Calcio per strada (www.maidirecalcio.com) |
Editoriale per Stato Quotidiano.
Blog di Antonio Vigilante
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Tutto è merce, tutto si può comprare e vendere, anzi tutto si deve comprare e vendere. Anche gli esseri umani.
Tutto, in quanto merce, è superficie, apparenza, vetrina. Vivere vuol dire stare nella vetrina ed attrarre i clienti: sedurre, portare con sé. Nessuno è escluso dal gioco universale della seduzione. Ad un corpo non è concesso di diventare vecchio. Occorre che si mantenga sempre giovane, perché non cessi di sedurre. Anche a costo di diventare ridicolo. Donne di quarant’anni si gonfiano le labbra a dismisura, uomini di settant’anni ottengono dalla chirurgia un volto finto in cambio delle loro rughe autentiche. Questo si chiama, oggi, bellezza: il tentativo disperato, triste, patetico di sedurre, di costringere a volgere lo sguardo, di imporre la propria presenza. Una degenerazione della bellezza e del suo senso. Se la bellezza autentica porta sempre con sé una scheggia di sofferenza con la quale ci ferisce e ci commuove, dandoci il presentimento di un altrove, la bellezza sguaiata delle merci, che spesso confina con il mostruoso, tiene avvinti al qui ed ora, è la negazione di ogni trascendimento, avanza una arrogante pretesa di appagamento totale. Leggi tutto “Educare nella società delle merci”
George Carlin |
Una delle prime cose che un bambino impara a scuola – se non l’ha prima imparato in famiglia – è che le parole non sono tutte uguali: esistono parole e parolacce, parole buone e parole cattive. Le prime vanno bene, le seconde no. Un bambino può e deve chiedere alla maestra di andare in bagno; non può e non deve chiederle di andare al cesso. Se lo fa, la maestra lo richiama. Se insiste, la maestra comincia a preoccuparsi: c’è nel bambino qualcosa che non va.
In occasione della Giornata Internazionale di rom e sinti, il presidente della Camera Laura Boldrini ha ricevuto a Montecitorio una delegazione di giovani rappresentanti di queste due comunità. Il post con il quale ha comunicato l’iniziativa sulla sua pagina Facebook ha dato il via ad una serie tanto prevedibile quanto preoccupante di commenti razzistici. Ne cito solo alcuni a caso: “propongo la cittadinanza onoraria rom per la signora Boldrini. così almeno si dimetterà da italiana”; “paradossalmente difenderesti anche un rom che ti stuprasse.. è la loro cultura… o che ti rubasse in casa.. (hanno milioni proventi dai furti) e sussidi????… tu sei strana… e pericolosa… una mente perversa… se non pensassi che sei italiana… mi preoccuperei… sei una scoria un pericolo per la nazione… tu Monti Napolitano dovreste essere giudicati per ‘Alto Tradimento'”; “Siate fieri della vostra identita’….(che non avete)!! Siate fieri di quello che fate,(quindi rubare)…il 90% degli Italiani non li vuole…ma sono qua e li manteniamo pure!!! Che schifo!!!!”; “Tanto un altro paio di anni e andremo a cacciarli con i forconi!!! (intendo i nostri politici)”. Ho detto che era una reazione prevedibile.
Basta che si tocchi, o che si sfiori soltanto, l’argomento dei rom, per suscitare una catena di reazioni palesemente razzistiche. Basta attaccare i rom per essere immediatamente confortati dall’approvazione generale, così come basta difenderli per ritrovarsi disperatamente soli. Essere rom in Italia, oggi, vuol dire essere in pericolo. Esiste una tensione latente, che in qualsiasi momento può esplodere e portare alla caccia al rom. La cronaca degli ultimi anni offre non pochi esempi: dalle aggressioni in seguito all’omicidio di Giovanna Reggiani, nel 2007, ai raid punitivi dell’anno seguente a Ponticelli, Napoli, dopo un controverso tentativo di rapimento di una bambina da parte di una ragazzina rom fino all’aggressione al campo rom delle Vallette, a Torino, nel gennaio del 2012, motivato dalla violenza sessuale ai danni di una ragazzina torinese da parte di due uomini rom. Violenza sessuale mai esistita, come si scoprirà poi: la sedicenne si era inventata tutto per coprire un rapporto sessuale con un fidanzatino italiano.
Quando si parla di rom, non si va troppo per il sottile. Gli organi d’informazione sbattono il mostro in prima pagina, i cittadini indignati recuperano immediatamente fiaccole e bastoni, pronti alla strage. Nel rapporto annuale di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo un paragrafo a parte, nella sezione che riguarda il nostro paese, è riservato ai rom. Non è difficile comprendere le ragioni di questo odio così radicato e così difficilmente scalfibile. I rom rappresentano in Italia una minoranza particolarmente vulnerabile, priva di difese. Pur essendo presenti sul nostro territorio da secoli, i rom non sono ancora riconosciuti come minoranza etnica. Pur essendo stati sterminati insieme agli ebrei nei campi di concentramento, non sono inseriti nella commemorazione annuale della Giornata della memoria. Lo sterminio dei rom – il Porrajmos – è un evento rimosso dalla memoria collettiva. Non se ne parla a scuola, non ne riferiscono i libri di storia. Perché presentare i rom come vittime, ecco, non ci piace. Ci piace immaginarli colpevoli di ogni nefandezza. Ci piace credere che i rom rubano i bambini, ad esempio. Anche se uno studio fatto da ricercatori dell’Università di Verona ha dimostrato che nessuna delle quaranta accuse di rapimento di bambini a carico di rom dal 1986 al 2007 ha portato a condanne: tutte accuse infondate (1). Un caso a dire il vero c’è. Tristissimo. Quello di Angelica Varga, la ragazza del caso di Ponticelli cui ho accennato. Condannata a tre anni e otto mesi quando aveva appena sedici anni in base alla sola accusa dell’unica testimone, la madre della bambina. Nessun altro testimone, nessuna prova. Condannata in base alla testimonianza di quella che, secondo il giornalista Giulio Di Luzio, era la figlia di un camorrista (e la camorra aveva interesse affinché i rom venissero cacciati da Ponticelli) (2).
Tacciono, i giornali, dei bambini rom sottratti dalla polizia e di cui le famiglie non hanno saputo più nulla, come ha denunciato l’europarlamentare Viktória Mohácsi; e tacciono anche sui raid notturni nei campi, dei sequestri di persona, delle violenze dei poliziotti che risultano da testimonianze raccolte dalla stessa europarlamentare. Sono fragili, dunque. E la loro fragilità attira irresistibilmente le tensioni collettive. In particolare nei periodi di crisi economica, quando aumenta la frustrazione, sono un capro espiatorio fin troppo comodo – anche per i politici. Mentre i padroni della finanza continuano i loro giochi sulla pelle di milioni di persone, ci si illude che basti dar fuoco a qualche campo rom perché le cose vadano meglio. “Siate orgogliosi della vostra identità e appartenenza. Sempre nel rispetto delle cultura degli altri, ma con la consapevolezza che avete un patrimonio da far conoscere e da tutelare”, ha detto Boldrini incontrando i giovani rom. Parole che per molti suonano come una provocazione. Identità? Orgoglio? Patrimonio? “No Signora Boldrini hanno un patrimonio da restituire… tutto quello che hanno rubato agli italiani… e non solo a loro…”, ha commentato qualcuno. I rom sono furto, e null’altro. A nessuna cultura si nega il riconoscimento di un qualche valore, tranne che a quella rom.
I furti. Sono davvero tutti ladri, i rom? No, naturalmente. Nessun rom è ladro? Nemmeno. Alcuni rom sono ladri, altri no. Proprio come gli italiani. Quando un italiano ruba, nessuno si sogna di attribuire il suo furto alla cultura italiana, come invece accade con i rom. E nessuno si sogna di considerare corresponsabile tutta un’etnia per le colpe di uno solo. C’è una lettura della realtà rom che può aiutarci a superare qualche pregiudizio, e consiste nel mettere da parte, per un momento, l’etnia, e considerare invece la classe sociale. A quale classe sociale appartengono i rom? Non sono borghesi, naturalmente; ma non sono nemmeno proletari. Sono sottoproletari, appartengono a quel “proletariato straccione” (Lumpenproletariat) costituito da disoccupati o sotto-occupati di cui parlava Marx. Persone al di fuori del ciclo produttivo che vivono di espedienti, privi di coscienza politica.
Ora, proviamo a leggere la realtà rom in quest’ottica. Confrontiamo i rom con un certo sottoproletariato napoletano o più in generale meridionale, ad esempio. Ci sono differenze? No. I mali sono gli stessi, i tentativi di porvi rimedio anche. Sia chiaro: non intendo, ora, criminalizzare il sottoproletariato per assolvere i rom. I crimini dei sottoproletari sono, spesso, il risultato di una prolungata indifferenza di chi dovrebbe curare il bene comune e invece fa gli interessi di chi ha di più. Interi quartieri abbandonati a sé stessi, tranne che nei periodi elettorali, quando torna comoda l’esistenza di una massa di disperati il cui voto si può acquistare con qualche pacco di pasta. Bambini che crescono in case fatiscenti, a volte in vere e proprie grotte senz’aria né luce, mentre con la compiacenza delle amministrazioni si costruiscono nuovi palazzi – case che i poveri non vedranno mai. Servizi sociali inesistenti, mentre si moltiplicano i centri commerciali. Ed uno Stato che è sempre pronto a sperperare per il carcere i soldi che non ha voluto investire per aiutare i poveri a vivere più dignitosamente.
Ma c’è ancora una differenza, qualcosa che fa del rom un sottoproletario sui generis. Il sottoproletariato, pur vivendo ai margini del sistema economico, ne condivide la logica, i rituali, i miti, le narrazioni. Nel sistema capitalistico il sottoproletario ha gli stessi desideri del proletario e del borghese. Come loro, è principalmente un consumatore. Ogni status symbol è da lui avidamente desiderato, quando non acquistato contraendo debiti. Pur disponendo di poco denaro, non disconosce la centralità assoluta del denaro nella vita individuale e comune. Il suo modo di vivere, se potesse, sarebbe esattamente lo stesso di quello di un borghese. Non così i rom. In una società capitalistica i rom vivono in modo non capitalistico. Non sono consumatori, come dimostra il fatto che nessun pubblicitario li ha mai considerati un target valido per qualche prodotto. Non condividono i valori dominanti della carriera, della ricerca dello status, dell’affermazione personale. Soprattutto, non condividono l’individualismo, che è essenziale per il capitalismo, e la mercificazione di ogni cosa. In un campo rom le relazioni umane sono ancora più importanti del denaro. La vita al campo si regge sullo scambio di prestazioni gratuite, sulla solidarietà e il sostegno reciproco. E’ questo legame che i rom considerano la loro più grande ricchezza – chiedendosi, ad esempio, come facciano i gagè, i non rom, ad abbandonare i genitori anziani in un ospizio. Ogni uomo, ogni donna ha qualcosa da insegnare; e così ogni popolo. Anche il popolo rom. E quello che ha da insegnare – quello che noi possiamo imparare – è forse qualcosa di molto importante: come sopravvivere al capitalismo ed alla sua universale mercificazione.
Note
(1) S. Tosi Cambini, La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007), CISU, Roma 2008.
(2) G. Di Luzio, Brutti, sporchi e cattivi. L’inganno mediatico sull’immigrazione, Ediesse, Roma 2011.
E’ triste, nel paese che ha dato i natali a Maria Montessori, dover scrivere ancora oggi un articolo per confutare l’opinione che gli schiaffi possano essere educativi. E’ triste ma necessario, poiché si tratta di una convinzione ancora ben salda e diffusa, come lo è la pratica corrispondente. Ho avuto modo di constatare che si tratta di una convinzione diffusa anche tra i giovani, ed in particolare tra quei giovani che, per gli studi intrapresi, si troveranno con ogni probabilità a lavorare in futuro nel sociale ed in campo educativo.
Vorrei provare a spiegare per quale motivo ritengo che questa convinzione sia una bestialità pedagogica, e che la pratica corrispondente sia una violenza inaccettabile. Faccio notare, per cominciare, che nessun soggetto può essere preso a schiaffi impunemente. Una donna non può essere presa a schiaffi dal marito, un lavoratore non può essere preso a schiaffi dal suo superiore, un cliente importuno non può essere preso a schiaffi dal commesso, e così via. Nemmeno il giudice, dopo aver letto la sentenza, può prendere a schiaffi l’imputato, e lo stesso vale per le guardie carcerarie. Perché una persona condannata, poniamo, per omicidio non può essere presa a schiaffi, mentre un bambino che ha mangiato di nascosto la cioccolata sì? Perché nella nostra società il detenuto resta, nonostante la condanna, un essere umano dotato di dignità (ed è giusto che sia così); il bambino no. Il bambino è un essere umano a metà, per così dire; per quanto sia grande l’amore che affermiamo di provare per lui, non siamo disposti a riconoscergli piena umanità e piena dignità. Altrimenti mai ci sogneremmo di prenderlo a schiaffi.
