Nishitani Keiji,La religione e il nulla

Nishitani Keiji e Martin Heidegger
La religione e il nulla di Nishitani Keiji è il capolavoro di uno dei più grandi pensatori giapponesi contemporanei. Scrive nell’introduzione al’edizione italiana (Città Nuova, Roma 2004) James W. Heisig: “Bisogna leggere Nishitani con sospetto ed occhio critico, ma bisogna leggerlo. E, dopo, bisogna aprire un dialogo con questo sconosciuto” (p. 24).
Cos’ha da offrire questo sconosciuto con cui bisogna dialogare? Niente di meno di una lettura del nichilismo alla luce della tradizione filosofica del buddhismo zen.
La religione è affrontata da Nishitani non nell’ottica del rapporto tra Dio e l’uomo né in quella del sacro, ma in una prospettiva più ampia: religione è la vera consapevolezza della realtà, intendendo con ciò non solo il nostro diventare consapevoli della realtà, ma il realizzarsi della realtà stessa nella nostra consapevolezza della realtà. Non si tratta, in altri termini, di conoscenza filosofica, ma di un movimento integrale della mente e del corpo. Non a caso, spiega, l’esigenza religiosa si fa presente e pressante quando la nostra esistenza perde senso, e noi stessi diventiamo la domanda: perché sono? E’ evidente fin d’ora la connessione tra la religione e il nulla. E’ quando il nulla appare sullo sfondo della nostra esistenza che entriamo nella sfera religiosa, che si apre per noi un dubitare totale che è inizio del movimento verso la consapevolezza.
L’Occidente ha dubitato, con Cartesio, dell’esistenza di tutto, fuori che del soggetto; il soggetto, anzi, è l’origine di ogni certezza. E’ questo che Nishitani chiama “campo della coscienza”, che distingue un dentro ed un fuori, un soggetto ed un oggetto, con una distinzione che permane anche nell’autocoscienza, perché anch’essa comporta il porsi davanti a se stessi come una cosa da osservare. Nemmeno nell’autocoscienza l’uomo è a contatto con se stesso. Perché ciò avvenga, occorre oltrepassare il campo della coscienza e quello degli enti, occorre sporgersi nel nihilum, conquistare un dubitare più radicale di quello cartesiano, che giunge a mettere in questione il soggetto stesso. E’ una esperienza religiosa: Nishitani parla di “samadhi” e “grande morte”, seguendo la terminologia zen; il lettore cristiano può pensare alla “notte oscura dell’anima” di Giovanni della Croce. Nella posizione del nihilum il soggetto si scopre colpevole, sorprende al suo fondo un male, una corruzione radicale, la cui consapevolezza però rende possibile la redenzione. Nella prospettiva del nihilum ogni ente è infinitamente distante dagli altri, irrimediabilmente solo.
L’esistenza che si apre al nulla è disperata, e tuttavia la disperazione, il nulla non sono l’ultima verità sull’uomo. Dalla grande morte nasce l’uomo nuovo: e nasce non fuggendo dal nulla, ma attraversandolo, andando oltre il nulla: giungendo alla vacuità. “Una valle insondabilmente profonda all’interno di un infinito cielo aperto, ecco il rapporto tra nihilum e vacuità” (p. 139). La vacuità, spiega Nishitani, non è realtà di cui si possa dare rappresentazione oggettiva. E’, invece, una prospettiva. Non si tratta di percepire in qualche luogo un vuoto, ma di realizzare il nulla ed il vuoto come tutt’uno con l’essere. Non ci sono un essere ed un nulla sul cui rapporto si debba riflettere, ma un essere-eppure-nulla che supera ogni logica dualistica.
Nel campo della vacuità ogni ente accade nella sua natura propria (tathata), ogni cosa torna alla sua terra natia. Se nel campo nel nihilum tutti gli enti sono assolutamente, disperatamente soli e separati, nel campo della vacuità tutti gli enti sono uno. La vacuità è la grande apertura nella quale tutti gli enti si incontrano. L’Occidente ha pensato l’Uno, ma c’è per Nishitani una differenza essenziale: l’Uno occidentale è una Ragione assoluta che oltrepassa le singolarità, mentre l’Uno del campo della vacuità appare dopo aver attraversato il campo del nihilum, e proprio per questo si disperde costantemente, all’infinito. L’Uno è il centro di una circonferenza da cui si partono infinite linee che intersecano le circonferenze della sensibilità e della ragione in infiniti punti. Questo vuol dire che ogni punto della circonferenza – ogni ente, cioè – è “permanentemente immerso in un abisso senza fondo” (p. 190). Vuol dire anche che ogni ente è il centro. Ogni ente è il centro di tutte le cose, il punto da cui si dipartono le linee infinite degli enti, superata la distinzione tra fenomeno e cosa in sé.
