La cultura dell’alcol

Come succede ai più, dopo la laurea ho vissuto un periodo di bulimia formativa, per così dire. Frequentavo un corso dopo l’altro, per riempire in qualche modo il curriculum, ma anche perché avevo bisogno di capire molte cose. Della maggior parte di quei corsi non mi è rimasto nulla. Uno mi ha segnato. Era un corso tenuto da Vladimir Hudolin, il fondatore dei Club di alcolisti in trattamento (CAT; oggi in Italia si chiamano Club alcologici territoriali). Mi colpì, Hudolin: un uomo austero, a tratti arcigno, dedito a una causa in cui credeva profondamente, cui si dedicava senza risparmiarsi, anche se la malattia gli lasciava poche energie (sarebbe morto di lì a poco). A chi gli faceva notare che in fondo non c’è nulla di male a bere un bicchiere di vino o di birra, Hudolin replicava con pazienza, ma anche con fermezza: non c’è dipendenza che non parta da un bicchiere di vino, cui quando si è nervosi o stressati si aggiunge un  secondo – che sarà mai? – e poi un terzo, e così via. Ma a colpirmi, a segnarmi in quel corso furono soprattutto le testimonianze di chi c’era passato. E ad esserci passati non erano i soggetti che normalmente associamo a qualche forma di devianza, ma persone normalissime. Ricordo soprattutto una coppia di architetti. Giovani, benestanti,  con figli: una vita apparentemente invidiabile. Che era andata in frantumi quando lei aveva cominciato a bere. Perché, scoprii, la dipendenza dall’alcol colpisce in modo significativo le donne, anche se il fenomeno è quasi invisibile. Leggi tutto “La cultura dell’alcol”

Il Buddhismo dei Baci Perugina

Se chi lavora per la Perugina avesse l’idea di inserire nei Baci un bigliettino con una frase di Gesù sarebbe un grave scandalo, un attacco alla nostra tradizione e identità culturale, un’offesa a tutti i cristiani; e Salvini farebbe oscillare il rosario con la bava alla bocca. Se ci finisse, nei Baci Perugina, un passo del Corano, sarebbe un attacco alla diversità culturale, una mancanza di rispetto al Libro Sacro, una manifestazione di zuccherosa strisciante islamofobia. Se il creativo della Perugina – che ci figuriamo giovane, precario e malpagato: perché questo è l’andazzo – inserisce nei baci Perugina una frase del Buddha, non succede nulla. Perché i buddhisti, si sa, sono pacifici, anzi pacioni, e in fondo il Buddha con la sua bella pancia tonda è in tutti i negozi di prodotti per la casa.

La cosa si complica un po’, ma non senza restare in piena sintonia con lo spirito dei tempi, se la frase inserita nei Baci non è mai stata pronunciata dal Buddha. Come scrisse Socrate in Contro i Sofisti, “Una volta che uno è morto puoi fargli dire quello che vuoi, e questo non è bello”. Non è bello, ma funziona, e siamo in un’epoca in cui è importante che le cose funzionino. E dunque non c’è frase che non possa essere attribuita a Socrate, a Platone o a Rousseau (a Gesù e a Maometto no, abbiamo detto). Leggi tutto “Il Buddhismo dei Baci Perugina”

La luna nell’acqua

È disponibile una nuova edizione, con una nuova copertina e qualche cambiamento minimo, de La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha. Il libro può essere acquistato in versione cartacea nei principali store online (ma mi fate felice se evitate Amazon); nella versione elettronica può essere letto online e scaricato (nei formati ePub e PDF) al seguente indirizzo: https://antonio-vigilante.github.io/svaha

La scuola dell’incompetenza

Educazione fisica. Scuola elementare di Avellino. Senza data. Indire, Archivio fotografico per la storia della scuola e dell’educazione, collocazione 2-048-021.

C’è un meccanismo collaudato – per quanto possa essere collaudata una macchina sgangherata – che riguarda il discorso di destra sulla scuola. Data la premessa che la scuola in un dato momento è stata distrutta – mentre era buona la scuola di un tempo – si individua l’origine del degrado attuale in qualche idea o pratica pedagogica progressista che in realtà ha inciso poco o nulla sulla struttura di una istituzione che procede decennio dopo decennio, incrollabile come uno schiacciasassi, dietro l’insegna del “Si è sempre fatto così”.

Ne è vittima per lo più don Lorenzo Milani: perché è evidente che la scuola italiana è stata trasformata in una immensa Barbiana. Più di recente Loredana Perla, che il governo Meloni ha messo a coordinare la Commissione di studio che riscriverà le Indicazioni Nazionali (e c’è il sopetto che a lavoro finito non si chiameranno più Indicazioni), se la prende con Tullio De Mauro e le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, che quest’anno compiono cinquant’anni e che in cinquant’anni sono state, purtroppo, ben poco applicate nella scuola italiana. Leggi tutto “La scuola dell’incompetenza”

Scuola, educazione e fatica

Un amico mi ha scritto una lunga mail critica a proposito della mia recensione del libro di Philippe Meirieu. Gli ho risposto con una mail ugualmente lunga che mi appunto qui.

