surreale, dopo un palio straordinario che, nella lettura di molti, è stato anche, se non principalmente, una audace mossa politica.
C’è poi, nelle sue parole, quella che potremmo chiamare la mistica della senesità. Chi critica il palio non conosce la storia e le tradizioni di Siena, è uno che semplicemente non può capire. C’è del vero in questa affermazione, come c’è molta verità nell’affermazione che Siena ama i cavalli. Siena ha una struttura sociale diversa da qualsiasi altra città italiana, ha nelle contrade una ricchezza straordinaria, che difende con le unghie e con i denti. Ma la vita delle contrade gira intorno al palio. Se si abolisse il palio, come qualcuno auspica, Siena non esisterebbe più, semplicemente. Quando si vive in un sistema sociale e culturale diverso dagli altri, tuttavia, si rischia di non essere compresi dagli altri, ma anche di non comprendere gli altri. Siena è una città unica, ma è anche una città italiana, per la quale valgono le leggi comuni. Compreso l’articolo 544-quater del Codice Penale: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque organizza o promuove spettacoli o manifestazioni che comportino sevizie o strazio per gli animali è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni e con la multa da 3.000 a. 15.000 euro”. O come l’articolo 588, che stabilisce che la rissa è reato, senza fare sottili distinzioni antropologiche tra la rissa vera e propria e i fronteggiamenti tra contradaioli.
Che fare? Ieri il Consorzio di Tutela del Palio ha diramato il seguente comunicato: “Il Consorzio di Tutela del Palio, riguardo alle polemiche seguite all’incidente che ha coinvolto il cavallo Raol raccomanda a tutti i contradaioli di non rispondere a titolo personale a comunicati o post sui social. Comune e Consorzio sono all’opera per gestire l’esplosione mediatica sull’accaduto. Nelle prossime ore è plausibile un ulteriore massiccia intensificazione di commenti. Si invita a segnalare al Consorzio ogni nuovo servizio, articolo o post. La mail per segnalare: info@ctps.it. Aggiungere nella mail il nome di chi lo ha pubblicato e in quale social è stato trovato. Il Consorzio garantisce la tutela al cittadino che segnala.”
Ora, è evidente che gli scambi di insulti sui social non portano nulla di buono, ma questa chiusura dai toni non troppo vagamente minacciosi non è una grande alternativa. L’alternativa è il dialogo. Un dialogo che è possibile solo se c’è un riconoscimento reciproco. Non ci sono da un lato persone sanguinare che si divertono a torturare e uccidere cavalli e dall’altra pseudo-animalisti che attaccano il palio solo per visibilità. Il principio del valore della vita animale, che è per gli animalisti ed antispecisti una ragione di vita, è valido anche per i senesi, segnatamente per quanto riguarda i cavalli. Per questo il dialogo è possibile, oltre che necessario.

Nella foto: i cavalli prima del palio del 20 ottobre. Foto di Antonio Vigilante.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 23 ottobre 2018.

La capotreno e il rispetto delle regole

E’ l’eroe, anzi l’eroina del giorno la capotreno che in Sardegna ha costretto a scendere dal treno alcuni passeggeri stranieri sprovvisti di biglietto. Il ministro Salvini ha postato il video sul suo profilo Twitter commentando soddisfatto: “Questo non lo vedrete nei tigì, facciamo girare! Onore a questa capotreno che, in Sardegna, fa scendere un gruppo di scrocconi. Il clima è cambiato, #tolleranzazero con i furbetti, anche con un uso massiccio delle Forze dell’ordine. Se vuoi viaggiare, PAGHI come tutti i cittadini perbene!”.
Guardiamo il video. “Alzati subito! Alzati subito! Alzati!”, dice la donna a una passeggera dalla pelle nera. Poi si rivolge ad altri cinque passeggeri, anch’essi neri, tra cui un bambino: “Anche voi, forza. I signori non perdono tempo per voi”. Un uomo ha difficoltà di deambulazione. La donna commenta: “Non me ne frega niente della tua gamba, sei giovane e te ne vai a lavorare e ti paghi un biglietto”. Quando sono nel corridoio, pronti a scendere, si sente ancora la voce della donna, rivolta ad altri passeggeri sull’altro lato della carrozza: “Eh, forza eh, scendere anche voi due col bambino. Meglio eh. Scendi, scendi. Dai il buon esempio a tuo figlio. Sei venuta in Italia? Gli dai il buon esempio”. E poi, quando già stanno scendendo: “”Ti tiro giù a calci in culo”.

“Se hai dubbi chiediti: sarei contento di essere trattato così?”, si legge nel Codice etico di Trenitalia. Dal momento che sì, ho dubbi, la domanda me la pongo: mi piacerebbe essere trattato così, se fossi su un treno senza biglietto? E la risposta è: no. Per niente.
Non mi piacerebbe, per cominciare proprio dalle base, che il personale di bordo mi si rivolgesse dandomi del tu. In Italia tra persone adulte che non si conoscono ci si dà del lei; il tu viene rivolto dagli adulti ai bambini o agli adolescenti. Se non ho pagato il biglietto ho sbagliato, senza alcun dubbio. Ma non c’è errore che possa giustificare la mancanza di rispetto di chi deve solo applicare la legge.
Non mi piacerebbe che mi si minacciasse di prendermi a calci in culo. Per la legge italiana è un reato, ed un reato anche abbastanza grave.
Non mi risulta, poi, che la pena(le) prevista per chi non ha pagato il biglietto sia l’allontanamento dal treno. Le Condizioni Generali di Trasporto di Trenitalia prevedono che in caso di controllo il viaggiatore sprovvisto di titolo di viaggio venga “regolarizzato con il pagamento dell’importo dovuto e l’applicazione di importi aggiuntivi”. Solo “in caso di mancata identificazione del viaggiatore, viene chiesto dal personale di bordo l’intervento delle competenti autorità e può non essere consentita la prosecuzione del viaggio”. In questo caso i trenta viaggiatori (secondo la quantificazione della stessa capotreno nel video) sono stati identificati? Erano tutti senza documenti? Pare improbabile. E’ molto più probabile che siano stati costretti a scendere dal treno (senza la minima resistenza da parte loro) per non aver pagato il biglietto, e non per essere sprovvisti di documenti. Ma se così fosse, la cosa costituirebbe un abuso gravissimo. Per un comportamento simile un capotreno veneto è stato condannato per tentata violenza privata.
Non mi piacerebbe nemmeno dover subire la morale. Non siamo, per fortuna, in uno Stato etico. Chi deve applicare la legge è bene che la applichi, ma nessuno, nemmeno un giudice, ha il diritto di fare la morale a chicchessia. Nessuno ha il diritto di fare pubbliche valutazioni moralistiche sul mio conto, e meno che mai di farle davanti a mio figlio. Devo pagare il biglietto, se non l’ho pagato: non devo rendere conto del mio lavoro, delle mie scelte di vita, del mio essere in Italia, dell’educazione che intendo dare a mio figlio.
Né mi piacerebbe che la mia umiliazione venisse ripresa con un cellulare, mostrata a milioni di persone attraverso i social network e rilanciata con soddisfazione da un ministro. 
Ritenere che il mancato rispetto delle regole sia ragione sufficiente per il mancato rispetto dell’essere umano è una china pericolosissima, che ha a monte un capotreno giustiziere e a valle un ragazzo pestato a morte.
[Gli Stati Generali, 15 ottobre 2018]

Poesia della natura offesa

Seduto su un colle, il poeta si abbandona a considerazioni sull’infinito contemplando una siepe, oppure interroga la luna, che si staglia in un cielo intatto. Ma che accade se, dando uno sguardo alla siepe, vi trova impigliato un sacchetto di plastica, oppure al di là di essa scorge una discarica? Che accade se il suo solitario colloquio con la luna è disturbato dal passaggio di un volo di linea? Non ha che due possibilità. Può fingere di non vedere, rattristandosi magari per la sfortuna di essere nato in tempi in cui la pura contemplazione della natura e del paesaggio è contrastata da elementi cosi prosaici e antiestetici, oppure può fare poesia della siepe e del sacchetto di plastica, della luna e dell’aereo. E questo realismo poetico – perché dire il reale oggi significa dire la discarica non meno del bosco – può prendere provocatoriamente la direzione della ricerca di una nuova bellezza, che nasca dall’incontro della siepe con il sacchetto di plastica (si pensi alla scena del sacchetto di plastica, appunto, nel film American Beauty di Sam Mendes) oppure farsi strumento di denuncia e di cambiamento.
E’ quest’ultima la via della ecopoesia, nata sul finire del secolo scorso nel mondo anglosassone. Naturalmente non sono mancati, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, poeti in grado di interpretare la crisi ecologica: si pensi a Gary Snyder oppure all’ultimo Danilo Dolci e, in tempi più recenti, all’impegno di Marcia Theophilo per la difesa dell’Amazzonia, ma si è trattato della sensibilità di singoli, mentre l’ecopoesia intende essere un movimento poetico-politico-pedagogico con un suo preciso programma. Nel Manifesto dell’ecopoesia italiana, scritto nel 2005 dalla biologa Maria Ivana Trevisani Bach, l’ecopoeta appare come colui che “testimonia i diritti di quei viventi che non hanno diritti”. Si tratta naturalmente di qualcosa di più di una testimonianza: il passaggio dal non avere diritti all’averne avviene grazie al cambiamento nella sensibilità pubblica, ed è un cambiamento nel quale l’arte – la poesia, ma anche la pittura, la fotografia e il cinema – può avere un ruolo decisivo. Mentre la filosofia morale si sfinisce in discussioni teoriche – come dimostrare il valore di una vita animale? – la fotografia di un animale sottoposto a vivisezione può suscitare quel disgusto da cui parte il cambiamento. E lo stesso può dirsi per la poesia. Non è un caso che in passato, quando i mezzi tecnologici non consentivano di riprodurre la sofferenza animale, si ricorresse alla poesia ed all’arte come completamento della riflessione filosofica. Ne è un esempio The Cry of Nature di John Oswald, piccolo classico dell’etica del non umano  scritto da un pensatore vicino a Thomas Paine morto in Francia combattendo per gli ideali rivoluzionari, che nei momenti decisivi del suo discorso ricorre alla voce dei poeti – in particolare Le Stagioni di James Thomson – per suscitare emozione, oltre la riflessione.
C’è il rischio di intellettualismo, di fare della poesia a tema (qualcuno direbbe: ideologica), ma rettamente intesa l’ecopoesia non fa nulla di diverso dalla poesia tout court: fa attenzione. Fa attenzione agli esseri, alle cose; all’esteriorità, all’interiorità; ed al legame che unisce esseri e cose, esterno ed interno. Ciò che cambia è la direzione dello sguardo, la dimensione dell’attenzione. Nell’ecopoesia ciò che normalmente fa da sfondo passa in primo piano. Un esempio riuscito di questa disciplina dello sguardo è Intatto. Intact, di Massimo D’Arcangelo, Anne Elvey e Helen Moore (La Vita Felice, Milano 2017; prefazione di Serenella Iovino, cura e traduzione dall’inglese di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, traduzione dall’italiano di Todd Portnowitz). Gli autori provengono da mondi culturali diversi: pugliese d’origine, D’Arcangelo vive a Siena; poeticamente proviene dal Realismo Terminale di Guido Oldani, una delle correnti più innovative della poesia italiana contemporanea; Anne Elvey, australiana, oltre che di poesia si occupa della intersezione tra teologia, politica ed ambiente; Helen Moore, scozzese, è autrice di Ecozoa, uno dei testi fondamentali dell’ecopoesia, espressione poetica della ricerca di un’Era Ecozoica come alternativa all’Antropocene, un nuovo equilibrio tra comunità umana e mondo naturale. Il loro sguardo, lo sguardo dell’ecopoesia, si posa su ciò da cui il nostro sguardo è costantemente distratto: il rifiuto, lo scarto, il residuo, “il lato oscuro del progresso” (D’Arcangelo), ma anche la sofferenza animale, il camion carico di animali da condurre al macello (“Pigiati / insieme e ammassati, i manti delle pecore / erano intrisi di benzina”: Anne Elvey; “[…] il ventre della bestia squartato / mentre gli zoccoli possenti, amputati, suoneranno sordi / sulle mattonelle del macello in un oceano miasmatico di sangue / in u tumulto crepitante di bava bianca ondeggiante”: Massimo D’Arcangelo). Oppure i fiori che spuntano ai margini della strada presso una piazzola di sosta, la celidonia, le campanule, le stellarie assediate mozziconi di sigaretta e bicchieri di plastica, ritratti con sensibilità competente da Helen Moore in Sonnet of the Verge (Sonetto al margine). O ancora il fior di vespa minacciato dal trattore: “Come possono queste creature sviluppare / un mimetismo così ingegnoso / e apparire tuttavia ignare / della nemesi che incombe?” (Helen Moore). Ma è anche poesia della stessa sofferenza umana, perché (scrive Elvey): “C’è a malapena un grado di separazione / quando la lama penetra, quando il mortaio / azzanna”.
E’ una poesia dei margini, non della natura venduta dalle agenzie di viaggi, ma di quella che ci passa accanto ogni giorno, la natura che resiste accanto all’umano, o che quotidianamente soccombe. E’ una poesia che ci pone una domanda nuova: cos’è il non umano? Cos’è l’animale? Cos’è la pianta? E’ solo il non, il negativo che si contrappone al positivo dell’umano? Ha qualche valore? “Né persone né cose” è il titolo di una poesia di Anne Helvey. Persona è un concetto chiave di una corrente della filosofia contemporanea. Una filosofia che afferma la dignità dell’essere umano, l’unico che possa considerarsi, appunto, persona, un essere in dialogo con Dio. Non essendo persone, gli esseri non umani finiscono inevitabilmente per diventare cose: strumenti, oggetti, cibo, quando non ornamento. Siamo pienamente consapevoli di quanto questa visione del mondo sia portatrice di morte non solo per la vita non umana, poiché la riduzione a cosa (la considerazione del mondo come un esso e non come un tu, per dirla con Martin Buber) finisce presto per colpire lo stesso essere umano, condotto al macello non meno dell’animale se è un nemico, reso strumento docile di sfruttamento intensivo se è un lavoratore, risorsa umana. Occorre, e la filosofia lo sa da tempo (perfino la teologia cerca di aggiornarsi), un nuovo sguardo, che tuttavia fa fatica ad affermarsi contro la ripetizione ossessiva e mediatica l’imperativo della società dei consumi: usare il mondo.  Questa poesia “solidale con il mondo” (così Serenella Iovino nella bella prefazione), in dialogo con altre forme artistiche (l’incrocio e la reciproca fecondazione dei linguaggi è una caratteristica del movimento ecopoetico) e con la stessa filosofia può tentare ciò che sembra impossibile: il balzo oltre la sindrome ossessivo-compulsiva del dominio-consumo.
Nell’immagine: Meggs & Phibs, Message in a Bottle. Murale realizzato a Napier (Nuova Zelanda) per sensibilizzare sul tema rispetto dell’ecosistema. Fonte: https://art-facto.today/eng-pangeaseeds-sea-walls/
Gli Stati Generali, 2 settembre 2018.