Si dirà: ma il bambino non è, appunto, un uomo; non ha ancora sviluppato le sue capacità. E questo è un motivo per negargli dignità? Seguendo questa logica, bisognerebbe dunque prendere a schiaffi i portatori di handicap, le persone con ritardo mentale, i malati, i vecchi ormai spenti. Invece pensiamo il contrario: qualsiasi atto di violenza verso questi soggetti viene considerato particolarmente grave proprio perché si tratta di soggetti deboli. Perché non vale lo stesso con i bambini?
Nel caso dei bambini, la violenza ha l’alibi dell’educazione. Bisogna a questo punto chiedersi cos’è educazione. Senza farla troppo lunga, possiamo con ragionevole approssimazione dire che educare vuol dire aiutare una persona a crescere ed a diventare una persona completa. Ora, chi schiaffeggia un bambino è guidato da questa concezione dell’educazione? Lo dubito. Per chi usa lo schiaffo come risorsa pedagogica educare è evidentemente una cosa diversa: fare in modo che il proprio figlio faccia quello che lui vuole, che ubbidisca, che non dia fastidio, che si lasci guidare dall’esterno. Tutto questo ha naturalmente ben poco a che fare con l’educazione intesa nel suo senso autentico. Un bambino che non dà fastidio, che ubbidisce ai genitori, che si lascia guidare non è un bambino educato. Può essere, al contrario, un bambino infelice, incapace di esprimere i suoi bisogni, inibito. Un bambino che diventerà un adulto conformista, una persona priva di originalità e incapace di scelte autonome.
Lo schiaffo rivela dunque un tragico equivoco di fondo riguardante l’educazione. Si pensa che educare significhi modellare dall’esterno, mentre vuol dire creare le condizioni perché il bambino prenda forma da sé; che voglia dire far tacere, mentre vuol dire dare la parola. Perché vi sia educazione occorre una disposizione preliminare: la capacità di mettersi dalla parte del bambino, di ascoltarne e rispettarne i bisogni. L’adulto che ricorre alla violenza interpreta al contrario il rapporto educativo a partire da sé stesso, dalle sue esigenze, da quello che vuole o non vuole che il bambino faccia. Il bambino come essere autonomo per lui semplicemente non esiste. E dunque non esiste l’educazione.
E’ interessante, poi, che anche coloro che affermano il valore educativo dello schiaffo si guardino bene dal riconoscere ad altre figure educative il diritto di prendere a schiaffi il loro figlio. Genitori che schiaffeggiano normalmente i bambini sono pronti a correre a scuola a protestare se vengono a conoscenza della minima violenza fatta ai loro figli dagli insegnanti. Perché? Se lo schiaffo educa, e l’insegnante educa, l’insegnante dovrebbe poter ricorrere allo schiaffo. E’ un semplice sillogismo. Se si nega agli insegnanti il diritto di schiaffeggiare i bambini, è perché si sa in fondo che non è affatto vero che lo schiaffo educa. Il genitore sa bene, anche se lo nega, che si tratta di una violenza, e pensa di essere l’unico ad avere il diritto di compiere quella violenza. C’è, al fondo, una concezione pericolosissima: l’idea che il bambino sia proprietà della famiglia, che può farne quello che vuole. Un genitore può picchiare il bambino, l’insegnante no, perché il bambino è cosa del genitore, non dell’insegnante.
Ma cosa succede a un bambino che viene preso a schiaffi? Proviamo a guardare le cose dal punto di vista del bambino. Immaginiamo che abbia sei o sette anni. Il suo corpo è minuscolo rispetto all’ambiente ed al corpo di quelli che ha intorno. E’ un nano in un mondo di giganti. Questo è il primo aspetto da considerare: l’impotenza fisica. Il bambino, per la sua inferiorità corporea, si sente debole ed indifeso, in balia dei grandi, che possono fare di lui quello che vogliono. La mano di un adulto è gigantesca per lui. E’ un po’ come, per noi, essere colpiti da un essere mostruoso.
Chiunque riceva violenza sviluppa sentimenti negativi: l’impressione di essere stato vittima di una ingiustizia, la rabbia, la paura. La paura è in particolarmente devastante; meglio la rabbia della paura. Un bambino di quell’età considera i propri genitori come un modello.
Non, si badi, per quello che dicono, ma per quello che fanno. Questa è una cosa fondamentale. Non educhiamo con le parole, educhiamo con i fatti. Se prendiamo a schiaffi un bambino, è poi assolutamente inutile dirgli che la violenza è sbagliata. Con le nostre azioni gli stiamo dicendo il contrario, e per i bambini contano le nostre azioni, non le nostre parole. Ecco dunque una delle conseguenze di questa pedagogia bestiale: il bambino che subisce violenza diventa violento; gli schiaffi ricevuti a casa li restituisce a scuola ai compagni. L’insegnante chiama poi i genitori e si lamenta del comportamento del bambino; ed a casa il genitore punisce il bambino per aver preso a schiaffi il compagno prendendolo a sua volta a schiaffi. Il circolo vizioso continua.
In sostanza, ricorrendo allo schiaffo il genitore baratta lo sviluppo sereno di suo figlio per qualche momento di tranquillità. Qualche momento, non di più. Perché è una illusione credere che il bambino educato a suon di schiaffi vanga su davvero tranquillo ed ubbidiente. Al contrario. In anni di lavoro educativo ho avuto modo di osservare una costante: i bambini più irrequieti (e spesso violenti) sono quelli che vengono educati nel modo più rude. Non occorre essere dei pedagogisti per capire il perché. Il bambino è come una spugna: assorbe dall’ambiente. Ed in particolare, ovviamente, dall’ambiente familiare. Se in quest’ambiente c’è malessere relazionale, il bambino crescerà con questo stesso malessere. Se in una famiglia i conflitti si affrontano con la violenza fisica o verbale, il bambino affronterà i conflitti in questo modo. Inutilmente i genitori gli diranno che non dovrà fare così. Per ottenere un diverso comportamento, dovrebbero cambiare clima familiare. Cosa molto più difficile che dare uno schiaffo ad un bambino o rimproverarlo.
I bambini hanno bisogno di un clima sereno, hanno bisogno di osservare quotidianamente esempi di rispetto reciproco, di ascolto, di amore. Hanno bisogno dell’esempio di adulti che siano in grado di affrontare i conflitti in modo costruttivo. Hanno bisogno di delicatezza, di cura, di armonia. Diamo loro invece minacce, punizioni, regole inutili, perfino violenza fisica. Ogni volta che educhiamo un bambino abbiamo la possibilità di cambiare (in modo infinitesimale, ma non per questo non significativo) il mondo oppure di confermare le sue strutture di dominio. A noi la scelta.
E’ nota la facilità con cui sui social network si diffondono notizie non controllate e citazioni attribuite con grande leggerezza a questo o quel personaggio, che mai si sarebbe sognato di dire cose simili. In questi giorni ha avuto grande diffusione un presunto appello di Papa Francesco ad evitare la mattanza degli agnelli per Pasqua. Un appello che nasce in realtà interamente da un equivoco. Le parole citate non sono del papa, ma di una associazione animalista che, felicitandosi per le parole dette dal papa in occasione della festa di San Giuseppe – una omelia nella quale ha invitato ad essere custodi del creato -, ha invitato gli italiani a non mangiare agnello per Pasqua.
Come si spiega la bufala? Si tratta di un meccanismo frequente in campo religioso: ci si forma una certa idea di cosa è e di cosa dovrebbe fare o dire un sant’uomo, e quando qualcuno, per alcuni suoi tratti, ci sembra che possa incarnare questa idea, compiamo senz’altro la proiezione: gli facciamo dire e fare ciò che ci sembra che dovrebbe dire e fare. Benché papa Francesco sia stato eletto da poco, il meccanismo è già all’opera. Nell’immaginario dei credenti (e anche di qualche non credente) Francesco è già il papa buono: e dal papa buono ci si aspetta che faccia e che dica certe cose. Che magari non ha fatto o detto
Cosa pensa realmente papa Francesco su molti temi, può aiutare a comprenderlo il volume Il cielo e la terra, un dialogo con il rabbino Abraham Skorka pubblicato da Mondadori ed uscito in edicola con La Repubblica. Si tratta di una vera e propria summa del pensiero di papa Bergoglio: Dio, il potere, la donna, l’aborto, l’eutanasia, il divorzio, il matrimonio tra persone omosessuali, eccetera. Leggendolo si può capire perché, ad esempio, è molto improbabile che in futuro possa davvero invitare a non mangiare agnelli a Pasqua. Un pensiero che ricorre nel libro è quello del dominio dell’uomo sulla natura. “L’uomo – afferma – è fatto per dominare la natura, questo è il suo compito divino” (1). E ancora: “Il potere è stato dato all’uomo da Dio, che ha detto: ‘Dominate la terra, siate fecondi e moltiplicatevi'” (2). Si tratta della visione tradizionale dei rapporti tra l’uomo e la natura: rapporti di dominio. La natura è stata fatta per l’uomo (ed anche gli agnelli, dunque). Nelle posizioni più aperte, si giunge ad affermare che questo dominio non dev’essere né dispotico né distruttivo, ma prendere la forma di una saggia amministrazione. Che è cosa ben diversa, tuttavia, dall’affermare che la natura ed il mondo animale hanno un valore intrinseco.
La prima tentazione, avendo tra le mani un libro del genere, è quella di andare a vedere che dice il papa sui temi caldi del dibattito anche politico: l’eutanasia, ad esempio, o i matrimoni omosessuali. Ma papa Francesco è il capo di una religione, e del capo di una religione conta, soprattutto, il pensiero teologico, vale a dire il modo in cui concepisce Dio e la verità. La Chiesa è una istituzione che negli ultimi decenni si è sempre più chiusa in sé stessa, assestata nella posizione di una condanna generalizzata del mondo moderno, sempre più incapace di dialogare con il pensiero laico, sempre più lontana dalla sensibilità morale diffusa tra gli stessi cattolici (tra i quali si diffonde la doppia morale: sono cattolico, ma faccio quello che credo essere giusto, anche se la Chiesa dice che è sbagliato). Questa chiusura deriva dalla convinzione di possedere tutta intera la verità e di essere l’unica via si accesso alla salvezza: extra Ecclesiam nulla salus. Una sorta di arroganza spirituale che impedisce il dialogo, che esige orizzontalità e pari dignità dei dialoganti. E’ la Chiesa che, guardando il mondo dall’alto, giudica e condanna. Il contrario dell’arroganza spirituale è l’interrogazione, il chiedere insieme. L’arrogante ha la risposta a tutte le domande, non conosce il dubbio o, quando ne fa esperienza, lo allontana come una tentazione diabolica. Non ha nulla da imparare da nessuno: è l’uomo chiuso nella cerchia di quelli che la pensano come lui; chi è al di fuori di quella cerchia, non ha nulla da dirgli. L’interrogante al contrario si considera in cammino verso la verità ed avverte questo cammino come un cammino comune. L’arrogante è uomo (o donna) dell’identità, l’interrogante è uomo (o donna) della differenza.
Il cambiamento più urgente, per la Chiesa, è questo: abbandonare l’arroganza e passare alla posizione dell’interrogazione, del dialogo reale. Smetterla di considerarsi unici detentori della verità e chiedersi, piuttosto, quale contributo si può dare alla soluzione dei problemi comuni. E’ la posizione che Aldo Capitini chiamava “aggiunta”. Che vuol dire: io non chiedo che il mondo mi segua, mi onori, mi ascolti, mi esalti, mi riconosca; mi chiedo cosa posso dare io al mondo, cosa posso aggiungere di buono e di valido alla vita di tutti.
