Il bambino è apertura al mondo

Cane da caccia. Disegno di Carlo Michelstedter.

Il bambino incarna una diversità radicale. Gran parte di ciò che comunemente si chiama educazione consiste nell’esorcizzare, limitare, controllare, arginare, incanalare e finalmente spegnere questa diversità. Affinché l’opera riesca occorre che sia tacitamente condivisa la percezione del bambino come non-persona o come persona parziale: occorre, infatti, molta violenza, che sarebbe ingiustificabile ed inaccettabile se al bambino fossero pienamente riconosciuti la dignità ed i diritti di una persona.

Ad inquietare del bambino è, in primo luogo, la sua libertà. Egli si colloca all’origine, sta nella dimensione magmatica dalla quale la società è nata con una serie di progressive solidificazioni, fino a diventare il sistema di regole, di compromessi, di ipocrisie che è. Non dà per scontato, il bambino, nulla di ciò che è scontato, ed in questo modo ci mostra quotidianamente che il mondo in cui viviamo, il mondo che abbiamo costruito o cui abbiamo dato il nostro tacito consenso, evitando di ribellarci, non è che uno dei mondi possibili: e non il migliore.
Non sa che farsene, il bambino, di cose per le quali gli adulti darebbero la vita, ed è pazzamente innamorato di cose che per gli adulti valgono meno di nulla. Per un bambino – per un bambino che non sia stato corrotto dagli adulti – non esiste lo status, quella cosa per la quale gli adulti sono disposti a fare ogni cosa. Perché non è per il denaro che un adulto cerca il denaro, né desidera il potere per il potere. Cerca queste cose per essere riconosciuto dagli altri, affinché la sua misera persona risplenda quanto più è possibile.
Diceva Hegel che nessuno è un eroe per il proprio cameriere. Deve sentirsi un po’ imbecille, al cospetto del proprio bambino, l’uomo che consuma la sua vita nell’impresa di far carriera, sacrificando tutto il suo tempo e le sue energie, accettando compromessi ed inghiottendo rospi. Deve sentirsi imbecille, di fronte a quella vita beata, al di qua di ogni preoccupazione sociale, di quell’ansioso e insensato inseguire sé stesso. Ma è un imbarazzo che dura un attimo, presto soccorso dalla commiserazione per quell’esserino che non sa come va il mondo, e cui bisogna insegnare tutto.

Cominciando dal dovere. Anzi, dai doveri: perché c’è il dovere morale e c’è il dovere sociale. Il primo consiste nei criteri del bene e del giusto, del fare e del non fare, che i genitori consegnano con qualche trepidazione ai loro figli, sperando spesso che non li prendano troppo sul serio. L’altro, il dovere sociale, consiste nell’impegno, posto precocemente sulle spalle del bambino, di contribuire alla ricerca familiare dello status. Dovere che si concretizza, per ora, nel dovere scolastico, che è il primo gradino del dovere sociale. Gli piaccia o no, serva o no alla sua crescita, abbia a che fare o meno con l’apprendimento, il bambino deve studiare e prendere buoni voti. Il successo scolastico è la prima forma di conquista dello status. Un bambino che non va bene a scuola è, per una brava famiglia borghese, motivo di vergogna: uno che pianta in asso la sua famiglia, dopo tutto ciò che essa ha fatto per lui. Il bambino che ha successo è invece un trofeo da esibire in società. Non è un caso che abbiano introdotto i voti fin dalla prima elementare. Già il bimbo di sei anni ha da essere fiero della sua pagella piena di dieci e guardare con qualche disprezzo chi ha voti meno buoni. E’ così che gli adulti portano la guerra nel mondo dei bambini. E’ così che comincia la corruzione, l’uscita dal paradiso infantile e l’ingresso nell’inferno degli adulti.
Il piccolo Carlo Michelstaedter raccoglie per strada un cane randagio, lo porta in casa e gli fa il bagno. E’, per lui, un modo per mettere in pratica i valori di amore e bontà che gli ha insegnato la sua famiglia. Ma qualcosa va storto: scoprendo la cosa, i genitori si arrabbiano a cacciano via il cane. Probabilmente si ricorderà di questa scena quando anni dopo scriverà, in quel capolavoro che è la sua tesi di laurea (La persuasione e la rettorica), una critica durissima dell'”educazione civile”, quel sistema di premi e castighi con il quale si fa del bambino un membro adattato ed irresponsabile (adattato in quanto irresponsabile) della società.
Il bambino è apertura al mondo. Considerarlo un organismo dedito esclusivamente alla ricerca del piacere – un piccolo mostro di egoismo – è uno dei modi per esorcizzare la sua differenza. Questo piccolo narcisista è in realtà un essere capace di guardare le cose e gli esseri con interesse assoluto: sta, etimologicamente, tra e nelle cose. Non ha ancora conquistato lo sguardo dall’alto, distaccato ed analitico, di chi domina, usa, riduce a sé. E’ un soggetto che non è emerso ancora dalla natura, non si è distaccato da essa per studiarla scientificamente e sottometterla attraverso il lavoro. Attraverso l’educazione questo essere che sta tra le cose e gli esseri imparerà l’arte del dominio, si avvertirà signore e padrone, diventerà l’homo faber che trasforma il mondo e ne fa il suo strumento. Dominatore e al tempo stesso dominato, signore della natura ma schiavo del suo sistema sociale ed economico, manipolato in ogni istante della sua vita, costretto alla produzione ed al consumo compulsivo, riuscirà a salvarsi, forse, solo se si ricorderà di essere stato bambino.

Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.

Il furto aggravato di rifiuto

Gianfranco Grandaliano, presidente dell’AMIU (municipalizzata per la raccolta dei rifiuti) di Bari, durante un consiglio comunale monotematico dello scorso dicembre (testo riportato nel suo profilo Facebook): 

Poi c’è un altro fenomeno, quando noi vediamo quei rifiuti buttati per
fenomeno, io non sono razzista, li individuo come extracomunitari
sinceramente, che purtroppo la mattina calano in tutti i quartieri
della città, non è che ce l’hanno col Libertà, in tutti i quartieri
della città, rovistano tutti i cassonetti e mica gli interessa cosa
sta a terra. Io ho pregato il Sindaco comunque di fare un’ordinanza ad
hoc per multarli, ma stavo configurando, veniva forse da
un’esperienza mia professionale, di configurare eventualmente anche un
illecito penale al fine di consentire alle Forze dell’Ordine di
provvedere in tal senso, denunziare a piede libero comunque un arresto
in flagranza, perché stiamo configurando il furto aggravato di
rifiuto, che nel momento in cui il cittadino conferisce nel cassonetto
diventa di proprietà dell’AMIU, quindi se io vado a prendere il
rifiuto è come se mi rubassero il rifiuto. Lo so che sembra ridicolo,
però è un escamotage giuridico per fronteggiare questo problema, che è
un problema veramente serio sul punto. 