La caccia è un pericolo per tutti

Non sapevo che fosse cominciata la stagione della caccia. Me lo hanno annunciato, questa mattina alle sette, le fucilate intorno a casa. Abito in una delle ultime case di un borgo sui colli senesi, in una via che si inoltra nella campagna, che la gente del luogo chiama “strada dei caprioli”: non è infrequente che un capriolo ti attraversi la strada. Quando vi portavo la mia cagna bisognava fare attenzione, perché l’istinto la portava ad inseguirli ed a perdersi con loro nei campi. La mia cagna, che non c’è più da quasi un anno, era una meticcia che aveva molto del segugio. Era stata abbandonata da un cacciatore perché poco abile. Il giorno prima che morisse le abbiamo fatto dei raggi: aveva – chissà da quanto – dei pallini nella gola, residuo di una fucilata.
Nel pomeriggio c’è stato un acquazzone, ora è tornato il sole. E sono tornate le fucilate.
Mentre loro sparano, io rifletto un po’. Lascio da parte ogni considerazione sugli animali. Credo che gli animali abbiano diritto alla vita, e che ucciderli per divertimento sia un atroce insulto alla vita, ma non è di questo che voglio parlare ora. Mi interrogo sul rischio che la caccia rappresenta per le persone e sulle contraddizioni singolari di questo paese. Non è difficile trovare dati sulla pericolosità della caccia. L’ultima stagione venatoria ha fatto 84 feriti e 30 morti. Dei morti, dieci erano persone estranee alla caccia. Dieci persone che hanno perso la vita perché altre persone volevano divertirsi andando in giro a sparare. Tra i morti c’è anche un minore. Ed è il dato sui minori il più agghiacciante: tra il 2007 e il 20015 sono stati uccisi dai cacciatori undici minori. Undici. Undici vite di bambini e adolescenti stroncate.

Dicevo delle contraddizioni. Viviamo in un paese ossessionato dalla sicurezza. Un paese in cui, nonostante tutti i dati dicano che da molto tempo ormai i reati più gravi, a partire dagli omicidi, sono in calo verticale, la gente ha una paura terribile. Una paura che esige poliziotti di quartiere, videocamere, uno spazio pubblico sempre più blindato, fogli di via sempre più facili per chiunque sia percepito come un pericolo, con il rischio sempre maggiore di violazioni. Una paura su cui si costruisce il successo politico. Ma come si spiega che gli stessi politici che alimentano l’ossessione per la sicurezza siano favorevoli alla caccia? Poco più di un mese fa Salvini ha difeso a spada tratta i cacciatori: “Giù le mani dalle nostre tradizioni, dalla nostra storia dalla nostra cultura. Se non ci fossero nei nostri boschi coloro che i nostri animali li amano e li curano sarebbero problemi per tutti”. E’ un esempio particolarmente efficace di quella offesa aperta, sfacciata alla verità che è propria del linguaggio dei regimi totalitari: chi insegue, stana ed uccide degli animali diventa uno che gli animali li ama e li cura. Ma, ripeto, qui non voglio parlare di animali. Mi interessano le vittime umane. Mi interessano le decine di bambini e ragazzi uccisi dai cacciatori. Mi interessa sapere che, quando avrò un figlio, tra quelle vittime potrebbe esserci anche lui. Tradizioni, storia, cultura? La caccia? Qualcuno dovrebbe informare Salvini che l’umanità è uscita dalla fase di caccia e raccolta da qualche millennio, e che legare la cultura italiana alla caccia è una delle offese più grandi che si possa fare a un paese che ha espresso ben altro, sul piano culturale. Ma soprattutto dovrebbe chiedergli quale risposta dà, “da ministro e da padre”, a chi per quella tradizione e cultura (più probabilmente: per qui volgarissimi interessi) ha perso un figlio.

Gli Stati Generali, 1 settembre 2018.

Ripartiamo dall’ultimo romanzo di Francesca Melandri

Credo che mio nonno fosse un uomo buono. Lo ricordo fragile, alle prese con i nostri quaderni delle elementari, sui quali si affaticava per imparare a leggere e scrivere. Perché mio nonno era analfabeta. Orfano, era cresciuto per strada, fino a quando lo Stato non si era accorto di lui e gli aveva messo una divisa addosso per mandarlo ad uccidere gente che non conosceva in terre di cui non aveva nemmeno mai sentito parlare. Ne tornò con una croce di ferro, una campana indiana e notti piene di incubi, tutte le volte che gli capitava di vedere un film di guerra.
Mio nonno – sì, quell’uomo buono – era fascista e razzista. Esaltava Mussolini e odiava i neri. Gli africani. Non gli indiani: quelli erano buoni. In India era stato prigioniero degli inglesi, credo trattato con umanità sia dagli inglesi che dagli indiani. Diceva che lo Stato gli aveva rubato la giovinezza. Gli sfuggiva che quello Stato che gli aveva rubato la giovinezza era Mussolini.

Ho ripensato spesso a mio nonno leggendo Sangue giusto di Francesca Melandri (Rizzoli). Un romanzo che comincia in un modo che sembra bizzarro, ma che man mano che si procede nella lettura appare plausibile, al punto che ci si chiede perché non ci abbiamo pensato prima. E’ la storia di un giovane etiope che un giorno bussa alla porta di una buona famiglia romana con un annuncio sconcertante: lo straniero in realtà straniero non è, ha il “sangue giusto” italiano. Perché il patriarca della famiglia, Attilio Profeti, ha fatto la guerra in Etiopia, e lì ha avuto una donna, e dalla donna ha avuto un figlio che a sua volta ha avuto un figlio. Come chissà quanti dei nostri nonni.
Il libro è un viaggio nelle due Italie, quella fascista di ieri e quella di oggi, difficile anche da definire. Un viaggio nell’orrore dell’iprite e dei lanciafiamme, ieri, e dei CIE oggi, ma anche e soprattutto un viaggio nell’assurdo, anzi nel grottesco. Grottesca è l’Italia fascista, con il capovolgimento sistematico di tutto ciò che è razionale, sensato, vero, con la menzogna e la mistificazione eretti a sistema, con l’epos ridicolo di un popolo rozzo ed ignorante che ha la pretesa di civilizzarne un altro. Grottesca è l’Italia berlusconiana e post-berlusconiana, l’Italia antimusulmana che però accoglie con tutti gli onori Gheddafi, consentendogli anche di tenere una lezione sul Corano a cinquecento ragazze scelte da una agenzia di escort, con la benedizione di quelli che si abbarbicano al crocifisso per esorcizzare la paura del diverso. Un’Italia che intristisce, e che tuttavia è anche migliore di quella reale: perché nel romanzo un parlamentare forzista ha uno scatto di dignità e si dimette per non dover avallare la posizione di Berlusconi nel caso Ruby. “Nella realtà il 5 aprile 2011, quando al Parlamento italiano fu chiesto di avallare o respingere la tesi difensiva di Silvio Berlusconi sull’episodio della prostituta minorenne, i deputati della maggioranza di governo votarono a favore all’unanimità e nessuno di loro si dimise da parlamentare”, scrive Francesca Melandri in una nota conclusiva. Nessuno scatto di dignità. Nessun segno di speranza.
La guerra in Etiopia è stata rimossa dalla memoria collettiva del paese. C’è stata la guerra, c’è stata il fascismo, ci sono stati i partigiani, ci sono stati gli eccidi dei nazisti. Non ci sono mai stati gli eccidi degli italiani. A Roma c’è ancora una via dell’Amba Aradan, il luogo in cui i soldati italiani hanno compiuto uno dei massacri più feroci e vili, con l’uso di armi chimiche. Una via intitolata ad un crimine di guerra – come se a Berlino ci fosse una via intitolata a Sant’Anna di Stazzema – la dice lunga sulla scelta deliberata di non vedere. Il libro di Simone Belladonna Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale (Neri Pozza, 2015) è passato inosservato. “I numeri di quell’impresa coloniale sono impressionanti, paragonabili solo a quelli dei francesi in Algeria nel 1954 e degli americani in Vietnam del 1960”, scrive Belladonna. Ma la guerra d’Algeria e quella del Vietnam hanno suscitato in Francia e negli Stati Uniti forti movimenti di opinione, hanno segnato la cultura, l’immaginario, la politica. In Italia nulla.
Ma il rimosso ritorna. Nella persona di Shimeta Ietmgeta Attilaprofeti, nel romanzo di Melandri; nelle persone cui neghiamo un porto, nella triste realtà di questi giorni. Su Facebook una donna, ieri l’altro, diceva che le donne sulla nave Diciotti andrebbero sterilizzate: e parlava di donne che sono state stuprate in Libia. In un altro commento leggevo che i bambini su quella nave bisognerebbe ucciderli subito, perché poi da grandi diventeranno criminali. I deliri feroci di un popolo che non ha mai fatto i conti con il suo recente passato coloniale, che non ha mai riconosciuto le sue colpe, che non ha mai chiesto perdono a nessuno.
Sangue giusto di Francesca Melandri è un romanzo bellissimo, vero: e dolorosissimo. Un libro che spiega meglio di qualsiasi altro perché siamo al punto in cui siamo. Non sorprende che sia letto ed apprezzato più all’estero che in Italia.
Per favore, leggetelo. Parlatene. Parliamone.

Gli Stati Generali, 26 agosto 2018-

Il grido della Natura

Con l’associazione radicale antispecista Parte in Causa ho pubblicato Il grido della Natura di John Oswald. Un lavoro che fa parte di uno studio più ampio, che non so quando e se vedrà la luce, sull’etica del non umano nel Settecento.
“Ci cibiamo di carcasse senza rimorso perché gli spasmi mortali della creatura scannata sono lontani dai nostri occhi, perché i suoi lamenti non feriscono le nostre orecchie, perché le sue urla agonizzanti non affondano nella nostra anima: ma se fossimo costretti ad assassinare con le nostre mani gli animali che mangiamo, chi tra noi getterebbe via, con disgusto, il coltello e, piuttosto che macchiarsi le mani assassinando un agnellino, acconsentirebbe a rinunciare per sempre al pasto preferito?”

Il grido della Natura è uscito nel 1791; solo due anni dopo l’autore, lo scozzese John Oswald, morirà combattendo in Francia per difendere gli ideali rivoluzionari. La sua riflessione, influenzata da Rousseau ma anche dalla conoscenza diretta della cultura indiana, anticipa i temi più vivi dell’attuale antispecismo. La rivendicazione dei diritti umani (degli sfruttati, delle donne, dei neri) e la richiesta di un nuovo rispetto verso la vita non umana sono momenti di un unico movimento di liberazione che è anche una riscoperta della nostra natura più autentica.

Il testo di Oswald è accompagnato da un mio ampio saggio introduttivo.

Il libro è già disponibile in ebook e sarà presto disponibile anche in versione cartacea.

Dio vuole che Salvini sia ministro

Molti cattolici sono scandalizzati dalla ostentazione del Vangelo e del rosario da parte di Salvini. Per chi considera il cristianesimo, anche nella sua versione cattolica, la religione che sta dalla parte degli ultimi, dei poveri e degli emarginati, si tratta di una strumentalizzazione che tradisce l’essenza del messaggio evangelico. Ma è davvero così? Il cristianesimo, anche nella sua versione cattolica, è la religione dell’amore? Chi lo crede sembra aver dimenticato che fin dalla sua affermazione politica, nel quarto secolo dopo Cristo, il cristianesimo ha praticato la soppressione sistematica di chiunque venisse percepito come avversario, a cominciare dai pagani, uccisi barbaramente (come Ipazia) mentre i loro templi venivano demoliti con uno zelo iconoclasta che nei nostri tempi appartiene solo allo Stato Islamico. La storia dell’Europa cristiana è attraversata da una scia di sangue che, con la scoperta dell’America, ha attraversato l’oceano.

Una cosa indubbiamente affascinante delle religioni, e segnatamente della religione cristiana, è che ognuno può trovarvi quello che vuole. Il pacifista vi trova la pace e l’amore, il guerrafondaio l’odio, la conquista e lo sterminio; l’anarchico la ribellione all’autorità, l’autoritario al contrario l’obbedienza e la gerarchia, e così via. Si spiega così come dal tronco della Bibbia e del Vangelo siano sorti rami così diversi: il pacifismo degli anabattisti e dei quaccheri ma anche le crociate, l’Inquisizione, il suprematismo bianco. Bisogna purtroppo osservare anche che il pacifismo è una posizione minoritaria e fortemente contrastata dalle maggiori confessioni cristiane, fino a tempi molto recenti (si pensi al processo contro don Milani).


Ognuno può trovarvi quello che vuole, ho detto. Una usanza antica ancora abbastanza diffusa tra i credenti è quella di aprire la Bibbia a caso per cercare risposte riguardanti la propria situazione. La Bibbia viene interrogata come una sorta di I Ching. Proviamo ad aprirla anche noi a caso, ed interroghiamola su Salvini.

Ecco: Giobbe, capitolo 9. Siamo lontani dal Vangelo, nel cuore della Bibbia più filosofica, quella dei כתובים, che noi chiamiamo libri sapienziali.

Trovo che quello di Giobbe sia il libro più profondo della Bibbia. Ed anche il più attuale. Conoscete la storia: Giobbe se la passa bene, ha soldi, pecore, cammelli e figli in abbondanza, ed è un uomo pio. Ma Dio e Satana fanno una scommessa. Giobbe è pio, dice Satana, perché le cose gli vanno bene. Che succederebbe se avesse delle disgrazie? Continuerebbe ad essere pio, o bestemmierebbe? Dio accetta la scommessa, o meglio l’esperimento, che è del massimo interesse anche per noi. Satana potrà rovesciare su Giobbe qualsiasi flagello, per vedere l’effetto che fa. Si potrebbe osservare che essendo Dio onnisciente l’esperimento era inutile e la scommessa poco onesta, ma sono sottigliezze teologiche di cui non è il caso di occuparsi qui. Giobbe perde tutto, a cominciare dalle bestie, che probabilmente erano le sue cose più preziose. Quando sono morti tutti, figli compresi (ma sopravvive la moglie, e non è escluso che Satana la annoverasse tra i flagelli), Giobbe si rade il capo e, rassegnato, benedice il nome di Dio. Stremati dalla fatica, per secoli i cristiani devono essersi fermati qui, dal momento che esiste una ricca letteratura sul “paziente Giobbe”.

Le cose vanno diversamente. Quando dei tizi vanno a trovarlo con il proposito di consolarlo, Giobbe perde le staffe. Perché il loro argomento è che se Giobbe ha avuto tante disgrazie, qualcosa deve aver fatto. Magari non vuole dirlo, magari nemmeno ne è consapevole, ma qualcosa dev’esserci: Dio non colpisce chi è giusto e pio. Giobbe sa di essere assolutamente innocente. E comincia a dire cose che, se qualcuno le dicesse durante un comizio nell’Italia del 2018, rischierebbe una denuncia ai sensi dell’articolo 724 del Codice Penale. Dice, ad esempio, che quando una calamità – un alluvione o un terremoto – fa molte vittime, Dio “se ne ride della disgrazia degli innocenti” (9, 23, traduzione CEI). Un crudeltà inaudita e incomprensibile, perché Dio non ha nemmeno da fregarsi le mani per gli appalti per la ricostruzione. Ma il passo che ci riguarda è quello immediatamente successivo (9, 24):
ארץ נתנה ביד-רשע– פני-שפטיה יכסה אם-לא אפוא מי-הוא
La CEI traduce:
Lascia la terra in potere dei malvagi
egli vela il volto dei suoi governanti.
Ad essere precisi, שפטיה si riferisce ai giudici più che ai governanti, ma il concetto è chiaro: è per volere (colpa, diremmo) di Dio che il mondo è governato da brutta gente. Il concetto è ribadito in seguito: “Toglie il senno ai capi del paese” (12, 24).
Ora, si potrebbe obiettare che queste sono la parole di Giobbe, lo sfogo di un uomo provato, che la Bibbia ospita solo come caso umano, per così dire. Ma non è così. Alla fine del libro Dio stesso interviene. E se fa una bella ramanzina a Giobbe, ricordandogli la sua nullità, se la prende soprattutto con i suoi interlocutori, quelli che sostenevano che Dio è giusto, e dunque Giobbe deve aver fatto qualcosa di male. Ed ecco cosa dice loro: “La mia ira si è accesa contro di te ed i tuoi amici, perché non avete detto di me cose rette, come ha fatto il mio servo Giobbe” (42, 7, ancora la traduzione CEI). Giobbe ha detto che Dio se la ride della disgrazia degli innocenti e fa governare il mondo dai malvagi. E Dio conferma che queste affermazioni non sono bestemmie, ma cose giuste.
Dunque sì: Dio vuole che Salvini sia ministro. Così dice l’oracolo. Sogniamo e aspettiamo il giorno in cui la nostra vita pubblica realizzerà un altro passo biblico: “Le parole dei sapienti pronunciate con calma si capiscono meglio degli urli di un potente che parla in mezzo agli stolti” (Qohelet, 9, 17). Ma Qohelet era “Colui che parla nell’assemblea” (questo è il significato del suo nome). Fosse stato “Colui che scrive sui social network”, chissà se l’avrebbe scritto, quel passo.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 11 agosto 2018.