Da questo punto di vista, trovo nel pensiero di papa Francesco dei punti non privi di interesse. Nella discussione con il rabbino Skorka la questione dell’arroganza viene fuori discutendo di ateismo. E’ arrogante l’ateo che “è convinto al cento per cento che Dio non esiste”, dice Skorka, mentre l’agnostico è in posizione dubitativa. Questa affermazione comporta la conclusione logica che, se è arrogante chi non dubita, il credente è arrogante non meno del non credente. E infatti Skorka afferma: “Ha la stessa arroganza [l’ateo] di chi sostiene l’esistenza di Dio con la stessa certezza con cui sosterrebbe l’esistenza della sedia su cui sono seduto”. Papa Francesco non protesta, anzi rilancia: “Anch’io concordo nel definire arroganti quelle teologie che non solo hanno tentato di definire con certezza e precisione gli attributi di Dio, ma hanno avuto la pretesa di dire esattamente com’era” (3). E sottolinea l’importanza della teologia apofantica, ossia la teologia che parla di Dio per via negativa, dicendo cosa non è. Cita a riguardo The Cloud of Unknowing, un trattato del tredicesimo secolo che parla di una “nube di non-conoscenza” che sempre si frappone tra l’uomo e Dio. Da questo punto di vista diventano molto meno nette, mi pare, le distinzioni tra credente ed ateo; poiché l’ateo è spesso colui che nega una certa concezione di Dio, o la pretesa di afferrare Dio, di averlo in tasca: è, in altri termini, una reazione all’arroganza religiosa. Nella mistica speculativa, peraltro, affermazione e negazione di Dio si richiamano in un modo estremamente affascinante. “Egli [Dio] è colui che, mediante l’opera della notte oscura, si ritira per non essere amato come un tesoro da un avaro. Elettra che piange Oreste morto. Se si ama Iddio pensando che non esiste, egli manifesterà la sua esistenza”, scrive Simone Weil (4). Ed Eckhart: “Preghiamo Dio di diventare liberi da Dio…” (5)
Il Dio in tasca, il Dio conosciuto e posseduto dal credente, è il Dio in nome del quale si combattono le guerre. Fa tutt’uno con la propria identità individuale e collettiva; è una stampella per puntellare le proprie incertezze. Con espressione che felice, Bergoglio parla di un “ideologizzare l’esperienza religiosa”, che porta ad “uccidere in nome di Dio” (6). E’, mi sembra, una osservazione importantissima, che potrebbe aprire nuovi capitoli della riflessione teologica. Cosa vuol dire avere fede in modo non ideologico? E’ possibile credere senza che la propria fede diventi una stampella o un segno di riconoscimento? E’ in questa direzione che va la riflessione teologica di Dietrich Bonhoeffer – una delle più alte del Novecento – con la sua distinzione tra religione e fede.
Sembra dunque che vi siano tutte le premesse per un nuovo rapporto non solo con le altre religioni, ma anche con la cultura laica e scientifica. Ma sono premesse che coesistono con elementi di segno opposto, con persistenti chiusure. Parlando delle “culture idolatre”, Bergoglio mette sullo stesso piano “il consumismo, il relativismo e l’edonismo” (7), ponendosi in linea di continuità con la condanna del relativismo (una vera e propria crociata) di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Discutendo di matrimoni tra persone omosessuali, sostiene che essi rappresenterebbero un “regresso antropologico” e che tale opinione “non ha un fondamento religioso, ma antropologico” (8). Anche questo modo di ragionare non è nuovo: si affrontano le questioni di morale sessuale pretendendo che le proprie opinioni non siano legate alla propria visione religiosa – e dunque rigettabili da chi non crede -, ma valide di per sé, perché fondate su una presunta legge naturale: e dunque vincolanti per tutti. Nel caso di Bergoglio, l’appello all’antropologia prende il posto del ricorso alla natura. Ma a quale antropologia si riferisce il papa? L’antropologia culturale è la via più sicura verso l’aborrito relativismo. Dal punto di vista dell’antropologia culturale non esiste una famiglia standard: la famiglia nucleare non ha più dignità della poligamia o addirittura della poliandria. Se poi ci inoltrassimo nei costumi sessuali dei popoli verrebbero fuori cose che scandalizzerebbero l’anima candida di un papa. E’ evidente che non all’antropologia culturale che il papa può chiedere soccorso. A quale, allora? All’antropologia filosofica. La quale consiste in questa operazione: ci si fa una idea dell’essere umano in base alle proprie convinzioni filosofiche o religiose; si dice poi che l’essere umano è senz’altro così; si fa capire, in modo più o meno garbato, che chiunque si allontani da quel modello è un essere umano dimezzato, parziale, insufficiente. Si dice, ad esempio, che l’essere umano è antropologicamente in relazione con Dio. Il rapporto con Dio, cioè, fa parte della sua natura. E se uno non crede? Gli manca qualcosa, naturalmente; è un essere umano che non realizza la sua natura se non in modo molto parziale. Un procedimento che è l’esatto contrario del dialogo.
Di qui, anche, conclusioni non proprio esaltanti sul rapporto tra scienza e fede. “La scienza – scrive Bergoglio – ha una sua autonomia, che va rispettata e incoraggiata. Non dobbiamo intrometterci nell’autonomia dello scienziato. A meno che questi non oltrepassi il proprio campo e sconfini nel trascendente. La scienza è fondamentale in funzione del precetto di Dio: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela'” (9). Questo vuol dire, in sostanza, negare qualsiasi valore conoscitivo alla scienza e ridurla alla tecnica. E’ sorprendente che un religioso che ha scelto come papa il nome Francesco sia così ossessionato dal dominio sulla natura, quel dominio nel quale molti pensatori, anche religiosi, anche cattolici, hanno scorto e scorgono la radice dell’attuale crisi ecologica. La scienza è scienza, ossia conoscenza. Il suo valore principale consiste nella ricerca della verità, non nel dominio della natura. La tecnoscienza è una degenerazione, una prostituzione del fine puramente conoscitivo della scienza. E’ inevitabile che la scienza oltrepassi il proprio campo, se il confine che le ha imposto il religioso è quello della tecnica. Si pensi alla fisica. Sappiamo che l’universo nel quale viviamo è di una complessità straordinaria, tale che per pensarlo dobbiamo accantonare il modo corrente di pensare cose come lo spazio ed il tempo. Possiamo, al cospetto di queste teorie, continuare a pensare alla creazione dal nulla? Possiamo pensare un Dio che crea i cieli e la terra “in principio”? Ha senso il concetto di principio, ad esempio? Porsi queste domande per un cattolico vuol dire interrogarsi, confrontarsi in modo aperto con la scienza. Dirsi che la fisica non riguarda la fede, perché il suo campo è quello del dominio del mondo, e nulla ha a che fare col campo intangibile e sicuro della verità religiosa, vuol dire peccare ancora una volta di arroganza religiosa.
Note
(1) J. Bergoglio, A. Skorka, Il cielo e la terra, tr. it., La Biblioteca di Repubblica – L’Espresso, Roma 2013, p. 24.
(2) Ivi, p. 134.
(3) Ivi, pp. 23-24.
(4) S. Weil, L’ombra e la grazia, tr. it., Rusconi, Milano 1996, p. 29.
(5) M. Eckhart, Sermoni tedeschi, tr. it., Adelphi, Milano 1997, p. 133.
(6) J. Bergoglio, A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 29.
(7) Ivi, p. 31.
(8) Ivi, p. 110.
(9) Ivi, p. 116.
Editoriale per Stato Quotidiano.
Nelle scienze umane le storie di vita sono uno strumento fondamentale per indagare a fondo il cambiamento sociale. Come è cambiata nel tempo la vita delle persone? Quali erano i valori condivisi qualche decennio fa? Quali le condizioni di vita? In che modo la vita dei singoli si lega ai grandi eventi storici? Per rispondere a queste e ad altre domande si può chiedere alle persone anziane di raccontare semplicemente la propria vita, con un tipo di intervista che lascia grande libertà all’intervistato, con domande che servono solo a stimolare il racconto ed a far sì che non tralasci punti importanti.
Poiché queste storie di vita sono anche un modo per ascoltare la voce degli anziani, che nel nostro mondo si avverte sempre più debolmente, ho spesso proposto ai miei studenti del liceo “Roncalli” di Manfredonia di intervistare i loro nonni, nell’ambito del corso di Metodologia della ricerca. Il risultato è spesso una narrazione di grande interesse, anche piacevole da leggere, uno spiraglio su un passato che è dietro l’angolo, ma che sembra dimenticato. Dopo il boom economico il nostro paese ha rimosso letteralmente il suo vissuto di povertà, di sofferenza, di emigrazione; gli anziani sono diventati dei testimoni scomodi di un mondo con cui non vogliamo più avere a che fare.[read more]
Qui di seguito propongo una di queste narrazioni. Si tratta della storia di vita di Lorenzo di Mauro, nato a Mattinata nel 1934. Ad intervistarlo la nipote Giusy Bisceglia.
Puoi parlare dei primi ricordi, l’infanzia, la famiglia, i giochi, la scuola…?
Non esistevano… Non gioco e no niente… Che gioco dovevamo avere prima? Che ci stava? Non ci stava niente. Non ci stava manco la sedia.
La scuola non l’hai frequentata?
Un anno e mezzo di scuola ho fatto. Il motivo perché è morto mio padre. Mio padre è morto a trentun anni, io non ho potuto andare a scuola per motivi di soldi, che non ci stava la lira, non ci stava niente, mia madre era sola, perciò non ho potuto andare a scuola, sono stato sotto a un padrone a lavorare, perciò ho dovuto rifiutare la scuola per andare a lavorare, perché non c’era niente da mangiare, non avevo dei genitori, mia madre era sola, e mia madre per darci a mangiare a noi andare a lavare della roba per guadagnare qualcosa.
Come vestivi da giovane?
Da giovane mancava tutto, mancavano i divertimenti, non ci stava niente, da giovane posso dire una cosa io, che i divertimenti non esistevano proprio, non esistevano proprio i divertimenti, e io posso dire che in quell’anno e mezzo di scuola che ho fatto sono stato vestito da balilla, nel periodo fascista, tutto vestito nero, però… si stava bene come ordine, però il resto mancava tutto, non esisteva niente, esisteva molta povertà. Nel ’43 è stata la guerra e non ci stava niente da mangiare, ma niente di niente, e quando si comprava un po’ di grano, il grano, si metteva a cuocere il grano, si metteva un po’ di zucchero sopra e mangiavano il grano, perché mancava il pane, mancava la pasta, mancava tutto.
La sera quando andavo a letto non potevo dormire perché la pancia era vuota, avevo fame, non potevo dormire. E comunque la vita di prima non facciamo cambio con quella di adesso, perché adesso, adesso si butta il pane, ci siamo dimenticati il passato, però adesso il pane si butta perché c’è, ma prima mancava tutto tutto tutto. Durante la guerra non ci stava niente.
E tuo padre come è morto?
Mio padre è andato sotto le armi, dopo di cinque giorni che è venuto da sotto le armi l’ha preso un male di pancia e è morto con l’appendicite, il 1936 è morto, io avevo due anni. Quando sentivo di chiamare papà, tatà si diceva allora, agli altri bambini, io chiamavo pure io, e chiamando piangevo. Io vedevo che mia madre piangeva e dicevo “ma’, perché piangi” e mamma non diceva a noi “è morto tuo padre”, visto che noi ci siamo fatti un po’ grandi lo abbiamo capito, no? E comunque per me con quattro fratelli la vita è stata dura, siamo stati costretti sempre a lavorare, da piccoli, all’età di nove dieci anni stavamo già sotto i padroni a lavorare. E come andavo a scuola, se dentro la mia casa mancava tutto? Non soltanto dentro la mia casa, allora mancava dappertutto, allora le scuole le facevano quelli che avevano un po’ di soldi.
E i dottori non potevano curare l’appendicite di tuo padre?
No, è stato un dolore… così… subito, perché con l’appendicite a peritonite prima si moriva. Che poi il dolore che è venuto a mio padre è stato di sera, quando usciva la processione a Mattinata l’hanno operato, al ritorno della processione mio padre è morto.
Quando il dottore l’ha operato ha detto alla mamma, alla mia nonna, di andare a Monte Sant’Angelo a prendere il dottore, e mancavano pullman, non è che stava l’aereo come adesso che per prendere una medicina vai a Roma a prenderla, mancava tutto, e così è uscito la processione e l’hanno operato, e al ritorno della processione è morto, aveva trentun anni.
Ma parecchi morivano per l’influenza, anche?
Sì, sì, perché mancava tutto, mancavano i dottori, mancava… non è che ci stava l’ospedale come adesso, che adesso, che adesso un piccolo male e subito c’è il dottore, prima si faceva in casa, l’hanno operato in casa a mio padre, senza anestesia, niente. Si metteva la pentola dell’acqua bollente sul fuoco, si metteva la forbice dentro, gli accessori dentro, e il dottore operava. Tra parentesi a Mattinata a quell’ora ne sono morti tre o quattro, tanti anni fa, e comunque adesso come dottori, come ospedali, cose… adesso stiamo bene, ogni minima cosa siamo nell’ordine di essere aiutati, ma prima mancava tutto tutto tutto.
Avevi amici?
Io? Sì, ma prima uno come faceva a tenere gli amici, perché non è… uno può tenere gli amici se va all’asilo, e l’asilo, c’hai gli amici se uno va a scuola, e durante la scuola, quando esci dalla scuola c’hai gli amici, ma prima le scuole chi le faceva?
Andavi a lavorare, non potevi trovare qualche amico?
Sì, sì, mentre che lavoravi tutt’al più potevi avere un amico, due amici, tre quattro persone durante il lavoro, ma non come adesso, adesso c’è il pallone, si sente la partita al pallone, esci in piazza e trovi a centinaia gli amici, ma prima non esisteva proprio questo qua.
Tua moglie è stata la tua prima ragazza?