Dal punto di vista religioso, il campo della vacuità è il luogo della liberazione, del distacco, della consapevolezza. Quando l’uomo giunge al fondo della propria esistenza, al di là della ragione speculativa, scopre l’infinità della finitezza, vale a dire la radicalità della finitezza stessa. E’ quella consapevolezza che il buddhismo esprime con la figurazione della “ruota del divenire” e con l’idea della trasmigrazione, nei confronti della quale Nishitani opera una demitizzazione, interpretandola come segno dell’abissalità del nihilum che è al fondo dell’esistenza. La liberazione dalla ruota del divenire, insegna il buddhismo, avviene con il nirvana. Il passaggio dal samsara al nirvana, dal ciclo delle esistenze alla liberazione, non è altro che la conversione dal campo del nihilum alla vacuità. La particolare logica del buddhismo non consente però di pensare una liberazione come fuga dal samsara. Il nirvana non è un luogo diverso dal samsara; al contrario: vivere il nirvana è vivere la vita di sempre, stare nel samsara senza chiedere nulla, qualcosa di molto simile alla “vita senza perché” di Eckhart (le affinità tra Eckhart e lo zen sono studiate in Italia da padre Luciano Mazzocchi e Jiso Forzani). Questo vuol dire anche accettare tutto ciò che accade, considerare l’essere di ogni cosa tutt’uno con il suo dover essere, con il suo dharma. Già Dogen aveva avvertito nello Shobogenzo (Bussho) che l’essere non nasconde nulla in riserve occulte. Non c’è nessun mondo perfetto da contrapporre a quello in cui siamo. L’essere è quello che dev’essere.
Il campo della vacuità è, insomma, il campo di un assoluto sì alla vita, conquistato dopo aver attraversato il deserto del nihilum. E’ anche, però, il campo dell’amore religioso. L’esistenza nel campo della vacuità è caratterizzata dal non-ego. Superata l’autocentricità e la persona, l’uomo nega se stesso e trova il proprio fine in tutti gli altri esseri. Con un’espressione che colpisce, Nishitani sostiene che la persona, il sé “deve diventare una cosa per tutti gli altri esseri” (p. 337): in realtà, infatti, nella posizione della vacuità l’uomo non è qualcosa di umano. Uccidendo se stesso, però, il sé uccide anche gli altri (lo stesso Buddha, secondo il famoso detto di Lin-chi), perché si pone al di fuori del campo in cui esistono soggetti diversi. Nel campo della vacuità non esiste l’ego mio, né quello altrui. Ogni ente, nel campo della vacuità, è centro: di qui un conflitto assoluto, inaudito tra infiniti enti-centri. A ragione Eraclito parlava, dunque, del conflitto come padre di tutte el cose. Ma nella misura in cui tale conflitto è tra enti che non sono enti, tra non-seità, esso è anche assoluta, inaudita armonia. E’ uno scontro, ma è anche compenetrazione amorevole. E’ guerra, ma è anche gioco. “Gioco è qui la pratica zen e la pratica zen è gioco: questo sorgivo gioco è sorgiva serietà, e viceversa” (p. 325).
E’ un gioco che avviene fuori dal tempo, perché nel campo della vacuità anche il tempo soggiace alla logica della concentrazione in uno: ogni istante è il centro del tempo e contiene tutti gli altri istanti. E’ superato così lo stesso eterno ritorno di Nietzsche, cui Nishitani attribuisce grande importanza, come realizzazione della grande morte, presentazione temporale del nihilum in cui l’essere si mostra come pura impermanenza, e la cui circolarità tuttavia riporta anche all’adesso, all’attimo presente. L’eterno ritorno è il punto di conversione alla vita, una volta raggiunta la massima negazione possibile. Tale conversione non fu possibile a Nietzsche perché “la volontà di potenza, la posizione finale di Nietzsche, è ancora concepita come qualcosa chiamata ‘volontà’. Finché viene considerata un’ entità chiamata ‘volontà’, essa non perde completamente la sua connotazione di essere un altro da noi e così non può diventare qualcosa grazie a cui possiamo veramente diventare consapevoli di noi stessi nella nostra sorgente” (p. 292).
E’ piuttosto chiara la intrepretazione di Nishitani della situazione contemporanea. L’Occidente è giunto, con il nichilismo e Nietzsche, alla posizione del nihilum, disperante e precaria, prossima ad una conversione di cui però è incapace. Completare questa conversione, accompagnare il passaggio dal nihilum alla vacuità, dalla disperazione al gioco, è il contributo del pensiero buddhista alla crisi attuale.
Ci sono tre modi di leggere questo libro. Il primo è quello di leggerlo come un confronto tra la tradizione culturale, filosofica e religiosa giapponese e quella occidentale. Si considereranno, allora, i giudizi sul cristianesimo, su Cartesio, su Eckhart, su Nietzsche, su Sartre; e qua e là potrà risultare qualche incomprensione, qualche azzardo ermeneutico, qualche forzatura. Il secondo modo è di leggerlo come una espressione di un pensiero altro, di cui bisogna sforzarsi di comprendere la peculiarità, facendo qualche sforzo anche per la comprensione del lessico filosofico, che, come succede, solo parzialmente può essere tradotto in una lingua diversa. Il terzo modo è quello di considerare La religione e il nulla come un’opera da meditare, come uno strumento per compiere quella radicale ricerca di sé in cui consiste forse l’essenza della filosofia non meno che della religione.

