La società delle persone

Vittorio Feltri ha scritto un tweet che contiene una delle cose più volgari che un essere umano possa dire a un altro essere umano.

Un tweet che con ogni probabilità non sarà rimosso, nonostante le molte prevedibili richiese. Perché le offese che vengono rimosse, su Twitter come su altri social, riguardano soprattutto (cito dal form di segnalazione di Twitter alla voce Attacchi per via della sua identità): “Offese, utilizzo intenzionale di un genere incorretto, stereotipi razziali o sessisti, incitamento di terzi a molestare oppure immagini d’odio”. Riguardano, cioè, soprattutto l’identità sessuale e razziale.

La morte è l’esperienza più nostra, più propria. O meglio: non la morte in sé, sulla quale in fondo aveva ragione Epicuro: quando c’è, noi non ci siamo. Ma la mortalità. L’esperienza di avere la morte come orizzonte vicino. Colui che sa di essere condannato a morte vive una esperienza che lo separa in modo irrimediabile da chiunque altro. Non è un caso che per filosofi come Michelstaedter e Heidegger quella esperienza sia la porta d’accesso alla autenticità.

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L’audacia e il coraggio

I miei studenti di terza si sono classificati secondi alla finale nazionale del torneo “Dire e contraddire” del Consiglio Nazionale Forense. Un torneo di Debate nel quale si trattava di sostenere una tesi contro l’avversario, indipendentemente dal fatto di ritenerla vera o falsa.

Ho scritto qui cosa penso del Debate, e non tornerò sul tema. Qualcosa voglio dire, però, sul tema di discussione della finale. Si trattava di essere a favore o contrari riguardo alla seguente affermazione di Nelson Mandela:

L’uomo audace non è colui che non ha paura, ma quello che vince la paura.

Ai miei studenti toccava il compito ingrato di essere contrari a questa affermazione. Ingrato, perché è ben evidente che la paura è una cosa negativa, una passione triste, e che vincerla è gran cosa. E c’è tutto un esercito di grandi uomini e di grandi donne da chiamare come testimoni: lo stesso Mandela, Falcone e Borsellino, Franca Viola: eccetera.

Siamo tutti d’accordo che vincere la paura sia una gran cosa. Ma l’audacia? Bisogna vincere la paura nella direzione dell’audacia? Cos’è l’audacia? Audere è compiere un’azione azzardata, con una sfumatura di tracotanza, di hybris. È un termine che appartiene al linguaggio militare; anzi: alla retorica militare. Memento audere sempre è motto dannunziano, e l’acronimo era un omaggio al motoscafo armato silurante (MAS). È con la retorica dell’audacia, dell’osare, dell’impresa azzardata ma eroica che da secoli si mandano i soldati a morire in nome di una causa più grande. E certo, bisogna vincere la paura. Dove non arriva la retorica, funzionano le droghe, di cui s’è fatto largo uso durante la seconda guerra mondiale.

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Cosa resta della Conoscenza

Dopo aver letto il mio post precedente un amico mi ha chiesto su quale base si possano credere cose simili. Come sappiamo che il fondo della realtà è l’Uno? Come sappiamo che dietro il manifestarsi delle cose c’è la Natura? E come sappiamo che dietro il nostro io c’è lo Spirito?

Il Samkhya, il più antico sistema filosofico indiano, risponde che lo sappiamo attraverso la conoscenza analitica del reale. Il testo fondante della scuola, il Samkhyakarika di Ishvarakrishna, si sofferma sul valore dell’inferenza, che insieme alla testimonianza dei sensi e alla rivelazione degna di fede di consente di conoscere l’essenza della realtà. Non sono sicuro però della solidità di tutti i passaggi logici – così come non sono sicuro della solidità dei passaggi logici che portano Platone ad affermare l’esistenza dell’Idea come realtà iperurania. Continue reading “Cosa resta della Conoscenza”

L’importanza di essere ignoranti

L0027331 MS Indic 37, Isa upanisad. Credit: Wellcome Library, London. Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0

Quand’ero adolescente raggiunsi la Conoscenza. Bastano poche parole per dirla. Noi non siamo il nostro io e la nostra mente, così come non siamo il nostro corpo. C’è un fondo, un al di là di quello che crediamo di essere, che è la nostra natura autentica. Attingere questo al di là è lo scopo della vita. E questo al di là è, al tempo stesso, il fondo dell’essere, che potremmo chiamare Dio. E questo fondo è Uno. La profonda unità di tutto. Limai una medaglietta, vi scrissi “Tutto è uno” e me la misi al collo. Non avevo altro da sapere.

Giunsi a questa Conoscenza dopo aver letto un po’ di testi di filosofia indiana. Stabilirmi, almeno con l’immaginazione, in questo altrove da me mi dava un senso di liberazione che rendeva quasi tollerabile il tempo sprecato a vegetare tra i banchi. Ma, anche, mi isolava terribilmente. Perché io ero quello che sapeva, gli altri vagavano nell’ignoranza. Mi rese, insomma, insopportabilmente arrogante.