I fascisti di oggi e gli sfascisti di ieri

Ai tempi del referendum costituzionale, nel novembre del 2016, scrissi sul mio profilo Facebook questo post:
Il governo Renzi è un governo neoliberista, e poiché il neoliberismo va combattuto, il governo Renzi va combattuto. Questo dice l’etica dei principi.
L’etica della responsabilità suggerisce di considerare l’esito di un gesto politico. L’opposizione a un governo mira al suo indebolimento e alla sua caduta. Ma chi può avvantaggiarsi politicamente della caduta del governo Renzi? Non esiste nessuna opposizione di sinistra che possa avvantaggiarsene. Gli unici che possono trarne un vantaggio politico sono Salvini e Grillo. Che non sono antiliberisti. Sono un neoliberismo con l’aggiunta del razzismo e del populismo.
Ora, se va al governo Salvini, l’Italia tocca il fondo. Ma tranquilli, le vostre vite di borghesi di sinistra non saranno stravolte. Potrete continuare nella vostra pacifica vita di impiegati, potrete continuare a pontificare col culo sulle vostre cattedre, raddoppiando gli strali contro quel governo che avete reso possibile, e mostrando le vostre belle mani pulite. Pulitissime.
Ad essere stravolta sarà la vita degli stranieri, degli immigrati, dei richiedenti asilo. Sarà stravolta la vita della donna che amo, e la mia. Sarà stravolta la vita di chi si troverà ad essere additato come nemico pubblico.
Non è sulla vostra pelle che si decide la partita.
Ora tocca leggere le analisi indignate degli stessi che, con le loro analisi indignate di ieri, hanno reso possibile lo sfascio attuale.

Bookchin a Siena

Lunedì scorso ho avuto il piacere di presentare alla Mondadori di Siena il libro di Murray Bookchin La prossima rivoluzione (BFS), alla presenza della figlia del filosofo, Debbie, e di Francesco Marilungo, operatore umanitario nel Rojava. Mentirei se dicessi che c’era il pubblico delle grandi occasioni – e del resto Siena non è Livorno, né Massa Carrara – ma il pubblico che c’era era attento, interessato e desideroso di discutere.
Ho incontrato Bookchin da qualche anno, alla ricerca (cominciata per me con Aldo Capitini) di una teoria e di una prassi democratica che vadano al di là dei rituali stanchi e ormai vuoti della democrazia rappresentativa, con lo spettacolo osceno di una classe politica più adatta al cabaret che al governo di una nazione e la paurosa deriva qualunquistica di un popolo sempre più volgare ed abbrutito. Capitini cercò fin dall’inizio – all’indomani del crollo del fascismo – una alternativa, che consisteva per lui nella omnicrazia, il potere di tutti esercitato attraverso quella assemblee popolari che chiamava Centri di Orientamento Sociale. Ed è questa la via di Bookchin, il municipalismo libertario, una proposta di organizzazione politica che fa del comune il luogo in cui è possibile una reale partecipazione politica. Il fine ultimo è la realizzazione di federazioni di comuni autenticamente democratici come alternativa allo Stato-Nazione, la prassi immediata è la costituzione nei comuni di forme di controllo del potere, che è già un passo deciso verso una democrazia autentica. Debbie Bookchin ha insistito, nel suo intervento, sulla necessità di sperimentare il municipalismo libertario anche in occidente, e non solo nel Rojava curdo, che come è noto ha una organizzazione politica che realizza la proposta di Bookchin, attraverso la mediazione di Abdullah Öcalan. Una esperienza è quella di Spezzano Albanese, piccolo comune della provincia di Cosenza nel quale fin dal 1992 si è costituita una Federazione Municipale di Base che si rifà apertamente al pensiero di Bookchin.

Tra gli aspetti più importanti, per me, del pensiero di Bookchin c’è l’analisi del dominio, avanzata storicamente soprattutto ne L’ecologia della libertà (elèuthera), e che per me si inserisce, forse più e meglio che nella tradizione anarchica, in quella nonviolenta, a partire dal Tolstoj del Regno di Dio è dentro di voi e fino a Dolci, con la sua contrapposizione concettuale di potere e dominio. La tesi di Bookchin è che il dominio dell’uomo sulla natura, che è giunto oggi a mettere in pericolo l’esistenza stessa della natura, e dunque dell’umanità, ha origine dal dominio dell’uomo sull’uomo. Le due cose vanno insieme: dalla società primitiva è emersa gradualmente una società internamente ed esternamente violenta, organizzata gerarchicamente, e la gerarchia è, da allora, profondamente incisa nella nostra psiche: pensiamo in modo piramidale, e di conseguenza costruiamo, ovunque, strutture piramidali, con una distribuzione dall’alto in basso del denaro, del potere, del prestigio. E continuiamo a farlo dopo la Rivoluzione francese, con i suoi ideali di uguaglianza e di fraternità. Passare dalla piramide al cerchio è la più grande sfida culturale del nostro tempo, e non è esagerato dire che si tratta di una sfida dalla quale dipende la sopravvivenza stessa della specie, se è vero quel che dice Bookchin: che smetteremo di distruggere l’ambiente solo quando avremo una società basata sulla democrazia effettiva, sulla condivisione, sulla collaborazione invece che sulla competizione e lo sfruttamento.

Abbiamo il diritto di uccidere gli animali?

Nel 1792 Mary Wollstonecraft, moglie del filosofo anarchico William Godwin e madre della scrittrice Mery Shelley, pubblica la prima rivendicazione dei diritti delle donne: A Vindication of the Rights of Woman. Tra lo scandalizzato e il divertito, il filosofo neoplatonico Thomas Taylor le risponde quello stesso anno con una Vindication of the Rights of Brutes: se, come dice Wollstonecraft, le donne hanno diritti, perché allora non dovremmo riconoscere diritti anche agli animali? Non poteva immaginare, il filosofo, che sarebbe giunto il tempo in cui quello dei diritti degli animali sarebbe stato un normale tema di discussione morale. A dire il vero, già l’anno prima lo scozzese John Oswald, un giacobino morto durante la Rivoluzione francese, aveva scritto The Cry of Nature in cui, influenzato dall’etica dell’India (che aveva visitato come soldato), affermava la necessità del vegetarianesimo e il valore della vita non umana.
Hanno diritti gli animali? E quali diritti hanno? E quali animali li hanno? La questione non è oziosa: non è difficile riconoscere qualche diritto ad un cane o un cavallo, e tutti condanniamo moralmente la violenza gratuita verso questi animali (che comporta anche conseguenze penali), ma possiamo dire lo stesso di un topo e di un insetto? Hanno diritti tutte le forme di vita, o solo alcune? E in quest’ultimo caso, come distinguere le vite non umane che hanno diritti da quelle che non ne hanno? Si può individuare come criterio la capacità di soffrire o la razionalità, ma in questo caso non si ricorre ancora a un pregiudizio specista? Non si riconosce valore alla vita che maggiormente assomiglia alla nostra?
Siamo sicuri, poi, che sia il caso di parlare di diritti? La cosa ha un indubbio vantaggio: se si dimostra che la vita animale ha diritti, allora diventa obbligatorio per tutti rispettarli; non si tratta più di buona volontà individuale, ma di un obbligo di legge, la cui violazione può essere sanzionata. Ma si può parlare di diritti per soggetti che non fanno parte di una medesima comunità giuridica? Si può dubitarne. Il diritto regola il rapporto tra gli esseri umani, ed ha sempre un carattere di reciprocità. Il soggetto A ha doveri verso il soggetto B, che si impegna a sua volta a rispettare i diritti del soggetto A. E’ evidente che non è questo il caso dei viventi non umani, che costituiscono con l’essere umano una comunità ecologica, ma non una comunità di diritto.
Ma la (eventuale) negazione dei diritti degli animali ha un corollario interessante. Se io faccio parte di una comunità di diritto, mi trovo ad avere alcuni diritti, alcuni doveri ed anche diversi diritti-su. Un genitore, ad esempio, ha il dovere di educare il figlio, che a sua volta ha il diritto di essere educato (ed istruito); ma il primo ha anche alcuni diritti sul secondo, che sono legati al ruolo che la legge gli riconosce. Come è noto, nella Roma antica questi diritti-su erano molto estesi, e davano al pater familias anche il diritto di disporre della vita del figlio. Oggi per fortuna il diritto-su genitoriale è moto più limitato, ma persiste.
Ecco dunque il corollario: se gli animali non hanno diritti, perché non fanno parte della nostra comunità di diritto, allora nemmeno noi abbiamo diritti su di loro. Questo vuol dire che l’umano che costringe l’animale a lavorare per lui, o lo uccide per mangiarne la carne o usarne la pelliccia, o per divertimento, o ancora lo riduce ad animale da compagnia, spesso dopo averlo sterilizzato, non sta esercitando un suo diritto sull’animale, ma sta agendo in base alla sola forza. Sta cioè compiendo una violenza, ossia un’azione moralmente condannabile e razionalmente ingiustificabile.
C’è un modo per sfuggire a questa conclusione, e consiste nel dire che in realtà l’essere umano il diritto sulla vita animale l’ha, perché glielo ha concesso Dio.
Chi legge quello che scrivo su Gli Stati Generali sa che non ho apprezzato molto l’ultimo libro di Leonardo Caffo, Fragile umanità. Tra le altre cose, Caffo scrive in quel libro che chi è specista “chiude gli occhi” di fronte alla sofferenza animale. Replicando con quel cinismo che piace tanto ai lettori di destra, Camillo Langone racconta sul Foglio di essersi precipitato, dopo averlo letto, in Romagna per imparare ad uccidere oche e conigli. Nonostante il cinismo, anche Langone sente la necessità di giustificare la sua azione. E scrive:
Ovviamente lo specismo, ossia il pensiero della superiorità dell’uomo sulle bestie, non è affatto un pregiudizio bensì un giudizio e addirittura di Dio, dunque a spingermi in Romagna è stato il desiderio di ubbidire a chi mi ha creato a sua immagine e somiglianza: “Il timore e il terrore di voi sia in tutti gli animali della terra e in tutti gli uccelli del cielo” (Genesi 9,2).
Si potrebbe replicare che una manciata di anni prima dell’ateo Oswald era stato un sacerdote (anglicano), Humphry Primatt, a sostenere dal punto di vista cristiano il dovere di rispettare la vita animale nella sua Dissertation on the Duty of Mercy and Sin of Cruelty to Brute Animals (1776). Ma soprattutto è interessante osservare che non è possibile giustificare il diritto di disporre della vita animale se non ricorrendo alla religione o al mito. Ed è una giustificazione estremamente debole, se vogliamo adoperare llo stesso cinismo di Langone: siamo in piena secolarizzazione, la Chiesa si sta autodistruggendo, i battezzati sono molti ma i credenti pochi, e anche chi dice di essere credente il più delle volte crede in una sua religione personale, che mette insieme Cristo e il karma. L’argomento del mandato divino è destinato a diventare sempre più una favola, e di quelle che non si raccontano nemmeno più ai bambini. E resterà la domanda: quale diritto abbiamo di uccidere gli animali?
Nell’immagine: Antonio Tempesta (Firenze, 1555 – Roma, 5 agosto 1630), Dio crea gli animali.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 29 marzo 2018.

Tirana città aperta

Ho passato il Natale e Santo Stefano a Roma – giusto il tempo di visitare la mostra su Bernini alla Galleria Borghese e quella, bellissima, su Hokusai all’Ara Pacis e di bere una birra al Blackmarket di Monti – ed il capodanno a Tirana. Mancavo dall’Albania da quattro anni. Se Roma mi è sembrata una città in decadenza (non l’avevo mai vista così sporca), mi ha sorpreso il cambiamento di Tirana. Quattro anni fa scrivevo:

E’, diresti, una donna che veste abiti lussuosi su una biancheria che ha troppi segni d’usura. E’ la metafora che ti viene in mente quando osservi i tavolini all’aperto degli infiniti locali del centro – elegantissimi, tutti dotati di connessione wifi gratuita – e, alzando appena lo sguardo, constati che sono sovrastati da palazzi fatiscenti, con i mattoni a vista ed un groviglio di cavi elettrici e telefonici. Se la povertà continua a mordere, la ricchezza è comunque a un passo…

Oggi il contrasto tra gli abiti lussuosi e la biancheria usurata è diminuito in modo impressionante, se si considera che sono passati solo quattro anni. Sono quasi scomparsi dal centro, ad esempio, i grovigli di cavi elettrici e telefonici che attraversavano le strade e davano un senso di degrado che la magnificenza dei locali non riusciva a vincere del tutto, e sono cambiati perfino i font e la grafica della insegne dei negozi. Quell’aria di diffuso ottimismo, che notavo quattro anni fa, ora è ancora più tangibile. Non sembra essere solo il progresso, naturalmente discutibile, del capitalismo, con i suoi mastodontici centri commerciali, né solo l’occidentalizzazione inarrestabile che porta in una piazza Scanderbeg irriconoscibile dopo i lavori di rifacimento un enorme albero di Natale ed una suggestiva stella all’ingresso del bulevardi Zogu I:

Quattro anni fa avevo visto alla periferia della città alcune famiglie rom che vivevano letteralmente su un marciapiede. E’ di qualche giorno fa, invece, la notizia che il comune di Tirana ha consegnato sessanta case alla comunità rom, con una cerimonia di consegna alla presenza dell’ambasciatore americano. Immaginate cosa succederebbe a Roma se si consegnassero sessanta case ai Rom alla presenza di ambasciatori stranieri.

Mi hanno colpito in particolare due cose che non esistevano quattro anni fa. La prima è il Bektashi World Center, uno straordinario edificio religioso inaugurato nel 2015 alla periferia della città. I Bektashi sono una confraternita sufi molto rispettata in Albania, caratterizzata da una forte tolleranza ed apertura religiosa, che del resto è uno degli aspetti della identità albanese.

Visitandolo, riflettevo sul fatto che in ambito islamico esiste una continuità nell’architettura religiosa che si è persa in ambito cristiano. Una cosa che può essere positiva dal punto di vista strettamente architettonico, ma che fa sì che un cristiano resi spesso perplesso e disorientato di fronte ad edifici come la chiesa di San Pio a San Giovanni Rotondo fatta da Renzo Piano, mentre edifici religiosi islamici contemporanei restano immediatamente leggibili anche per chi non è musulmano.
L’altra cosa è la Casa delle Foglie (Shtëpia e Gjetheve). E’ il nome suggestivo che è stato dato all’ancor più suggestivo museo dei servizi segreti comunisti (Sigurimi). Negli anni trenta era una clinica, trasformata dal Regime di Hoxha nel centro del quale si teneva sotto osservazione buona parte della città, con cimici distribuite anche negli hotel per stranieri e nelle ambasciate.

In una stanza del museo le pareti sono ricoperte interamente dai nomi delle migliaia di persone imprigionate o uccise dal Regime.

