Cosa resta della Conoscenza

Dopo aver letto il mio post precedente un amico mi ha chiesto su quale base si possano credere cose simili. Come sappiamo che il fondo della realtà è l’Uno? Come sappiamo che dietro il manifestarsi delle cose c’è la Natura? E come sappiamo che dietro il nostro io c’è lo Spirito?

Il Samkhya, il più antico sistema filosofico indiano, risponde che lo sappiamo attraverso la conoscenza analitica del reale. Il testo fondante della scuola, il Samkhyakarika di Ishvarakrishna, si sofferma sul valore dell’inferenza, che insieme alla testimonianza dei sensi e alla rivelazione degna di fede di consente di conoscere l’essenza della realtà. Non sono sicuro però della solidità di tutti i passaggi logici – così come non sono sicuro della solidità dei passaggi logici che portano Platone ad affermare l’esistenza dell’Idea come realtà iperurania.

La miseria di essere Sua Santità

La bizzarra – no: disgustosa – uscita del Dalai Lama, che chiede a un bambino di succhiargli la lingua dopo averlo baciato, può apparire come l’evidente manifestazione del decadimento mentale di un uomo in età particolarmente avanzata o la dimostrazione che una certa corruzione morale esiste anche nel buddhismo, che da noi, chissà perché, gode di buona stampa. Non così per i fedeli italiani, che essendo dei convertiti hanno, dei convertiti, lo zelo e il fanatismo (ah, Papini!). Uno di questi spiegava su un social che il Dalai Lama, bontà sua, è come un bambino, e quel gesto va dunque considerato nulla più che un gioco infantile. Infantile: e dunque innocente. Forse perfino poetico.

M’è tornato in mente, leggendo questa libera interpretazione, un passo del Vangelo di Sri Ramakrishna:

I segni di chi ha visto Dio sono questi: Il suo comportamento è come quello di un bambino. A volte appare come uno spirito impuro. (Il Vangelo di Sri Ramakrishna, Edizioni Vidyananda, Assisi 1993, p. 122.)

Il nostro Dalai Lama, benché privo di Dio, non sarà per caso uno di questi santi folli, di questi uomini che, avendo oltrepassato l’io, si sono lasciati alle spalle la distinzione tra il bene e il male? Può essere. Ma a farne le spese è stato un bambino, e questo, per noi che siamo al di qua, è un male.

In memoria di Thay

Quello di Thich Nhat Hanh è un buddhismo senza nibbida. I sutra insegnano che bisogna provare disgusto, nibbida appunto, nei confronti delle nostre sensazioni, del nostro corpo, delle nostre percezioni, della nostra stessa coscienza (Anattalakkhana Sutta, SN 22, 59). Si potrebbe tradurre — poiché il disgusto è una forma di avversione, e l'avversione non è un fattore di risveglio — indifferenza; si tratta del distacco che viene dal non provare più alcun attaccamento verso qualcosa. Un lettore occidentale non può che esserne sconcertato. Indifferenza verso le sensazioni? Verso il corpo? Perfino verso la coscienza, il nostro sacro cogito? È una cosa inaudita; e il traduttore pudicamente renderà con “sereno disincanto”.Il Buddhismo di Thich Nhat Hanh parla la voce dell'Occidente. E non bisogna sorprendersi di trovare nella sua opera principale la seguente uscita: Praticare il Buddhismo è un modo intelligente per godersi la vita. La felicità è già pronta, servitevene! (Essere pace, Ubaldini, Roma 1989, p. 67). E da qui alla mindfulness dei life-coach il passo può essere breve. Non va diversamente con l'Inter-essere. Nel Buddhismo si afferma che nulla è sostanza, in senso stretto: se con sostanza si intende spinozianamente quod concipitur per se et in se. Ogni cosa è intersezione momentanea di fattori diversi, qualcosa come un miraggio causato dal fortuito, casuale e fugace incrociarsi di riflessi solari. Ed è una ragione per non attaccarsi alle cose, al mondo esterno, più di quanto non ci si attacchi a noi stessi. Anche qui, nibbida. In Thay invece questa trama di cose inconsistenti diventa in qualche modo solida. Che tutto sia intrecciato con tutto è una buona novella. Non è meraviglioso che in un foglio di carta ci sia il sole? Di più. Sfidando la legge di Hume, Thay fa di questa complicazione di tutto quel che è il fondamento di un'etica. Poiché siamo tutti legati, poiché tutto è legato a tutto, dobbiamo essere fratelli di tutti e di tutto. Un'etica universale ed ecologica fondata sulla glorificazione della prossimità e della contaminazione, che è un semplice fatto, non un valore in sé.Non sorprende il successo di Thay in Occidente. Il suo buddhismo impegnato, che ha meriti politici e sociali immensi, ha percorso lo stesso tragitto del cristianesimo, che da austero s'è fatto gioioso; e il rischio di banalizzazione è lo stesso, appunto, cui si espone il Cristo amico di tutti che le chiese vendono nei grandi magazzini religiosi.Eppure. Eppure non era possibile ascoltare Thay, vederlo camminare, cogliere il suo sguardo senza avere l'impressione di trovarsi di fronte ad un essere umano capace di far sprigionare qui ed ora, pura nonostante ogni contaminazione, la sorgente più autentica del Dharma.