Proviamo a seguire la logica di questo ragionamento. Il furto aggravato di rifiuto è una cosa ridicola, che non sta né in cielo né in terra. Grandaliano lo sa, e lo ammette. Bisogna però inventarsi questa cosa ridicola come escamotage per mandare in galera alcune persone, che guarda caso sono extracomunitarie (i Rom sono per lo più cittadini italiani o comunitari, ma sono sottigliezze inutili: l’aggettivo extracomunitario indica ormai chiunque sia spiacevolmente diverso). Questo, in un paese in cui la classe politica sta riflettendo sull’escamotage da trovare per non mandare in galera un potente truffatore ed evasore fiscale, che è stato per molto tempo capo del governo. Siamo un paese in cui ci si inventa cose ridicole (l’agibilità politica) per non mandare in galera i potenti, anche se sono dei delinquenti, ed in cui ci si inventa cose ancora più ridicole (il furto aggravato di rifiuti) per mandare in galera i deboli, anche se non hanno compiuto alcun reato.
La cosa che più colpisce, nel presidente di una azienda che si occupa di ambiente, è la mancanza di percezione ampia del fenomeno. I Rom e gli africani che rovistano nei cassonetti lasciano della sporcizia. Questo vede il cittadino, che si indigna. Uno che abbia un po’ più di consapevolezza vedrebbe altro. Vedrebbe che rovistando nei cassonetti, quelle persone tirano fuori cose che possono essere riciclate e riutilizzate. Cioè: trasformano il rifiuto indifferenziato in una risorsa. E in questo modo rendono alla comunità un servizio per il quale bisognerebbe ringraziarli.

Etty Hillesum: estratti dal Diario

Etty Hillesum

Il Diario che Etty Hillesum ha tenuto dal 1941 al 1943, prima di finire i suoi giorni ad Auschwitz, non è soltanto uno straordinario documento storico sul periodo più buio della storia contemporanea, ma appartiene a pieno titolo alla storia della mistica. E come tutti i testi di mistica autentica, esso provoca qualche disagio al credente, che ne è al tempo stesso attratto e respinto. Attratto, perché si tratta del diario di una ragazza che affronta con animo sereno, perfino felice, la tragedia dell’Olocausto grazie alla forza che le dà Dio: e quale testimonianza migliore del potere della fede? Respinto, perché quella di Hillesum non è fede nel senso comune del termine, né il Dio di cui parla è quello che si prega nelle chiese. Etty Hillesum spiega con grande chiarezza che il suo Dio non è altro che “la parte più profonda” di sé stessa. Non un altro-da-sé, ma la parte più nobile di sé. Come per ogni mistico, non si tratta di rendere culto ad un Ente o a una Persona, ma di essere, di realizzare Dio. C’è un fondo dell’anima in cui l’io-non-più-io diventa Dio.
In termini buddhistici, si dirà che c’è in ognuno la natura-Buddha (tathāgata-garbha), la possibilità di diventare un Buddha, ossia un essere libero dalla sofferenza e capace di amore e compassione. E’ questa consapevolezza che consente ad Hillesum di amare anche i nazisti: “disseppellire Dio” nel nemico vuol dire aiutarlo a ritrovare in sé questa natura luminosa, che nessuna brutalità potrà soffocare fino al punto da renderla irraggiungibile.
I passi che seguono sono tratti dall’edizione integrale del Diario (Adelphi, Milano 1996).

Ed ecco che improvvisamente, qualche settimana fa, è spuntato il pensiero liberatore simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto d’erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero. Questo non significa essere indulgenti nei confronti di determinate tendenze, si deve ben prendere posizione, sdegnarsi per certe cose in certi momenti, provare a capire, ma quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. É una malattia dell’anima.

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Penso che lo farò comunque: «mi guarderò dentro» per una mezz’oretta ogni mattina, prima di cominciare a lavorare: ascolterò la mia voce interiore. Sich versenken, «sprofondare in se stessi». Si può anche chiamare meditazione; ma questa parola mi dà ancora i brividi. E del resto, perché no? Una quieta mezz’ora dentro me stessa. Non è sufficiente muovere braccia, gambe e tutti gli altri muscoli nel bagno, ogni mattina. Un essere umano è corpo e spirito. E una mezz’ora di esercizi combinata con una mezz’ora di «meditazione» può creare una base di serenità e concentrazione per tutto il giorno. Non è però una cosa semplice, quella stille Stunde, «ora quieta»; bisogna impararla. Prima è necessario spazzare via dall’interno tutte le insignificanti preoccupazioni, i detriti. In fin dei conti, persino in una testolina così piccola c’è sempre una montagna di distrazioni irrilevanti. É vero che ci sono anche sentimenti e pensieri edificanti, ma il ciarpame è sempre presente. Sia questo, dunque, lo scopo della meditazione: trasformare il tuo spazio interiore in un’ampia pianura vuota, senza tutta quell’erbaccia che impedisce la vista. Così che qualcosa di «Dio» possa entrare in te, come c’è qualcosa di «Dio» nella Nona di Beethoven.
E anche qualcosa dell’«Amore», ma non quella sorta di amore di lusso in cui ti crogioli di buon grado per una mezz’ora, orgogliosa dei tuoi sentimenti elevati, bensì amore che puoi applicare alle piccole cose quotidiane.
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Sono presuntuosa nel dire che possiedo troppo amore per darlo a una persona sola? L’idea che per tutta la vita si debba amare sempre e soltanto una persona mi sembra così infantile. Può impoverire e inaridire parecchio.
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Riassumendo, vorrei in realtà dire questo: la barbarie nazista fa sorgere in noi un’identica barbarie che procederebbe con gli stessi metodi, se noi avessimo la possibilità di agire oggi come vorremmo. Dobbiamo respingere interiormente questa inciviltà: non possiamo coltivare in noi quell’odio perché altrimenti il mondo non uscirà di un solo passo dalla melma.
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In fondo, la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio. E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che presta ascolto alla parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio.
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Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa. Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarTi affinché Tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini.
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Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo.
M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le mani, credo che cerchino Dio dentro di sé.
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Sono molto stanca.
Sono in grado di sopportare questo tempo presente, lo capisco persino un poco.
Se sopravviverò a questo tempo e se allora dirò: la vita è bella e ricca di significato, bisognerà pur credermi.
Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile.
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Vorrei poter raggiungere le paure di quell’uomo e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori, Klaas, è l’unica cosa che possiamo fare di questi tempi.
Allora Klaas ha fatto un gesto stanco e scoraggiato e ha detto: Ma quel che vuoi tu richiede tanto tempo, e ce l’abbiamo forse? Ho risposto: Ma a quel che vuoi tu si lavora da duemila anni della nostra èra cristiana, senza contare le molte migliaia di anni in cui esisteva già un’umanità – e che cosa pensi del risultato, se la domanda è lecita? E con la solita passione, anche se cominciavo a trovarmi noiosa perché finisco sempre per ripetere le stesse cose, ho detto: E’ proprio l’unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale.
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Per formularlo ora in modo molto crudo – il che farà probabilmente male alla mia penna stilografica: se un uomo delle SS dovesse prendermi a calci fino alla morte, io alzerei ancora gli occhi per guardarlo in viso, e mi chiederei, con un’espressione di sbalordimento misto a paura, e per puro interesse nei confronti dell’umanità: Mio Dio, ragazzo, che cosa mai ti è capitato nella vita di tanto terribile da spingerti a simili azioni?
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Passiamo ad altro; oggi ho imparato una cosa importante: dovunque ci troveremo, dobbiamo esserci con tutto il nostro cuore. Se il cuore è altrove, non saremo capaci di dare abbastanza alla comunità a cui apparteniamo e quella comunità ne diventerà più povera. Che si tratti di impiegate carrieriste o Dio sa cosa, bisogna esserci con tutto il cuore e si potrà trovare qualcosa anche in loro.
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Il buffo è che non mi sento nelle loro grinfie, sia che io rimanga qui, sia che io venga deportata. Trovo tutti questi ragionamenti così convenzionali e primitivi e non li sopporto più, non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che ora io mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre. Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non mi potranno fare. E forse cadrò in preda alla disperazione e soffrirò privazioni che non mi sono mai potuta immaginare, neppure nelle mie più vane fantasie. Ma anche questo è poca cosa, se paragonato a un’infinita vastità, e fede in Dio, e capacità di vivere interiormente.
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Mi sento responsabile per quel grande e bel sentimento della vita che mi porto dentro, devo cercare di mantenerlo intatto in questo tempo per poterlo trasmettere a un tempo migliore.
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Credo che sia soprattutto la paura di sprecarsi a sottrarre alle persone le loro forze migliori. Se, dopo un laborioso processo che è andato avanti giorno dopo giorno, riusciamo ad aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò «Dio», e se poi facciamo in modo che questo varco rimanga sempre libero, «lavorando a noi stessi», allora ci rinnoveremo in continuazione e non avremo più da preoccuparci di dar fondo alle nostre forze.
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Il sentimento che ho della vita è così intenso e grande, sereno e riconoscente, che non voglio neppur provare a esprimerlo in una parola sola. In me c’è una felicità così perfetta e piena, mio Dio.
Probabilmente la definizione migliore sarebbe di nuovo la sua: «riposare in se stessi», e forse sarebbe anche la definizione più completa di come io sento la vita: io riposo in me stessa. E questo «me stessa», la parte più profonda e ricca di me in cui riposo, io la chiamo «Dio».
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Credo sinceramente che potrei esserlo, potrei anche dare un po’ di forza alla vita degli altri ed essere davvero felice, perché anche l’autentica felicità è un traguardo: essere davvero felice dentro, accettare il mondo di Dio e goderne senza voltare le spalle a tutta la sofferenza che vi regna. E’ una così triste orda, l’umanità oggi: tanto poco felice di vivere, nel vero senso della parola, e tanto poco radiosa. Un cumulo di piccoli complessi e preoccupazioni triviali, basse invidie, matrimoni infelici e figli malriusciti, ecc. Eppure, anche se abiti in un sottotetto e mangi solo pane secco, vale comunque la pena di vivere. E sebbene questi tempi rendano difficile l’esistenza, impedendoci di vivere appieno, non dovremmo comunque farne una tragedia o lasciare che tutto vada tristemente in malora. Anche questo fa parte della vita e non si può stabilire se la rovina debba colpire me o un’altra persona, ma non bisogna prendersi troppo sul serio nemmeno in tal caso.
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Quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo «Dio».
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Nella mia vita c’è posto per tante cose. E ho così tanto posto, mio Dio.
Oggi, mentre passavo per quei corridoi così affollati, ho sentito improvvisamente un gran desiderio d’inginocchiarmi sul pavimento di pietra, in mezzo a tutta quella gente. L’unico atto degno di un uomo che ci sia rimasto di questi tempi è quello d’inginocchiarci davanti a Dio.
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Cammino accanto agli uomini come se fossero piantagioni e osservo quant’è cresciuta la pianta dell’umanità.