Tutte le foto del post sono di Antonio Vigilante. Nel caso volessi utilizzarle ti prego di rispettare la licenza di questo blog

Antispecisti: nuova specie o nuova setta?

Sono diventato vegetariano nei lontani anni Ottanta, quando di anni ne avevo sedici o diciassette, e nessuno in Italia aveva la minima idea di cosa fossero seitan e tofu. Sono diventato vegetariano per una repulsione verso la violenza sugli animali alimentata dall’aver assistito all’uccisione di maiali e pecore nelle masserie del Gargano, ma è stato decisivo un fattore che era importante per il vegetarianesimo nell’antichità, e che ora sembra scomparso del tutto o quasi: l’ascetismo. In quegli anni studiavo la filosofia indiana, una scoperta decisiva per la mia formazione, e mi ero convinto che fosse necessario, per la mia crescita spirituale, un certo controllo del corpo e delle sue passioni; il vegetarianesimo serviva anche a questo. Confesso che c’era però anche dell’altro, nel mio essere vegetariano in quella prima fase adolescenziale. C’era un certo piacere di distinguermi dalla massa, di affermare la mia singolarità, perfino la mia stranezza, che evidentemente era un momento della mia formazione – autoformazione – individuale.
Mi è tornato in mente quest’ultimo aspetto del mio vegetarianesimo adolescenziale leggendo l’ultimo libro di Leonardo Caffo, giovane filosofo che è tra i punti di riferimento del movimento antispecista italiano: Fragile umanità. Il postumano contemporaneo (Einaudi). Per Leonardo Caffo l’antispecismo è una posizione che ha fondamenta solide, difficili da contrastare: “non esistono buone ragioni per il massacro quotidiano di milioni di animali. O almeno, non ne esistono più” (p. 10). Ha ragione. Sul piano razionale, la partita è presto vinta. L’alimentazione dominante nei paesi ricchi è un assurdo etico, ecologico, economico e perfino sanitario. Ma l’essere umano non segue che parzialmente la ragione. Per lo più, il comportamento è il risultato di stimoli che non sono razionali. Ed ecco dunque che l’antispecista, ossia quell’essere umano che cerca di uscire dall’antropocentrismo e considerare il punto di vista dell’animale, si trova ad essere isolato. Raro, dice Caffo (p. 19). Il quale spinge questa singolarità fino a parlare di postumanità ed annunciare “l’alba di una nuova specie” (p. 61). Chi continua a mangiare carne, anteponendo il sapore della cotoletta al rispetto etico della vita non umana, non è solo un soggetto moralmente condannabile. E’ il rappresentante di una umanità che sta per essere superata, la zavorra della specie. Il vegano invece è l’avanguardia della nuova umanità, l’umano che ha conquistato una visione etica superiore, e che per questo non può che distaccarsi dal resto della specie.
In un libro dal titolo simpatico, Il maiale non fa la rivoluzione (Sonda 2013), Caffo, in polemica soprattutto con le istanze politiche dell’antispecismo di Marco Maurizi, aveva avanzato le ragioni di un antispecismo debole, che non associa la causa animale ad altre cause politiche, considerando la lotta per la liberazione animale un momento di una più ampia lotta per la liberazione degli oppressi dal sistema capitalistico, affermando che quella dell’antispecismo “è una lotta non per l’uomo o anche per l’uomo, – ma solo e soltanto per gli animali non umani”. Pur ribadendo il suo antispecismo debole, Caffo si rende ora conto che “il capitalismo è il modo attraverso cui Homo sapiens ha espresso l’antropocentrismo ai danni del pianeta e della diversità” (p,69), per cui l’antispecismo non può che essere anche anticapitalistico: che è come dire che, piaccia o meno, il maiale dovrà farla, la rivoluzione – o almeno dovrà farla qualcuno al suo posto.
Ma come fare la rivoluzione? Il capitalismo è un sistema che si caratterizza per la sua straordinaria plasticità: riesce a trarre vantaggio anche dai suoi oppositori, che se hanno successo hanno anche un mercato. Il capitalismo diversifica l’offerta di beni e servizi: a qualcuno vende la maglia firmata, ad altri la maglia con il volto del Che. Ed ai vegani i prodotti per vegani. La dieta vegana è una tra le tante alternative offerte dal sistema per adeguarsi alla diffusa ideologia del benessere psicofisico: insieme allo yoga, la mindfulness e un bel po’ di roba “olistica”. E’ comprensibile un certo nervosismo di chi è vegano nei confronti di questa appropriazione consumistica di una scelta etica. Probabilmente le conclusioni del libro di Caffo sono il risultato di questo nervosismo. Perché Caffo non dice solo che gli antispecisti rappresentano l’avanguardia di una nuova specie, ma butta giù un progetto per “gestire la speciazione” che è una sorta di vademecum per il postumano vegano, sia pure sotto forma di “esperimento mentale”. Poniamo di essere parte di questa nuova specie. “Come gestiamo questo privilegio?” (p. 92). La risposta è: riunirsi in microcomunità isolate, in sintonia la natura, che seguono uno stile di vita monastico. E così Caffo, che non voleva fare la rivoluzione, né farla fare al maiale, ci conduce nel bel mezzo della controcultura anarco-pacifista, sotto il segno di Thoreau.
Gli ingredienti ci sono tutti. No, non per cambiare il capitalismo, né, purtroppo, per liberare gli animali dallo sfruttamento e dalla riduzione a cose del consumismo. Ci sono tutti gli elementi per creare una setta: la convinzione di essere speciali, diversi, moralmente e spiritualmente superiori agli altri, avanguardia di un nuovo mondo. E’ una cosa che può far sorridere, e che si è tentati di liquidare come antispecismo adolescenziale (l’antispecismo di chi ha bisogno soprattutto di crearsi una identità antagonista), ma non posso fare a meno di considerare, anche, che ricacciare l’altro in una specie inferiore è la premessa di qualsiasi forma di violenza nei suoi confronti. E nessuno dovrebbe saperlo meglio di un antispecista.
Nell’immagine: foto di Timo Stammberger

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 20 dicembre 2017.

Il Piccolo Principe & io


Presso l’editore Il Poligrafo di Padova è uscito il libro Ancora una volta Piccolo Principe. L’essenziale diventa “visibile” agli occhi di Maria Alessandra Soleti, di cui ho avuto il piacere di scrivere la presentazione. Eccone qualche pagina:

In principio era Kipling. Ci sarebbe questa frase in una ipotetica (ed evitabile) storia del mio personale rapporto con la lettura, che sarebbe un capitolo rilevante di una mia ancor più evitabile autobiografia. Just So Stories for Little Children, tradotto con Storie proprio così. Mi vedo ancora – ed è uno dei pochi ricordi della mia infanzia – in cartoleria, con mia madre, e quella richiesta insolita: voglio un libro. Quel libro. Un libro grande, cartonato, con molti disegni. Un libro che racconta le storie, strane e divertenti, di come e perché gli animali sono diventati come sono: perché la giraffa ha il collo lungo, perché il cammello ha le gobbe, perché l’elefante ha la proboscide. Eccetera. Solo da adulto avrei scoperto le illustrazioni originali di Kipling, che trovo bellissime. Quell’edizione invece era illustrata da disegni per bambini, che fecero bene il loro lavoro: non mi sarei appassionato alla lettura di quel libro (e forse alla lettura tout court) senza quelle illustrazioni. In principio era il testo, ma anche l’immagine. In principio era l’immagine che porta al testo. Eidos e Logos. Così è stato per me, così è stato per molti. Voi che leggete queste righe starete forse pensando al libro illustrato che è stato fatale per voi, che ha aperto il mondo magico della lettura e della fantasia. Ma sarà ancora così tra vent’anni? I ventenni, i trentenni di domani parleranno di un libro quasi magico, di figure animate dalle parole, di parole animate dalle figure? Può essere. Ma può essere anche che nei loro ricordi ci sia un’app su un tablet. Può essere che a compiere la stessa funzione iniziatica non sia stato un libro di carta, ma un software. Può essere che ricordino immagini animate, completate da suoni, e testi interattivi.

Qualcuno vedrà in ciò una degenerazione. Possiamo esserne non consapevoli, ma qualcosa ci spinge sempre, nostro malgrado, ad essere laudatores temporis acti, a pensare che il passato era meglio del presente. La carta ci appare più calda, più affettuosa, più sensorialmente appagante dello schermo di un computer, di un tablet, di un cellulare. Ma non abbiamo passato anche noi, da bambini, ore davanti alla televisione? Era forse freddo, lo schermo di un televisore, quando lo usavamo per entrare nei mondi fantastici di Jeeg Robot, di Mazinga Z, di Riù? Perché lo schermo di un pc o di un tablet dovrebbe essere più freddo di quello di un televisore?
Appartengo ad una generazione infelice per molti versi, fortunata per altri. Ho assistito al tramonto di ogni verità collettiva, alla fine penosa di tutte le grandi narrazioni; ho visto il mio paese governato per anni, per decenni da soggetti tali, che se si fossero scelti a caso dei detenuti di una qualsiasi galera, il livello di onestà pubblica ne avrebbe guadagnato; ho visto dominare incontrastati la mafia, i servizi segreti deviati, la massoneria deviata, la finanza corrotta, la delinquenza politica. Ma ho anche assistito a cambiamenti straordinari, che non sempre si verificano nel corso di una sola vita. Quando ero ragazzino l’omofobia, per dire, era incontrastata, mentre oggi assisto alle prime coraggiose unioni civili. Ho visto le televisioni in bianco e nero, poi quelle a colori, poi i primi pc, poi i primi cellulari, grandi come citofoni, poi i primi smartphone ed i tablet. Ho visto i libri diventare elettronici, le immagini animarsi, i testi diventare interattivi. Ho la fortuna di aver mantenuto sempre un po’ della curiosità e della meraviglia di quand’ero bambino: per cui mi ritrovo oggi a provare davanti ad un libro elettronico le stesse sensazioni che avrebbe provato negli anni Ottanta un bambino di sette anni il cui libro di carta si fosse, per una strana magia, improvvisamente animato. (Sì, vi sento. State dicendo che negli anni Ottanta i libri erano animati: li animava la fantasia dei bambini. Ma chi può mettere limiti alla fantasia di un bambino? Se un libro con qualche figura portava lontano, dove porterà un libro elettronico?).
Ho incontrato Il Piccolo Principe tardi: addirittura a trent’anni. E mi pare, tuttavia, di averlo incontrato al tempo giusto. Perché Il Piccolo Principe non è, come si crede, un libro per bambini; anzi lo è, ma non nel senso comune dell’espressione. E’ un libro che insegna agli adulti cosa è un bambino; ed è un libro che parla al bambino che è rimasto, latente, nascosto ed intimorito, nell’adulto. E’ un libro che gli parla per fargli coraggio, per farlo venir fuori. Non riesco a liberarmi, spesso, dall’impressione che quel viaggio misterioso abbia qualcosa a che fare con la Commedia dantesca. Il poeta fiorentino deve intraprendere, per purificarsi, il suo cammino nell’umanissimo Inferno, con i suoi gironi. Il Piccolo Principe nel suo misterioso viaggio visita i pianeti che rappresentano i diversi inferni del nostro essere adulti, uomini e donne concreti, adattati, impegnati con la realtà. Descrive con poesia, ma anche con implacabile realismo, le trappole della nostra vita quotidiana: la trappola del potere, in primo luogo, alla quale pochi sfuggono, e poi quella del denaro, quella della vanità, e quella del sapere (sì, anche il sapere può essere una trappola). E indica la via d’uscita, a portata di mano eppure terribilmente difficile. Essere bambini. Imparare da loro, essere come loro. Conquistare il loro sguardo, la loro poesia, la loro semplicità. Nella mia libreria ideale (cioè: nell’ordinamento ideale della mia libreria; quello reale risente di troppi traslochi) il libro di de Saint-Exupéry starebbe in mezzo a due altri libri che sono per me fondamentali: da un lato Il fanciullo nella liberazione dell’uomo di Aldo Capitini, dall’altro Il diritto del bambino al rispetto di Janusz Korczak. Capitini, il filosofo italiano della nonviolenza, insegna la radicale differenza del bambini, il “figlio della festa”, colui che appartiene alla dimensione della compresenza, il mondo liberato dal male, dalla violenza, dalla morte, un mondo che non è constatabile oggettivamente e non è nemmeno oggetto di fede nel senso religioso, ma nel quale già siamo nel momento in cui, posti di fronte all’altro, rinunciamo alla violenza. A questo mondo appartiene il bambino, con il suo impertinente “dire tu”, con il suo insensato parlare alle cose, agli animali, alle piante, con quella freschezza che ci strappa un sorriso, ma che ci proponiamo di raddrizzare, di “educare”, di socializzare: di spegnere. Il bambino imparerà a dare del lei, e che le persone sono persone e le cose sono cose, e che la realtà ha le sue leggi ferree, le sue distinzioni, i suoi muri, le sue crepe. Korczak ci mostra le infinite violenze cui, col pretesto dell’educazione, sottoponiamo il bambino. Un libro che si conclude con parole che dovrebbero essere scritte sulla parete di ogni aula scolastica: “Rispetto, se non umiltà, per la bianca, la candida, l’immacolata, la santa infanzia”. Si dirà: ma no, questo è romanticismo. Non c’è nulla di immacolato nell’infanzia, ci ha insegnato Freud. E la santità, poi! Un concetto vecchio, nel quale finge di credere solo qualche cattolico. Leggiamo la riga che precede. “I prìncipi del cuore sono proprio i bambini, questi poeti e pensatori”. Eccolo qui, il nostro piccolo principe. Poeta e pensatore. Korczak scrive queste righe nel 1929. Tredici anni dopo, la mattina di un giorno di agosto del 1942, il dottor Korczak accompagnerà i suoi bambini dell’orfanotrofio del ghetto ebraico di Varsavia. Un carro per bestiame li porterà a Treblinka, dove saranno sterminati tutti. Ed eccoli qui, l’adulto e il bambino. L’homo rapax – così lo chiama Korczak – e la sua vittima. Rileggiamo le parole finali del suo libro pensando a questi bambini che si avviano in fila verso il campo di sterminio. Sì, la bianca, la santa infanzia. Con buona pace di Freud. La santa infanzia sacrificata ieri nei campi di sterminio, sacrificata ieri, oggi e (se non cambiamo le cose) domani sull’altare della ragionevolezza feroce e insensata che costruisce i nostri palazzi, le nostre strade, la nostra ammirevole civiltà.

Il turbamento di Maria

A proposito della rappresentazione di Maria. Nella bella mostra su Ambrogio Lorenzetti a Siena, che è possibile visitare fino al 21 gennaio 2018 al museo Santa Maria della Scala di Siena, è esposto tra l’altro questo disegno che proviene da San Galgano [clicca sull’immagine per ingrandirla], dove Lorenzetti ha affrescato la cappella annessa alla rotonda di Montesiepi (quella con la spada nella roccia). La rimozione degli affreschi ha consentito di recuperare il disegno che l’artista aveva fatto sull’arriccio. Ed ecco allora questa singolarissima annunciazione, che naturalmente i committenti rifiutarono. Lorenzetti, autore di raffigurazioni assolutamente canoniche della Vergine, in questo caso ha una intuizione di una modernità sconcertante. Maria non è lieta della novella, non accoglie con letizia l’angelo, ma è una donna spaventata, che si tiene al muro, che vorrebbe fuggire dall’assalto. Una donna che sta per essere violata. Violata da Dio.

Il sorriso di Maria?

La banalità quotidiana di papa Francesco su Twitter è la seguente:

Il sorriso semplice e puro di Maria sia fonte di letizia per ognuno di noi davanti alle difficoltà della vita.