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Come fare un blog di insuccesso

Questo blog esiste ormai da molti anni ed è riuscito nel tempo a mantenere un numero di visitatori meravigliosamente basso: in media meno di dieci al giorno. Uno di questi sparuti visitatori qualche giorno fa mi ha fatto notare che il mio blog non è più quello di una volta: troppe cose tecniche e poca poesia. Il nostro lettore è deluso, e questo vuol dire che probabilmente il numero di visitatori diminuirà ulteriormente. Attendo con ansia il giorno in cui il contatore dei visitatori sarà stabile sullo zero. E il mio blog avrà raggiunto la sua entelechia.
Intanto, forte di questa esperienza, sento di poter offrire una guida minima alla creazione di un blog di insuccesso. Continue reading “Come fare un blog di insuccesso”

Siena e i fronteggiamenti

Non ho mai amato andare dal barbiere. Vuol dire stare davanti a uno specchio per molto tempo, e per me gli specchi sono una tortura. Da ragazzino attenuavo l’ansia andando da Franco, il barbiere all’angolo, che era quasi uno di famiglia. E quasi uno di famiglia era Adolfo, il suo garzone di bottega. Abitava proprio di fronte a casa mia ed eravamo cresciuti insieme.

Adolfo è morto a vent’anni. La sua fidanzatina gli riferì un giorno che un tale l’aveva infastidita. Lui fissò un appuntamento con il tale e, come chiedeva la cultura del luogo, si presero a botte. Fu colpito da un pugno in un occhio. Perse i sensi. Morì qualche ora dopo in ospedale. Per quello che ne so sua madre – sono passati decenni – veste ancora di nero.

A Siena una sentenza che i giornali definiscono storica ha assolto ventisette contradaioli per la rissa in piazza alla fine del Palio di agosto del 2015; altri tre contradaioli sono stati condannati a multe dai seicento euro in giù. Non è possibile conoscere la motivazione della sentenza, che sarà depositata tra novanta giorni. Ma intanto i senesi – o meglio: i contradaioli – esultano. Sicuri che quella sentenza avalli il loro teorema: quelle in piazza durante il palio non sono volgari risse, ma nobilissimi fronteggiamenti, che fanno parte della cultura e dell’identità senese, e che come tali sono incensurabili; e processare dei contradaioli che si picchiano vuol dire, pertanto, attaccare Siena. Continue reading “Siena e i fronteggiamenti”

Potere, autorità e autorialità

Un altro mondo è possibile? di Giuseppe Cognetti (Rubettino, Soveria Mannelli 2023) è una riflessione sulla possibilità di un nuovo umanesimo di quello che è uno dei pochissimi filosofi interculturali italiani. Un libro pieno di spunti interessanti, sul quale probabilmente tornerò. Intanto però una nota a margine su un tema che mi sta particolarmente a cuore.

Scrive Cognetti:

Potere (archetipo maschile) è capacità di fare, risiede in chi ne è detentore (individuo, gruppo, Stato), si avvale della forza per imporsi; autorità (da augeo, far crescere, archetipo femminile) è conferita, riconosciuta da altri, in una o più qualità (età, saggezza, merito, sapere), fondate nell’essere più che nell’avere e che generano valore, prestigio, autorevolezza. (pp. 77-78)

La definizione del potere come capacità di fare mi pare corretta. È evidente tuttavia che se questo è il potere, esso è tutt’uno con la vita. Vivere è avere potere. In primo luogo, s’intende, il potere di mangiare e di bere, senza il quale non potremmo sopravvivere; poi il potere di difendersi dalle intemperie e dai pericoli. In una società avanzata a queste possibilità essenziali se ne aggiungono altre, in genere racchiuse nell’idea di libertà, la cui essenza è il potere stesso: scegliere il proprio partner, ad esempio, o poter sostenere pubblicamente le proprie idee. Molte di queste cose richiedono in effetti una forza. In una società che neghi alle donne le possibilità cui ritengono di aver diritto, ad esempio, esse sono costrette a ricorrere alla forza: devono forzare la società al riconoscimento. Lo stesso Cognetti poco oltre parla della “lotta per il senso della propria vita” di curdi, palestinesi, sikh, donne iraniane e afghane (p. 86).

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Peppe Sini, la nonviolenza e l’anello debole

Peppe Sini replica al mio La nonviolenza si è fermata, su “MicroMega”, protestando. Nel mio articolo ho scritto che lui, Sini, nell’intervento che ho preso in esame e da cui sono partito per ragionare della nonviolenza italiana, “evita accuratamente di parlare di Putin”. No, protesta Sini, questo non è vero. Perché già nella terza riga ha scritto che occorre “continuare a denunciare la criminale follia di chi la guerra ha scatenato”. Il problema è, appunto, che parla di chi la guerra ha scatenato, ma non fa il nome di Putin. Come se solo nominarlo fosse difficile. Mentre poco dopo dice:

Con l’azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale imporre ai governi europei di mettere il veto ad ogni iniziativa della Nato, l’organizzazione terrorista e stragista di cui i nostri paesi tragicamente fanno parte: paralizzare immediatamente i criminali della Nato occorre, e successivamente procedere allo scioglimento della scellerata organizzazione.

La Nato dunque è scellerata, terrorista e stragista. Perché mai un lettore non dovrebbe pensare che è questa organizzazione criminale, nell’analisi di Sini, ad aver scatenato la guerra?

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Quel che resta della nonviolenza

Su MicroMega intervengo ancora sulle posizioni della nonviolenza italiana di fronte alla guerra in Ucraina. E mi chiedo intanto che fare della nonviolenza. Che fare, cioè, di oltre vent’anni di studi e, forse, di passione.