Sì, sì, mia moglie è stata la prima, la prima, e se ti dico perché mi sono sposato piccolo, perché ci siamo sposati piccoli, perché dentro a casa nostra, povera, non è che aspettavano che tu stavi fino a trent’anni e avevi la possibilità di avere il corredo, eh, soltanto il vestito che portavi addosso, perché mancavano i soldi per fare il corredo, tra parentesi io mi sono sposato perché… eh, la mia avventura è stata lunga, mio padre è morto a trentun anni, io avevo la mamma, e mia madre s’è sposata di nuovo, ha avuto tre figli, e cinque ne aveva il primo marito, e quattro ne eravamo noi, e due loro, quattordici persone, perciò io ho passato una vita in mezzo a quattordici persone, dentro una casa, e non è che ci stavano quattordici piatti, come adesso, un piatto ciascuno, si metteva in mezzo un piatto soltanto e si mangiava dentro quel piatto, quello che ci stava, e dovevi mangiare sempre al posto tuo, no che ti dovevi spostare dal posto tuo, ti dovevi mettere vicino al posto tuo con la forchetta in mano, dovevi mangiare sempre vicino al tuo posto, e non è che eri sicuro di mangiare, perché parecchie volte la pentola bolliva e mancava la roba da mettere dentro, l’acqua bolliva e mancava la pasta, mancava la farina, e io oppure qualche altro mio fratello andavamo al negozio, dicevo “signo’, ha detto mia madre mi puoi dare due chili di farina, che poi quando fa i soldi li porta”, e ti rispondeva “dì a tua madre che mi deve pagare ancora un chilo, due chili di prima”, perché non ci stava niente, insomma, la vita di prima è stata una vita… però una cosa era bella prima, che ci stava il rispetto familiare, un grande rispetto, quello che non c’è adesso, perché adesso sorelle e sorelle non si parlano, fratelli e fratelli non si parlano, un figlio se deve stare un mese senza andare a casa dei genitori, ci sono, invece prima no, prima i genitori non venivano lasciati soli, quel pezzettino di pane che ci stava veniva diviso tutti uniti, e se andava a terra un pezzetto di pane, quando si prendeva il pane si baciava, e dopo lo mettevi in bocca, invece adesso il pane lo trovi nei secchi della spazzatura, lo trovi per terra, nemmeno i cani lo mangiano, e io quando vedo queste cose qua, mi fa male il cuore veramente, e io lo prendo il pane e lo cerco di proteggere, di mettere da qualche parte, invece ci sono bambini che adesso il panino per terra lo prendono a calci, e non lo mangiano nemmeno i cani, perché ce n’è.
E’ stato difficile trovare lavoro?
Ecco, mo ti dico questo qua. Venticinque febbraio ’57 sono sposato, di giovedì, dopo di due settimane ho avuto la chiamata per partire all’estero, sono andato in Austria, e non avevo nemmeno il bagaglio, la valigia, da mettere la roba dentro, sono andato al negozio, dal tabaccaio, l’ho presa la valigia e… che poi quando sono andato là l’ho mandato i soldi della valigia, e mi è stato così duro di lasciare mia moglie due settimane sposata, quando sono arrivato a salire sulla montagna, mi sono girato dietro e ho guardato Mattinata. Ho pianto.
Ho pianto veramente. Poi sono andato a Verona, sono stato cinque giorni a Verona, poi sono partito in Austria, e andavo a lavorare dentro una fabbrica di marmo, con gli stivali ai piedi, con i guanti alle mani, e dentro una baracca, a dormire dentro una baracca, che poi piano piano ci hanno dato la sistemazione buona, e poi ho fatto sei anni ancora all’estero in Germania, sono stato ancora sei anni all’estero in Germania, e sono stato uno che… sempre attaccato alla famiglia, che anche in Germania di fronte al letto dove dormivo avevo il quadro con tutta la famiglia, di mia nonna, di mia moglie, dei figli e di tutto, tra parentesi all’estero non è che era bello starci, lontano dalla famiglia è la più cosa brutta di stare lontano dalla famiglia.
Dunque, quando sono partito in Germania io ero un operaio comune, ho fatto il contratto da manovale meccanico, e io non sapevo tenere nemmeno il martello in mano, sono andato nella fabbrica, quattro settimane nel reparto solo a guardare, e piano piano, piano piano, piano piano ci ho messo delle mani, ed ho imparato tante, tante cose, a distanza di un anno io lavoravo come i tedeschi, e mi davano la busta paga identica come i tedeschi.
E’ stato difficile imparare la lingua?
Per imparare la lingua… se uno c’ha tante scuole, non ci fa tanta attenzione, se uno non c’ha scuole, c’ha qualcosa così, ci fa tanta, tanta attenzione a imparare. Io ho imparato la lingua tedesca… un anno sono stato in Austria, e in Austria parlano il tedesco… quando sono partito in Germania mi hanno chiesto chi sa parlare il tedesco, e io perché sono stato già un anno in Austria, sapevo qualcosa, e sono andato a lavorare dentro questa fabbrica qua, e piano piano piano piano l’ho imparato, ma bene bene bene bene, che quello che mi chiedevano sapevo rispondere tutto, durante il lavoro lo stesso, tra parentesi… non dico il cento per cento, ma il settanta per cento, lo so parlare.
E poi dopo di tre anni che ho lavorato in fabbrica ho lavorato tre anni alla posta, all’ufficio postale, e prima di assumermi a lavorare mi hanno domandato alcune domande in tedesco, e io gli ho risposto bene, mi hanno preso a lavorare, ho lavorato tre anni all’ufficio postale a Stoccarda… tra parentesi mi sono trovato bene, ho imparato il tedesco, ho… ti so rispondere in tedesco anche quando uno sogna la notte… ti dico che ancora adesso che sono dal ’65 che sono tornato a casa lo so bene bene bene, non mi sono dimenticato di niente, perché ho lavorato per quasi vent’anni in campeggio pure, in campeggio ci stanno i tedeschi, ho avuto sempre contatti a parlare, a parlare, a parlare… in conclusione dei fatti il tedesco è difficile, però se uno c’ha la volontà, impara.
Quando sei tornato dalla Germania le condizioni di vita erano migliorate?
Sì, erano migliorate, ho comprato la casa, ho comprato un po’ di terreno, ho fatto tutto per tutto per i figli, ci siamo voluti sempre bene, siamo una famiglia unita, e tra parentesi la più che ho avuto troppo stretta è stata mia moglie, perché non ci siamo mai abbandonati, io le mandavo i soldi e lei li sapeva gestire.
Dopo la nascita dei figli ci sono state ancora difficoltà, altri sacrifici?
No, sacrifici non ce ne sono stati, perché si dice che nella famiglia numerosa ti aiuta Dio, però quello che mi ha lasciato perplesso è che io mi sono sposato, due settimane e sono partito in Germania, ritorno dopo un anno e trovo un figlio, a Matteo, in due settimane abbiamo costruito, e sono partito, dopo un anno vengo a casa e trovo un bambino, e il bambino quando mi ha visto prendeva paura di me, nel letto, diceva “questo qua chi è?”, e è stata una cosa dolorosa proprio, perché la lontananza dei figli… e poi venivo sempre in ferie nello stesso periodo e ho avuto cinque sei figli, sempre nella data di gennaio sono nati… Cinque, cinque figli tutti e cinque a gennaio.
Com’era Mattinata una volta?
Mattinata nel periodo della guerra era bella, era una farfalla come paese, era troppo bella, a Mattinata s’è costruito nel periodo quando hanno emigrato in guerra, e s’è costruito un po’ di Mattinata, s’è fatto più grande, poi quando che hanno cominciato a migrare al Belgio, in Francia e in Germania, Mattinata s’è sviluppata almeno almeno per dieci volte di quando era prima, perché emigrando i soldi si sono guadagnati e ognuno s’è fatto la casa, chi s’è fatto la casa, s’è fatto il terreno, c’è stato un miglioramento di vita, però adesso, adesso, non è più come una volta, adesso la casa dei giovani non la fa più nessuno, perché la Germania è finita, la Francia è finita, tutte le nazioni che abbiamo emigrato lavoro non ce ne hanno nessuna nemmeno per conto loro, e tra parentesi i giovani di oggi per traversare questa, questo passaggio qua è dura, tra parentesi si sposano anche di meno, adesso.
Ora si usa la convivenza…
Ecco. Perché… manca la possibilità, manca il lavoro, manca tutto… sì, fanno le scuole, ma anche che fanno le scuole, quando uno è fatto ragioniere, è fatto maestro di scuola, non prende il posto nemmeno a quarant’anni… e non è che un maestro può migrare in Germania, che ci va a fare in Germania, che in Germania lavoro non ce n’è più, deve emigrare al nord, e al nord se trova un posto di lavoro, se no… eh.. oggi è critica, stiamo meglio come mangiare, assistenza e tutto, però stiamo attraversando pure un periodo non tanto bello.
Quanti figli hai?
Ce ne ho nove. Per fortuna i figli che c’ho tutti otto sono sposati e uno non ancora, che i figli non è che c’hanno nove figli come ho fatto io, massimo due, per ogni figlio, tra parentesi tutti i nipoti ne sono diciassette, tra parentesi se avessero fatto nove come ho fatto io avrei ottanta nipoti, i figli adesso non si fanno più per la paura di portarli avanti, perché oggi i figli costano, anche allora costavano i figli, ma allora allora era un altro…
Ma non costavano di più i figli allora?
No no, a tenere la famiglia numerosa per me è stato… niente, ho attraversato una vita tranquilla, per nove figli, ti dico che io mi sono trovato bene, però sono stato un grande lavoratore, ho sempre lavorato, i figli sono stati sempre uniti a noi, hanno lavorato anche loro, portando i soldi a casa.
So che ti piace vedere i telegiornali, soprattutto la politica. Perché?
Vedi, io… se devo dire la verità… perché ho passato… il passato quando non esisteva pane, quando non esisteva niente, ho passato una vita brutta, che il padrone ha fatto sempre il suo interesse, ma io come operaio con i padroni so’ stato sempre un collaboratore, che collaboravo coi padroni, ma i padroni cercavano di fare sempre a non pagarmi, e sono stato sempre un sindacalista, ma sindacalista sono stato, che mi piaceva fare il mio dovere e pretendevo anche quello che mi spettava, tra parentesi adesso mi piace a sentire la politica, mi piace a sentire la politica, io no… se sto a Mattinata, se sto in casa, lo sento dieci volte al giorno il telegiornale, che mi piace a sentire, perché delle cose che stanno accadendo adesso, dei politici, sono poco quello che fanno nei riguardi del basso popolo, pensano sempre per i grandi.[/read]
Il diavolo come caprone (F. M. Guaccio, Compendium maleficarum, 1626) |
Articolo scritto per Stato Quotidiano.
Nella seconda metà degli anni Trenta un giovane di Perugia si interrogò sulle possibilità di una opposizione radicale al Regime fascista. Il fascismo – così ragionava – è un sistema politico che si regge su una visione del mondo. In cosa consiste questa visione? In quello che potremmo definire esclusivismo vitalista, vale a dire nella esaltazione di alcuni valori vitali (la giovinezza, l’esuberanza, la forza e la violenza) e nel considerare inferiori coloro che sono privi di questi valori – nel disprezzare il debole, il malato, il portatore di handicap. Per contrastare il fascismo bisogna allora pensare al contrario, portarsi dalla parte degli ultimi e dei deboli, cercare valori opposti a quelli vitalistici. E’ quello che Aldo Capitini (così si chiamava quel giovane) farà per tutta la vita, giungendo ad elaborare una teoria della nonviolenza che è, con ogni probabilità, la più filosoficamente profonda che sia mai stata pensata. Intanto fa subito una scelta pratica: se il fascismo esalta la violenza del più forte sul più debole, lui sceglierà di rispettare ogni forma di vita. Per questo diventa vegetariano, in anni in cui essere vegetariani era considerato una bizzarria assoluta. Gli stessi amici antifascisti vedevano in ciò una sua stranezza, più che una scelta coerente.L’eredità politica di Capitini è stata raccolta dal Movimento Nonviolento, da lui fondato nel 1961. Dal punto di vista filosofico, tuttavia, non si può dire che abbia molti continuatori. Tra i pochi, occorre annoverare Francesco Pullia, filosofo animalista che del complesso pensiero capitiniano (che comprende anche una teoria del “potere di tutti”) ha ripreso l’aspetto dell’apertura ad ogni essere vivente. In Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza (Mimesis, Udine 2010) Pullia analizzava quella tradizione filosofica che, partendo appunto da Cartesio, nega ogni valore alla vita non umana ed afferma la rigida separazione tra mondo umano e mondo animale. Per il filosofo francese gli animali non erano che automi, macchine prive di vita, di pensiero, di emozioni, come tali liberamente sacrificabili. E’ una convinzione che non si ritrova solo nella filosofia: anche la tradizione religiosa occidentale ha negato qualsiasi valore agli esseri non umani, rimarcano il legame tra uomo e Dio e la sua differenza da ogni altro vivente e dalla natura, che è chiamato a dominare. E se oggi la Chiesa parla di sacralità della vita, è chiaro che si tratta di sacralità della vita umana, mentre tutti gli altri esseri viventi restano privi di un valore intrinseco.