Naturalmente noi dell’aspetto di Maria non sappiamo nulla, e nemmeno del suo sorriso. La rappresentazione di Gesù, come è noto, è basata su un falso: la lettera di Publio Lentulo, nella quale si parla di un uomo con i capelli color nocciola, che “nella presenza è il più bell’uomo che si possa immaginare; tutto simile alla madre la quale è la più giovane che si sia mai vista in queste parti”.

La frase di papa Francesco andrebbe dunque modificata così:

Il modo in cui gli artisti rappresentano il sorriso semplice e puro di Maria sia fonte di letizia per ognuno di noi davanti alle difficoltà della vita.

Anche qui, però, c’è qualcosa che non va. Chi conosce un po’ di storia dell’arte, sa che in realtà non è così frequente, poi, che gli artisti rappresentino la Madonna sorridente. Non sorride, per dire, la Madonna di Crevole di Duccio di Buoninsegna, ha il volto corrucciato quella del Masaccio agli Uffizi, mentre nella Trinità che si trova in Santa Maria Novella, sempre del Masaccio, ha una espressione difficile da descrivere – si direbbe tra lo stupore e lo stordimento – ma che sicuramente ha poco a che fare con la letizia. E del resto, sarebbe strano il contrario. Parliamo di una donna che ha partorito per Dio un bambino che appena conquistata l’età della ragione l’ha abbandonata, rifiutandosi anche di chiamarla madre (per tutto il Vangelo la chiama “donna”), e che poi si fa crocifiggere per realizzare il piano di Dio.

Non mancano, certo, Madonne sorridenti. Sono le Madonne con il vestito bianco e il manto azzurro e i capelli biondi e gli occhi azzurri delle statue di gesso che si vendono davanti ai santuari. La banalità quotidiana di papa Francesco va dunque ulteriormente tradotta come segue:

Il sorriso semplice e puro di Maria nelle scadenti statue di gesso della Madonna che si vendono davanti ai santuari sia fonte di letizia per ognuno di noi davanti alle difficoltà della vita.

Amen.

Diamo una possibilità di scelta ai bambini

Qualche sera fa osservano, in pizzeria, un gruppo di cinque bambini che occupavano il margine di una tavolata. Ognuno di loro aveva lo smartphone, sul quale stava giocando, ma non isolato dagli altri; si mostravano lo smartphone l’un l’altro, commentando. A un certo punto la bambina più grande del gruppo ha invitato gli altri a mettersi in posa. Ha scattato una foto, poi non soddisfatta del risultato ne ha fatta un’altra, e un’altra ancora. Quando il risultato l’ha convinta, ha mostrato la foto agli altri. Quindi l’ha mandata in rete – su WhatsApp, immagino – e ha atteso i commenti. I bambini sembravano divertirsi molto.

Ho ripensato a questa scena partecipando, a Cesena, a un bel convegno che il Centro di Documentazione Educativa ha dedicato alla figura di Gianfranco Zavalloni, il compianto autore della Pedagogia della lumaca. Educatore, ma anche artista (trovo meravigliosi, per poesia, raffinatezza e semplicità, i suoi disegni), Zavalloni era una di quelle rare persone che mettono in tutto quello che fanno l’impronta di una gioia di vivere in grado di resistere ad ogni offesa della vita. Si parlava, al convegno, delle trasformazioni del gioco e dell’infanzia. Che ne è, oggi, dei giochi che hanno accompagnato l’infanzia per secoli? Chi gioca ancora alla campana, o alla lippa? Lo schermo dello smartphone ha preso il posto della strada, come ambiente ludico.

Per chi è cresciuto giocando in strada o, con più fortuna, in campagna, sbucciandosi periodicamente le ginocchia, sporcandosi, facendo un baccano terribile che suscitava le ire degli anziani del quartiere, spaccando vetrine e retrovisori delle automobili parcheggiate, questa mutazione è difficile da accettare. Semplicemente, non sembra normale. Non sembra normale che i bambini si muovano così poco (e non mancano bambini cui i genitori, per rendere meno faticosi i purtroppo inevitabili spostamenti fisici, comprano l’hoverboard), che passino tanto tempo davanti a uno schermo, che non vivano la città, e ancor meno la natura. Gianfranco Staccioli, tra i maggiori esperti italiani di pedagogia ludica, si è chiesto – e ha chiesto – quanta libertà effettiva vi sia in questo modo di giocare. I bambini giocano, o sono giocati? Certo, all’industria fa comodo che i bambini giochino così. Fa girare l’economia, aumenta il PIL. Ma è un bene per i bambini?
Zavalloni è autore, tra l’altro, dei Diritti naturali dei bambini e delle bambine, che comprendono il diritto di sporcarsi, di usare le mani, di giocare in strada, di arrampicarsi sugli alberi. Un diritto che i bambini in gran parte hanno perso. Ma è quello che vogliono i bambini, o si tratta di quello che noi pensiamo che dovrebbe essere e fare un bambino, legato alla nostra esperienza di adulti che sono stati bambini in tempi ormai lontani? Detto altrimenti: rispettare oggi un bambino non vuol dire, anche, prendere atto del suo rapporto con i dispositivi digitali?

L’errore che facciamo è quello di considerare uno smartphone come un semplice strumento, mentre
esso è diventato da tempo, ormai, qualcosa di diverso: un senso. Il nostro sesto senso. Occhi, orecchie, naso, olfatto, tatto e smartphone. Non sembri una battuta: non lo è. Lo smartphone diventerà sempre più parte integrante del nostro corpo – sta succedendo già con gli smartwatch – perché ci dà accesso ad una seconda realtà, cui apparteniamo non meno che a quella cui gli altri sensi ci danno accesso. Per moltissime persone, ormai, la vita si svolge a questi due livelli. Andiamo in un ristorante, mangiamo, poi lo recensiamo su Tripadvisor. O meglio: scegliamo un ristorante leggendo le recensioni su Tripadvisor, ci andiamo, mangiamo, ci facciamo qualche foto da mettere su Facebook ed Instagram o da mandare agli amici su WhatsApp, poi facciamo la recensione su Tripadvisor. Lo smartphone ci dà accesso a questo secondo livello della nostra esperienza, che nelle nostre vite di adulti si è presentato ad un certo punto, ma che per i bambini c’è da sempre. Per loro vivere vuol dire stare tra queste due realtà, che nella loro esperienza sono pienamente integrate. Faccio questa analisi senza esprimere alcun giudizio. Credo che la sospensione del giudizio sia un esercizio sempre utile, e doveroso quando c’è il rischio di moralismo. E tuttavia non posso non riflettere su quel dubbio insinuato da Staccioli. I nostri bambini giocano, o sono giocati? La loro esclusione dalle strade e dalle piazze è un fatto che dobbiamo accettare come inevitabile, o qualcosa da rimettere al centro della nostra riflessione pubblica?

Può essere che un bambino trovi, nella realtà digitale cui accede attraverso lo smartphone, le stesse possibilità di una esperienza ricca, divertente, avventurosa che un bambino degli anni Ottanta trovava giocando nelle strade, nei cantieri dei palazzi in costruzione, negli orti. Ma noi adulti abbiamo il dovere di offrire loro una alternativa. Di dar loro la possibilità, anche, di arrampicarsi sugli alberi, di correre in bicicletta, di sbucciarsi le ginocchia correndo nei prati. Di metter loro davanti un giocattolo fatto di legno o di latta o di materiali riciclati, come alternativa alle app; o meglio: di insegnare loro come si costruisce un giocattolo. Può essere che preferiscano comunque lo smartphone, ma può essere anche che (ri)scoprano la ricchezza, la bellezza e il divertimento del mondo cui si accede con i cari vecchi cinque sensi.

C’è un diritto dei bambini dal cui riconoscimento dipende la possibilità di tutti gli altri diritti, compresi i dieci di Zavalloni, ed è il diritto di essere liberi dalla paura. In una società attraversata da vecchie e nuove paure, è inevitabile che la paura collettiva finisca per scaricarsi sui bambini. Ai quali può capitare di tutto, se si affacciano al di fuori degli ambienti protetti della famiglia della scuola. Lo stesso tragitto dalla prima alla seconda, e poi dalla seconda alla prima, deve avvenire sotto la stretta sorveglianza dell’adulto. Siamo estremamente premurosi con i bambini. Ma premura viene da premere: e premere può significare essere vicino, ma anche schiacciare.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 19 novembre 2017.

Leonardo Caffo e la conoscenza dell’altro

Fragile umanità. Il postumano contemporaneo (Einaudi) è l’ultimo libro di Leonardo Caffo, un giovane filosofo che è considerato tra i principali riferimenti filosofici dell’antispecismo italiano. Mi riprometto di scriverne con calma, ma intanto mi preme buttare giù una considerazione a margine.
Nel suo libro (pubblicato da Einaudi: la circostanza non è secondaria) Caffo cita più volte Lao Tzu, l’autore del Tao Te Ching.
Lo fa una prima volta a pagina 12:

Ma così tutto, come è giusto che sia, si complica – perché “quella che il bruco chiama fine del mondo”, dice Lao Tzu, “il resto del mondo chiama farfalla”.

Ora, dopo il “dice Lao Tzu”, ci vorrebbe la fonte. Ma la fonte non c’è. Lao Tzu, del resto, non è mica Aristotele: le (pseudo)citazioni su Facebook bastano e avanzano.

Una seconda citazione è a pagina 82:

Il monaco sa, col Tao Te Ching (XXXIX), che “il fondamento dell’essere sta nel far parte dell’Uno: l’anima è cosciente che se dentro di sé ha l’uno, allora gli esseri che vivono dentro di sé hanno l’uno, il capo regge e organizza la società se dentro di sé ha l’uno. Tutto ciò che è, è così per via dell’Uno.”

Qui va un po’ meglio, Caffo si degna di indicare l’opera ed il capitolo, ma manca ancora il riferimento in nota. Di chi è la traduzione? Trattandosi di un’opera cinese, è una domanda non irrilevante. Una domanda che è destinata a restare senza risposta, almeno per me: la tradizione citata non è tra quelle che conosco. Il testo cinese del capitolo XXXIX è questo (cito dal Chinese Text Project) :

昔之得一者:天得一以清;地得一以宁;神得一以灵;谷得一以盈;万物得一以生;侯王得一以为天下贞。其致之,天无以清,将恐裂;地无以宁,将恐发;神无以灵,将恐歇;谷无以盈,将恐竭;万物无以生,将恐灭;侯王无以贵高将恐蹶。故贵以贱为本,高以下为基。是以侯王自称孤、寡、不谷。此非以贱为本耶?非乎?故致数誉无誉。不欲琭琭如玉,珞珞如石。

Il testo citato da Caffo sembra una libera, liberissima interpretazione  della prima parte del capitolo, che suona così nella traduzione classica di J.J.L.Duyvendak (Adelphi):

Coloro che in antico hanno raggiunto l’unità sono i seguenti:
Il cielo ha raggiunto l’unità ed è diventato chiaro.
La terra ha raggiunto l’unità ed è diventata tranquilla.
Gli spiriti hanno raggiunto l’unità e si sono animati.
Le valli hanno raggiunto l’unità e si sono riempite.
I diecimila esseri hanno raggiunto l’unità e sono nati.
I re vassalli hanno raggiunto l’unità e sono diventati i rettificatori di Tutto-sotto-il-cielo.
Ciò che ha causato tutto questo (è l’unità). 

Come si vede, il testo ha poco o nulla a che fare con quello citato da Caffo. L’impressione è che, più che di una traduzione, si tratti di una parafrasi fatta da un occidentale, che usa il linguaggio e le categorie occidentali per leggere Lao Tzu. Non c’è traccia nel testo di Lao Tzu dell’anima. C’è la parola , che Duyvendak traduce correttamente con spiriti, perché rimanda non solo all’idea di una essenza spirituale, ma anche a quella di soprannaturale e magico.

A pagina 79 troviamo finalmente l’indicazione di una fonte:

Conoscere l’altro non è studiarlo, quella è una vivisezione metaforica (e spesso reale) che non coglie il punto: “anche un viaggio di mille miglia inizia con un passo, sostiene Lao Tzu.

Segue la nota:

Lao Tzu, citato in Y. Kieffer e L. Zanini, Il kung fu, Xenia, Milano 1997, p. 1.

Dunque: Leonardo Caffo non ha letto Lao Tzu, anche se lo cita tre volte. E anche se del Tao Te Ching esistono ormai diverse edizioni, anche economiche. Non ha letto quello che è uno dei testi fondamentali per approssimarsi alla civiltà cinese, ma non sembra aver letto nemmeno alcuna seria storia della filosofia cinese. Lao Tzu lo cita di seconda, anzi terza mano da un libretto divulgativo sul kung fu.

La faccenda sembra poco significativa, ma non lo è. L’ultimo passo citato parla di conoscenza dell’altro. E si sbaglia: conoscere l’altro è, in primo luogo, studiarlo. Andare in libreria o in biblioteca e prendere il Tao Te Ching. Magari studiarsi anche un po’ di cinese, che male non fa, anche se a scuola ci insegnano che il greco è formativo, e il cinese no. Un viaggio interculturale di mille miglia inizia con un passo: aprire un libro. Ma Leonardo Caffo è un filosofo italiano, e i filosofi italiani non sentono di aver bisogno non dico di confrontarsi con, ma anche solo di documentarsi seriamente sulla filosofia orientale. Ed è una delle ragioni della miseria della filosofia italiana.
Il fatto che la più importante casa editrice italiana lasci passare pseudocitazioni da social network in un suo libro, poi, è un indice significativo dello stato attuale dell’editoria italiana.

Cosa sta succedendo a Facebook?

Ieri ho segnalato, con un articolo sugli Stati Generali, l’assurda censura in cui è incorso su Facebook lo scrittore Marco Rovelli, noto per il suo impegno per i diritti civili, il cui profilo è stato bloccato con l’accusa di aver scritto la parola “negro”. Qualche ora dopo il mio articolo, è capitato anche a me di subire la rimozione di un contenuto giudicato non rispettoso degli standard di comunità. Si trattava, in questo caso, di un vecchio post contenente l’affermazione “Antonio Vigilante è terronista”, un post autoironico (terronista da terrone: sono un pugliese che vive a Siena) assolutamente innocuo. Per aver linkato l’articolo in cui parlavo di questa censura, oggi sono stato bloccato per un giorno.


E’ una affermazione semplicemente falsa. Il mio post – e l’articolo cui rimandava – non attaccava nessuno un base alla razza, all’etnia, alla nazionalità, alla religione, all’orientamento sessuale, al genere o alla disabilità. Non meno di Rovelli, anche se temo con efficacia minore, mi occupo dei diritti civili, come è possibile constatare anche scorrendo gli articoli pubblicati su Gli Stati Generali. L’articolo è stato censurato (e io sono stato bloccato) per un’altra ragione: perché conteneva una critica a Facebook.  In sostanza, Facebook (o qualcuno per conto di Facebook, ma non è dato sapere chi) censura in modo assolutamente arbitrario e privo di logica; se qualcuno protesta, passa al provvedimento successivo del blocco temporaneo; ed avvisa, intanto, che più blocchi ripetuti possono portare alla disattivazione permanente dell’account. Abbiamo dato a Facebook un potere immenso. Gli abbiamo consegnato la nostra storia, la nostra identità, la narrazione di noi stessi, la nostra passione, le foto delle persone che amiamo e dei nostri momenti felici e gli sfoghi dei momenti tristi. Lo abbiamo fatto credendo che fosse uno strumento, un mezzo neutro per mettere in comunicazione le persone, esattamente come una piazza virtuale. Le cose evidentemente non stanno così. Facebook è un potere arbitrario, che procede con modalità apertamente kafkiane – si è bloccati senza sapere perché, senza sapere da chi, senza avere la possibilità di far valere le proprie ragioni – e che non ammette la libertà di critica. Per fortuna, è un potere al quale ci si può sottrarre con un clic. Lo farò dopo aver recuperato e messo al sicuro sul mio computer le foto del mio cane, morto qualche giorno fa, che ingenuamente ho pensato di salvare sul mio profilo; ammesso che, dopo questo articolo, Facebook mi dia il tempo di farlo.