La mia porta d’accesso a ciò che chiamiamo nonviolenza è stato Aldo Capitini. Era l’inizio degli anni Novanta. Trovai per la prima volta il suo nome in un numero di una rivista dedicato agli irregolari della filosofia italiana in cui cercavo un articolo su Giuseppe Rensi. Filosoficamente, mi pare che Capitini cominci in effetti dove finisce Rensi. Il filosofo genovese giunge al dramma del contrasto tra la nostra urgenza morale e l’evidenza di un mondo che non è che atomi e vuoto; di qui la semplice constatazione del suo Testamento filosofico (“Atomi e vuoto e il Divino in me”), ma anche l’ipotesi azzardata della Morale come pazzia: se c’è qualcosa là fuori oltre agli atomi e al vuoto, allora la mia urgenza morale non sarà stata follia. Una conclusione che mi sembrò – e mi sembra – un passo indietro rispetto alla posizione, atea eppure spirituale, delle Lettere spirituali: posizione di attraversamento dell’ego, che è la costante del pensiero di Rensi. Capitini risolve quel contrasto nell’orizzonte di una filosofia pratica. Non è tutto atomi e vuoto. C’è dell’altro: c’è la compresenza, un mondo in cui ogni vita resta, in eterna, affratellata ad ogni altra vita. Ma – è qui l’originalità di Capitini, ma anche ciò che l’ha condannato all’incomprensione – questo mondo propriamente non esiste. Non è tra le cose verificabili, semplicemente presenti; non è una realtà metafisica, un mondo al di sopra del nostro in cui credere; e non è nemmeno una dimensione futura, un Regno che certamente si realizzerà. È il mondo al quale qui e ora apparteniamo con la scelta morale di non uccidere, anzi con l’atto rivoluzionario di ribellarci alla logica stessa del reale, che è quella della distruzione universale.

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La miseria di essere Sua Santità

La bizzarra – no: disgustosa – uscita del Dalai Lama, che chiede a un bambino di succhiargli la lingua dopo averlo baciato, può apparire come l’evidente manifestazione del decadimento mentale di un uomo in età particolarmente avanzata o la dimostrazione che una certa corruzione morale esiste anche nel buddhismo, che da noi, chissà perché, gode di buona stampa. Non così per i fedeli italiani, che essendo dei convertiti hanno, dei convertiti, lo zelo e il fanatismo (ah, Papini!). Uno di questi spiegava su un social che il Dalai Lama, bontà sua, è come un bambino, e quel gesto va dunque considerato nulla più che un gioco infantile. Infantile: e dunque innocente. Forse perfino poetico.

M’è tornato in mente, leggendo questa libera interpretazione, un passo del Vangelo di Sri Ramakrishna:

I segni di chi ha visto Dio sono questi: Il suo comportamento è come quello di un bambino. A volte appare come uno spirito impuro. (Il Vangelo di Sri Ramakrishna, Edizioni Vidyananda, Assisi 1993, p. 122.)

Il nostro Dalai Lama, benché privo di Dio, non sarà per caso uno di questi santi folli, di questi uomini che, avendo oltrepassato l’io, si sono lasciati alle spalle la distinzione tra il bene e il male? Può essere. Ma a farne le spese è stato un bambino, e questo, per noi che siamo al di qua, è un male.

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L’educazione finanziaria

Su MicroMega Emilio Carnevali, docente di economia alla Northumbria University, ha avviato una discussione sulla necessità di introdurre in tutte le scuole superiori italiane l’insegnamento di Lineamenti di economia e finanza quale strumento indispensabile per esercitare una vera cittadinanza democratica. Carlo Scognamiglio è intervenuto presentando alcune perplessità. Sostenendo pienamente la proposta di Carnevali, io invece ho ragionato un po’ sulle resistenza verso una simile proposta, che va ricondotta, mi pare, a tre limiti culturali della scuola italiana: l’opposizione tra sapere umanistico e sapere tecnico-scientifico; la contrapposizione ulteriore, legata alla prima, tra saperi disinteressati e saperi pratici, in quanto tali inferiori; e la contrapposizione, quasi religiosa, tra la scuola e il mondo. Questi tre pregiudizi rendono improbabile una apertura della scuola italiana a un campo del sapere che appare al tempo stesso tecnico-scientifico, pratico e mondano.

Due libri di Milo De Angelis

Il De Rerum Natura di Lucrezio tradotto da Milo De Angelis (Mondadori, Milano 2022), uno dei maggiori poeti italiani, era da tempo nell’elenco dei libri da leggere. È arrivato ora il suo tempo, insieme alla traduzione dei primi quattro libri del poema di Roberto Herlitzka (La nave di Tesero, Milano 2019). Quest’ultima è un’operazione singolare: un Lucrezio non solo tradotto in endecasillabi (come nella classica traduzione di Alessandro Marchetti), ma reso con un linguaggio anacronistico, bisognoso a sua volte, si direbbe, di traduzione. Per averne un saggio:

Ora io debbo precorrere a quella
che fingne altrui percossa in tal dettame
anzi che da ’l mio vero ti disvella. (I, 502-504)

La traduzione di De Angelis è agli antipodi. La sua lingua è chiarissima, elegante, piana. Lucrezio è reso leggibile come capita in poche altre edizioni italiane. Ma appare una traduzione più in prosa che in poesia. I versi sono talmente lunghi, da costringere il povero impaginatore della Mondadori a fare salti mortali con la crenatura. Continue reading “Due libri di Milo De Angelis”

La scuola è antifascista?