Le bufale e la democrazia

I simboli degli zingari sui citofoni: una bufala vecchia
ma che gode di ottima salute
L’ultima, in ordine di tempo, è la storia della bambina di undici anni morta perché un americano si è rifiutato di donarle il midollo osseo in quanto italiana. Una storia che indigna: ma che è falsa. Non è mai esistito un donatore americano. C’era un donatore tedesco tedesco che però, come ha spiegato il direttore del Centro Nazionale Trapianti, non ha potuto donare perché nel frattempo le condizioni della bambina si erano aggravate.
Una bufala, dunque. Una notizia falsa che però viene diffusa come se fosse vera. Una delle tante. Sui social network proliferano. Ogni giorno ne compare una nuova, ma tornano anche spesso quelle vecchie. Le smentite non servono a nulla, le bufale si diffondono come virus resistenti a qualsiasi antidoto. Ed è così che, per fare solo qualche esempio, c’è gente che si indigna ancora per il disegno di legge del senatore Cirenga, che istituisce un fondo per tutti i parlamentari che non trovano lavoro entro un anno dalla fine del mandato – che non esista né sia mai esistito alcun senatore Cirenga è un dettaglio trascurabile – , mentre altri si temono di essere abbordati da romeni che regalano portachiavi con microchip interni che serviranno poi a segnalare i loro movimenti ed a favorire i furti. L’elenco potrebbe continuare per un bel po’.

La diffusione delle bufale in rete è preoccupante e pericolosa, per almeno due ragioni. La prima è che molte bufale sono a sfondo razzistico, in particolare nei confronti dei Rom e dei romeni. Esse contribuiscono a diffondere odio etnico, come se nella nostra società non ve ne fosse abbastanza. La seconda ragione è che le bufale intaccano la fiducia sistemica, che è una delle cose fondamentali per il funzionamento di una società. Fiducia sistemica vuol dire credere che il sistema funzioni, che le cose vadano come devono andare. Ora, se mi si dice che un bambino può morire perché un donatore si è rifiutato di salvarlo per motivi razzistici, è evidente che il sistema in questo campo non funziona. Moltiplichiamo questo senso di insicurezza per tutte le bufale diffuse: ne viene fuori una percezione angosciante della realtà sociale.
Sia chiaro: nella società in cui siamo, ci sono ottime ragioni per provare sfiducia sistemica. Le notizie vere che riguardano malfunzionamenti del sistema non mancano, e non sono poche. Ma proprio per questo è importante distinguere il vero dal falso.
Una democrazia funziona se c’è dibattito pubblico. La qualità della democrazia è legata alla qualità di questo dibattito: una democrazia autentica è quella nella quale i cittadini discutono in modo serio, documentato, sostenuti da giornali liberi ed indipendenti e da una scuola che formi alla considerazione razionale e scientifica dei fatti. Una democrazia decadente ed in crisi si riconosce per la qualità scadente del dibattito pubblico. Per la chiacchiera che predomina sul dialogo, per gli scontri ideologici che prendono il posto del confronto democratico.
In una democrazia che funziona, il dibattito pubblico permette di identificare in modo esatto i problemi e di cercare insieme le soluzioni. In una democrazia in crisi, il dibattito pubblico è inquinato costantemente da informazioni false, che da un lato aumentano, come detto, il senso di incertezza, dall’altro impediscono di affrontarlo. Se si vuole una società meno insicura è fondamentale individuare i problemi reali. Se non si è in grado di distinguere la realtà dalla fantasia, il vero dal falso, non si può intervenire in modo intelligente sulla realtà. Se, ad esempio, non si sa quasi sono esattamente gli abusi di quella che non senza ragione si chiama “casta” politica, non si è nemmeno in grado di decidere quali provvedimenti sono necessari per sostituirla con una classe politica che faccia davvero gli interessi collettivi. Se non si è in grado di agire intelligentemente, ci si abbandonerà alla stupidità. Il che vuol dire due cose: o macerarsi nella propria impotenza, poiché il mondo là fuori è brutto e cattivo, e nessuno può farci nulla (e l’unico sfogo sarà pubblicare post indignati su Facebook), oppure gettarsi in un’azione scomposta, combattere una battaglia contro nemici per metà reali e per metà immaginari, affidandosi al primo capo carismatico che offra una semplificazione della realtà, dando l’illusione di dominare cognitivamente e politicamente quel mondo che fino a poco prima sembrava così insidioso ed oscuro.
Editoriale per Stato Quotidiano.

Storia di un bambino andato (quasi) a male

Il giudizio di terza media

Lo scorso anno Maurizio Parodi, tra gli interpreti più interessanti delle istanze della pedagogia libertaria nel nostro paese, mi ha chiesto di collaborare con un mio contributo ad un libro che stava scrivendo. Si trattava di rispondere alla domanda: Cosa bisogna fare perché i bambini non vadano a male? Ho risposto a questa domanda con un contributo intitolato “Camminare insieme”, che si trova nel libro uscito quest’anno: Gli adulti sono bambini andati a male (Sonda editore).