Aggiornamento

Rientrato nel mio profilo dopo un giorno di blocco, trovo questo avviso:

Siamo alla follia.Semplicemente.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 18 ottobre 2017.

Sono un terronista (e Facebook mi censura)

Per una singolare coincidenza, poche ore dopo il mio articolo sulla assurda censura di Marco Rovelli, Facebook mi ha notificato di aver rimosso un mio contenuto che avrebbe violato gli standard della comunità. Per quello che riesco a capire, le cose sono andate come segue. Molto tempo fa – tanto tempo, che nemmeno me ne ricordavo – ho scritto un post nel quale mi davo del “terronista”. Una uscita ironica (non particolarmente brillante, lo ammetto) che alludeva alla mia condizione di foggiano (quindi terrone) a Siena. E’ un aggettivo che uso qualche volta con i miei amici senesi, insieme al verbo terronizzare. Cose come: “Basta lavorare, lasciatevi terronizzare un po’, andiamo a prendere un caffè”. Ora, è successo che a qualcuno – che segue le mie cose con tanta attenzione da scovare un post che avevo dimenticato – quell’aggettivo non è piaciuto. Può essere che gli sia sfuggita la n, ed abbia letto terrorista, o che davvero abbia pensato che ce l’avessi con i terroni. E si è indignato tanto, da non scrivermi per chiedermi il senso di quel post (glielo avrei spiegato volentieri), ma da segnalarmi a Facebook. Come se avessi incitato a mettere i terroni sulla graticola.  All’oscuro censore di Facebook è giunta questa segnalazione, e invece di farsi una risata, ha ritenuto opportuno, anzi necessario rimuovere il mio post e segnalarmelo.

Confesso: la cosa mi ha fatto sorridere. Ma poi è subentrata la riflessione. Una riflessione triste. Ho spesso usato la segnalazione di contenuti inappropriati per chiedere la rimozione di post razzisti o fascisti. Non larvatamente fascisti o razzisti: considero importante la libertà di pensiero. Ricorro alla segnalazione solo quando si tratta di opinioni potenzialmente omicide: quando si incita ad uccidere i Rom o i neri. E nove volte su dieci ricevo da Facebook la risposta che il contenuto segnalato non viola gli standard di comunità. Il fatto che un contenuto innocuo, (auto)ironico, privo di qualsiasi malizia venga invece censurato, mi fa pensare a due scenari. Nel primo, mi figuro un oscuro censore alle prese con una mole di lavoro che lo manda semplicemente fuori di testa. Dopo otto ore di lavoro folle, si vede arrivare l’ennesima segnalazione. E non ha la lucidità necessaria per considerarla in modo razionale. Nel secondo scenario l’oscuro censore è uno che nemmeno sa quello che fa, un nerd malpagato messo a gestire una cosa più grande di lui. In ogni caso, la libertà di espressione di due miliardi di persone è in mani tanto oscure quanto fragili.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 17 ottobre 2017.

Facebook censura Marco Rovelli

“Questi racconti sono la versione moderna della Storia della colonna infame di Manzoni. Oggi si condannano senza alcun grado giudiziario degli esseri umani a scontare pena in un recinto di appestati.” Sono parole di Erri De Luca che si trovano sulla quarta di copertina di Lager italiani (Rizzoli), il libro del 2006 con il quale Marco Rovelli denunciava la vergogna dei Centri di Permanenza Temporanea, nati dalla stessa logica concentrazionaria che ha dato origine ai lager nazisti. Rovelli era andato nei Centri, aveva incontrato i reclusi , aveva ascoltato le loro storie e le aveva raccontate in un libro che è ancora oggi importante per capire le (bio)politiche di gestione delle migrazioni nel nostro paese. Ed ha continuato questo lavoro di ascolto e di narrazione legato alla difesa dei diritti umani e civili nei dieci anni successivi, ad esempio con la bellissima storia del musicista rom Jovica Jovic (La meravigliosa vita di Jovica Jovic, appunto) pubblicata da Feltrinelli del 2013. Bene: questa mattina Rovelli è stato bloccato da Facebook. L’accusa: aver scritto la parola “negro”. Il post incriminato – che è stato rimosso, e dopo il quale Rovelli è stato bloccato – è il seguente:

Karl Brandt sorride felice dagli inferi: la felice famiglia Rosenberg si fa un selfie e caca sulla testa pulciosa di un hippie drogato comunista e mezzo negro.

Precedentemente gli era stato cancellato un altro post, nel quale commentando le parole di Salvini riguardo alla mano libera che darebbe alle forze dell’ordine se andasse al governo aveva scritto che si tratterebbe della libertà di menare “zecche e negri”. Non occorre evidentemente spendere molte parole per dimostrare che se si blocca Rovelli con l’accusa di razzismo si compie una mostruosità. Qualche parola è bene spenderla – oltre che per manifestare solidarietà a Rovelli – per ragionare sul sistema. Negli Standard della comunità di Facebook si legge:

Facebook rimuove i contenuti che incitano all’odio, compresi quelli che attaccano direttamente una persona o un gruppo di persone in base a: • razza; • etnia; • nazionalità di origine; • affiliazione religiosa; • orientamento sessuale; • sesso; • disabilità o malattia. Le organizzazioni e le persone impegnate a promuovere l’odio contro questi gruppi protetti non possono avere una presenza su Facebook. Come per tutti i nostri standard, confidiamo nelle segnalazioni della nostra comunità per individuare questi contenuti.

Un criterio condivisibilissimo, ma c’è qualcosa che non funziona se poi si traduce in una pratica di censura che opera indifferentemente su Matteo Salvini e su Marco Rovelli. Come è noto, si parte dalla segnalazione di un utente. Qualcuno che può essere stato sinceramente irritato dall’uso di quella parola, ma più probabilmente qualcuno cui Rovelli non sta simpatico, anche per le sue battaglie per i diritti civili. Dal momento che le segnalazioni possono essere pretestuose, diventa centrale quello che accade dopo: l’analisi della segnalazione. Poiché Facebook non è soltanto un sito Internet, ma un social network con due miliardi di utenti che lo usano come principale strumento per rendere pubblico il proprio pensiero – poiché, cioè, Facebook è uno dei canali principali attraverso i quali si manifesta oggi, di fatto, la libertà di pensiero e di espressione – diventa fondamentale che le persone che valutano le segnalazioni sappiano il fatto loro. Ma chi sono? Proprio perché Facebook ha due miliardi di utenti, e i contenuti da segnalare costituiscono una mole di lavoro immensa, è improbabile che le segnalazioni possano essere trattate da personale qualificato. Secondo un rapporto dell’Unesco [1], Facebook avrebbe esternalizzato questo lavoro ad agenzie di cui non è nemmeno dato conoscere il nome (per il rapporto Unesco in passato era la oDesk, ma non si sa quale sia ora). Ci si trova di fronte ad una situazione kafkiana. C’è un potere che può metterci a tacere, imporci di cancellare quello che abbiamo scritto, espellerci; è un potere che agisce in modo discutibile, censurando un noto difensore dei diritti civili con l’accusa di razzismo; ed è un potere affidato ad oscuri impiegati, cottimisti della censura di cui non è dato conoscere i nomi. Si dirà: non occorre stare su Facebook. Ottima cosa sarebbe sottrarsi a questo potere semplicemente uscendo da quel social network, e magari anche da altri. Ma, che piaccia o meno, Facebook è oggi una realtà nella realtà; è una sfera pubblica nella quale accadono fatti sociali, ed una delle forme principali nelle quali oggi si manifesta (nei modi spesso discutibili che conosciamo) la partecipazione al dibattito pubblico. L’utopia della rete democratica, che favorisce il confronto pubblico e quindi la crescita del dialogo, si è infranta di fronte alla distopia di social network nei quali si tenta di arginare un’onda imponente di odio omofobico, misogino, razzistico con interventi censori casuali, inefficaci e spesso, come in questo caso, semplicemente stupidi.

[1] Unesco, Fostering freedom online: the role of Internet intermediaries, 2014, p. 147, nota 755. Url: http://unesdoc.unesco.org/images/0023/002311/231162e.pdf

 Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 17 ottobre 2017.

Perché antifascismo ed anticomunismo non sono la stessa cosa

Sto leggendo Oltre i cento passi (Piemme) di Giovanni Impastato, fratello di Peppino.  Se la figura di Peppino Impastato oggi è nota a tutti, o quasi, lo si deve al bel film di Marco Tullio Giordana: I cento passi, appunto. Ma, come spesso succede, il personaggio del film si è sovrapposto a quello reale fin quasi a farlo scomparire. Peppino Impastato è per tutti il ragazzo che gridava che “la mafia è una montagna di merda” davanti alla casa del mafioso Tano Badalamenti (una scena improbabile, scrive il fratello, perché “gli Impastato consideravano Badalamenti un parvenu”). Giovanni rivendica l’altro Peppino: non il “chierichetto della legalità”, ma il “comunista rivoluzionario”. Una figura certo meno comoda, meno vendibile dopo la fine dei comunismi.
Sul suo profilo Facebook il teologo Vito Mancuso, commentando l’approvazione alla Camera della legge contro la propaganda fascista, ha scritto oggi: “Giusto punire la propaganda fascista. Ma giusto sarebbe punire anche la propaganda comunista, a sua volta nemico mortale della libertà”.  E’ un giudizio diffuso, anche se spesso sulla bocca (o sulle tastiere) di persone meno raffinate di Mancuso (e che non varrebbe la pena di commentare, se non venisse ormai anche da persone come Mancuso). In astratto, il giudizio sembra condivisibile. Non si può negare che il comunismo abbia negato la libertà, ed un bel po’ di altri diritti elementari (compreso quello alla vita), nella maggior parte dei paesi in cui si è realizzato. Ma le questioni non vanno considerate in astratto, bensì nella concretezza della situazione storica.

L’Italia è un paese che ha avuto il fascismo, non il comunismo. Milioni di italiani hanno avuto, a causa del fascismo, tragedie e lutti nelle loro famiglie: lo zio ucciso per antifascismo, ma anche l’altro mandato a morire in Russia per permettere a un dittatore di sedersi al tavolo delle trattative. Milioni di Italiani hanno conosciuto la privazione della libertà, la guerra, le bombe, la miseria, per le ambizioni personali di Mussolini. I russi hanno subito anche di peggio, da Stalin. Ma noi siamo italiani, non russi. Siamo in un paese democratico la cui Costituzione è stata scritta anche dai comunisti. In un paese in cui il Partito Comunista è stato, insieme alla Democrazia Cristiana, il principale protagonista di decenni di democrazia imperfetta, ma non peggiore di quella della Seconda Repubblica. In un paese in cui un comunista come Peppino Impastato ha dato la sua vita per combattere la mafia. Prima di lui la mafia aveva ucciso il sindacalista socialista Placido Rizzotto; dopo di lui ucciderà il sindacalista comunista Pio La Torre. Ma l’elenco sarebbe lungo. Siamo in un paese in cui, in nome del socialismo, un bracciante pugliese è riuscito a riscattarsi dalla sua condizione di analfabetismo ed ha organizzato il proletariato agricolo perché lottasse per i propri diritti. Si chiamava Giuseppe Di Vittorio: ed oggi può accadere che, nella sua stessa Capitanata, un sindaco appena eletto faccia rimuovere la targa a lui dedicata all’ingresso del palazzo pubblico. E comunista era anche un altro foggiano, Dino Frisullo, che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta per i diritti die migranti e dei curdi, pagando con la prigionia nelle carceri turche. Per i mass-media era un pacifista, ma lui rivendicava il suo comunismo. “Se morissi adesso o fra due giorni o un anno, ecco il mio testamento, il testamento di un comunista / Avido di conoscenza e d’amore, vissuto e morto povero e curioso”, scriveva.

Ora, per Vito Mancuso, questo comunista “avido e curioso” non sarebbe diverso da un fascista, e non diversi dai fascisti sarebbero Impastato, Di Vittorio, Rizzotto, Frisullo. E i tanti italiani che nel comunismo hanno trovato la via per riscattarsi dalla secolare sottomissione delle masse proletarie italiane (spesso ammazzati dalle forze dell’ordine, come il bracciante lucano Rocco Girasole – anche questo un nome tra i tanti). Non è solo una menzogna storica. E’ un grave errore politico, in un tempo in cui non esiste più in Parlamento una sinistra (il Partito Democratico è un partito di centro nel quale sono sempre più frequenti posizioni apertamente di destra) e forze politiche che rappresentano istanze più fasciste che di destra si preparano a guidare il paese.

Nell’immagine: Giuseppe Di Vittorio in comizio.

Articolo pubblicato su Gli Stati Generali del 13 settembre 2017.

Dalla protezione umanitaria al foglio di via

Un mendicante che chiedeva l’elemosina davanti ad un supermercato, a Siena, è stato allontanato con foglio di via. Poiché si tratta del destino di un essere umano, e di un essere umano che presumibilmente ha sofferto molto, vorrei provare ad approfondire la faccenda.
“Chiedeva l’elemosina di fronte al supermercato disturbando i clienti con insistenza, poi ha inveito contro la Polizia di Stato intervenuta. Per questo un nigeriano di 22 anni è stato prima sanzionato per accattonaggio e poi denunciato.”
Questi i fatti, in sintesi, così come forniti dalla Questura di Siena.
Il Regolamento comunale vieta all’articolo 35 di “raccogliere l’elemosina con petulanza, esponendo cartelli, ostentando menomazioni fisiche o con l’impiego di minori e/o animali”. Ora, il ragazzo nigeriano non esponeva cartelli, non ostentava menomazioni e non usava né minori né animali. Anche queste condizioni a dire il vero espongono alla libera interpretazione di chi guarda. Per quale ragione una persona sana può chiedere l’elemosina e una persona con menomazione no? Perché è chiaro che è difficile stabilire se la menomazione c’è o è ostentata. Nel caso specifico, l’aspetto decisivo è la petulanza. E qui la faccenda non è meno arbitraria. Chi stabilisce il livello oltre il quale c’è petulanza? Come si dimostra la petulanza? Ho avuto a che fare diverse volte con quel ragazzo. Non è mai stato petulante con me, né con nessuna delle persone che erano con me. Ho sentito molti amici, in questi giorni. Tutti hanno confermato la mia impressione: quella di un ragazzo che nemmeno chiedeva l’elemosina, stava lì ad aspettare che qualcuno desse qualcosa, a volte aiutando a spingere il carrello. Lo stesso atteggiamento di un ragazzo che ho incontrato per più di un mese tutte le mattina andando al lavoro. Era fermo al lato della strada, con un cappello in mano. In rigoroso silenzio. Naturalmente si vedeva bene che aveva bisogno: ma lui non chiedeva, propriamente, l’elemosina.