“La scuola è antifascista”, certo. Ma orienta le donne verso alcuni indirizzi e i poveri verso altri, e ritiene che alcuni saperi siano più importanti di altri. E questa è l’eredità del fascismo.

Qualche settimana fa in una mia classe abbiamo fatto un seminario sulla libertà. Cos’è la libertà? Cosa vuol dire essere liberi? Abbiamo cominciato con molte certezze, ci siamo lasciati con tanti dubbi. La libertà di movimento, ad esempio, è una libertà fondamentale, e non si può considerare libera una persona cui sia negata. Ma in un regime chi è più libero, chi ha libertà di movimento perché si adegua o chi finisce in galera perché combatte il regime? Chi era più libero, Gramsci in carcere o uno dei tanti italiani che avevano la tessera del PNF per necessità familiare? È una domanda retorica. Meno retorica è un’altra domanda. La libertà di fare del male è o non è una libertà? Va difesa? Sì può negare la libertà per garantire la sicurezza? Ma poi, alla fine, siamo in grado di dare davvero una definizione di libertà?

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Denise e la ziganofobia

Ancora una volta si preleva il dna ad una ragazza rom nell’ambito delle indagini sulla scomparsa di Denise Pipitone. Sulla base di un inaccettabile pregiudizio.

Denisa e Denise sono due nomi molto simili. Questa è un’evidenza. I Rom rubano i bambini. Anche questa è un’evidenza. Sulla base di queste due evidenze gli inquirenti che indagano sulla scomparsa di Denise Pipitone stanno seguendo da anni la pista rom.

Nel 2021 venne sottoposta al test del dna una ragazza rom di nome, appunto, Denisa, che viveva in un campo in Calabria. Il risultato fu negativo. Ora hanno scovato un’altra Denisa, questa volta in un campo di Roma, e l’hanno ugualmente sottoposta a test del dna. I cui risultati sono in grado di anticipare con assoluta certezza: negativi.

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Un anno di guerra

Un anno dopo l’inizio della guerra in Ucraina sono evidenti la catastrofe della Russia e la bancarotta del pacifismo.

Un anno di guerra contro l’Ucraina. Trecentosessantacinque giorni di stragi, distruzioni, sequestri di bambini ed altre atrocità. Un anno insanguinato per l’Europa e il mondo. Più di un secolo indietro per la Russia. Perché il danno che criminali come Putin e Kirill stanno facendo alla Russia è di gran lunga maggiore del danno che stanno facendo all’Ucraina.

Più di cento anni indietro. L’impressione è che la Russia, non riuscendo a fare i conti con il suo passato comunista, abbia deciso semplicemente di rimuoverlo. E di tornare, dunque, a quello che c’era prima. Seguendo il dibattito attuale in Russia – che ha, soprattutto nelle televisioni, tratti di vera e propria follia di massa – l’impressione è di ritrovarsi catapultati nella Russia di Dostoevskij. E di sentir parlare il suo idiota, quel principe Myskin che affermava: ’Bisogna che il nostro Cristo risplenda a difesa contro l’Occidente, un Cristo che noi abbiamo conservato e che loro non conoscono!” Il Cristianesimo ortodosso, la santità e la purezza della Russia contrapposti spiritualmente alla corruzione che viene dall’Occidente. Una spiritualità che naturalmente è destinata a degenerare nella più atroce violenza. Continue reading “Un anno di guerra”

Sanremo e il monologo impossibile

C’è un monologo che è impossibile, sul palco dell’Ariston, una differenza che non può essere socialmente riconosciuta.

sanremo 2023 monologo chiara francini
Chiara Francini a Sanremo

Qualche giorno fa parlavo, in una delle mie quinte, della globalizzazione. Degli aspetti oscuri della globalizzazione: la finanziarizzazione dell’economia, la delocalizzazione, la precarizzazione, lo sfruttamento globale. E dicevo che se c’è una lotta che identifica la mia generazione, è la lotta contro quella globalizzazione. Una lotta che abbiamo perso a Genova.

E ho chiesto loro quale sia, nella loro percezione, la lotta della loro generazione. Ci hanno pensato un attimo, poi hanno risposto senza tentennamenti: la lotta contro il razzismo e l’omofobia. Una lotta importante, in effetti. Faccio notare che sono stati fatti molti passi avanti. Obiettano che non è abbastanza. Hanno ragione.

Non ho visto Sanremo. Affermazione che equivale oggi ad una dichiarazione di snobismo, che forse riuscirò ad attenuare precisando che ho un figlio di poco più di un anno, e per lo più si arriva a sera con una stanchezza che non si concilia troppo con gli orari di Sanremo. I giornali e i social network hanno avuto però la premura di informarmi su tutto quello che è accaduto a Sanremo. Un cantante ha preso a calci delle rose, in un impeto di rabbia che forse era preparato e forse no; un altro cantante ha baciato sulla bocca, con un certo trasporto, un tale davanti a sua moglie; la moglie di questo tale ha tenuto un monologo durante il quale ha parlato della sua sensazione passata di non essere abbastanza. E non è stata l’unica a tenere un monologo: una campionessa sportiva dalla pelle nera ha parlato della sua condizione di donna che è cresciuta sentendosi diversa, mentre un’attrice ha parlato delle donne che non sono madri. Continue reading “Sanremo e il monologo impossibile”

Gianni Vattimo e gli avvoltoi

Il tribunale di Torino ha condannato per circonvenzione di incapace Simone Caminada, compagno del filosofo Gianni Vattimo. Ora, dichiarare incapace di intendere un filosofo significa, con ogni evidenza, decretarne la morte intellettuale: perché un filosofo incapace di intendere è un filosofo morto. Non ho però informazioni che mi consentano di criticare la decisione dei giudici. Spero solo che su di essa non abbia pesato qualche pregiudizio gerontofobo o, peggio, omofobo.