Rinunciare al karma

C’è una contraddizione, nel buddhismo, tra l’affermazione che tutto è pieno di sofferenza (sabbe dukkha) e la dottrina del karma. Un mondo pieno di sofferenza è un mondo privo di senso; un mondo nel quale la sofferenza, che accade, non ha alcuna giustificazione, si colloca al di là della nostra capacità di comprensione. La sofferenza è veramente tale solo quando è incomprensibile. Se riusciamo a collocarla in una visione delle cose piena di senso, essa non è più vera sofferenza: sarà facile sopportarla.
Ora, il mondo regolato dalla legge del karma è, appunto, un mondo dotato di senso, nel quale le cose non accadono a caso, ma secondo un ferreo criterio retributivo. Se soffro, so che la mia sofferenza ha un senso. Se una malattia mi colpisce, è perché ho fatto del male. E se qualcuno mi fa del male, so che prima o poi i frutti della sua azione giungeranno a maturazione, e toccherà a lui soffrire.
Perché dovremmo liberarci da un mondo del genere? Esiste l’impermanenza, esistono la malattia e la morte, ma sono cose che acquistano senso alla luce del karma.
Nel suo nucleo originale, il buddhismo è una concezione – più terapia che religione – che procede per passaggi logici, senza alcun elemento fantastico, o mitico, o irrazionale. Fanno eccezione la legge del karma e l’idea della rinascita. Non si tratta dell’ovvia constatazione che se si fanno certe azioni toccherà subirne le conseguenze (anche se non sempre accade, come è facile constatare: ed era già l’interrogativo di Giobbe e del Qohelet), ma di un meccanismo metafisico, di un legame che va di vita in vita, operando in modo misterioso. Un buddhismo occidentale, pienamente logico, dovrà fare a meno della legge del karma e della rinascita. E prendere atto che la liberazione è necessaria proprio perché viviamo in una realtà che sfugge a qualsiasi presa di senso.

Educare è come togliere la polvere

Questo articolo inaugura la mia rubrica Educazione e libertà, nel sito Il bambino naturale.