Nell’enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II (1995), documento fondamentale del magistero cattolico sul tema della vita, si legge che “la vita è sempre un bene”, ma subito dopo si precisa che non si tratta della vita in generale, ma della vita umana, poiché “la vita che Dio dona all’uomo è diversa e originale di fronte a quella di ogni altra creatura vivente” (par. 34). Il che non vuol dire che l’uomo possa fare del creato quello che vuole. Dio lo chiama a dominare il creato, ma non a distruggerlo. “Chiamato a coltivare e custodire il giardino del mondo (cfr. Gn 2, 15) – scrive Giovanni Paolo II – , l’uomo ha una specifica responsabilità sull’ambiente di vita, ossia sul creato che Dio ha posto al servizio della sua dignità personale, della sua vita; in rapporto non solo al presente, ma anche alle generazioni future” (par. 42). Come si vede, è negato qualsiasi valore intrinseco alla vita non umana, che resta al servizio della vita umana. L’uomo ha la dignità che gli viene dall’essere immagine di Dio, l’animale no. E se rispetta la vita non umana, non lo fa per rispetto nei suoi confronti, ma per il bene delle generazioni future. Rispettando la natura, l’uomo nell’ottica cristiana e cattolica non rispetta il non umano, ma rispetta sé stesso, poiché la distruzione della natura mette in pericolo la stessa esistenza umana.Nel suo ultimo libro, capitiniano fin dal titolo – Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del mattatoio (Mimesis, Udine 2012) – Pullia cerca gli spiragli per una filosofia altra all’interno del pensiero contemporaneo, andando oltre la teoria dei diritti degli animali, rappresentata dalle teorie ormai classiche di Tom Regan e Peter Singer. Se Martin Heidegger, considerato a torto o a ragione il più grande pensatore del Novecento, considera l’animale in una luce esclusivamente negativa, come essere “povero di mondo” che vive in una situazione si “sottrazione”, altri grandi pensatori hanno tentato di riconsiderare il dominio umano sulla natura e sui viventi non umani, mettendo alla luce il rapporto esistente tra violenza sui non umani e violenza sugli umani. Max Horkheimer, filosofo della Scuola di Francoforte, descrive la società capitalistica come un grattacielo che ha ai piani più alti i grandi gruppi di potere, alla base i poveri e più sotto ancora, nella cantina, i mattatoi, mentre Jacques Derrida considera arbitraria l’azione di tracciare un limite netto tra umano e non umano e di confinare tutti i non umani nella categoria dell’animale. Ralph R. Acampora parte dal corpo, elemento comune agli uomini ed agli animali, caratterizzato da una medesima vulnerabilità, per pensare una compassione corporea quale fondamento di un’etica interspecifica.
Non manca il contributo di pensatori italiani. Si va dal citato Aldo Capitini, con la sua suggestiva idea di un atto di unità-amore che abbraccia tutti gli esseri viventi e sfida la logica violenta della natura, a Piero Martinetti, filosofo antifascista come Capitini, che già nel ’22, nel suo Breviario spirituale condannava come immorale ogni violenza sugli animali ed affermava l’esistenza di una profonda comunanza tra esseri umani ed animali, ad Edmondo Marcucci, promotore della nonviolenza e del vegetarianesimo, fino ai pensatori di oggi. Tra questi in particolare meritano attenzione Leonardo Caffo e Marco Maurizi. Il primo, giovanissimo (è nato nell’88), considera il rispetto dei non umani come un momento della più generale opera di liberazione della società da ogni forma di oppressione, mentre Maurizi interpreta lo sfruttamento della natura e degli animali quale conseguenza del capitalismo, che ha assoggettato anche l’essere umano. La lotta di classe marxista va per Maurizi estesa anche al mondo animale, e dev’essere intesa come lotta per la liberazione da ogni forma di dominio.
Questo concetto di dominio è forse il concetto-chiave per un’etica interspecifica. E’ importante distinguere il potere dal dominio, che ne è la degenerazione. Il potere ha a che fare con la possibilità. Una persona ha potere se può soddisfare i suoi bisogni. Senza potere la vita stessa è impossibile: già mangiare è un atto di potere. Ora, c’è potere fino a quando questo soddisfacimento dei propri bisogni avviene non in contrasto con il soddisfacimento dei bisogni altrui; il potere è collaborativo: più persone che hanno potere soddisfano insieme i propri bisogni. E’, in fondo, quello che accade normalmente in società. Gli esseri umani si associano per provvedere meglio, insieme, ai bisogni di ognuno. Accade tuttavia che questa comunità si infranga, e che alcuni cerchino di soddisfare i propri bisogni limitando il soddisfacimento dei bisogni altrui. Alcuni vogliono essere di piùde gli altri. E’ così che nasce il dominio.
Lo sfruttamento della natura e degli animali è, per essenza, una forma di dominio: l’essere umano soddisfa i suoi bisogni, essenziali e non essenziali, a costo della vita di miliardi di esseri non umani. Ma non si tratta del dominio dell’essere umano sulla natura, bensì di un aspetto dello stesso dominio di alcuni umani su altri. Il sistema di dominio capitalistico, cioè, assoggetta tanto gli animali quanto gli esseri umani. Per sua natura, il capitalismo è escludente, anche se si presenta come una promessa di liberazione per tutti. Gli abitanti dei paesi ricchi possono vivere soddisfacendo bisogni fittizi, creati dal sistema dei consumi, solo se gli abitanti dei paesi poveri vivono in condizione di sfruttamento (e in condizioni simili sono, ogni giorno di più, ampie fasce della popolazione degli tessi paesi ricchi). I beni sul mercato capitalistico sono prodotti grazie alla manodopera a basso costo della Cina e di altri paesi asiatici. La stessa alimentazione carnea di chi vive nei paesi ricchi è possibile sottraendo risorse alimentari ai paesi poveri.
Non basta, per liberare gli animali, rivendicare i loro diritti. Come osserva lucidamente Pullia, “il diritto è, per sua natura, ambito di ambiguità e di violenza, coniato e plasmato, riconosciuto o negato a seconda del sistema socioeconomico dominante” (p. 70). Il diritto, cioè, non è al di sopra del sistema di dominio, ma ne è condizionato; per cui ci si illude, credendo che il diritto possa contrastarne le logiche. Cercare leggi contro il maltrattamento sugli animali o la vivisezione non basta. Pullia confida piuttosto nel diffondersi di una nuova sensibilità, dimostrata dalla presenza di numerosi movimenti per i diritti degli animali e da manifestazioni come quella contro Green Hill. Perché questa rivoluzione si compia, occorre che vi sia una svolta teoretica, un cambiamento radicale nella nostra visione del mondo che abbandoni il secolare antropocentrismo. Un cambiamento che può cominciare dal ricordare ad ognuno che ogni giorno, ogni ora, ogni istante in ogni parte del mondo si compie un olocausto silenzioso, lo sterminio di miliardi di vite ridotte a cosa, a prodotti da supermercato. I bambini nemmeno riescono più a risalire dal pezzo di carne che hanno nel piatto all’animale da cui quella carne è tratta. Vedono il prodotto, non la struttura di sofferenza che c’è dietro. Gli adulti non sono molto diversi. Sanno che dietro ogni pezzo di carne c’è un animale ucciso, ma in fondo non lo sanno davvero. Spesso non hanno mai visto un mattatoio o un allevamento industriale. Non vedono sia perché il sistema si preoccupa di mettere fuori dalla scena le immagini che disturbano – e le immagini della pubblicità sono al contrario rassicuranti –, sia perché sono condizionati da strutture di pensiero che giustificano qualsiasi violenza, poiché l’animale non è che una cosa.
Si tratta di strutture di pensiero sostanzialmente fragili, che non è difficile scardinare; “ragionamenti” come: “in fondo gli animali sono stati creati da Dio per noi”. Più difficile è combattere gli enormi interessi economici che sono dietro l’industria degli allevamenti, con la sua enorme capacità di condizionare l’opinione pubblica attraverso i mass media e gli investimenti pubblicitari. Il cambiamento, insomma, non è facile. Si tratta di una lotta che ha bisogno del contributo di figure diverse: economisti, pubblicitari, fotografi, documentaristi, scrittori (si pensi a Jonathan Safran Foer). E di filosofi come Francesco Pullia.
Articolo scritto per Stato Quotidiano.
Papa Francesco |
Quando non si edifica sulle pietre cosa succede? Succede quello che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno dei palazzi di sabbia, tutto viene giù, è senza consistenza. Quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la frase di Léon Bloy: “Chi non prega il Signore, prega il diavolo”. Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio.
Come era prevedibile, in una città in cui razzismo ha solide basi, si scatena la protesta dei bravi cittadini per quei soldi impiegati per i Rom, mentre ci sono ben altre priorità.
Tra gli altri, si distingue questo tizio:
Ora, per chi avrà votato questo soggetto? Ipotizzo:
Thich Nhat Hanh con Martin Luther King |
Beppe Grillo |
Non occorre essere dei fini politologi per capire le ragioni della vittoria di Beppe Grillo: basta chiederlo a chi l’ha votato. Perché chi ha votato Grillo, a differenza di chi ha votato Berlusconi, non si nasconde; al contrario: sembra orgoglioso della sua scelta. E chiedete, dunque: perché avete votato per Grillo? Io ho ricevuto il più delle volte una risposta di questo tipo: “perché Grillo è uno che dice le cose come stanno”. Beppe Grillo è il comico che, dopo aver fatto ridere come tanti altri comici, ha cominciato a diventare scomodo, ed è stato espulso dal sistema. Anche se è scomparso dagli schermi televisivi, la gente si è ricordata di quel comico lì, quello che dava fastidio. Ed ora si è accorta di aver bisogno di lui. Perché? I Greci avevano il concetto di parresia, la capacità di dire la verità, di esprimersi liberamente di fronte al potere, che consideravano essenziale per la democrazia. Il concetto è presente anche nel Nuovo Testamento, quale franchezza nell’annuncio del Vangelo da parte degli apostoli, anche a costo della persecuzione. Mi pare che si possa interpretare in questo modo l’esito delle ultime elezioni. Gli italiani, estenuati da un potere che si è alimentato e sostenuto con la dissimulazione, l’inganno, la segretezza, la distorsione sistematica della verità, hanno scelto la figura del parresiaste, del comico scomodo che dice al re che è nudo. Il fatto che sia un comico è un punto a suo favore: è estraneo al mondo politico, considerato una casta indistinta che persegue scopi comuni, al di là delle differenze di ideologia e di bandiera. E’ vero che un leader politico rappresenta sempre una proiezione, l’incarnazione di un ideale umano condiviso. Mandando al potere Berlusconi, gli italiani hanno dato forma ad una delle loro anime – quella lazzarona, furba, cialtrona, maschilista, sostanzialmente mafiosa. Se la mia analisi non è errata, Grillo incarna il contrario: colui che si oppone al potere in nome della verità, e dunque esprime istanze ideali ed etiche (ed anche, certo, la rabbia trattenuta troppo a lungo contro il triste spettacolo della politica, il vaffanculo liberatorio indirizzato tanto alla destra quanto alla sinistra).
Questa esigenza spiega, forse, il voto di pancia di molti, ad esempio di non pochi pensionati e di molti giovani al primo voto. C’è poi il voto più meditato di quelli per i quali Grillo non è il comico cacciato dalla televisione, ma il blogger influente che ha creato un movimento in grado di controllare il potere.
In un sistema democratico il potere è sempre sotto controllo, e questo controllo impedisce che degeneri in dominio. In Italia non è mai stato così. Era fuori controllo il potere democristiano, che viveva di segretezza, di trame oscure, di servizi segreti deviati, di stragi di Stato, di accordi con la mafia. La breve stagione di Tangentopoli ha dato l’illusione che la magistratura potesse controllare il potere, come previsto dalla Costituzione. Ma le cose sono andate diversamente. Nella Seconda Repubblica il potere è stato fuori controllo non meno che nella prima, anche se in modo diverso. Si è posto fuori dal controllo in due modi: in primo luogo grazie ai mass media, che in un sistema democratico funzionante sono, insieme alla magistratura, la principale struttura per il controllo del potere, e che sono diventati invece uno strumento al servizio del potere per la manipolazione delle masse; in secondo luogo impedendo alla magistratura di esercitare la sua funzione attraverso le leggi ad personam. Chiunque avesse a cuore le sorti della nostra democrazia avrebbe dovuto considerare quale primo punto dell’agenda politica il tema del controllo del potere. Altri sono stati invece i temi imposti all’opinione pubblica dai mass media controllati dalla politica: quelli della sicurezza e dell’immigrazione in primis.