La vicenda mi ha fatto tornare alla memoria una cosa. Dopo la laurea lavorai, tra le altre cose, come segretario di uno scrittore e filosofo che aveva esattamente l’età che ha oggi Vattimo. Fragile, certo: perché era anche cieco. Dipendeva totalmente dalle persone che si prendevano cura di lui: il ragazzo che gli sbrigava tutte le faccende, la cuoca, chi restava a dormire con lui. E io, che gli leggevo libri e giornali e lo aiutavo a scrivere. Nessuno, per quello che ne so, ha tentato di raggirarlo. Tutti, piuttosto, sopportavano pazientemente le sue sfuriate: perché il filosofo non aveva un carattere facile.

Una mattina lo trovai agitato. Aveva appena cacciato qualcuno di casa, mi dissero. E fu lui stesso a spiegarmi la cosa. Erano venuti dei tali di non so quale ente religioso. Gli avevano fatto presente che la morte incombe su di tutti, e a ottantasette anni incombe parecchio, e bello sarebbe lasciare questo mondo compiendo un’opera meritoria. Opera che potrebbe consistere, ad esempio, nell’intestare tutti i propri beni ad un ente religioso come il loro. Avvoltoi, li chiamò il vecchio, lucidissimo filosofo. E mi spiegò che non erano i primi e non sarebbero stati gli ultimi.

Scoprii così che esiste un piccolo esercito di emissari benefici che prendono d’assalto anziani più o meno soli e più o meno facoltosi con l’intento di convincerli a fare quest’ultima opera di bene, alleggerendo la coscienza e il patrimonio. E non sono a conoscenza di giudici che abbiano decretato, in casi simili, che c’è stata circonvenzione di incapace, facendo leva sulla solitudine, sulla fragilità legata all’età e sulla paura della morte.

Come amore confonde i sentieri

Mi nascondevo in fondo alla mia casa
in fondo alla mia casa a pianoterra
in fondo alla cucina in cui dormivo
insieme a mio fratello e mia sorella
mi nascondevo e guardavo la porta
col cuore che batteva che batteva
e gli dicevo mio cuore ti prego
non battere così ci troverà
ma giungeva il rumore ed era come
se il mondo sospendesse il suo respiro
e m’inghiottisse giù con quella mano
orribile che apriva la finestra
e mi prendeva in fondo alla cucina
e più non ero me più non avevo
un posto al mondo in cui dire io sono
o pronunciare la parola ancora
o pronunciare la parola madre
nel buio stavo solo con me stesso
preso da quella mano che era mia.

Una volta mi presero – ero ancora
in fondo alla mia casa a pianoterra –
e mi portarono in un altro fondo
una caverna questa volta: ed umida
e mi tennero lì per qualche tempo
finché qualcuno più attento degli altri
prese ago e filo e mi cucì le palpebre.

Mi piaceva la vita con le palpebre
cucite avevo un mondo dentro me
ed era meglio di via Tiro a Segno
crescevano giganti i tulipani
e i soldati crociati li coglievano
e tornavano a casa raccontando
di come amore confonde i sentieri
e riconduce ogni cosa all’origine.

I fantasmi di Alfredo Cospito

La “via immaginifica alla distruzione dell’esistente” di Alfredo Cospito e della Federazione Anarchica Informale è pura, masturbatoria esaltazione della violenza.

Dirò subito quello che penso della questione del 41 bis. Poiché è ormai evidente che Alfredo Cospito non chiede di essere sottratto personalmente al 41 bis, ma digiuna per ottenerne l’abolizione, la questione è se la sua richiesta, la sua lotta, sia giusta o meno. E a me la risposta appare chiara: il 41 bis non è compatibile con la democrazia. Nessun essere umano può essere sottoposto a quella forma di carcerazione senza che se ne violi la dignità. Continue reading “I fantasmi di Alfredo Cospito”

Il dovere di essere transculturali

I grandi capolavori del pensiero (e della poesia, della letteratura, dell’arte) appartengono all’umanità ed hanno uno straordinario valore formativo. Per questo abbiamo il dovere di farli conoscere agli studenti.

Nell’ultimo numero di “Educazione Aperta” è uscito un mio saggio piuttosto lungo su perché e come inserire il pensiero cinese nella didattica della filosofia. È un tema, quella della didattica comparata e transculturale della filosofia, di cui mi sono occupato in un altro saggio comparso sulla stessa rivista; mi piacerebbe raccogliere i due saggi in volume, integrandoli con uno studio sulla didattica della filosofia indiana. Sto intanto lavorando a un sito – Monimos. Mondi filosofici – con il quale intendo offrire con licenza aperta materiali per una simile didattica non eurocentrica.

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Gli oscuri intenti di Bernardo Zannoni

Una faina. La vita di una faina. Un romanzo sulla vita di una faina. E non un romanzo qualsiasi: un romanzo che ha vinto il Campiello.