Se ripenso al mio percorso scolastico, mi pare di potermi riconoscere nella categoria dei “bambini andati a male”. Me lo conferma la rilettura delle mie pagelle scolastiche, che segnano una progressione negativa, da una iniziale quasi perfezione al disastro della scuola secondaria. Il fatto di essere un ex bambino andato a male (che poi si è ripreso per tempo, comunque) è un grande vantaggio per un pedagogista, appunto perché permette di rispondere alla domanda di Parodi con una qualche base di esperienza.
Il mio esordio scolastico è stato esaltante, almeno a giudicare dalla mia prima pagella:
Alunno dotato di una pronta e vivace intelligenza, molto serio e silenzioso prende però parte attiva alla vita della classe e riesce bene in tutte le attività scolastiche nonostante i primi tre mesi di assenza. Costante nel rendimento predilige le attività matematiche e la recitazione.
Intelligente, silenzioso, partecipe: alunno modello. Ero arrivato a scuola con tre mesi di ritardo per via di problemi di salute, gli stessi che mi hanno salvato dalla scuola dell’infanzia. Ma non arrivi in una classe tre mesi dopo senza pagarne le conseguenze. Ricordo poco della prima elementare, più che altro sensazioni: e tra tutte questo senso di estraneità che mi ha accompagnato per tutto il percorso scolastico (fino all’università, direi).
Della maestra della prima elementare ho un bel ricordo. Paziente, dolce, buona. Tra i pochi ricordi c’è l’immagine di lei che alla cattedra legge Zanna bianca, e tutti in silenzio ad ascoltarla. Io sono all’ultima fila, il mio compagno di banco è uno bambino precocemente obeso, ed a pensarci oggi c’è il sospetto di essere finito subito nel settore sfigati della classe. Ho bisogno di andare in bagno, ma sono troppo timido per chiederlo. E così il piacere dell’ascolto della lettura si mischia subito al disagio.
Terza elementare. La maestra brava non c’è più: si è trasferita a Bologna. Al suo posto c’è un maestro. Uno anziano, massiccio, autoritario. Ha una mazza di legno con la quale ci colpisce sulle mani quando sbagliamo qualcosa. Se ci ripenso, ricordo ancora il dolore sulle mani, ma soprattutto l’umiliazione. Sono fortemente a disagio in classe. Ho legato solo con il mio compagno di banco – questa volta uno smilzo pel di carota. Senza alcun dubbio faccio parte del settore sfigati. Oltre alla bacchettate sulle mani, di questo periodo della mia vita scolastica ricordo un metodo escogitato per rendere più sopportabili le ore scolastiche: pensare al dopo. Immaginare che a casa vi sia qualcosa di buono – le figurine Panini, ad esempio – che mi aspetta, e pregustare in ogni istante il momento in cui le attaccherò sull’album, godendo il loro inconfondibile odore di colla.
Il maestro, è appena il caso di dirlo, non si accorge del mio disagio. In terza scrive:

Alunno dotato di pronta e vivace intelligenza, socievole con i compagni, segue il corso con ottimo profitto in tutte le discipline di studio. Frequenta con evidente piacere e collabora con gioia con tutti i compagni nelle attività di gruppo. Ama molto il disegno e la recitazione.

Bisogna essere davvero molto distratti per scorgere un “evidente piacere” lì dove c’è un disagio costante.
Il giudizio dell’anno seguente è quasi la fotocopia di quello della terza:

Alunno dotato di una pronta e vivace intelligenza, serio e silenzioso, segue il corso con grande profitto in tutte le discipline di studio. Frequenta con molto piacere e collabora con i compagni nelle attività di gruppo. Bravo nella lettura e nella recitazione, ma un po’ incerto nella risoluzione dei problemi. Bravissimo in disegno e nella recitazione.

E’ evidente che il maestro ha dei giudizi standard corrispondenti alle classiche tre fasce di studenti: quelli bravi, quelli così così, quelli mediocri. Quelli bravi hanno tutti una pronta e vivace intelligenza e frequentano con molto piacere. Chissà come erano i giudizi sull’intelligenza di quelli meno bravi.
Da notare che nel passaggio dalla prima alla quarta elementare ho perso per strada la mia predilezione per le attività matematiche.
In quinta elementare, non ricordo per quali peripezie, mi sono liberato del maestro e mi sono ritrovato in una classe nuova con una nuova maestra. Anche qui senso di estraneità. Mi rivedo al secondo banco della fila centrale, con dietro di me una tipa che mi è ostile: e mi imbarazza molto sapere che l’ho costantemente alle spalle. La maestra non è male, ma ha una fissa per la religione. Stiamo sempre a pregare ed a cantare canzoni di chiesa. Comunque me la cavo:

Alunno molto tranquillo ed educato, ma un po’ timido. Lavora con serietà e profitto, impegnandosi con costanza e amore nello studio. Approfondisce i contenuti culturali, esprimendosi con molta chiarezza. Nel disegno si evidenzia in modo così notevole da rivelare spiccate doti di fantasia e di espressività.

Questa cosa del disegno va approfondita. Sono sempre stato bravino a disegnare, anche se al secondo anno delle superiori sono stato rimandato in disegno. Temo però che giudizio così positivo risenta del fatto che all’epoca amavo particolarmente disegnare soggetti religiosi, e soprattutto madonne doloranti e sante lucie con gli occhi al cielo, che mandavano in visibilio la mia maestra e venivano esposte nel corridoio.
Una cosa ricordo della mia quinta elementare. Si era nel 1982, l’anno della guerra delle Falkland. La prima guerra della mia vita. Devo dar atto alla mia religiosissima maestra di averci fatto partecipare emotivamente all’evento. Certo, non ci capivamo granché, dal punto di vista politico. Ma sentivamo che era una cosa brutta: e naturalmente pregavamo. Mi piace pensare che il mio successivo orrore per la guerra abbia qui le sue radici.
Veniamo alle medie. Si dice che le medie costituiscono il ventre molle del nostro sistema scolastico. In base alla mia esperienza, mi pare che sia così. Se alle elementari mi vedo a disagio, impacciato, bloccato, alle medie mi pare di essere addirittura angosciato. Anche qui, però, la mia angoscia viene scambiata per buona educazione, e riesco a strappare un giudizio positivo. In seconda media il giudizio è:

Dato il carattere riflessivo e ritroso, l’alunno rifugge da qualsiasi forma di ostentazione e da ogni intervento che non sia opportuno e meditato. Così facendo, egli dimostra maturità e serietà di propositi, metodo, propensione e disponibilità all’ascolto, ma soprattutto disponibilità ad accettare positivamente ciò che gli viene proposto. Possiede sufficienti mezzi espressivi e buon livello di preparazione. Qualche prova deludente in matematica.

Insomma, me la cavo ancora. Non sarò il primo della classe, ma si vede che piaccio. Sto al mio posto, sono docile e tranquillo: e questo per i miei professori è senz’altro segno di maturità. Non di timidezza, non del sentirsi spaesati, fuori posto, bloccati. Di maturità.
L’anno del mio andare a male è quello successivo. Nel giudizio finale della terza media si legge:

L’azione didattico-educativa nei suoi confronti ha incontrato qualche difficoltà a causa di certe sue immotivate resistenze psicologiche, che non gli hanno permesso un approccio proficuo al colloquio. Nel complesso, comunque, la sua formazione è di livello accettabile soprattutto nella lingua straniera e nel campo tecnico-pratico. Ha rivelato attitudine e abilità nel disegno ornato.