La conta dei frutti delle azioni nel mondo evanes­cente è una di quelle opere che si situano felicemente all’incrocio tra culture e civiltà diverse: nel caso specifico quella musulmana e quella buddhista del Tibet.
Sull’autore, Khache Phalu (Phalu il kashmiro), nulle sono le notizie certe e molte le congetture: c’è chi vuole che si tratti del quinto o del sesto Dalai Lama, chi di un ricco mercante musulmano amico del Panchen Lama, chi del Panchen Lama stesso. Quello che è certo è che l’autore di quel trattatello che ancora oggi i tibetani venerano come un indispensabile manuale di saggezza popolare conosceva bene la letteratura del sufismo islamico, ed in particolare la mistica di Sa’di.
Nel libretto c’è una sezione dedicata all’educazione che, come il resto del libro, è piena di un buon senso tutt’altro che superficiale. Tra le altre, mi ha colpito questa sentenza: “Finché non vengano rip­ulite dalla terra da cui sono emerse, non puoi sapere se una pietra è preziosa né se una las­tra di met­allo levi­gato è uno spec­chio” (trad. G. Magi).
La pietra è, naturalmente, il bambino. Phalu il kashmiro ci dice che non dovremmo mai dare giudizi affrettati sui bambini o sugli adolescenti, poiché non possiamo sapere cosa c’è davvero sotto la polvere. Quello che verrà fuori non lo sa nessuno. Il bambino che oggi appare indolente, capriccioso, incapace di mantenere un impegno, irresponsabile, potrà diventare un adulto rigoroso, serio, profondo. Ma potrà diventarlo solo se gli adulti lo aiuteranno, e per poterlo aiutare gli adulti – i suoi educatori – dovranno avere la capacità di vedere in lui l’oltre, il più, il diverso. Leggi tutto “Educare è come togliere la polvere”

Thay

Thich Nhat Hanh con Martin Luther King
“In qualità di Premio Nobel per la Pace per l’anno 1964, ho il piacere di proporvi il nome di Thich Nhat Hanh per il premio del 1967. Non conosco personalmente nessuno che sia maggiormente meritevole del Premio Nobel per la Pace di questo gentile monaco buddhista del Vietnam”.
Così scrive il 24 gennaio 1967, in una lettera indirizzata al comitato per il Premio Nobel, Martin Luther King, il leader nonviolento dei diritti civili, che sarà ucciso a Memphis l’anno successivo. La proposta non fu accolta: nel 1967 il premio Nobel per la pace non è stato assegnato propri a causa della guerra in Vietnam. Oggi, a distanza di più di quarantacinque anni, la proposta viene ripresa da diversi gruppi in rete, che raccolgono firme per una petizione all’Istituto Nobel.
Ma chi è Thich Nhat Hanh? Un monaco minuto, dai modi estremamente gentili, che riesce con la sua sola presenza a trasmettere un senso di pace e di nobiltà spirituale. Non bisogna lasciarsi tuttavia ingannare dalla semplicità dei modi e dalla modestia della persona: quel piccolo monaco è anche una delle menti migliori del buddhismo contemporaneo, un filosofo che è riuscito a ripensare la millenaria tradizione di pensiero del dharma adattandolo alle esigenze del mondo attuale, un poeta sensibile, un delicato calligrafo. E’, soprattutto, l’uomo capace di attraversare la frontiera per andare a parlare con il nemico, ed insegnargli che non esistono nemici. Durante la guerra nel suo paese Nhat Hanh (semplicemente Thay, maestro, per i suoi discepoli) ha creato la School of Youth Social Service, una rete di attivisti nonviolenti dediti alla ricostruzione dei villaggi distrutti dalla guerra. La sua attività di sostegno sociale, che si poneva al di fuori degli schieramenti in guerra, gli costò l’esilio. Da anni vive in Francia, dove ha creato l’Ordine Tiep Hien (in italiano: Ordine dell’Interessere) e fondato presso Bordeaux Plum Village, un complesso di sette villaggi che accoglie monaci e laici che vogliano dedicarsi alla meditazione.