Come si racconta la vita di una faina? Bisognerà provare ad essere una faina. Chiedersi cos’è essere un animale. Qualcosa alla Uexküll, ma con in più il talento del narratore. Bello!

Questo pensavo, più o meno, apprestandomi alla lettura di I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni (Sellerio, Palermo 2021), con le migliori aspettative: sia perché, appunto, ha vinto il Campiello, sia perché se ne dice un gran bene.

Mi trovo subito alle prese con una faina che si chiama Archy. Perché Archy? Sarà perché le faine vivono negli Stati Uniti? Ma no. Il loro habitat è europeo e mediorientale. La nostra faina avrebbe più realisticamente potuto chiamarsi Peppino. Ma soprattutto: che faina è una faina che ha un nome? Per giunta parla. E dorme in un letto. Gli animali di Zannoni hanno il comodino e la lampada, e quando occorre chiamano il medico: e dunque no, niente Uexkül. Nessuno sforzo di essere una faina. Ma nemmeno ci si muove in un mondo disneyano: la cosa diventa chiara oltre ogni possibilità di equivoco quando la mamma di Archy fa saltare un occhio alla sorella con una zampata. Continue reading “Gli oscuri intenti di Bernardo Zannoni”

L’arte dei piaceri

Esistono due forme di piacere: il piacere dei cercatori di piacere e il piacere dei negatori del piacere. Il piacere dei primi è quello dell’acqua e del vino, del cibo e della musica, della lettura e del pensiero. I negatori del piacere hanno qualcosa di più alto, in genere qualche forma di dovere, e in nome di questo più alto negano, sdegnati, i piaceri. Il piacere in questo caso non è estetico, legato alla sensazione, ma nasce dalla percezione di sé in rapporto all’altro. Il negatore del piacere qui ed ora trae il suo piacere dal sentire di avere un posto nella società, o nel cosmo, perfino; di essere un soggetto riconosciuto. Per ottenere questo piacere più alto, o preteso tale, il nostro soggetto deve farsi seduttore: dell’altro o di Dio stesso. Può godere di sé solo nella misura in cui l’altro cede alla sua seduzione. E quando ciò riesce, potrà riposare nel suo io come in un nido. E godere di questo. Continue reading “L’arte dei piaceri”

ChatGPT e la pulizia del water

Il meritevole ministro dell’Istruzione e del merito, chiamato ad esprimersi su chatGPT, evita la condanna secca e riconosce che “Può essere impiegata per aiutare gli insegnanti a personalizzare l’apprendimento, ad adattare i contenuti in base alle attitudini individuali degli studenti, a monitorare i loro progressi e a fornire informazioni su come migliorare il loro rendimento”, pur aggiungendo che “L’intelligenza artificiale non può dunque soppiantare l’insegnante né marginalizzarne il ruolo, che è decisivo in tutti i gradi di scuola, in particolare nella primaria”. È singolare il modo in cui i giornali hanno riportato la notizia: alcuni hanno enfatizzato la prima parte, altri la seconda; per alcuni Valditara dice sì all’intelligenza artificiale, per altri afferma soprattutto che il docente è insostituibile.

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Un altro mondo (virtuale) è possibile

Se dovessi sintetizzare in poche parole il mio ideale politico-sociale, direi più o meno questo: un sistema in cui gli Stati siano sostituiti da ma un insieme di città libere di federarsi con altre città, di stringere accordi commerciali e di creare insieme infrastrutture tecnologiche; ogni città sarà governata secondo il criterio della massima partecipazione possibile al potere.Sono ben consapevole che una simile realtà non ha molte speranze di realizzarsi, almeno a breve, anche se nel Rojava i curdi stanno facendo un tentativo coraggioso di praticare il municipalismo libertario di Murray Bookchin, filtrato dalla lettura di Abdullah Öcalan. Siamo però nel terzo decennio del secondo millennio, e la realtà che viviamo non è più solo la cara vecchia dimensione fisica. Abitiamo due mondi paralleli: il mondo fisico, reale (ma cosa è reale?) e quello virtuale. E a quanto pare – se le speranze di Zuckerberg non saranno deluse – nel futuro prossimo questo secondo mondo sarà sempre più presente nelle nostre vite. È anche, se non soprattutto, ormai, alla luce del mondo virtuale che dobbiamo saggiare la plausibilità dei nostri ideali.

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Mi son dannato l’anima a cercare

Kaasher natati et-lebi lada’at hokmah welirot etha’inian asher na’asah ‘al-ha-aretz ki gam baiom ubalailah shenah be’enav roeh. Weroiti et-kol-ma’asah haelohim ki lo iukol haadam limzo et-hamahaseh asher lasah tahat-hashemesh beshel asher ‘ahamol haadam lebaqesh welo imza wegam im iomer hehokam lada’at lo iukol limzo.

Mi son dannato l’anima a cercare
conoscenza, saggezza, il senso ultimo
di tutto questo affare sulla terra
che ci toglie il riposo notte e giorno.
Ed ho visto che le opere di Dio
tutto quello che accade sotto il sole
l’uomo non può comprenderlo: e chi dice
d’esser sapiente ed afferrare il mondo
più degli altri è smarrito ed impotente.

Qohelet, 8, 16-17. Traduzione di Antonio Vigilante.