Oggi le forze politiche uscite sconfitte dalle ultime elezioni – in sostanza tutte, tranne il Movimento 5 Stelle – evocano foschi scenari: la nostra democrazia, che ha resistito (ma ha davvero resistito?) alla mafia democristiana, alle ruberie socialiste ed alla telecrazia berlusconiana, sarebbe ora in crisi per i vaffanculo di Beppe Grillo. Non manca la reductio ad Hitlerum: su Facebook gira un falso discorso di Hitler di cui si rimarca la pretesa somiglianza con quelli di Grillo. Sarebbe interessante compiere la stessa operazione con (l’ex) papa Benedetto XVI (Hitler non diceva Gott mit uns?) o con Gandhi (che in Hind Swaraj dice tutto il male possibile del Parlamento).
Piaccia o meno – ed ho appena spiegato perché dovrebbe piacere, e molto – con il Movimento 5 Stelle il tema del controllo del potere conquista il primo posto nell’agenda politica. L’idea di Grillo e Casaleggio è che il potere ha bisogno di un contropotere che lo controlli e lo tenga nei suoi limiti. Questo contropotere non è rappresentato né dai mass media né dalla magistratura; è rappresentato dalla Rete. I mass media si possono controllare con il denaro, la magistratura con il denaro e le leggi ad personam. Il Web no: sfugge ad ogni controllo. L’esito fallimentare delle avventure in rete di politici come Clemente Mastella o Romano Prodi dimostra l’impossibilità di usare la rete come uno strumento. La rete è per sua natura orizzontale, non tollera il “lei non sa chi sono io”. L’onorevole che apre un suo profilo Facebook o un suo blog deve dialogare a tu per tu con i suoi lettori. Non esistono autorità, VIP, sue santità in rete: lo dimostra (anche tristemente) l’esito infelice del profilo Twitter di Benedetto XVI. In rete si va per discutere, non per pontificare. E chi pontifica presto si rende ridicolo e viene espulso.
I nuovi eletti al Parlamento del Movimento 5 Stelle promettono di essere politici di nuova specie, non onorevoli ma cittadini che rispondono ai cittadini attraverso la rete. Lo saranno davvero? Difficile dirlo, così come è difficile dire se funzionerà realmente – anche tecnicamente – il sistema di democrazia digitale legato al blog di Beppe Grillo. Soprattutto, occorrerà vedere in che modo l’aspetto orizzontale, partecipativo ed aperto del Movimento (ben espresso dal motto “uno vale uno”) possa conciliarsi con la presenza del leader. In un articolo di tre anni fa scrivevo:
O i grillini sono seguaci del guru Grillo, e lo applaudono anche quando insulta Rita Levi Montalcini o rimpiange la sacralità dei confini nazionali contro l’invasione dei Rom, oppure sono persone che discutono apertamente ed orizzontalmente dei problemi comuni. È evidente la grottesca contraddizione di un movimento di persone che vogliono pensare con la propria testa, e al tempo stesso dipendono dalle parole d’ordine, dalle rivelazioni, persino dagli umori del loro leader. È una contraddizione che non può durare: o il movimento finirà per emanciparsi da Grillo, e farà politica autentica (esito improbabile, benché auspicabile), oppure finirà per essere schiacciato dalla figura ingombrante del suo stesso fondatore (1).
In un libro pubblicato successivamente a quell’articolo, Grillo e Casaleggio sostengono che per la Rete il concetto di leader “è una bestemmia”, e che esistono solo “portavoce delle istanze dei cittadini” (2). Nemmeno Beppe Grillo, dunque, è nulla più che un semplice portavoce. Ma le cose al momento non stanno così. Grillo è, che lo voglia o no, il leader del Movimento; e la sua opinione, che gli piaccia o meno, vale più di quella degli altri. Nel forum del Movimento non è infrequente il ricorso all’ipse dixit, per mettere a tacere chi la pensa diversamente.
C’è poi il problema culturale. Abbiamo alle spalle (sono in vena di ottimismo) decenni di politica clientelare. I politici hanno corrotto profondamente la fibra morale del paese e degradato la politica fino a farne un miserabile mercanteggiare. Uscirne sarà impresa meno facile del previsto. Ecco un messaggio comparso qualche minuto fa nel forum del Movimento:
carissimoBeppe io ti ho votato con il cuore credimi posso dimostrarlo ,.ti chiedo un favore enorme io ho perso il lavoro da 2anni sono sposato con due figli.ho 47 anni e 33 anni di contributi non riesco a trovare nulla come dobbiamo vivere visto che siamo totalmente abbandonati da tutti specialmente dai parenti grazie
(1) A. Vigilante, Il problema del pubblico, Dewey e Beppe Grillo. Limiti e contraddizioni del guru digitale in Diogene. Filosofare oggi, n. 20, 2010.
(2) B. Grillo, G. Casaleggio, Siamo in guerra. Per una nuova politica, Chiarelettere, Milano 2011, p. 11.
Nel 1925 compare un libro che appare quasi un corpo estraneo nel contesto filosofico del tempo: Realismo, di Giuseppe Rensi. Dopo una giovinezza di impegno politico socialista, l’autore si era dato agli studi filosofici aderendo al neoidealismo, pur nella direzione di un idealismo trascendente ispirato alla filosofia di Royce. La prima guerra mondiale aveva però mandato in crisi le sue certezze filosofiche, spingendolo verso lo scetticismo: del 1919 sono i Lineamenti di una filosofia scettica. Il realismo è il passo ulteriore nel suo rovesciamento delle posizioni idealistiche. Vi sono, sosteneva, un vecchio ed un nuovo spirito della filosofia, che attraversano tutta la sua storia. Lo spirito vecchio è quello che non sa distinguere i fatti dalla fantasia, la realtà dalla coscienza; lo spirito nuovo è quello che sa che un conto è la realtà, un altro le rappresentazioni psichiche. Nel mondo greco – ed è una lettura interessante – è vecchio lo spirito socratico-platonico, mentre nuovo è il relativismo della Sofistica. E vecchio è, naturalmente, il neoidealismo crociano e gentiliano. Di più: esso rappresenta l’Italia peggiore, l’Italia servile e smidollata che è il risultato di secoli di dominazioni. L’alternativa tra realismo ed idealismo era dunque alternativa tra Italia vecchia e nuova:
fra una perdurante Italia dell’epoca ispano-austriaca, dei cortigiani e delle schiene curve, e un’Italia libera, anche nello spirito, dall’oppressione, un’Italia d’uomini che sappiano (e, come dovrebbero, lo possano, senza che ci sia bisogno d’essere eroi e pericolo di subire menomazioni o conculcazioni di varia indole) pensare come credono; l’Italia delle schiene dritte. (1)
A distanza di quasi un secolo l’istanza realista torna a presentarsi nella filosofia italiana con il Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris, esito di un dibattito che ha coinvolto i maggiori filosofi italiani, e che è ancora aperto. Come Rensi, Ferraris proviene dalle posizioni che attacca: allievo di Vattimo e di Gadamer, è stato negli anni Ottanta uno dei più importanti rappresentanti italiani dell’ermeneutica. E come in Rensi, la sua polemica ha uno sfondo politico: Ferraris attacca la filosofia postmoderna accusandola di essere sostanzialmente di destra, collocandosi tra in cinismo di Bush ed il populismo berlusconiano, espressione della degenerazione della “rivoluzione desiderante” degli anni Sessanta e Settanta. Il postmoderno è nato come filosofia emancipativa ed è diventano una filosofia che giustifica il dominio, o nella migliore delle ipotesi non ha strumenti per opporvisi; denunciando i rapporti tra verità e potere, ha finito per “delegittimare la tradizione, che culmina con l’Illuminismo, per cui il sapere e la verità sono veicoli di emancipazione, strumenti di contropotere e di virtù”(2).
E qui c’è una distorsione che mi sembra tipica dei filosofi e degli intellettuali in generale. Ferraris parla come se le vicende della filosofia fossero determinanti per la società, per lo stato, per la civiltà; come se il futuro della gente dipendesse dall’esito di qualche dibattito filosofico; come se dal prevalere del realismo o del postmoderno dipendesse il nostro futuro. Disgraziatamente o per fortuna, le cose non stanno così. La filosofia è faccenda che riguarda soltanto un certo numero di persone, per lo più chiusi nelle università. I cambiamenti storici derivano da altro. Uno strumento come Facebook, inventato da un ragazzo di poco più di vent’anni tutt’altro che incline alla speculazione filosofica, ha cambiato il mondo in cui siamo molto più di centinaia di libri di filosofia.
Quando Ferraris scrive che se non esiste il mondo esterno “allora lo stato d’animo predominante diviene la malinconia, o meglio quella che potremmo definire come una sindrome bipolare che oscilla tra il senso di onnipotenza e il sentimento della vanità del tutto” (3), non si può fare a meno di sorridere. Predominante presso chi? La sindrome bipolare colpirà qualche professore universitario o, al più, qualche studentello di filosofia: poco male. Detto altrimenti: il pensiero non precede la società, non la costruisce, non la orienta più da gran tempo. Nella migliore delle ipotesi, insegue la realtà sociale e politica cercando di comprenderla, ma afferrandone solo brandelli. Ritenere che basti risolvere qualche questione teorica, come quella della realtà del mondo esterno e della oggettività della verità, per riprendere il cammino interrotto dell’emancipazione, è un’illusione: attribuisce al pensiero un potere che il pensiero ha perso da tempo. Il problema reale è un altro. Non: esiste il mondo esterno?, ma: come possiamo cambiare questo mondo, segnato dal male, dall’ingiustizia, dalla disuguaglianza, dallo sfruttamento? Cercare la via della prassi è l’unico modo per ridare alla filosofia un peso politico che non ha più. Dichiarare solennemente che il mondo esiste non ci aiuta a rendere migliore il mondo che esiste; al contrario, pone dei limiti alla prassi, poiché il mondo che esiste ci si pare di fronte con le sue strutture oggettive, immutabili, impenetrabili. La prassi si conforma all’essere, parte dall’accertamento dell’oggettività, ed in ciò trova il suo limite – mentre una prassi assoluta antepone l’istanza etica di giustizia, di verità e di bellezza, ed alla luce di quella istanza aggredisce il reale, pronta anche a negarne l’evidenza in nome di una realtà più alta, che è quella che si presenta alla nostra coscienza etica. E’ quella che altrove ho chiamato forzatura della verità (4).
Ma esiste, poi, la realtà? Esiste il mondo? C’è qualcosa qui fuori di me? Ferraris lo dimostra con l’esperimento della ciabatta. Immaginiamo, dice, che un uomo guardi un tappeto con sopra una ciabatta. Chiede ad un altro di passargliele, e l’altro lo fa senza difficoltà. “Banale fenomeno di interazione, che però mostra come, se davvero il mondo esterno dipendesse anche solo un poco, non dico dalle interpretazioni e dagli schemi concettuali, ma dai neuroni, la circostanza che i due non possiedano gli stessi neuroni dovrebbe vanificare la condivisione della ciabatta” (5).
Consideriamo la faccenda della ciabatta. Vorrei farlo dal punto di vista di una tradizione di pensiero che da qualche millennio si confronta con i temi della realtà e dell’apparenza, e che Ferraris, da bravo filosofo occidentale (o continentale) non prende in considerazione: quella buddhista.
Cos’è una ciabatta? E’ un oggetto con un suo nome ed una sua forma: nama e rupa. Appartiene indubbiamente al mondo delle cose reali. Noi sappiamo, però, che le cosiddette cose reali non sono la realtà ultima, ma sono a loro volta scomponibili in elementi più piccoli. La ciabatta è fatta di un tessuto che ha una sua trama, sotto la quale ci sono le molecole, e poi gli atomi, fino all’infinitamente piccolo. Tutte queste cose – le molecole, gli atomi eccetera – esistono, sono reali non meno della ciabatta. Se non vediamo questa realtà di atomi, ma la ciabatta, è soltanto perché i nostri occhi sono molto imperfetti. Se avessimo degli occhi perfetti come un microscopio a scansione, non vedremmo più la ciabatta. In altri termini, la ciabatta esiste soltanto a causa della nostra ignoranza (avidya), vale a dire per l’imperfezione dei nostri sensi. Affinché l’esperimento della ciabatta riesca, non occorre soltanto che io abbia degli occhi imperfetti, che mi consentano di vedere la ciabatta, e non la struttura sottostante, ma anche che io abbia il concetto ed il nome di ciabatta, e che sappia associarlo a quella immagine; e lo stesso vale per il mio interlocutore. E questa, con ogni evidenza, è una cosa che si svolge interamente nella nostra testa.