Che è successo al nostro studente maturo e riflessivo? E’ successo che, in seguito ad un episodio increscioso, si è posto la domanda: ma i miei professori mi apprezzano per quello che sono, come persona, o solo perché faccio tutto quello che dicono loro, studio e non rompo le scatole? ci tengono a me? si interessano a me? Domande cui è seguito l’esperimento: provare a non studiare, a mostrarmi indifferente, perfino sfrontato. E vedere se qualcuno mi chiede che è successo. Risultato dell’esperimento: a nessuno dei miei docenti importa molto di me. Di quello che sto vivendo davvero. Il mio professore di italiano – in italiano sono tra i primi della classe – commenta il mio calo così: “Fino ad ora ti abbiamo sopravvalutato, ora si vede quanto vali davvero”. Ho capito, insomma, che quello dei professori è un amore (sì, uno studente pensa che i suoi professori possano amarlo) condizionato. Se fai quello che dico io, ti faccio sentire amato; altrimenti, per me diventi meno di niente.
Qualche altra noterella a margine del giudizio. Ero bravo nella lingua straniera: che era il francese. Nella scuola media che frequentavo in quegli anni gli studenti erano divisi nelle sezioni a seconda dell’appartenenza di classe: quelli più borghesi nelle classi con lingua inglese, quelli più proletari nelle classi con lingua francese. Io, figlio di operaio, ero destinato al francese.
La mia predisposizione per il “campo tecnico-pratico” è una invenzione bella e buona. Non ho avuto mai nessuna predisposizione per nulla di tecnico o di pratico (e, sia chiaro, è una cosa di cui non mi vanto affatto). Ero bravo nelle materie umanistiche, soprattutto in italiano. Ma cerchiamo di metterci nei panni dei professori. Ero un ex-studente brillante che però ultimamente aveva dato problemi, e poi ero figlio di un operaio. Bisognava indirizzarmi al liceo? Cosa rischiosa. I figli degli operai in quegli anni venivano indirizzati all’industriale o al professionale, a meno che non fossero brillantissimi, senza la minima macchia. Non era chiaramente il caso mio. Licenziandomi con la sufficienza, mi consiglieranno dunque di iscrivermi in un istituto professionale. Consiglio che fortunatamente non ho seguito.
Mi sono iscritto all’istituto Magistrale, che aveva il vantaggio di essere una scuola umanistica ma di non essere un Liceo, scuola proibita ai figli degli operai. Gli anni della secondaria superiore sono stati anni di lotta continua con i professori. Ormai come studente ero andato definitivamente a male. Le premure dei miei professori erano ammirevoli: il professore di musica mi invitava ripetutamente – per il mio bene, sia chiaro – a lasciar stare la scuola per tentare il concorso in polizia, quella di latino aveva a cura la mia salute psicologica, raccomandandomi lo psichiatra, mentre quello di matematica si occupava concretamente del mio benessere mandandomi a prendere aria nel corridoio, dove si stava certamente meglio che nell’aula. Eppure qualcosa mi è rimasto, di quegli anni. Il mio professore di pedagogia aveva tanta stima nei miei confronti, da consentirmi di sostenere le interrogazioni su qualsiasi argomento. Potevo parlare, se volevo, di filosofia indiana, l’argomento che a quel tempo più di qualsiasi altro mi appassionava. Ricordo una interrogazione-discussione sul Vedanta, che è uno dei pochi ricordi piacevoli della mia vita scolastica. E, penso, è anche per questo che poi ho studiato pedagogia. E che oggi sono un pedagogista, uno che cerca di capire come impedire che i bambini vadano a male.

8 agosto, giovedì

A conti fatti, non è il dolore. Il dolore è un momento – e il più delle volte non è nemmeno dolore, e poi il corpo ha le sue stranezze, basta poco per immaginare che questo braccio non sia il mio braccio, per sentire che questo braccio non è il mio braccio. Altra cosa è l’umiliazione, la resa: abdicare alla dignità. Sentire che qualcosa è cambiato, che non sei più quello di prima: che è cominciato per te un processo di cosificazione. E che se li lasci fare, presto sarai radicalmente altro. Sei in balìa d’altri, la tua forza di volontà è quasi una bestemmia per l’ordine medico-salvifico. Che tu possa dire no, è cosa non prevista. Tu hai da essere un corpo che non si ribella. Materia docile. Paziente: null’altro che paziente.
Altra cosa è l’umiliazione, la resa. Non è la periferia, ma il centro di te. Non puoi rinunciare alla tua dignità senza rinunciare a te stesso. E forse qui c’è la prova decisiva: rinunciare alla stessa dignità per rinunciare a sé; affidarsi davvero all’ordine medico-salvifico quale passaggio oscuro verso l’illuminazione. Abbandonarsi all’anestesia sperando di non risvegliarsi più in questo corpo, con questo nome. In un corpo, con un nome.

Perché siamo razzisti

Foto Ansa

Trentuno persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Italia. Morti annegati davanti alle coste della Libia. Tra loro nove donne. Provenivano per lo più dalla Nigeria, un paese nel quale la nostra Eni occupa 40.625 chilometri quadrati con i suoi pozzi petroliferi che stanno devastando il delta del Niger, costringendo alla fame pescatori e contadini. Leggo su Facebook i commenti alla notizia data da la Repubblica: “affondassero tutti sti gommoni………….zozzi schifosi, sostegno agli abitanti di lampedusa, che quotidianamente devono sopportare questo schifo………..” (riporto pari pari, chilometrici punti sospensivi compresi); “Tra poco li andremo a prendere nel loro paese per farci invadere!!”; “31 voti in meno per il pdmenoelle”.

Non mancano i commenti tutt’altro che razzistici, ma bisogna considerare che la Repubblica non è Il GiornaleLa Padania. Si prenda una qualsiasi notizia che riguarda gli immigrati e si leggano i commenti: non mancheranno mai, qualunque sia il sito Internet, espressioni gravissime di razzismo, che diventeranno numericamente prevalenti nei siti di destra.
Cosa sta accadendo nel nostro paese? Perché si giunge a chiamare “rozzi schifosi” delle persone morte in modo terribile, ed a rallegrarsi della loro morte? Perché un vicepresidente del Senato giunge ad insultare pubblicamente un ministro, solo perché di pelle nera? Perché siamo diventati così spaventosamente razzisti? Perché l’Italia non è, come scriveva qualche giorno fa John Foot su The Guardian, un paese non razzista in cui però il razzismo è tollerato. Se una persona come Calderoli giunge a diventare vicepresidente del Senato, se una forza politica razzista come la Lega Nord va al governo, vuol dire che il razzismo non è solo tollerato, ma serve a fare carriera politica. Le prove non mancano. Si pensi, ad esempio, all’isterismo collettivo seguito, nel 2007, all’omicidio di Giovanna Reggiani. Si scatenò allora una vera caccia al rom ed al romeno, alimentata dai giornali e dalle forze politiche di destra; ma è bene ricordare che lo stesso Walter Veltroni, leader dell’appena nato Partito Democratico, si affrettò ad attaccare la Romania ed a chiedere iniziative straordinarie sul piano della sicurezza, proprio come un qualsiasi leader di una forza xenofoba. Si era, del resto, in campagna elettorale.
Perché, dunque, siamo razzisti?