L’insegnamento di Thay, che appartiene alla tradizione del buddhismo zen, è centrato su una originale interpretazione di uno dei concetti centrali del buddhismo: quello di vacuità (śūnyatā). Tutte le cose, per il buddhismo, sono prive di una identità propria. Nulla è per sé, tutto è composto di altro. Questa concezione, che pare negativa, acquista in Thay una valenza positiva. Se nulla è per sé, allora vuol dire che le cose non sono, ma inter-sono. Di qui l’idea di Interessere, che è la traduzione della vacuità in un linguaggio comprensibile anche per i non buddhisti. Il mondo è una rete di implicazioni, di relazioni, di rimandi. In ogni cosa c’è dell’altro: un foglio di carta contiene, a ben vedere, una nuvola, poiché non esisterebbe senza l’albero, e l’albero senza la pioggia, e la pioggia senza la nuvola. Tutto è relazione. E questo, naturalmente, vale anche per gli esseri umani. Ognuno di noi è in relazione con gli altri, ed anche con coloro che sembrano nostri nemici: perfino con l’assassino. In una poesia Thay parla di una bambina violentata da un pirata (una tragedia tutt’altro che infrequente nel suo paese), e scrive:
Io sono la bambina dodicenne profuga su una barca,
che si getta in mare dopo essere stata violentata da un pirata.
E io sono il pirata, il mio cuore ancora incapace di vedere e di amare.
La consapevolezza dell’interesse porta alla compassione, a conquistare un punto di vista che non è solo quello della vittima, ma anche quello del carnefice; a comprendere che quest’ultimo è tale perché le condizioni di vita lo hanno portato lontano dal bene, ed è lui stesso la prima vittima del suo male. Una convinzione che ha spinto il vietnamita Nhat Hanh a tenere dei corsi per la riabilitazione dei veterani di guerra negli Stati Uniti: ad aiutare, cioè, le stesse persone che hanno massacrato il suo popolo.
E’ grazie a Thich Nhat Hanh se esiste oggi un “buddhismo impegnato”, ossia un buddhismo che non è più soltanto una pratica per la liberazione individuale dalla sofferenza, ma un fronte di lotta politica contro le sofferenze del mondo dovute all’ingiustizia, all’iniqua distribuzione delle risorse, allo sfruttamento, alla violenza. E poiché molte violenze sono dovute proprio alle religioni, il primo dei quattordici principi di base dell’Ordine Tien Hien così recita: “Consapevoli della sofferenza creata dal fanatismo e dall’intolleranza, siamo determinati a non idolatrare né ritenere vincolante alcuna dottrina, teoria o ideologia, neppure quelle buddhiste. Ci impegniamo a considerare gli insegnamenti buddhisti come strumenti che ci guidano e ci aiutano a imparare a guardare in profondità e a sviluppare comprensione e compassione. Non sono dottrine per cui combattere, uccidere o morire”. Non è una concezione nuova, per il buddhismo. Secondo un’immagine usata dal Buddha stesso, la dottrina buddhista non è che una zattera, ossia uno strumento utile. Il buddhista che si attaccasse al buddhismo sarebbe simile a colui che, attraversato il fiume con la zattera, si caricasse la zattera sulle spalle e se la portasse con sé.
Ho avuto modo di partecipare ad una meditazione camminata guidata da Thich Nhat Hanh a Napoli, nel marzo del 2008. L’inusuale corteo partì da piazza del Plebiscito e, con lentezza estrema, si snodò verso via Chiaia, attraversò il traffico, bloccandolo (“abbiate un po’ di compassione buddhistica anche per gli automobilisti”, disse un automobilista) e si concluse in villa comunale, dove uno scugnizzo commentò così la lunghezza del corteo: “Ma questa è una pace infinita”. L’ho chiamato corteo. Ma i cortei si fanno in genere per rivendicare qualcosa, sono manifestazioni in vista di uno scopo. Quel lento camminare nel mezzo della città, tenendosi per mano ed in silenzio, era qualcosa d’altro: la realizzazione, qui ed ora, di una situazione di pace; e la dimostrazione che ovunque – in famiglia, a scuola, nel chiuso di un carcere, nella miseria dei non-luoghi postmoderni – è possibile fermarsi e praticare l’attenzione e la compassione.
Articolo scritto per Stato Quotidiano.