Il fatto che si svolga in due teste contemporaneamente non dimostra che non sia una operazione intellettuale che costruisce il mondo esteriore nel suo aspetto di nome e forma. Il concetto di vacuità è presente nel buddhismo fin dalle origini, ma è nella tradizione Mahayana che ha trovato la sua espressione filosoficamente più matura. Vacuità (ś**ūnyatā) non vuol dire che nulla esiste, ma che nessun ente esiste al di fuori di una fitta rete di relazioni, che lo costituiscono; pensare un ente come se fosse una realtà sostanziale, individuata, vuol dire illudersi. Questa consapevolezza del vuoto è nel buddhismo per eccellenza ciò che emancipa. E’ attraverso la considerazione della vacuità di ogni fenomeno, e della vacuità dello stesso soggetto, che si giunge alla liberazione, al nibbana. Ma non solo. Come afferma Candrakīrti, uno dei più rilevanti pensatori della scuola Mādhyamika (continuatore e commentatore del pensiero del più noto Nāgārjuna)
La vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di corto vedere, così come un serpente male afferrato o una formula magica male applicata. (6)
Ciò che emancipa è anche ciò che manda in rovina; rovesciando il detto di Hölderlin che tanto piaceva ad Heidegger, potremmo dire che dove cresce ciò che salva, aumenta anche il pericolo. Se tutto è vuoto, perché non dovrei uccidere questa persona, che è anch’essa vuota? Dove sarà il male? Se tutto è vuoto, il male non esiste. Ma la realtà assoluta non cancella la realtà relativa, nella quale questa persona esiste e soffre, ed ucciderla è male; posizionarsi nella realtà assoluta e negare così ogni morale vuol dire afferrare male il serpente della vacuità. Le critiche di Ferraris alla negazione postmoderna della oggettività del mondo esterno riguardano, mi sembra, questa possibilità di afferrare male il serpente. E nondimeno è necessario afferrare il serpente.
(1) G. Rensi, Realismo, Unitas, Milano 1925, pp. 6-7.
(2) M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 109.
(3) Ivi, p. 25.
(4) Cfr. A. Vigilante, Il pensiero nonviolento, Edizioni del Rosone, Foggia 2004.
(5) M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, cit., p. 40.
(6) Candrakīrti, Prasannapadā, 24, 11, trad. it. in La saggezza del Buddha, a cura di R. Gnoli, Mondadori, Milano 2004, p. 675.
La copertina del rapporto Our Nutrient World |
Chi diventa vegetariano (o vegano) lo fa per une delle tre seguenti ragioni: perché ritiene che la vita non umana abbia valore, e che sfruttare, torturare e distruggere miliardi di vite animali sia un crimine; perché considera la dieta carnea dannosa per la salute; perché pensa che la dieta ricca di proteine animali dei paesi ricchi sia una delle cause della fame diffusa nei paesi poveri. La prima ragione è etica, la seconda salutistica, la terza politica. Nel primo caso si tratta di fare qualcosa per gli animali, nel secondo di fare qualcosa per se stessi, nel terzo di fare qualcosa per l’umanità. Naturalmente, una ragione non esclude l’altra, e si può essere vegetariani al tempo stesso per ragioni etiche, salutistiche e politiche.
People can lower the consumption of animal protein by eating less frequent meat and dairy. In some coun-tries people are being mobilized to have a “meat-free” day.
Another important route is the reduce portion size. A third way is to shift to poultry meat, as this is usually as-sociated with less pollution than pork and beef.
Finally, approaches have been encouraged that foster a middle path between typical meat consumption in the developed world and vegetarian diets. In the “demitar-ian” approach the aim is to consume half the normal local amount of animal products. (1)
a. For many developed countries, individuals eat more animal products than is necessary for a healthy balanced diet, so that, for many people, reducing per capita meat consumption has the potential to give significant health benefits;b. In many developing countries, increased nutrient availability is needed to improve diets, while in other developing countries, per capitaconsumption of animal products is fast increasing to levels which are less healthy and environmentally unsustainable;c. For the reasons outlined above, reducing per capita consumption of animal products in the developed world has the potential to improve nutrient use efficiency, reduce overall production costs and reduce environmental pollution;d. While vegetarianism represents an option for some, this remains an unwanted ambition for many people;e. There is a need to encourage options of medium ambition, making it easier for those who choose to reduce the consumption of animal products. (2)
(1) Global Partnership on Nutrient Management (GPNM), Our nutrient world. The challenge to produce more food and energy with less pollution, Centre for Ecology and Hydrology (CEH), Edinburgh UK 2013, p. 70.
(2) NinE, The Barsac Declaration: Environmental Sustainability and the Demitarian Diet.
Socrative |
E questo è importante anche nella nostra preghiera: dobbiamo imparare ad affidarci di più alla Provvidenza divina, chiedere a Dio la forza di uscire da noi stessi per rinnovargli il nostro “sì”, per ripetergli “sia fatta la tua volontà”, per conformare la nostra volontà alla sua. (1)
(1) Udienza generale del 1 febbraio 2012 (qui).
Marcello Bernardi |
Ne La maleducazione sessuale di Marcello Bernardi si trova una analisi esemplare per limpidezza dei rapporti tra sesso e potere. Il sesso, sostiene l’anarchico Bernardi, è ciò che manda in crisi il potere, poiché è per essenza l’esatto contrario di ogni forma di sopraffazione, si sottomissione, di odio, di discriminazione. Da sempre il potere si esercita operando la rimozione del sesso, attraverso il senso di colpa e l’educazione repressiva. Il buon cittadino borghese investe le energie sessuali rimosse nel lavoro e il particolare nel denaro, il vero surrogato del sesso. Nella società borghese l’individuo è chiamato a sublimare le pulsioni sessuali e ad investirli in campi compatibili con l’economia capitalistica e il suo bisogno di produzione continua di beni.
Naturalmente, Berlusconi è solo la più avanzata antropomorfizzazione di una generale tendenza al godimento distruttivo. Oggigiorno il capitale/Super-ego ci dà un ordine preciso: “Godi!”. Non sto dicendo nulla di nuovo, è una situazione ben nota (1).
(1) Wu Ming 1, Note sul “Potere Pappone” in Italia, 1a parte: Berlusconi non è il padre.
(2) M. Bernardi, La maleducazione sessuale, Emme Edizioni, Milan 1977, p. 142.
(3) Ivi, p. 143.
(4) Ivi, p. 145.
(5) La distinzione tra potere e dominio si trova in Danilo Dolci. Potere è l’esercizio delle proprie possibilità vitali, che non contrasta ma si concilia con l’esercizio delle possibilità di altri. Il dominio al contrario è un esercizio delle proprio possibilità che si alimenta della impossibilità di altri: al dominatore è possibile ciò che agli altri non è possibile. Il potere è simmetrico ed orizzontale, il dominio asimmetrico e gerarchico. Per un approfondimento rimando al mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, Edizioni del Rosone, Foggia 2012.
Il non credente ed erede della cultura protestante piegò senza alcuna difficoltà interiore il ginocchio davanti a Pio XII e baciò l’anello del Pescatore, poiché non era a un uomo e politico che io mi genuflettevo, bensì a un idolo candido, il quale, circondato dal più austero cerimoniale sacro e aulico, impersonava con mitezza un poco sofferente due millenni di storia occidentale.
A questo proposito cito spesso una frase di Oscar Wilde, scrittore inglese nato a Dublino, dal profilo morale un po’ discutibile…
Lo scorso dicembre lo Stato italiano ha raggiunto con l’Unione Buddhista Italiana e l’Unione Induista Italiana una intesa che comporta la piena libertà di culto e, tra l’altro, la possibilità di riscuotere l’otto per mille. Si tratta, con ogni evidenza, di un provvedimento per il quale bisognerebbe rallegrarsi indipendentemente dalle proprie convinzioni religiose o irreligiose, poiché dà sostanza a quel principio di libertà religiosa affermato dall’articolo 19 della nostra Costituzione, senza il quale non può darsi autentica democrazia.
Ma non tutti la pensano così. Commentando la notizia in un articolo sul Giornale intitolato La mutua passa pure Buddha e Visnù, Marcello Veneziani scrive:
Mille cose urgenti e importanti il Parlamento non è riuscito ad approvare. In compenso è riuscito a varare in extremis, e oggi entra in vigore, il riconoscimento di Stato del buddismo e dell’induismo.
Sarà riconosciuto il loro culto, sorgerà una pagoda a Roma, saranno ammesse le loro festività e soprattutto potranno ottenere l’otto per mille.
Ha vinto la laicità dello Stato, esultano; cattolici, fate la fila come gli altri. Però due tradizioni così antiche e maestose che predicano il distacco dal mondo e reputano la realtà un’illusione, che se ne fanno del nullaosta del piccolo e storto Stato italiano? Volete Buddha col sussidio statale e il certificato di Visnù rilasciato dal Comune?
Capisco le religioni più legate alla storia e fiorite in Occidente, come il cristianesimo e l’ebraismo; ma il buddismo e l’induismo sono vie metafisiche, c’entrano con l’eterno, non con l’erario. Dopo la Dc avremo Democrazia Buddista e Rifondazione Bramina?
Buddisti e induisti sono poche migliaia in Italia; tanti lo sono da diporto, ovvero per esotismo o terapia antistress, perché praticano lo yoga, amano i ristoranti cinesi e i buddha bar, fanno massaggi ayurvedici, agopuntura e bevono tisana. Lo Stato firma con loro un’intesa e non invece con gli islamici che in Italia sono tanti, forse troppi, e sono davvero praticanti, anche troppo, e non vaghi appassionati di narghilè e kebab.
Libertà di culto, certo, ma non supermarket delle fedi e religioni passate dalla mutua. Non rovinate Buddha con le buddanate.
Proviamo a rispondere punto per punto a Veneziani.
– Perché mai l’attuazione di un principio costituzionale – attuazione che attende da anni – non dovrebbe essere “urgente e importante”?
– Perché mai i cattolici non dovrebbero “fare la fila come gli altri”? Democrazia è quel sistema in cui tutti hanno diritti, indipendentemente dal fatto di essere maggioranza o minoranza; tutti fanno la stessa fila.
– Tutte le religioni predicano il distacco dal mondo e dal denaro; anche il cristianesimo. Eppure i cattolici chiedono soldi allo stato: ed anche molti soldi.
– Solo un ignorante può dire che il Buddhismo è una via metafisica.
– Quanti sono i cattolici “da diporto”? La stragrande maggioranza dei cattolici sono tali solo per il battesimo, ma in realtà non seguono nessuna religione.
Non occorre essere particolarmente sagaci né preparati per rispondere punto per punto ad un articolo del genere; potrebbe farlo anche un ragazzino. E dunque viene da chiedersi: come mai? Perché Veneziani usa argomenti così scandenti, che è così facile smontare? Veneziani non è, come si potrebbe pensare leggendo quell’articolo, un idiota. E’ uno dei maggiori intellettuali di destra del nostro paese. Perché allora scrive sciocchezze?
La risposta è che scrive sciocchezze proprio perché è un intellettuale di destra. Quell’articolo è un ottimo esempio di articolo di destra: basta aprire un qualsiasi giornale di destra per trovarne decine di altri esempi. Ad accomunarli sono l’uso di argomenti grossolani, il ricorso alla ridicolizzazione, l’imprecisione, una certa sciatteria di fondo. Perché? Per quel certo disprezzo della ragione che è proprio della destra. Perché presentare argomenti seri vuol dire entrare in una discussione: e riconoscere l’interlocutore. Potete immaginarvi l’intellettuale di destra come uno che, in un salotto, se ne sta in un angolo a sorseggiare del whisky e ridacchiando fa battute. Se qualcuno lo prendesse sul serio e rispondesse alle sue battute con argomenti, dimostrerebbe di non aver capito nulla. Ed otterrebbe solo altre battute, altro sarcasmo, altre palesi assurdità.
E’ appena il caso di notare che il diffondersi di questo stile è un pericolo per la democrazia. La democrazia esige la discussione pubblica dei problemi. Compito degli intellettuali – e dei giornalisti – è quello di favorire questa discussione pubblica presentando dati ed argomenti, il più possibile comprensibili e verificabili. Dati ed argomenti che saranno diversi, opposti anche, ma inseriti in una cornice comune, che è quella della ragione, e che comprende alcune semplici regole riguardanti la discussione. L’intellettuale di destra si sottrae a questa cornice comune. Rifiuta la ragione, rifiuta le regole dell’argomentazione. Ha un talento particolare per squalificare la comunicazione, ricorrendo a quelle strategia analizzate da Watzlawick ed altri nella Pragmatica della comunicazione umana: contraddirsi, dire cose palesemente insensate, rispondere in modo vago eccetera. In quello che scrive, l’atteggiamento fa aggio sull’argomento. Non gli importa spiegare perché i buddhisti e gli hinduisti gli sono antipatici e non vuole che abbiano gli stessi diritti dei cattolici. Non deve argomentare sul serio. Importa solo dire l’antipatia – e torna utile la ridicolizzazione. Del resto, diceva Giuseppe Rensi (uno dei primissimi teorici del fascismo), il prevalere di un argomento sull’altro non è legato alla forza della ragione, ma alla forza bruta. Tanto vale rinunciare del tutto ad argomentare.