Per una serie di ragioni. La prima è che, semplicemente, siamo ignoranti. Spaventosamente ignoranti. Secondo il linguista Tullio De Mauro più della metà degli italiani hanno difficoltà a comprendere un testo scritto. Non proprio analfabeti, ma quasi. Ora, chi non è in grado di comprendere un testo scritto non ha gli strumenti per uscire dai propri pregiudizi e cogliere la complessità dei fenomeni. E’ condannato ad affrontare il mondo con poche categorie concettuali, con idee semplici semplici, mai sottoposte a critica. Pregiudizi, appunto.
La seconda ragione va ricercata nel fatto che questa spaventosa ignoranza non viene combattuta, ma al contrario strumentalizzata dalla classe politica. Il nostro paese spende ogni anno 26 miliardi di euro per il suo apparato militare, mentre è penultima nell’area Ocse per le spese per l’istruzione. 
Alla classe politica italiana fa comodo l’ignoranza diffusa. Rende le cose estremamente più semplici. Una volta c’erano le ideologie, e la politica si giocava sul piano delle visioni del mondo. Oggi che le ideologie sono tramontate, la politica è questione di slogan, di piccole promesse, di minuti interessi. Una volta si prometteva una società più giusta, oggi l’abolizione di una tassa. In questo contesto, la xenofobia funziona a meraviglia per ottenere consenso.
La terza ragione è nel nostro passato recente. L’Italia è stata fascista solo qualche decennio fa. Solo qualche decennio fa il nostro paese ha visto le leggi razziali ed il colonialismo. Solo qualche decennio fa, il nostro paese ha contribuito allo sterminio di sei milioni di ebrei. Solo qualche decennio fa, il nostro paese è andato in Africa a portare la civiltà: devastando, massacrando, bruciando vivi esseri umani con i lanciafiamme, consumandoli con armi chimiche.
Tutto ciò è stato rimosso. Il mito degli “italiani brava gente” dev’essere mantenuto a costo di ogni menzogna, di ogni omissione. Il fascismo è stato solo una parentesi infelice, che non ha segnato realmente l’identità italiana. Le cose non stanno così. Il fascismo è stato davvero, in realtà, “l’autobiografia della nazione” di cui parlava Piero Gobetti. O meglio: l’autobiografia di una parte consistente della nazione, ma non di tutta. C’era un’altra Italia, nobilissima. L’Italia, per restare sul piano intellettuale, dello stesso Gobetti, dei fratelli Rosselli, dei Capitini, dei Calogero, e così via. Sul piano popolare, sarà l’Italia partigiana.
Quello che è accaduto negli ultimi decenni è che quest’altra Italia è diventata sempre più evanescente, e ciò principalmente a causa della crisi delle ideologie. L’operaio un tempo trovava nel comunismo una visione del mondo che gli consentiva di andare oltre i suoi immediati interessi, pur legittimi, e di aprirsi al mondo. Oggi non c’è più alcun ideale a riscattarlo dalla sua condizione: ed accade sempre più spesso che il pregiudizio prenda il posto dell’ideale.
Siamo stati fascisti, insomma, e per molti versi lo siamo ancora. Il fascismo non è una malattia transitoria, ma un tratto di fondo della nostra identità. Non è difficile scorgere dietro chi chiama “zozzi schifosi” dei disperati annegati in mare il volto truce del fascismo.
La quarta ragione va ricercata nei mass-media, che svolgono una funzione fondamentale in quella semplificazione del mondo che ha preso il posto delle ideologie. La natura stessa del mezzo televisivo non consente il pensiero complesso: è per questo (e non solo perché non sappiamo che farcene) che i filosofi da qualche decennio non compaiono più in televisione (a meno che non facciano i politici). In televisione bisogna esprimere il proprio pensiero in pochi minuti: ed in genere si è interrotti prima di aver finito. Tutto resta – deve restare – alla superficie. Negli ultimi anni i mezzi di informazione di massa, e principalmente la televisione, hanno contribuito ad alimentare il razzismo dando costantemente una visione distorta dei fenomeni, riservando una attenzione morbosa a casi di cronaca aventi come protagonisti gli stranieri e passando sotto silenzio quelli nei quali, al contrario, gli stranieri sono vittime. Si crea così una visione distorta dei fenomeni, alimentata anche dai social network (nei quali c’è almeno la possibilità di imbattersi in qualcuno che la pensi diversamente).
La quinta ragione è nella crisi economica. E’ un fenomeno ben noto alle scienze sociali: nei momenti di crisi economica, si diffondono posizioni di violenza verso chi è diverso. Il meccanismo è semplice: se le cose vanno male, la colpa deve essere di qualcuno. Di chi? Per rispondere in modo serio a questa domanda bisognerebbe capire a fondo la realtà economica attuale, quel sistema terribilmente complesso che Gallino chiama finanzcapitalismo: ma è una cosa difficile. Più facile è trovare un capro espiatorio. E dunque: siamo in crisi perché ci sono troppi extracomunitari, perché li manteniamo (affermazione ripetuta con la massima convinzione contro ogni evidenza: gli stranieri producono il 12% del Prodotto Interno Lordo), perché ci rubano il lavoro, e così via.
Da uomo di scuola, non posso fare a meno di interrogarmi anche sulle responsabilità del sistema scolastico. Integrazione e lotta al razzismo sono tra le parole chiave della politica scolastica degli ultimi anni, ma sono buone intenzioni che si scontrano con un deficit strutturale della nostra scuola, e che riguarda la natura della cultura che vi si trasmette (e il fatto che la si trasmetta, semplicemente, è un altro dei problemi della scuola italiana). Nella scuola in cui insegno si è diffusa la notizia che sono buddhista. Mi è capitato più volte, durante una supplenza in qualche classe non mia, di sentirmi fare domande sulla mia religione. Domande del tipo: “Ma voi buddhisti siete quelli che pregano facendo così?” (minando la genuflessione dei musulmani). Nessuno ha messo in grado questi studenti di conoscere il buddhismo e l’islam, che solo due tra le maggiori religioni mondiali. La scuola italiana intende combattere il razzismo con le migliori intenzioni, ma non comprende che per farlo occorre in primo luogo conoscere le culture diverse dalla nostra. Offrendo un programma culturale interamente italocentrico ed eurocentrico, si trasmette il messaggio latente che nulla di significativo è stato fatto, scritto, pensato al di fuori del continente europeo. Che noi, in fondo, siamo i migliori, e nulla abbiamo da apprendere dagli altri.
Editoriale per Stato Quotidiano.

La questione delle regole

F. Hundertwasser,
Blobs Grow in Beloved Gardens, 1975
Molti ritengono che le regole non solo abbiano a che fare con l’educazione, ma ne siano l’aspetto centrale, il nucleo, la ragione prima. Per loro una definizione accettabile di educazione è: dare regole. O meglio: imporre regole. Sono, in genere, quelli che lamentano l’assenza di regole nella società attuale, segno sicuro di decadenza e disordine sociale. E’ abbastanza sorprendente che non pochi adolescenti, coloro che maggiormente dovrebbero essere insofferenti delle regole, la pensino allo stesso modo.
C’è qualche ragione in questo ragionamento. E’ vero che una società senza regole va alla deriva (ma meglio sarebbe dire che semplicemente una società che non abbia regole non può sussistere). E’ vero anche che le regole hanno qualcosa a che fare con l’educazione. Ma è ancora più vero che un eccesso di regole può bloccare una società e trasformare l’educazione in qualcosa di diverso.
Che la regola abbia a che fare con l’educazione sembra confermato dall’etimologia: regola viene da regere, ossia reggere, guidare, governare, dominare. Regula in latino è sia la legge che il regolo, la riga che si usa per tracciare linee diritte. Il senso della regole è appunto questo: fare in modo che ciò che è contorto diventi lineare; ricondurre la complessità delle cose alla semplicità della linea retta. Una semplicità che però non è priva di pericoli. Diceva il pittore ed architetto Friedensreich Hundertwasser: “Vi sono milioni di linee, ma una sola è portatrice di morte: quella tracciata con la riga”.