A chiedere l’elemosina, e anche vistosamente, è una vecchina a piazza Salimbeni, di cui sembra non interessarsi nessuno: nemmeno i bravi cittadini del circolo Sena Civitas, che aprono una loro lettera aperta al prefetto con la constatazione che “ormai da un paio di anni la presenza di ragazzi di colore che chiedono ‘insistentemente’ l’elemosina per le vie del centro, davanti agli esercizi commerciali della città o presso l’ospedale di Santa Maria Le Scotte, sembra sia divenuta stanziale e sistematica”. Ragazzi di colore: della nostra vecchina nemmeno l’ombra. Abbiamo dunque un regolamento comunale discutibile – perché consente una certa libertà di interpretazione, e la libertà di interpretazione in questa faccende non è una cosa buona – e abbiamo una società civile che chiede che si intervenga contro i “ragazzi di colore”. E dunque gli agenti intervengono. Il ragazzo, stando al comunicato della Questura, li ha offesi e poi, portato in Questura, “ha proseguito con le imprecazioni, urlando e rendendo molto difficoltose le operazioni di identificazione”. Imprecazioni e urla non costituiscono un reato, ma le offese sì: e non sarò io a difendere il ragazzo per questo. Mi chiedo però se il foglio di via – il divieto di ritorno a Siena per tre anni – sia una sanzione adeguata al suo comportamento. Il foglio di via è regolato dal Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 / 2011, meglio noto come Codice delle leggi antimafia. Compare all’articolo 2 come misura di sicurezza per persone che rientrino in una di queste tre categorie: “a) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; b) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; c) coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”.
Il ragazzo nigeriano che chiede l’elemosina, in modo petulante o meno, rientra in una di queste tre categorie? Il suo è un traffico delittuoso? Mette a rischio l’integrità fisica o morale dei minorenni o la tranquillità pubblica? Pare di no. Immaginiamo davanti al supermercato non il nostro “ragazzo di colore”, ma una prostituta. Anzi, una prostituta che con modi scandalosi adeschi i clienti davanti a tutti. Immaginiamo che gli agenti intervengano e che il Questore le dia il foglio di via. Bene: in un caso del genere la Cassazione ha stabilito che il foglio di via era ingiustificato, perché la legge “pone come presupposto dell’ordine di allontanamento non un qualsivoglia comportamento ‘pericoloso per la sicurezza pubblica’ (nozione che aprirebbe il varco a forme incontrollabili di discrezionalità)”, ma una precisa “condotta pericolosa” che rientri in una delle tre categorie indicate dalla legge (Corte di Cassazione, sezione I Penale, sentenza 17 dicembre 2014-8 gennaio 2015, n. 302). Se non rientra in nessuna di quelle tre categorie e non costituisce “condotta pericolosa” la prostituzione, sia pure con atteggiamenti “adescatori e scandalosi” (questa era l’accusa nei confronti della donna), può costituire “condotta pericolosa” il semplice chiedere la questua, sia pure con petulanza? E’ lecito dubitarne.
Consideriamo un ultimo punto. Il comunicato della Questura ci informa che “il giovane nigeriano era regolare sul territorio nazionale, in possesso di permesso di soggiorno per motivi umanitari”. Dunque non un clandestino. Una persona cui una commissione ha riconosciuto il diritto di ricevere protezione dal nostro Stato per ragioni umanitarie, in base alla Costituzione e al diritto internazionale. Perché un nigeriano riceve protezione umanitaria? Le ragioni possono essere diverse. Può essere, ad esempio, che si tratti di un cristiano in fuga da Boko Haram. L’ultimo attacco del gruppo jihadista nel nord-est della Nigeria c’è stato solo qualche giorno fa: sessanta case bruciate. Una notizia che in Italia non esiste, perché per i giornali italiani non esiste l’Africa. Figuriamoci ora un ragazzo che sia sopravvissuto a questo attentato. Capisce che al prossimo non avrà la stessa fortuna, che deve scappare. Riesce ad arrivare in Italia, riesce perfino ad ottenere la protezione umanitaria. Ce l’ha fatta, pensa. Ma è allora che comincia la beffa. Ottenuto il permesso di soggiorno, viene abbandonato a sé stesso. Potrebbe andare nel Foggiano e diventare un lavoratore-schiavo nelle campagne, portare soldi ai caporali e cercare di non morire nell’incendio del ghetto di lamiere e legno in cui sarà costretto a vivere, nel pieno della civiltà occidentale. Chiedere l’elemosina può essere una buona alternativa. Ma lui, ecco, è petulante. O così pare. E allora al diavolo Boko Haram, al diavolo la protezione umanitaria, al diavolo lui. Prendiamo il birillo nero e spostiamolo. Dove? Affari suoi. Vada a petulare altrove. Ce la stava facendo, ma era sono l’inizio di un gioco crudele che lo porterà ad essere sempre più solo, sempre più disperato, sempre più criminalizzato. E sempre più tentato dalla lotta per la sopravvivenza. Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 13 agosto 2017.

A scuola con la mindfulness

E’ uscito il mio ultimo libro: A scuola con la mindfulness. Riflessioni ed esercizi per portare l’Educazione Basata sulla Consapevolezza nella scuola italiana, Terra Nuova. Parte da qui:
La violenza esiste. Ognuno di noi l’ha vissuta sulla sua pelle, in una forma o nell’altra, l’ha vista, sentita, subita, o toccata attraverso il racconto, l’immagine, il suono. Ognuno di noi l’ha esercitata, in una forma o nell’altra. Siamo nella violenza. Da secoli costruiamo inferni per noi e per gli altri. Perché? La presenza della violenza mi interroga, mi inquieta, mi indigna. Perché si violenta, si uccide, si degrada l’altro? Perché si riduce un essere vivente a cosa? Perché si crea il nemico e lo si massacra?
Non ho risposte certe, ma solo ipotesi. Può essere che la specie umana sia violenta per natura, che la violenza sia radicata nelle nostre non troppo lontane origini animali, può essere che siamo, in fondo, predatori specializzati nel predare all’interno della nostra stessa specie. Può essere che la violenza sia legata a certe organizzazioni socio-economiche, che nasca con la divisione della proprietà, e che sia destinata a finire con la fine della proprietà. Può essere che la violenza sia il portato di alcune visioni culturali, che spingono all’odio del nemico, al fanatismo, all’esaltazione. E può essere che siano vere tutte queste ipotesi insieme.
Una cosa è certa, però, perché può verificarla ognuno. Il processo che porta ad odiare, violentare, uccidere, nasce dentro di noi. Nessuno sfugge, almeno per qualche tempo, al suo inferno interiore: paura, rabbia, vergogna, odio, rancore, voglia di vendetta. E’ da questo inferno interiore che nasce l’inferno esteriore della violenza. E questo inferno interiore non è una cosa che, semplicemente, accade. Possiamo farci qualcosa. Possiamo osservarlo, diventarne consapevoli, analizzarlo; e per questa via uscirne, essere altro dal nostro inferno.
Probabilmente avremo una società meno violenta quando le risorse saranno distribuite in modo equo, quando il potere sarà di tutti, quando non ci saranno più religioni che incitano all’odio. Ma la mia possibilità di intervenire su queste cose è molto limitata. Quello che posso fare, come individuo, è investigare l’inferno dentro di me e cercare le vie migliori per uscirne; e come insegnante ed educatore, aiutare i miei studenti a fare lo stesso.
E’ per questo che medito. Ed è per questo che scrivo questo libro.

Prima gli italiani! Anzi: prima i Rom!

La notizia che una famiglia di Rom ha occupato a Porto Cervo una lussuosa villa la cui proprietà riconducibile a Formigoni (ma i giornali parlano senz’altro di “villa di Formigoni”) mette in serio imbarazzo salviniani e populisti d’ogni genere. Da una parte i Rom, dall’altra Formigoni, rappresentante dell’odiata casta politica. Chi odiare di preferenza? Verrebbe quasi da preferire i Rom, questa volta, tanto più che la motivazione dei genitori – “Anche i nostri figli hanno diritto a una vacanza al mare” – è di quelle che mettono tenerezza. Ma i Rom sono Rom, e l’odio nei loro confronti è radicato, tenace, fortissimo.
Una soluzione che salva capra e cavoli è la domanda: come mai in questo caso hanno sgomberato rapidamente, mentre quando occupano la casa di un poveraccio non si riesce a mandarli via nemmeno con le bombe? Con questa domanda il populista manifesta la massima antipatia verso i Rom senza cedere di un millimetro nel suo odio verso Formigoni. Se qualcuno poi gli chiedesse come e quando dei Rom, che in genere si vedono negato il diritto alla casa popolare, hanno abusivamente occupato la casa di un poveraccio, il populista salviniano si illuminerebbe come chi si trova a ricevere un inaspettato assist. Ve la ricordate la faccenda di Avezzano? Ah, c’è da fremere di indignazione a distanza di più di un anno. Una povera famiglia di italiani, lui muratori e lei casalinga, che si allontana un po’ da casa e al ritorno, orribile a dirsi, la trova occupata da una famiglia. E quale famiglia! Rom! All’epoca (era il marzo del 2016) Salvini si precipitò di corsa in difesa degli espropriati, e un leghista locale, tale Paolo Arrigoni, annunciò che era disposto a dargli man forte con una ruspa. Una ruspa vera. “E’ inimmaginabile che una famiglia con tre figli finisca per strada a causa dell’ennesima truffa messa in atto dai rom. Ormai è sufficiente assentarsi per qualche ora che si rischia di perdere casa, di perdere tutto. Rom, immigrati clandestini, finti profughi, quand’è che il governo finalmente inizierà a tutelare i cittadini italiani e non questi parassiti senza scrupoli e pronti a tutto?”, aveva dichiarato indignato ai giornali.
Rom, immigrati clandestini, profughi (ovviamente finti) da un lato, cittadini italiani dall’altro. Ma le cose non stavano proprio così.
Come è noto a chiunque conosca un po’ la realtà rom, ossia quasi a nessuno, in Rom sono stanziati in Abruzzo fin dal Quattrocento. Centinaia di anni. Sono italiani esattamente come tutti gli altri. Italiani con cittadinanza italiana. Italiani con tutti i diritti dei cittadini italiani, compreso il diritto alla casa.
E’ chiaro che il salvinianesimo si trova di fronte ad un problema di non poco conto. “Prima gli italiani”, gridano salviniani e populisti (compresi molti pentastellati). Dopo la crisi delle grandi narrazioni, per molti italiani è questo l’unico slogan pseudo-politico praticabile. Ed è uno slogan che non contiene, propriamente, la rivendicazione di un qualche primato morale e civile del popolo italiano. Sono inutili complicazioni intellettualistiche, roba d’altri tempi, quando si soppesava il contributo dei popoli: una faccenda che richiede uno sforzo di riflessione e di confronto che non si può chiedere all’italiano medio. Ma per quanto semplice semplice, lo slogan un qualche sforzo intellettuale lo richiede. Almeno quello di rispondere alla domanda: chi sono gli italiani? Chi siamo noi che diciamo di essere prima? La faccenda sembra facile, ma non lo è. Perché, ecco, nel caso di Avezzano, sono proprio i Rom che, in pieno spirito salviniano, avrebbero potuto dire: prima noi, che siamo italiani. E quando Salvini è andato ad Avezzano, non hanno mancato di dirglielo. “Quella che stava nella casa è di origine marocchina sposata a un italiano. Abbiamo più diritto noi che siamo italiani da sette generazioni.” Ora, stando al salvinianesimo, avrebbero perfettamente ragione. Da una parte abbiamo una famiglia composta da una marocchina e un italiano, da un’altra una famiglia di italiani da sette generazioni. Chi viene prima? Chi è più italiano? Chi è italiano?
Si può rispondere a questa domanda in diversi modi. Si può dire che è italiano chi è nato in Italia. Questo però vuol dire riconoscere lo ius soli, dare la cittadinanza ai bambini figli di stranieri che sono nati in Italia e riconoscere la loro italianità. Una cosa piena di buon senso, ma che Salvini e i populisti rifiutano con sdegno. La seconda risposta è che è italiano chi parla italiano. La lingua come elemento unificante di un popolo. Ma anche questa risposta comporta qualche problema, perché una buona parte di italiani l’italiano non lo parlano affatto. In molte famiglie la lingua principale è il dialetto, ed è spesso un dialetto diversissimo dalla lingua nazionale. E in non poche famiglie è l’unica lingua parlata, e l’italiano, se è compreso, è compreso male e parlato peggio. La terza risposta è che sono italiani quelli, al di là della lingua, che si riconoscono nella cultura e nella identità italiana. E se si chiede cos’è questa identità italiana, viene fuori il crocifisso. Nella discussioni animatissime sull’ipotesi di rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche, la ragione più usata dai populisti è che il crocifisso è un simbolo dell’identità italiana, e come tale non va toccato. Ma è un ragionamento che non sta in piedi. Ci sono italiani cattolici, italiani evangelici, valdesi, buddhisti, atei. E anche quelli che si professano cattolici, il cattolicesimo spesso lo seguono ben poco. Cercare l’identità in un simbolo religioso, in un paese sempre più rapidamente secolarizzato, è una impresa votata al fallimento e al paradosso. E’ appena il caso di considerare che il clero cattolico è costituito sempre più da extracomunitari. La quarta risposta è che è italiano chi risiede in Italia, ma non da qualche mese o da qualche anno. Da sempre. Ma sempre, come si sa, è un avverbio che va usato con estrema cautela. Chi può dire che la propria famiglia è in Italia da sempre? La genealogia riserva brutte sorprese. Più ragionevole può essere limitarsi a qualche secolo. Ma anche in questo caso, i Rom abruzzesi possono rivendicare a pieno titolo la loro italianità.
Se non basta la nascita, se non basta la lingua, se non basta l’identità religiosa e non è nemmeno sufficiente essere in Italia da molto, si potrà ricorrere a qualcosa di più impalpabile e al tempo stesso di più solido. Il sangue. La razza. Se si ricorre a una teoria della razza, si può dire che i Rom, anche se parlano italiano, anche se vivono in Italia da secoli, non sono italiani. Sono una razza diversa. In altri termini, il salvinianesimo può uscire dalle sue contraddizioni sono diventando apertamente fascista. E non un fascismo aggiornato, un “fascismo del terzo millennio”, ma il fascismo in senso stretto, il fascismo nella sua manifestazione più atroce. Il fascismo della teoria della razza e delle leggi razziali. Una teoria della razza, però, oggi come ieri, colpirebbe gli ebrei. E Salvini non ha nulla contro gli ebrei. Quando la Brigata Ebraica si rifiuta di sfilare al corteo del 25 aprile insieme ad una organizzazione palestinese, Salvini non ha dubbi: “Io sto con la Brigata Ebraica tutta la vita”. Lo slogan “Prima gli italiani!” include dunque anche gli ebrei, e la cosa è rassicurante. E dunque nemmeno questa via è praticabile. Chi sono, allora, questi italiani? Da chi è composto il noi salviniano-populista?
La risposta è meno difficile di quel che sembra, ed in fondo non ha molto a che fare con l’italianità in sé. In una società capitalistica, in cui tutto gira intorno al denaro, c’è un solo segno di riconoscimento, un solo criterio per stabilire l’identità e la differenza: il denaro stesso. Il noi populista è costituito da quelli che possiedono una quantità di denaro che li mette in grado di partecipare, in misura maggiore o minore, al benessere capitalistico. I non italiani sono quelli che questo denaro non lo hanno, e cercano di ottenerlo. E così facendo, spaventano chi il denaro lo ha, e credendo che si tratti di un gioco a somma zero, immagina che ogni euro che finirà nelle sue tasche sarà tolto dalle sue. Il noi salviniano è un noi piccolo borghese, abbastanza miserabile, non meno rassicurante del noi fascista. E’ il soggetto storico del vero fascismo del terzo millennio, un fascismo pronto ad ogni ferocia per difendere quel benessere da nemici reali o immaginari. Non bisogna lasciarsi ingannare dall’uso strumentale che salviniani e populisti fanno dei poveri italiani, la cui esistenza renderebbe inopportuna, ingiusta, moralmente e politicamente condannabile l’accoglienza del diverso. Il povero italiano – il povero vero non quello della retorica – è una presenza non meno disturbante dello straniero, rappresenta una minaccia non meno reale per la casalinga di Voghera, che in questi tempi grami è sempre lì lì per degenerare nella casalinga di Erba.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali il 6 luglio 2017.