Trema lacrime il bimbo solitario

Trema lacrime il bimbo solitario
se il ventre abituale cede al buio
e gli germina il fiato d’altri mondi:
una vecchia che striscia minacciosa
sulla lucida schiena d’un serpente
seguita da un corteo di spiritelli
corrosi da vermetti incandescenti.
Trema lacrime l’uomo solitario
preso alla gola da tristezza e angoscia
e vede e teme minacce di tenebra
non più vere di quelle d’un bambino.
L’anima nostra soffre di terrore:
non bastano a guarirla il giorno e il sole.
Si studi la natura, si contempli
la verità delle sue leggi eterne.

Lucrezio, De Rerum Natura, III, 87-93. Traduzione di Antonio Vigilante.

La paura e il potere

La prima volta che ho tradotto questi versi avevo diciassette anni. Era un esercizio: tradurre più cose possibile in endecasillabi, perché volevo che l’endecasillabo mi venisse naturale come il respiro. E tradussi Lucrezio (il secondo e il terzo libro per intero), e Orazio, e Baudelaire. Ed altro ancora. Credo di aver imparato da questi versi di Lucrezio più che da qualsiasi testo di filosofia. Ho imparato che dietro la maschera del potere c’è la miseria umana; che il potente, quasi non-uomo per la sua arroganza, per il ghigno che disgusta ed indigna, è in realtà un poveraccio, corroso dentro dal cancro del terrore. Non si possono leggere forse questi versi straordinari come un ritratto della classe politica della disgraziata Italia di oggi? Non li conosciamo, quei gusci vuoti che “ridono ai funerali dei fratelli” (”Io stanotte ridevo dentro al letto”)? L’invito a provare compassione per questa gente sembra una provocazione. Ma la compassione nasce da sé, appena ci si sofferma a considerare la terribile nudità di questi uomini e di queste donne, sospesi tra il terrore e la follia.

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La scuola italiana nello specchio di quella americana

Sarebbe bello se sulla porta di ogni aula scolastica ci fosse scritto “Qui nessuno viene lasciato indietro”. Mi sembra una sintesi di quello che deve – e che può, mi piace sperare – essere una scuola perfino più efficace dell’I care di Barbiana. Purtroppo non basta una formula suggestiva per trasformare realmente la scuola. No Child Left Behind (Nessun bambino lasciato indietro) è, come è noto, il nome dell’atto del 2001 dell’amministrazione Bush jr con il compiuto dichiarato, appunto, di conciliare uguali opportunità ed elevati standard scolastici. E che invece, come mostra Andrea Mariuzzo nel recente e utilissimo Scuola e politica negli Stati Uniti 1980-2020 (Morcelliana, Brescia 2022), di bambini ne ha lasciati indietro parecchi. E, come è facile immaginare, a restare indietro sono stati quelli socialmente fragili.

L’atto del 2001 è stato l’esito di un lungo dibattito, stimolato in modo decisivo dal rapporto del Congresso A Nation at Risk, che nel 1983 evidenziava la mediocrità del sistema scolastico statunitense e in particolare il calo costante delle competenze di base degli studenti. Nell’analisi conservatrice un simile disastro era la conseguenza della concezione progressista, deweyana della scuola, che aveva favorito le competenze sociali a discapito di quelle disciplinari. Per rimediare occorreva imporre alle scuole un nucleo di competenze comuni, accertate periodicamente con dei test, e legare lo stipendio dei docenti ai risultati dei loro studenti. Ed è questa la logica sottostante all’atto del 2001.

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Un figlio

Tra qualche giorno mio figlio Ermes compie un anno. M’ero ripromesso di scrivere molto: di lui, ma soprattutto a lui. Di parlargli nelle mie pagine di diario, avviando un colloquio che ci accompagnerà per tutte le nostre vite. Mi accorgo invece di aver scritto poco; quasi nulla. E per lo più annotazioni per così dire pediatriche: il peso, la temperatura, la crescita.

Perché? Perché sono stato troppo impegnato a cambiargli il pannolino, a inseguirlo per casa quando ha cominciato a gattonare, a cullarlo sperando che si addormentasse. E a giocare con lui. E questo mi è bastato.

Ora sono le nove meno un quarto del mattino. Sta ancora dormendo. Ho qualche minuto, e qualcosa provo a scrivere. Smetterò appena lo sentirò piangere: perché piange sempre quando si sveglia solo nel nostro letto.

Dunque: un figlio. Qui, sulle mie gambe. Gli tengo le mani, gli canto “Ci son due coccodrilli…”. Poi con le mani impersono questi due coccodrilli. La mano destra è Cocco, la mano sinistra è Drillo. Cocco e Drillo parlano tra di loro. Poi litigano. Cocco divora Drillo. Ermes guarda allibito. Poi arriva l’orangotango: e allora bisogna battersi forte il petto. Ma il meglio viene con i due piccoli serpenti, che strisceranno sul suo corpicino, facendolo ridere a crepapelle.

Eccolo qui, Ermes. I suoi occhi enormi, le sopracciglia lunghe e perfettamente disegnate, i capelli folti. La sua espressione attenta, in qualche modo misteriosa, quando…

[Si è svegliato, è sceso dal letto e ha gattonato per la camera da letto piangendo. Bisognerà che continui al prossimo sonnellino.]

Dicevo: a volte c’è un’intensità particolare nel suo sguardo. Come se andasse oltre o altrove. O meglio: insieme andassimo oltre e altrove.