Il mondo in cui viviamo è, appunto, un mondo tracciato con la riga. Sono tracciate con la riga le nostre costruzioni, nelle quali l’angolo retto è onnipresente, e sono tracciate con la riga le nostre azioni. Una regola sociale ha due funzioni: la prima è quella di dire cosa si può fare e cosa non si può fare, la seconda è quella di dirci come dobbiamo fare quello che possiamo fare. C’è la regola, irrinunciabile, che ci dice che è sbagliato uccidere, e c’è la regola che ci dice come dobbiamo comportarci a tavola, o interagire con un estraneo in ascensore, o corteggiare una donna. Se il numero di cose che non possiamo fare aumenta a dismisura, restiamo schiacciati sotto il peso delle regole, ma ancora più grave è il pericolo per noi che viene dal secondo aspetto delle regole. La conseguenza è la totale devitalizzazione e perdita di spontaneità. In ogni nostra azione siamo condizionati dalle forme sociali (Simmel), come se fossimo costretti per tutta la vita a recitare un copione scritto da altri. La letteratura del Novecento, a cominciare dal nostro Pirandello, ha mostrato le conseguenze anche tragiche di questa iper-regolarizzazione della nostra vita.
Le regole sono dunque una cosa pericolosa, da maneggiare con estrema cura; un veleno sociale che, preso a piccole dosi, può anche fare bene, ma facendo molta attenzione a non eccedere. Ed è questo esattamente che deve fare l’educatore. Non fare a meno delle regole, ma nemmeno pensare che dare o imporre regole sia l’essenza dell’educazione. Stabilire poche regole, invece; e stabilirle bene: e cioè insieme.
Uno degli aspetti antipatici delle regole è infatti questo: in genere sono stabilite da altri e le troviamo già fatte, senza altra scelta che adeguarci o ribellarsi. E’ incredibile come in una società che si dice democratica i momenti nei quali i cittadini decidono le regole insieme – in qualsiasi ambito – siano rari. Se non ci si ribella a questo stato di cose, è perché siamo abituati fin da piccoli ad adeguarci a regole decise da altri. Il primo criterio da seguire riguardo alle regole dovrebbe dunque essere questo: discutere le regole insieme e stabilirle solo quando la loro razionalità appare indiscutibile. E’ una cosa quasi inconcepibile, se si resta nel paradigma asimmetrico, secondo il quale l’educatore occupa una posizione superiore rispetto all’educando e può esercitare su di lui una forma di dominio. In questo caso l’educatore, come un pessimo politico, si considera al di sopra della norma poiché è colui che impone la norma. C’è una relazione effettiva tra questo modo di educare e la degenerazione della democrazia in una oligarchia irresponsabile. Coloro che da bambini hanno avuto genitori che non rispettavano loro stessi le norme che imponevano saranno da adulti cittadini incapaci di ribellarsi ad una classe politica che si considera al di sopra di ogni regola e ritiene di non dover rispondere a nessuno dei propri comportamenti.
Che le regole siano condivise, dunque. Discusse insieme e rispettate da tutti. Questa è, mi si passi il bisticcio, la prima regole delle regole in educazione. La seconda è: poche regole, comunque. Solo quelle davvero indispensabili. La terza regola è: non dimenticare mai che le regole sono un mezzo, non un fine. Servono per far funzionare le cose, ed è tutto qui il loro senso. Le regole diventano un fine quando il rapporto educativo è un rapporto di dominio. Allora l’educatore sente la necessità di imporre regole anche inutili solo per verificare se il figlio, o lo studente, le segue, accettando così la sua autorità.
Ma che fare se le regole non vengono rispettate? Quando le regole vengono imposte da un’autorità, il problema ha una soluzione semplice: la punizione. Il bambino che non ha rispettato la regola sarà rimproverato, andrà a letto senza cena o prenderà uno schiaffo. La logica è quella del comportamentismo: un rinforzo negativo che dovrebbe estinguere il comportamento sgradevole. Pare però che le cose non vadano proprio così. Una punizione, se vissuta come ingiusta, può compromettere il rapporto educativo e far nascere sentimenti di ostilità e di ribellione, o al contrario può diventare una routine, qualcosa cui si finisce per fare il callo. Ciò da cui bisogna partire è la premessa stessa di qualsiasi relazione educativa: la fiducia. Il che vuol dire sapere che il bambino o l’adolescente hanno avuto buone ragioni per non rispettare le regole. Può essere che quelle regole, discusse e decise insieme molto tempo prima, abbiano bisogno di essere riviste, perché le situazioni cambiano e le persone crescono. Può essere che la trasgressione alla regola sia il segno di un disagio o di un malessere. Può essere, ancora, che si tratti di una semplice debolezza, non diversa da quelle che hanno gli adulti. In ogni caso, l’unico strumento intelligente è il dialogo. Attraverso il dialogo si capirà se c’è da cambiare, ancora una volta insieme, le regole, oppure se c’è qualche problema di fondo (ad esempio un momento di stanchezza psico-fisica che rende particolarmente pesante al bambino l’incombenza pomeridiana dei compiti); e sempre attraverso il dialogo sarà possibile far emergere l’evidenza dell’errore e concordare sulla necessità di evitare di farne altri.
Articolo per la rubrica Educazione e Libertà, nel sito Il bambino naturale.

E se il digitale fosse analogico?

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Il ministro dell’istruzione Maria Chiara Carrozza ha posto un freno all’innovazione, che fino ad ieri pareva inarrestabile, consistente nella sostituzione dei libri scolastici cartacei con libri digitali. “L’accelerazione sui libri digitali – ha dichiarato – non poggiava su alcuna seria e documentata validazione di carattere pedagogico e culturale, così come non sono state valutate le possibili ricadute sulla salute di bambini e adolescenti esposti a un uso massiccio di apparecchiature tecnologiche”. Molti hanno tirato un sospiro di sollievo: le case editrici, senz’altro, ma anche molti docenti, tutt’altro che entusiasti di questo passaggio epocale, affezionati alla cara vecchia carta ed ai tomi che con il loro peso sembrano additare l’importanza della cultura e dello studio e la necessità del sacrificio anche fisico. Molti altri invece si dicono preoccupati. Sono quelli per i quali l’introduzione dei libri digitali rappresenta l’avvio di un cambiamento reale che per la scuola non è più rimandabile.
Non voglio entrare nel merito delle parole di Carrozza, ossia indagare se davvero manca una “validazione pedagogica” e se i dispositivi di lettura digitale possono avere ricadute sulla salute dei bambini. Vorrei invece provare a dissipare un equivoco a proposito dell’uso dell’aggettivo “digitale”. In tutto questo dibattito, digitale è sinonimo di elettronico ed informatico. I libri digitali sono gli ebook, in formato Pdf ed ePub, mentre per scuola digitale si intende una scuola nella quale sono presenti e vengono adoperati molti dispositivi elettronici ed informatici (computer, lavagna elettronica, tablet eccetera). Ma l’aggettivo digitale, nelle scienze umane, ha un significato più complesso. Nella Pragmatica della comunicazione umana, pubblicata nel 1967 da Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson si legge, tra l’altro, che ogni comunicazione può essere analogica o digitale. Una comunicazione si può considerare analogica quando esiste, appunto, una analogia tra i segni e ciò che i segni indicano. Se disegno un cane, si tratta di comunicazione analogica, perché c’è somiglianza tra il cane disegnato ed il cane reale. Se, per indicare che ho fame, mi porto la mano alla bocca mimando l’atto di mangiare, sto comunicando ancora in modo analogico. Se invece scrivo o dico “cane”, non c’è alcuna somiglianza tra il segno e la cosa indicata. Quelle quattro lettere non hanno un rapporto evidente con ciò che indicano, e lo dimostra il fatto che chi non conosce la lingua non sarà in grado di capire cosa sto dicendo. Nella comunicazione numerica o digitale il rapporto tra il segno ed il suo significato è il risultato di una associazione convenzionale.