Don Milani, il papa e la lotta di classe

Nel marzo del 1960, durante la traslazione della tomba di Alessandro Manzoni, accadde un mezzo miracolo: la tomba apparve apparve stranamente illuminata, anzi sprigionante luce. Fu un mezzo miracolo, e non un miracolo completo, perché qualcuno ebbe il buon senso di far notare che si trattava del riflesso di un raggio solare sulla teca di cristallo, e qualche altro ebbe il buon senso di ascoltarlo. Ciò non impedì, com’è naturale in Italia, che da più parti si invocasse la beatificazione dello scrittore. Chiedendo all’amico giornalista Giorgio Pecorini di procurargli una foto del corpo mummificato dello scrittore, che incuriosiva i ragazzi di Barbiana, don Lorenzo Milani ragiona divertito sulle conseguenze della santificazione: “Hai mai pensato che immenso sfalsamento avverrebbe a tutto il romanzo se i gesuiti facessero la follia di santificarne l’autore? Nel giro di pochi decenni i ragazzi costretti fin dall’infanzia a dire le preghierine al Santo Romanziere protettore delle scuole lo vedrebbero sempre in aureola anche quando descrive la peste e non gli crederebbero più una parola. Tragico destino di chi vien dalla Chiesa benedetto e consacrato. Motivo profondo per cui bisogna sempre parlare sboccatamente e ineducatamente e farsi odiare quanto occorre per essere almeno presi sul serio” (1).
Dopo la visita di papa Francesco a Barbiana pare che lo stesso don Milani abbia rischiato questo tragico destino. Con un certo sollievo abbiamo letto le parole del cardinale di Firenze, che dopo la visita ha dichiarato che non ci sarà alcuna beatificazione, e che Barbiana non diventerà un santuario. La visita del papa ha un altro significato. Papa Francesco ha riconosciuto che il modo in cui don Milani è stato prete è stato un buon modo di fare il prete, di realizzare la missione sacerdotale, di mettere in pratica il Vangelo. E’ un riconoscimento importante, che lo stesso don Milani aveva chiesto apertamente al suo vescovo, senza successo. Voleva che la Chiesa prendesse atto che la sua vicenda a Barbiana non era un fatto privato, l’avventura di un personaggio stravagante, ma una via del cattolicesimo, una possibilità per la Chiesa. Dopo cinquant’anni papa Francesco riconosce che è così. O quasi. Lo fa arrivando a Barbiana in elicottero, unico tra coloro che sono giunti a Barbiana dal ’54 in poi. A Barbiana si saliva e si sale a piedi; al massimo in automobile. Elicotteri mai. Si dirà: una polemica sterile, che non considera la sostanza. Ma qui si tratta proprio della sostanza.
Don Milani è stato tre cose: un prete, un educatore, uno scrittore. Come educatore ha avuto la sorte migliore. La Lettera a una professoressa dopo cinquant’anni è ancora un testo infinitamente più vivo di qualsiasi altro tomo di pedagogia scritto in quegli anni. E’ stato frainteso e lo sarà ancora a lungo, ci sarà sempre qualche Paola Mastrocola ad attribuire al Priore catastrofi grammaticali o pedagogiche, ma chiunque voglia capire, capisce: e capisce cose importanti ieri, non meno importanti oggi. Come scrittore don Milani è ancora da scoprire, e la pubblicazione di tutte le opere nei Meridiani Mondadori rappresenta un’occasione importante. A ragione Alberto Melloni scrive, introducendo i due volumi, che la sua scrittura “deve essere trattata con la cura e i crismi riservati a quelle grandi opere – verrebbe da pensare al De Vulgari eloquentia dantesco o al Manzoni stesso – che si sono poste il ‘problema’ della lingua mentre ne costruivano una e la consegnavano a un destinatario preciso, dotata di codici d’accesso e di filtri rigorosi” (2). Ma don Milani era, e voleva essere, soprattutto un prete. Era educatore, era scrittore, in quanto prete. Si tende a dimenticarlo, perché la scuola che faceva era laica; ma fare scuola laica era il suo modo di essere prete. Di essere prete nel modo più serio e più alto.
Pochi mesi prima di morire scrive ai suoi ragazzi: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho la speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritti tutto sul suo conto” (3). Questa è la via di Don Milani come prete. Amare Dio amando le persone. Che detta così sembra una cosa ragionevolissima, nulla di cui scandalizzarsi. A far scandalo – e a indicare una via – è quel “più” di troppo. Si ricordino le parole, per molti versi terribili, del Dottore della Chiesa San Giovanni della Croce: “l’affetto per Dio e quello per le creature sono contrari e quindi non possono essere contenuti nella stessa volontà”; e ancora: “tutte le creature sono briciole cadute dalla mensa di Dio. Giustamente quindi, vengono chiamati cani coloro che si vanno pascendo delle creature…” (4). Don Milani sarebbe stato proprio uno di questi cani che si cibano delle briciole cadute dalla mensa di Dio, una immagine che con ogni probabilità gli sarebbe piaciuta. Di più: si direbbe che gli interessino soltanto le briciole, che esse non siano un modo per risalire alla mensa, per partecipare in qualche modo ad essa, ma che siano l’unico cibo possibile, accettabile, desiderato. Detto altrimenti: un Dio che si risolve nelle creature, una fede che diventa prassi di incontro con esse. Ma non qualsiasi creatura. Quelle creature che sono i poveri. Per don Milani essere prete – ossia avere fede, essere cristiano – significava questo: mettersi al servizio dei poveri. Trattare i poveri come Dio stesso. Una fede che si pone agli antipodi della teologia. La fede non è una questione di logos, ma di praxis. Di azione. E’ qualcosa da fare con gli altri. Per un non credente e non cristiano come me, una cosa particolarmente interessante di questo modo di concepire la fede è la possibilità di incontro con i non credenti. Se Dio non è nel logos, ma nella praxis, allora ci si può incontrare nella praxis, sia che si sia credenti (o, per dirla con don Milani, che si faccia parte della Ditta) sia che si sia atei.
Ma c’è da aggiungere ancora qualcosa per non fraintendere don Milani. La praxis che realizza la fede non è un generico mettersi al servizio dei poveri, né un mettersi al servizio dei poveri educandoli. La Chiesa fa da tempo entrambe le cose. La novità di don Lorenzo consiste nel fatto che questa prassi è una prassi politica, non un’azione caritatevole. Non è il gesto benevolo con il quale il membro di una istituzione che da secoli giustifica e fonda l’oppressione dei ricchi sui poveri (come vide e denunciò già nel Settecento un altro prete a contatto con i poverissimi, Jean Meslier), ma è il gesto di rottura di un prete che insegna ai poveri che sono oppressi dai ricchi, e che devono liberarsi da questa oppressione combattendo i ricchi. Ecco le parole di don Lorenzo durante un incontro con alcuni direttori didattici: “io baso la scuola sulla lotta di classe. Io non faccio altro dalla mattina alla sera che parlare di lotta di classe. E la scuola funziona perché io faccio soltanto questo discorso”. E al direttore didattico che gli fa osservare scandalizzato che quelli sono “concetti marxisti”, risponde rivendicando il senso cristiano di quelle parole: “Vi parlo da sacerdote perché oltretutto io sono più prete di voi. Io sono prete, se ve lo dico io, si può dire” (5).
Ma si può dire davvero? E’ per confermare questo “si può dire” che don Lorenzo chiedeva un gesto al suo vescovo. Un gesto che non giunse allora, e che sembra essere giunto adesso. Ma è giunto davvero? Ascoltiamo le parole del papa. “Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole”. E più oltre: “La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità”.
No. Don Milani non era questo. Pur con le migliori intenzioni, il papa non riesce a far di meglio che far rientrare don Lorenzo nello schema caritativo. Il Priore s’è preso cura dei poveri realizzando il “volto materno e premuroso” della Chiesa. Siamo a un passo dalla santificazione-addomesticamento. Il papa vola fino a Barbiana per dire che don Milani s’è preso cura dei poveri, mentre da cinquant’anni don Milani attendeva che si dicesse che prendersi cura dei poveri in modo cristiano significa insegnar loro la lotta di classe. Si dirà che la lotta di classe è un ferro vecchio, che quelli erano altri tempi, che la società è cambiata e le classe nemmeno si sa più quali siano. Si dirà che anche i poveri oggi hanno lo smartphone. Si dirà che il comunismo è finito da un pezzo. Si dirà. Mentre l’unica cosa sensata da dire è quella denunciata da Luciano Gallino in una delle sue ultime, lucidissime opere (6): la lotta di classe c’è ancora, ma s’è rovesciata. E’ la lotta dei ricchi contro i poveri. E oggi, come ieri, si può stare da una parte o dall’altra. Oppure si può stare da una parte fingendo di stare dall’altra: ad esempio riempendosi la bocca con i poveri dopo essere scesi dal proprio elicottero personale.
(1) Lettere a Giorgio Pecorini del 15 marzo 1960, in Don Lorenzo Milani, Tutte le opere, Mondadori, Milano 2017, vol. 2, p. 739.
(2) Ivi, vol. 1, p. XII.
(3) Testamento, 1.1.1966, in Lettere di Don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano 1988, p. 282.
(4) Giovanni della Croce, Salita del monte Carmelo, I, 6, in Opere, Edizioni OCD, Roma 2001, pp. 32-33.
(5) Don Lorenzo Milani, Tutte le opere, cit., vol. 2, pp. 1165-1166.
(6) L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.
Articolo pubblicato su Gli Stati Generali, 1 luglio 2017.

I Testimoni di Geova, Tolstoj e la Russia di Putin

L’unico commento che ho letto sui social network è quello di un cattolico. “Svegliatevi”, seguito da una faccina sorridente. Per il resto, silenzio. Silenzio anche da parte di chi è più sensibile ai diritti civili, di chi quotidianamente si preoccupa di gay, Rom, minoranze di ogni genere. Passa sotto silenzio, come se non ci riguardasse, la notizia che la Corte suprema russa ha messo al bando su tutto il territorio nazionale i Testimoni di Geova. Equiparati ai terroristi in quanto “estremisti”, i Testimoni di Geova rischieranno il carcere da sei a dieci anni se continueranno nel loro culto, e i loro beni saranno confiscati. Come sotto il comunismo.
Non sono simpatici, i Testimoni di Geova. Fanno proselitismo in modo fastidioso, bussano alla porta di casa la domenica mattina, ti fermano per strada per parlare di Dio. Credono in cose assurde e lo fanno con una convinzione che sfiora il fanatismo. Credono di seguire la Bibbia in modo meno ipocrita degli altri cristiani, ma si guarderebbero bene dall’uccidere gli omosessuali, come vuole la Bibbia (Levitico, 20, 13). Si vantano di conoscerla, la Bibbia, ma se chiedi loro di Mosè che comanda si uccidere donne e bambini (Numeri, 31, 17) restano confusi, e ti guardano perplessi quando fai notare loro che per Giobbe se avvenisse una calamità che facesse morire in un istante molte persone, Dio “si farebbe beffe della medesima disperazione degli innocenti” (cito dalla Traduzione del Nuovo Mondo, usata dai Testimoni di Geova).
Credono in cose assurde, ho detto; esattamente come i credenti di tutte le religioni. In loro difesa, si può dire che non hanno appoggiato regimi feroci come quello fascista e nazista, non hanno benedetto armi, non hanno brigato per prendere il potere e governare di fatto una nazione, come è avvenuto in Italia ai cattolici con la Democrazia Cristiana, un partito che si è dissolto in una nube di corruzione; né si hanno notizie di terroristi che si fanno saltare in aria urlando “Geova è grande”. Sappiamo invece che diecimila Testimoni di Geova sono finiti nei campi di concentramento nazisti, e duemila e cinquecento di loro sono stati uccisi. Sappiamo, ho detto. Ma lo sappiamo davvero?
Cosa c’è dietro questa nuova persecuzione? Come altre confessioni minoritarie cristiane, i Testimoni di Geova si sforzano si praticare la nonviolenza evangelica. A dire il vero, la tradizione cristiana ha abbastanza tempestivamente corretto il Vangelo su questo come su altri punti, giungendo a giustificare la guerra, purché naturalmente si trattasse di guerra “giusta” (e quale non lo è nella percezione di chi la fa?). L’affermazione del cristianesimo deve molto a queste correzioni, alla base delle quali c’è il mutato atteggiamento verso le autorità. “Ogni persona si sottometta alle autorità che le sono superiori. Non esiste infatti autorità se non proviene da Dio; ora le autorità attuali sono stabilite e ordinate da Dio. Di modo che, chi si ribella all’autorità, si contrappone a un ordine stabilito da Dio”, scrive Paolo nella Lettera ai Romani (13.1-2). Cito da una traduzione cattolica; i Testimoni di Geova traducono “ogni anima” invece di “ogni persona”, e se ne può comprendere la ragione. Fedeli al Vangelo, i Testimoni di Geova rifiutano di prestare servizio militare, ed anche in Italia sono stati i primi (dimenticati) obiettori di coscienza. Interpretando quel passo di Paolo, ritengono che essere cristiani significhi non collaborare con le autorità dello Stato, pur rispettandole formalmente. Noncollaborazione è il termine esatto. Non si tratta per loro di opporsi, di ribellarsi, ma semplicemente di non prendere parte. “Non esercitiamo pressioni politiche, non votiamo a favore di un partito o dei relativi rappresentanti, non ci candidiamo per incarichi governativi e non partecipiamo ad azioni sovversive. Siamo convinti che la Bibbia contenga valide ragioni per prendere questa posizione”, scrivono nel loro sito Internet. Alla base di questo atteggiamento c’è la contrapposizione tra i regni e i sistemi politici di questo mondo e il Regno di Dio. E’ una posizione che, in ambito cristiano, si pone agli antipodi della teologia della liberazione cattolica, per la quale bisogna impegnarsi affinché la realtà storica, economica e politica incarni i principi evangelici, affinché cioè il Regno di Dio annunciato dal Vangelo diventi realtà effettiva già in questo mondo. Per i Testimoni di Geova ogni impegno politico finisce per tradire la purezza della promessa, che non può realizzarsi che in una dimensione escatologica. Sono idee molto vicine a quelle che espresse un grande russo, Lev Tolstoj, nella sua più importante opera filosofica: Il Regno di Dio è in voi (1893). Con la differenza che Tolstoj dava alla nonviolenza evangelica un significato apertamente eversivo, come leva per rovesciare un sistema di dominio che aveva nella Chiesa ortodossa un tassello fondamentale, e di cui erano vittime le grandi masse contadine con la loro fede ingenua. Per le sue idee Tolstoj fu scomunicato dal Santo Sinodo; una scomunica che non è mai stata revocata, ed è stata anzi confermata nel 2010, in occasione del centenario della morte.
“Dominare vuol dire violentare, violentare vuol dire fare ciò che non vuole colui sul quale è commessa la violenza, e certo ciò che non vorrebbe sopportare colui che la commette; per conseguenza, essere al potere vuol dire fare ad altri ciò che noi non vorremmo che fosse fatto a noi stessi, cioè fare del male“, scriveva Tolstoj, sintetizzando in poche efficacissime righe le ragioni del suo anarchismo (Il Regno di Dio è in voi, Bocca, Roma 1894, p. 260). Negare la libertà religiosa è una delle forme più vili di questa violenza sistemica. E il fatto che nella Russia di Putin un cristiano non ortodosso possa finire in carcere per la sua fede dimostra che quel sistema di dominio denunciato dall’autore di Guerra e pace è ancora oggi più solido che mai.
Pubblicato su Gli stati Generali, 21 aprile 2017.