Le buddhanate di Fabrizio Rondolino
Rumi, lo Zen e il lupo
Un leone, un lupo e una volpe vanno a caccia insieme. Catturano e uccidono un bue, una capra e una lepre. Al momento di dividersi le prede, il leone chiede al lupo di attribuire a ciascuno la sua parte. Il lupo attribuisce al leone il bue, poiché è più grande, a sé stesso la capra e alla volpe la lepre. Ma il leone non è d’accordo: e sbrana il lupo.
A questo punto del racconto Jalal alDin Rumi – stiamo parlando del Mathnawi – introduce una delle sue frequenti, deliziose digressioni. Eccola:
آن یکی آمد در یاری بزد ** گفت یارش کیستی ای معتمد
گفت من، گفتش برو هنگام نیست ** بر چنین خوانی مقام خام نیست
خام را جز آتش هجر و فراق ** کی پزد کی وا رهاند از نفاق
رفت آن مسکین و سالی در سفر ** در فراق دوست سوزید از شر
پخته گشت آن سوخته پس باز گشت ** باز گرد خانهی همباز گشت
حلقه زد بر در به صد ترس و ادب ** تا بنجهد بیادب لفظی ز لب
بانگ زد یارش که بر در کیست آن ** گفت بر درهم تویی ای دلستان
گفت اکنون چون منی ای من در آ ** نیست گنجایی دو من را در سراUno andò a bussare alla porta di un amico. L’amico chiese: “Chi sei; sei degno di fiducia?”
Egli rispose: “Io”. L’amico disse: “Vattene; non è il momento di entrare: ad una mensa come questa non c’è posto per una persona immatura.”
Chi cuocerà ciò che è crudo, se non il fuoco dell’assenza e della separazione? Chi lo libererà dall’ipocrisia?
Il pover’uomo se ne andò, e durante un anno di viaggio e di separazione dal suo amico, fu arso dalle fiamme.
Bruciato, si consumò; allora ritornò e ricominciò a camminare avanti e indietro davanti alla casa del suo compagno. Bussò alla porta con infinito timore e rispetto, temendo di lasciarsi sfuggire dalle labbra una parola irrispettosa.
Il suo amico gli chiese: “Chi è alla porta?” “Sei tu, alla porta, ammaliatore di cuori.”
“Adesso – disse l’amico – poiché tu sei me, entra, tu che sei me stesso; nella casa non c’è posto per due ‘io'”. [Jalal alDin Rumi, Mathnawi, libro I, 3070, traduzione di Gabriele Mandel Khan, Bompiani, Milano 2016, pp. 305-306. Testo farsi qui.]
Il karma di Agamben

1. Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto di Giorgio Agamben (Bollati Boringhieri) è una delle non frequenti incursioni della filosofia italiana – di uno dei maggiori filosofi italiani, in questo caso – nel pensiero orientale, al di fuori del settore specialistico (e in Italia ancora quasi allo stato nascente) della filosofia comparata ed interculturale.
Il problema del libro è quello dell’azione responsabile e dunque imputabile; o meglio: del rapporto tra azione e soggettività. Un rapporto che si fissa, nell’etica occidentale, nel concetto di colpa. Ci si può chiedere se sia davvero opportuno mettere in discussione questo nesso, ma qui vorrei soffermarmi sulla lettura del buddhismo da parte di Agamben.
Come è noto, uno dei problemi più rilevanti del buddhismo dal punto di vista filosofico è la contraddizione tra la negazione dell’esistenza di un sé o anima e la concezione del karma e della rinascita. Se non esiste un sé, cos’è che rinasce? Come è possibile che vi sia continuità tra una vita e un’altra, se non c’è un sé sostanziale? Per Agamben, questa contraddizione apparente nasce da una precisa strategia: “si tratta di spezzare il nesso che lega il dispositivo azione-volontà a un soggetto”; “il soggetto come attore responsabile dell’azione è solo una apparenza dovuta alla nescienza o all’immaginazione (nei termini della nostra ricerca, esso è una finzione prodotta dai dispositivi del diritto e della morale)” (p. 128).
Non c’è molto altro, oltre queste righe citate; se la prima parte del libro contiene una analisi raffinata dei concetti di causa e colpa in Occidente, la parte finale, dedicata al karman, si sviluppa per passaggi rapidi ed essenziali. Proviamo a ragionare su quelle poche righe.
2.In uno dei testi fondamentali del buddhismo, il Milindapanha, il saggio Nagasena risponde alla domanda secca del re greco Menandro (Milinda) : “Chi nasce è lo stesso o un altro?”. La sua risposta è che chi nasce è al tempo stesso sé stesso e un altro, esattamente come noi, nello scorrere della nostra vita, siamo al tempo stesso noi stessi ed altri. Il neonato che eravamo, il bambino, l’adolescente, non esistono più in età adulta, e tuttavia l’adulto è al tempo stesso quel neonato, quel bambino, quell’adolescente. Come una fiamma che faccia luce per tutta la notte è al tempo stesso la stessa fiamma (alimentata dallo stesso olio e stoppino) e non lo è, poiché si rinnova di continuo [La rivelazione del Buddha. I testi antichi, a cura di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001, pp. 126-7]. Un altro esempio fatto da Nagasena illustra il rapporto tra questa dottrina e l’etica. Se l’individuo (namarupa, nome e forma) che rinasce non fosse lo stesso della vita precedente, pur essendo diverso, “allora una persona sarebbe liberata dalle azioni malvagie” (p. 133). E continua: si immagini un uomo che ha rubato dei manghi, e che viene processato per questo. Certo, i manghi che lui ha rubato non sono gli stessi che sono stati piantati dall’uomo che l’accusa (sono cambiati, crescendo), ma ciò non scagiona l’uomo.
E’ qui evidente la preoccupazione buddhista di confermare la responsabilità del soggetto, nonostante la negazione della sostanzialità del sé.