Le dimore leggere

E’ uscito presso l’editore Petite Plaisance di Pistoia il mio libro Le dimore leggere. Saggio sull’etica buddhista. Ho impiegato più di qualche anno a scriverlo; anni di studio, ma anche di pratica buddhista. Non sono in grado di valutare l’esito di tanto sforzo, ma non esistono in Italia molti studi sull’etica buddhista, e mi piace credere che il mio libro, qualunque sia il suo valore, possa essere di qualche utilità. Poiché so che in Italia, a causa dei tagli alla ricerca, alle università e alle biblioteche, la ricerca comporta spesso anche uno sforzo economico individuale, sono disposto a far avere una copia gratuita agli studiosi che ne facciano richiesta mandandomi una mail all’indirizzo rimarerum [at] gmail.com

Gli individui che non siamo

Il re greco Menandro, che regnò nel secondo secolo a.C. su un territorio che comprendeva l’India del nord e l’attuale Pakistan, fu con ogni probabilità uno dei primi occidentali convertiti al buddhismo, grazie ai lunghi dialoghi con un saggio buddhista, Nagasena, registrati in uno dei testi più importanti del buddhismo antico, il Milindapañha (Milinda è il nome greco del re). Al re che gli chiede il suo nome, il saggio buddhista risponde di chiamarsi Nagasena, ma precisa che si tratta solo di una convenzione, “perché nessuna persona è presente qui” (Milinda’s Questions, Luzac & Company, London 1969, vol I, p.34). Il re resta sconcertato. Come può essere che Nagasena dica una cosa del genere? Come può essere che lì, di fronte a lui, dica di non esistere? Non è diverso lo sconcerto – lo choc culturale – di un occidentale di oggi quando si avvicina al pensiero buddhista. Fin dalle sue radici greche, la visione del mondo occidentale è fondata su tre cose: la solidità delle cose, assicurata dall’idea di sostanza; la solidità, razionalità, comprensibilità del mondo, assicurata dall’esistenza di Dio; la solidità di noi stessi, che nemmeno la morte può intaccare: l’immortalità dell’anima. A partire dall’età moderna questi tre pilastri dell’Occidente sono stati progressivamente attaccati, fino a sgretolarsi. Il mondo ordinato, solido, strutturato gerarchicamente come un sistema di enti con al centro l’uomo (proprio nel senso di maschio) entra in crisi sotto i colpi congiunti della scienza e del libero pensiero, mentre l’ascesa della borghesia spazza via i rapporti di produzione feudali. La morte di Dio annunciata da Nietzsche è il momento più noto, ma non necessariamente il più significativo, di questa lunga decostruzione. L’eclissi di Dio è un dato sociologico: nelle società occidentali il sacro tradizionale ha ormai un ruolo marginale. Restano saldi invece nel senso comune gli altri due pilastri: la certezza della cosa e la certezza dell’io.[read more] Queste due certezze attacca uno dei libri più coraggiosi e interessanti prodotti dalla filosofia italiana negli ultimi anni: Tratti. Perché gli individui non esistono di Paolo Godani (Ponte alle Grazie, Milano 2020; il libro è uscito prima in edizione francese con il titolo: Traits. Une Métaphysique du singulier). La tesi di Godani, che ripercorre il pensiero occidentale da Aristotele ad Heidegger e Deleuze, ma rilegge anche L’uomo senza qualità di Musil, è quella del sottotitolo: gli individui non esistono. Non esiste tesi più irritante per il senso comune. L’individuo è ciò che ho di fronte a me, lo vedo, lo tocco, posso anche annusarlo: come dire che non esiste? E tuttavia le cose non sono così semplici. Questa realtà individuale, questa cosa o questa persona qui, è mutevole. Posso guardarla, farne esperienza, ma ogni volta sarà in modo diverso. Non ho mai una esperienza assolutamente identica di una realtà individuale. In cosa consiste allora il suo essere individuo? Dobbiamo postulare, in modo esplicito o implicito, che al di sotto di tutte le modificazioni esista qualcosa, un sostrato stabile, e che questo qualcosa sia l’individuo al di là delle[…]