Mio figlio, un figlio. Cos’è?

Quando è nato ho passato un momento difficile. Perché, mi chiedevo, mettere al mondo un figlio? Prima di farlo bisognerebbe essere certi di saper rispondere alla domanda: perché viviamo? Se si mette al mondo un figlio senza sapere perché si vive si dà il proprio contributo a una sorta di cattivo infinito.

So che la questione si risolve facilmente. Il senso appartiene alle cose del mondo. C’è un richiamo universale, x rimanda a y, x trova in y il suo senso. Ma il mondo, l’insieme delle cose, non si lascia trattare così; e ugualmente la nostra vita. Per cui parlare di un senso della vita o di un senso del mondo vuol dire semplicemente applicare all’insieme delle cose una categoria che vale solo per le singole cose.

Soluzione facile, appunto: e dunque insufficiente. Perché la domanda resta. E con essa la sofferenza, la ferita dell’assurdo.

Un figlio. Quello che so, grazie ad Ermes, è che una vita può avere valore assoluto. So bene che qualsiasi vita ha un valore assoluto. Ma è una posizione per così dire teorica. Una di quelle cose che sappiamo, ma non sappiamo davvero. Qui c’è ora, invece, una vita che ha per me un valore realmente assoluto. Un valore di fronte al quale tutto cede. Se Dio ci fosse, non avrebbe per me un valore maggiore. Chi sostiene, come Giovanni della Croce, che le creature sono briciole cadute dalla mensa di Dio, non sa cos’è un figlio. E forse nemmeno cos’è l’amore. E cos’è Dio.

Un essere che ha valore assoluto. E intorno a lui un mondo che quel valore lo assedia, in cui la vita è di continuo prodotta e distrutta, come se a contare qualcosa – forse – fosse il dinamismo dell’insieme, non certo le piccole esistenze che quel dinamismo di continuo crea e distrugge.

Riconoscere dunque l’esistenza di una vita dotata di valore assoluto pone un problema. Che dire di un mondo che nega questo valore? Per i credenti quel mondo non è che apparenza; al fondo c’è un Dio buono che preserva ogni vita, tranne quelle che saranno condannate dalla loro malvagità – o dalla loro mancanza di fede. Una soluzione che in realtà aggiunge violenza a violenza: la violenza religiosa a quella della natura.

La natura, il nome che diamo al modo di funzionare della vita sul nostro pianeta, appare sinistra. Le leggi del mondo sono feroci. E possiamo adattarci ad esse, sottometterci, abituarci a rinunciare a noi stessi, vedendo in ciò la più profonda saggezza. Ma non quando abbiamo un figlio. Posso accettare la mia morte, ma non la morte dell’altro, dal momento in cui ho un figlio.

Un anno fa ero impegnato in una rilettura di Spinoza. Uno dei miei autori; e, con David Hume, il più orientale dei filosofi occidentali. Avvertivo la forza, la potenza, anche la bellezza di una vita che si ponga nell’ordine della natura, sentivo il respiro di una vita che sappia attraversarsi e deporsi nel seno delle cose. Ma non più ora che ho un figlio. Posso attraversare il mio io, svuotarlo e abbandonarlo come un guscio vuoto: ma non quello di mio figlio.

E dunque: vada al diavolo Spinoza. Ho un figlio, e dico no alla natura, all’origine, al principio.

Ermes è Dio della soglia, del confine e del passaggio. E così è. Sta tra i mondi. Questo e quell’altro. Il mondo in cui i fiori appassiscono e i rami cedono all’inverno e quello in cui ogni fiore è eterno. E io sto con lui, grazie a lui, attraverso lui nella ribellione dolce di questo altrove. “E l’altrove è gioia, colori, pace e amore amore amore”, dice Lisi.

Senza fondo

L’essere hegeliano è come qualcuno che si svegli un giorno in una stanza, senza sapere nulla di sé o del mondo. Chi sono io? Perché sono qui? Perché sono? Questo essere così tragicamente gettato in sé stesso cerca disperatamente per la stanza tracce di sé: una foto, una pagina di diario. Qualcosa che gli dica chi è, da dove viene, dove va. E lo trova, dice Hegel. Andando fuori, anzi internandosi, dice: e pare di vederlo sorridere, mentre lo scrive. Trova un’essenza che è il suo passato, ma un passato non temporale. Wesen, gewesen.

Cosa troviamo noi, sul cui dramma è esemplato quello dell’essere? I più pigri, un fondamento, un’origine — un’essenza, in effetti. Dio, da cui proveniamo. Quelli che non si accontentano di soluzioni illusorie frugano in un intrico di atomi, di cellule nervose, di sinapsi. E scoprono che ciò che è più intimo, ciò che è più proprio, il sé che si sta interrogando e sta cercando ansiosamente la sua essenza, la sua origine, il suo fondamento e la sua ragione, non è nulla di reale; nulla che sia oltre qualche processo fisico, l’azione di qualche meccanismo fisico-chimico-elettrico. Il sé, alla ricerca di un fondamento, vede con sconcerto che il suo stesso interrogarsi è illusorio, perché illusorio è lui stesso in quanto interrogante. Trovata chiusa la porta dell’essenza, è ricacciato verso la prima opposizione: essere, non essere. La prima, tragica consonanza: essere è non essere. E nel fondo del tragico, sente, è a volte la gioia.