Raimon Panikkar |
Per Panikkar, l’essere è quello che è, e non c’è nulla da dire. Non esiste un altro essere, in base al quale criticare questo essere. “Ciò che deve essere è, dunque, subordinato a ciò che è” (1). Questo essere che è come deve essere è qualcosa che trascende le distinzioni ordinarie di bene e male. E tuttavia fonda la pace. Pace è “un benessere (star bene) nell’Essere” (2).
Un Dio unicamente trascendente, un Dio situato solo alla fine della storia, del tempo o dell’universo, è stato, per lo più, il Dio belligerante di molte religioni, nonostante le proteste dei mistici e le sottigliezze dei filosofi. Questo Dio escatologico, che accoglie solo i pochi vincitori che sono giunti alla meta, non è un Dio di pace, ma di guerra. (3)
Ramakrishna |
Nell’ottobre del 1885 Ramakrishna è a letto, tormentato (per quanto può esserlo un santo, s’intende) dalla malattia – un cancro alla gola – che l’anno seguente lo condurrà alla morte. Circondato dalle premure dei discepoli, è affidato alle cure del dottor Mahendralal Sarkar, un luminare dell’omeopatia fondatore della Indian Association for the Cultivation of Science. Il medico non riesce a nascondere un certo fastidio per l’adorazione che i suoi discepoli hanno per Ramakrishna. Rivolto a uno di loro, afferma: “Fate qualsiasi cosa, ma vi prego di non adorarLo come Dio. Facendo così, voi state semplicemente rovinando questo sant’uomo!”. Ed al discepolo che risponde che no, per lui è impossibile non adorare chi gli ha permesso di sfuggire allo scetticismo, replica:
Io sostengo che tutti gli uomini sono uguali. Una volta ci portarono da curare il figlio di un droghiere. Le sue budella evacuavano. Tutti si tapparono il naso con la parte terminale dei loro vestiti, ma io non lo feci. Sedetti con il bambino per mezz’ora. Non metto la pezza al naso neanche quando lo spazzino mi passa vicino con le ceste sulla testa. No, questo per me è impossibile. Lo spazzino non è affatto meno umano di quanto non lo sia io; perché dovrei guardarlo dall’alto in basso? Per quanto riguarda questo sant’uomo, pensate che io possa salutare e baciare la polvere dei suoi piedi? Guardate. (Il dottore saluta e bacia la polvere dei piedi del Maestro). (1)
Sembra che pensiate che salutare i piedi di una persona sia qualcosa di meraviglioso! Non capite che io posso fare la stessa cosa a tutti. (A una persona sedutagli civino) Ora, signore, permettetemi di salutare i vostri piedi. (A un altro) Ed ora a voi, signore. (A un terzo) E a voi, signore. (Il dottore saluta i piedi di molti). (3)
Philippe Meirieu |
In un libro dal titolo militante – Pédagogie: le devoir de résister (Esf, Issy-les-Moulineaux 2007) – Philippe Meirieu, una delle voci più ascoltate della pedagogie francese, sostiene, sulla scorta di Hannah Arendt, che occorre segnare un confine netto tra infanzia ed età adulta: l’educazione riguarda solo i bambini, non gli adulti; “non si possono educare gli adulti, né trattare i bambini come dei grandi. (…) All’educazione, nella misura in cui si distingue dal fatto di apprendere, bisogna che si possa assegnare un termine” (Arendt, citata a p. 71). Le ragioni di questa separazione sono in ultima analisi politiche: nei totalitarismi gli adulti sono infantilizzati e sottomessi ad un’autorità. Commenta Meirieu:
Da questo punto di vista, la separazione di cui parla Hannah Arendt è fondatrice della possibilità stessa di ogni democrazia: bisogna istituire una frontiera – anche arbitraria – tra i bambini e gli adulti. E’ l’esistenza di questa frontiera che permette al tempo stesso l’educazione dei bambini e l’esercizio del potere dei cittadini. Il bambino deve dunque essere educato e, durante questo tempo, non può essere considerato un cittadino, a rischio di cadere in una confusione generatrice di gravi abusi. L’adulto, dal suo canto, se può continuare ad apprendere, non può essere educato: è lui che deve decidere cosa apprendere, deve scegliere la propria via e decidere, direttamente o con l’intermediazione dei suoi rappresentanti eletti, sulle leggi che reggono la città. (p. 72)
Ha mangiato ma non le basta, gira inquieta alla ricerca di cibo, mi fissa con un’aria mesta quando mangio, in attesa di un boccone pietoso. Pare che sia l’esser stati randagi, l’aver girovagato per anni, e ora trovi da mangiare ora no, e quando trovi non fermarti ma mangia anche per quando non ce n’è, e cerca sempre, cerca perché può essere che per molto tempo non si trovi nulla – pare che l’esser stati randagi non sia revocabile. Si resta randagi per sempre, con una fame che non si estingue, che brucia e brucia e brucia.
E’ così che vivono molti. Randagi, un tempo; ora hanno una casa e un affetto, ma restano affamati, alla ricerca di un boccone, di qualcosa che quieti la voragine di dentro, ed ogni boccone è insufficiente, ogni sorriso diventa presto pianto, ogni gioia si converte in dolore, e scorre nelle vene come acido.
Stavo salendo su una strada di montagna. Non le Alpi, nemmeno l’Appennino. Una di quelle strade del nostro Gargano, che salgono attorcigliandosi intorno al monte. Man mano che procedevo il panorama si allargava: e respiravo. Ad un certo punto – per una di quelle incoerenze senza le quali i sogni non sarebbero sogni – mi sono trovato ad attraversare un lembo di mare, l’impidissimo tra le rocce. Ho tolto le scarpe per procedere nell’acqua. Ma le scarpe mi si sono immediatamente riempite di granchi. Ne toglievo uno, e subito ne spuntava un altro. Ho capito presto che avrei combattuto all’infinito la mia battaglia contro i granchi: e che non sarei andato oltre.
Mi sono svegliato. La stanza era buia. Sentivo respirare. Ho pensato che fosse mia sorella. Quando ero ragazzino io e i miei fratelli dormivamo in cucina: io e mio fratello in un letto a castello, mia sorella in un letto singolo, oltre il tavolo della cucina. Sono qui, mi sono detto; qui a casa dei miei, con i miei fratelli. L’incoscienza del risveglio, in quell’attimo in cui ancora non è stato caricato il programma dell’io. Un attimo, appunto. Poi sono diventato quel che sono: un uomo che ha appena compiuto quarantun’anni.
Questo sbalzo temporale mi ha lasciato una sensazione difficile da definire, confusa, impastata di molte cose, tra le quali la nota rilevante era una certa amarezza.
Io non credo nel pensiero, e non credo nei nomi. Quando pensiamo siamo alla superficie di noi stessi, nello sforzo – inutile? – di renderci intellegibili agli altri. Quel che siamo è al di là dei nomi e del pensiero. Siamo come uno gettato in mare, che fa grandi sforzi per restare a galla, ma presto viene sommerso dai flutti e va a fondo. Cerchiamo di tenerci a galla afferrandoci ai nomi ed ai concetti, ma quello che siamo è un fiume senza forma, nel quale costantemente siamo sommersi.
C’era questo, dunque: io non io, quarantenne di quindici anni, nel mio letto di morte. Io non sono quello, ma non sono nemmeno questo. E: io sono questo, e quello. तत्त्वमसि. Io qui, nella forbice del non essere, del non qui. Tra la nascita e la morte. La non nascita e la non morte.
Quindici anni fa, il 30 dicembre 1997, moriva Danilo Dolci. Il telegiornale della Rai ne diede notizia in modo sbrigativo; del resto, da molti anni ormai Danilo aveva smesso di interessare i giornali: da quando – alla fine degli anni Sessanta – aveva abbandonato la pratica dei digiuni e si era concentrato sul lavoro educativo.
Devo ammettere che non avevo, allora, un interesse particolare per Danilo. Cominciavo a leggere e studiare invece Aldo Capitini, su cui due anni dopo avrei pubblicato il mio primo libro. Mi interessava di più, Capitini, per la sua singolare religiosità, in qualche modo eretica: ed io sono stato sempre attratto dagli eretici. Cinque anni dopo avrei fatto una lunga chiacchierata su Capitini e Dolci con Pietro Pinna, che è stato collaboratore prezioso sia dell’uno che dell’altro. Mi servì, quella chiacchierata, a demitizzare Dolci, mi restituì con una certa crudezza la sua umanità piena di contraddizioni. Contraddizioni così forti che sulle prime mi allontanarono da lui. Mi ci è voluto del tempo per riscoprire la sua grandezza, che i suoi limiti umani e le sue contraddizioni non valgono a diminuire. Fino alla decisione di prendermi del tempo per studiarlo a fondo.
Ho passato gli ultimi tre anni della mia vita a studiare Dolci, dunque; a cercare di conoscerlo e di farlo conoscere ed a sperimentare il suo metodo della maieutica reciproca. Come direttore scientifico di Educazione Democratica ho promosso un dossier su Dolci nel numero 2 della rivista e la pubblicazione del libro di Michele Ragone Le parole di Danilo Dolci nella collana di libri collegata alla rivista, nella quale quest’anno ho pubblicato il mio Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci: tutti testi liberamente scaricabili.
Credo di poter dire di aver dato, con gli amici della rivista, un contributo non irrilevante alla riscoperta di Dolci e della sua opera. Ma molto resta da fare. Dolci ha lasciato in eredità una quantità di intuizioni – alcune anche religiose: e del massimo interesse -, ma soprattutto un metodo, quello della maieutica reciproca. Ha sperimentato questo metodo in due direzioni: lo sviluppo comunitario e l’educazione. Da un lato, esso è servito a scuotere la gente di Partinico, Trappeto, Palermo, a far nascere dighe e cooperative, a combattere la mafia; dall’altro si è insinuato nelle scuole pubbliche cercando di combattere dall’interno la logica trasmissiva ed unidirezionale della lezione frontale. E’ urgente riprendere il metodo di Dolci ed applicarlo in etrambe le direzioni. Scoprire le sue potenzialità per combattere lo spegnersi di tanti quartieri, l’allargarsi del deserto relazionale nelle periferie urbane, l’abbandono della speranza di giovani e vecchi nella società post-industriale e quanto può ancora fare per portare nelle scuole il fuoco vivo della discussione, del confronto, dell’analisi comune – e perciò politica – dei problemi: lo spirito della ricerca della verità.
Nel mio libro su Dolci mi sono soffermato in particolare sul tema del potere. Danilo distingueva il potere, che è una cosa positiva, dal dominio, che è la sua degenerazione. Potere è possibilità di fare. Le persone possono avere potere insieme, se fanno insieme, in modo collaborativo. Il potere si corrompe nel dominio quando il fare di alcuni impedisce il fare di altri; quando l’equilibrio relazionale si infrange, e c’è uno che sta in alto ed uno che sta in basso.
La distinzione di Dolci, che a prima vista può apparire semplicistica, mi sembra preziosissima, perché ci offre al tempo stesso una chiave di lettura del labirinto della contemporaneità ed una indicazione per uscirne. Quello che accade è che si sta moltiplicando il dominio. Per il pensiero anarchico classico, dominio è quello dello Stato, che è il nemico da combattere. Oggi questa analisi è parziale. Il dominio assume una forma sovranazionale, e tende anzi a combattere ed a ridimensionare il ruolo dello Stato. Come una rete, la logica del dominio penetra la società intera, si insinua nelle istituzioni, permea di sé ogni forma di relazione. Che alcuni abbiano più possibilità ed altri meno – e che alcuni abbiano la possibilità di cancellare le possibilità di altri – diventa una realtà accettata ed accettabile, perché sperimentata mille volte durante la vita quotidiana. Di qui può partire il cambiamento. Dal rifiuto, in ogni campo, in ogni situazione, di stare in una relazione asimmetrica. Dalla pretesa dell’uguaglianza. Dal rifiuto della trasmissione unidirezionale, dalla richiesta pressante di comunicazione autentica.
Quanto più la società si irrigidisce, si fa piramidale e gerarchica, tanto più è importante inventarsi situazioni nelle quali le persone possano comunicare in modo orizzontale, scoprendo che insieme le possibilità degli uni si alimentano delle possibilità degli altri.
Si tratta, diceva Danilo, di diventare obiettori di coscienza. Un concetto che contiene, a ben vedere, due movimenti. Il primo è quello del gettare-contro, del rifiutarsi, del ribellarsi perfino: del dire no. Il secondo è quello della scienza comune, della cum-scientia. E’ il momento in cui ci si mette a discutere con altri per ritrovare il filo della umanità comune, per tessere una verità che non sia ideologica né dogmatica, ma esprima una ricerca comune, nella quale il contadino sta accanto al docente universitario, l’operaio all’intellettuale.
Sulla soglia del nome e della forma
s’affanna intorno al mondo con stupore
aperto al cielo che gli passa dentro
vaso che non trattiene e si spaura
e si chiede cos’è quest’altra vita:
il mio-me che si spacca e va perdendo
ogni residua stella e nella notte
non ha confine traccia o segnatura:
solo sta nella vita, e tutto è nuovo.
Comenio |
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