1a. Nelle tue osservazioni mi pare che manchi una distinzione tra istruzione e educazione. Una questione che pongo spesso nei seminari maieutici è se la scuola debba istruire o anche educare. La difficoltà, nel rispondere, è che non si sa bene cosa sia educazione. Una collega disse che sarebbe stata a disagio a lavorare in un Ministero dell’Educazione Pubblica. In questo caso la parola educazione evoca l’imposizione di valori propria di uno Stato etico, cioè cattofascista. Nell’ottica della pedagogia critica, invece, educazione è l’esatto contrario: è l’analisi appunto critica dei valori correnti, evidentemente tutt’altro che innocenti. Leggi tutto “Scuola, educazione e fatica”

Un mondo in cui più nulla è pubblico

Social network come X o Facebook trasformano la società in un semplice mezzo per la produzione di profitto

Una sala d’aspetto. Persone annoiate. Qualcuno, prendendo spunto dalla copertina di un settimanale poggiato su un tavolinetto, comincia a parlare in modo sprezzante degli appartenenti a qualche minoranza. Una donna annuisce. Un ragazzo interviene per dargli ragione. Poi torna il silenzio.

Questa scena, ripetuta migliaia di volte in situazioni e contesti diversi, avrà una conseguenza prevedibile: le persone appartenenti a quella minoranza saranno perseguitate in forme più o meno gravi, che vanno dalla negazione di diritti elementari fino al campo di sterminio. La qualità della nostra vita, individuale e collettiva – la qualità anche della nostra democrazia – è in misura determinante legata al discorso pubblico. Non si tratta, come è ovvio, dell’unico fattore. I mezzi di comunicazione di massa hanno ad esempio una importanza che non è possibile sottovalutare, e tuttavia nulla avrebbe efficacia se non passasse attraverso il discorso pubblico. Un telegiornale può trasmettere una visione allarmata dell’immigrazione, ma resta decisivo il momento successivo: quando ci si confronta con altri e si scopre che la propria paura è un fatto sociale e condiviso.

Questa è una buona ragione per non abbandonare i grandi social network, ossia X, Facebook, Instagram, Tik Tok. Perché da qualche tempo la realtà sociale si è duplicata e una porzione significativa delle nostre interazioni sociali avvengono ormai sul piano parallelo dei social network (il solo Facebook ha tre miliardi e sessantacinque milioni di utenti attivi ogni mese). È sempre più su questi social che si costruiscono le narrazioni che condizionano le nostre vite, che favoriscono o contrastano i diritti, che spingono verso la vittoria un partito politico o ne decretano il fallimento. Sappiamo che tutto ciò avviene in modo spesso sporco, che è possibile inquinare il dibattito pubblico con profili falsi e diffondendo fake news, che sui social si diffondono in modo inarrestabile, e che è facilissimo manipolare le persone più fragili, i laureati alla scuola della vita; e tuttavia la consapevolezza che è quello il tavolo su cui si gioca sempre più la partita decisiva induce a dubitare della sensatezza di un Aventino digitale, che non sembra avere speranze di un esito migliore di quello del secolo scorso.

Ma c’è un altro aspetto da considerare. Discutere, rivendicare, difendere cause su un social network come Facebook o X significa intanto accettare una condizione che getta un’ombra su tutto il resto. Anzi due. La prima è l’assenza, il venir meno di uno spazio che sia pubblico. Quello dei grandi social network è un mondo in cui il pubblico, nel senso in cui nel mondo reale è pubblico un parco o una piazza, semplicemente non esiste più. Tutto appartiene al proprietario del social network. Anche il nostro profilo personale, la nostra casa digitale, non ci appartiene, come dimostra il fatto che in qualsiasi momento possiamo esserne estromessi. I social network, cioè, realizzano finalmente l’ideale verso cui tende il capitalismo: trasformare la realtà intera in proprietà privata. La seconda condizione è che, in questo spazio proprietario, tutto genera profitto, tutto serve ad arricchire quell’unico proprietario. Qualsiasi azione sociale ha, come scopo ultimo, la produzione di ricchezza e di profitto. Salutare il mondo con la foto del proprio caffè, condividere una notizia, discutere con qualcuno che non si conosce, perorare accaloratamente la propria causa, aggiornare la propria pagina dedicata a qualche causa antagonistica, dir male del capitalismo e della proprietà: tutto genera ricchezza privata.

Stare su un social network, insomma, vuol dire accettare di spostare una parte significativa della nostra vita in un mondo parallelo che rappresenta uno dei peggiori incubi che l’umanità abbia concepito. Nel mondo reale il sogno capitalistico di trasformare tutto in merce e proprietà privata procede tra mille attriti; nel mondo parallelo sembra non trovare resistenza alcuna. Questo è il frame, la cornice politica di tutti i nostri scambi su social network come Facebook o X; ed è una cornice che prescinde dall’aspetto più o meno presentabile del padrone del social. Molti di quelli che hanno abbandonato indignati X restano invece su Facebook perché Mark Zuckerberg sembra più accettabile di Elon Musk, con i suoi legami con Trump e la destra estrema. Ma entrambi fanno la stessa cosa (e Facebook probabilmente lo fa anche in modo più pervasivo): trasformano la società, tutta la società, in un semplice mezzo per la produzione di profitto. Mi chiedo se non sia anche per colpa di questo cedimento nella realtà digitale che stiamo perdendo giorno dopo giorno la nostra capacità di attrito e di resistenza; che stiamo perdendo, cioè – e con rapidità sconcertante – la nostra stessa democrazia, che se non è vuota retorica consiste nell’affermazione e nella difesa di una serie di beni comuni sottratti al gioco dell’interesse privato.

Foto di Larissa Avononmadegbe su Unsplash

Gli Stati Generali, 4 febbraio 2025