Ora, se le cose stanno così, l’introduzione di libri elettronici nel sistema scolastico ha poco a che fare con il digitale. Un libro elettronico è, appunto, elettronico: non digitale. Per libro elettronico si intende l’equivalente informatico di un libro di carta: come un libro di carta è costituito in gran parte di parole, accompagnate da qualche immagine. Una nota casa editrice scolastica offre ai docenti che adottano i suoi libri un cd-rom con il libro di testo proiettabile sulla lavagna elettronica. Eccola dunque, l’innovazione. Prima gli studenti stavano ognuno nel suo banco, col libro di testo davanti, ed il docente faceva lezione illustrando il libro di testo. Ora gli studenti stanno ognuno nel suo banco, davanti al tablet, o se preferiscono possono seguirlo alla lavagna elettronica. Non c’è nessun cambiamento. O meglio, un cambiamento c’è, ed è nel fatto che gli studenti potranno portare un solo tablet al posto di quattro o cinque libri. Ma si tratta di un cambiamento che interessa l’ortopedia, non la pedagogia.
Immaginiamo, però, che le case editrici propongano qualcosa di diverso da una semplice copia del libro di testo. Che facciano – come è auspicabile – delle vere e proprie app sulle diverse discipline. Cosa può offrire di più un’applicazione rispetto ad un libro? Un libro è fatto, abbiamo detto, di testo, soprattutto, e di immagini. Una applicazione può offrire, di più, video, suoni, animazioni, una diversità di informazioni che per il libro è impensabile. Ma di che tipo di informazioni si tratta? Siamo nel campo del digitale o non piuttosto in quello dell’analogico? Un libro di testo che descrive una teoria della fisica in via teorica procede sicuramente in modo digitale. Un’app che invece illustra quella teoria limitando il testo ed introducendo invece un’animazione, in grado di semplificare i concetti e mostrarli visivamente, ha un innegabile carattere analogico. Il che vuol dire, in sostanza, che la diffusione di strumenti cosiddetti digitali nelle nostre scuole avrebbe l’effetto di aumentare le informazioni analogiche offerte agli studenti, a discapito del digitale.
Paradossalmente, con gli strumenti digitali avremmo una scuola meno digitale.
Non esprimo alcun giudizio su questo dato di fatto: non lamento il tramonto della conoscenza astratta e la sua sostituzione con la conoscenza per immersione. Osservo piuttosto – ed in questa osservazione, sì, c’è un giudizio – che anche nel caso in cui arrivassero nelle scuole materiali didattici evoluti, docenti e studenti resterebbero dei semplici fruitori di materiali costruiti da altri. Ed è qui che la rivoluzione digitale si dimostra una falsa rivoluzione. Per meglio dire: l’illusione di rivoluzione di cui abbiamo bisogno per continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto.
Eppure davvero l’informatica potrebbe rivoluzionare il nostro modo di fare scuola (fermo restando che, volendo rivoluzionarla davvero, potremmo anche fare a meno dell’informatica). In un’epoca che non conosceva i computer, Celestin Freinet lavorava così con i suoi ragazzi: niente libro di testo, niente lezione; si faceva ricerca, i risultati venivano scritti insieme e poi stampati nella tipografia scolastica. Nascevano così dei testi che venivano poi condivisi con le altre scuole, con le quali la scuola aveva un rapporto di cooperazione.
Tutte queste operazioni si potrebbero fare oggi molto più agevolmente con gli strumenti informatici, come ha mostrato Emanuela Zibordi nell’ebook Testi scolastici 2.0 (40k Unofficial). Per fare ricerca si può utilizzare la rete Internet con le sue straordinarie biblioteche digitali: Google Libri, Gallica, Web Archive. Per scrivere i testi insieme si possono usare strumenti di scrittura collaborativa come Google Drive. I testi possono essere facilmente impaginati per creare libri elettronici, oppure messi in rete sul sito Internet della scuola, o ancora, se si preferisce il cartaceo, stampati con il print-on-demand. Meglio ancora sarebbe rilasciare i testi con una licenza aperta che dia la possibilità ai lettori non solo di distribuire, ma anche di modificare i contenuti, avviando così una collaborazione tra più autori e più scuole.
Lo scenario appena tratteggiato è assolutamente irrealistico. Richiede un passaggio che sarebbe realmente rivoluzionario: il passaggio da sapere confezionato e consegnato dal docente allo studente attraverso la lezione (e per lo più acquisito mnemonicamente dallo studente) al sapere come ricerca comune, riflessione, analisi, discussione, confronto. In altri termini, un passaggio dalla ripetizione alla creatività.

Editoriale per Stato Quotidiano.

Dove vogliamo andare?

Il centro commerciale Mongolfiera di Foggia
Settant’anni fa i bombardamenti che rasero al suolo Foggia, facendo migliaia di vittime (il numero esatto è controverso, ma certo si tratta di diverse migliaia). A chi chiedeva le ragioni dell’accanimento sulla nostra città degli anglo-americani, questi rispondevano, pare, con l’argomento del compasso. Si punti un compasso su Foggia, dicevano; si traccerà intorno un’area che comprende l’Italia meridionale ed i Balcani: ossia una zona di altissima importanza strategica per le operazioni militari.
A distanza di sessant’anni l’argomento del compasso torna nelle parole di Bernardo Marinelli, amministratore delegato della Genera Consulting. Intervistato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, dice: “Fissate un compasso su Foggia e allargate il raggio, vi renderete conto che la grande ricchezza di questa città è la sua posizione geografica”. Da un lato, il Foggiano è facilmente raggiungibile dal Barese, ma anche da parte della Lucania e della Campania; dall’altro, si tratta di una zona interessata da un forte flusso legato alle attrattive turistiche del Gargano ed a quelle più o meno religiose di San Giovanni Rotondo. E’ la zona ideale, insomma, per sistemare una impresa economica ambiziosa. E quella della Genera Consulting, gruppo marchigiano, è ambiziosissima: più di duecentocinquanta milioni di investimento e mille e cinquecento posti di lavoro per un grande parco acquatico, con ipermercato, hotel, terme eccetera. Il progetto prevede anche un parco archeologico che ingloberebbe l’area della tomba della Medusa, attualmente in stato di abbandono.
Due cambiamenti importanti per la nostra città sono stati negli ultimi anni la nascita del primo ipermercato, La Mongolfiera, e più recentemente quella della Città del Cinema. Due strutture con le quali la piccola città di provincia ha provato l’ebbrezza del non-luogo. Il successo è stato immediato e privo di oscillazioni. La Mongolfiera è diventata meta di vere e proprie gite – gente che arriva dalla provincia e passa nell’ipermercato tutta la giornata -, la Città del cinema è riuscita ad attirate anche chi il cinema non l’ha mai amato. Le conseguenze per la città non sono state lievi. Molti piccoli negozi hanno chiuso i battenti, incapaci di fronteggiare la concorrenza della grande distribuzione. Il negozietto di quartiere della nostra infanzia è diventato sempre più un ricordo sbiadito. Gli stessi supermercati soffrono, schiacciati dagli ipermercati. La nascita della Città del Cinema ha provocato la chiusura di quasi tutti i cinema cittadini: il Capitol, l’Ariston, il Cicolella (il Falso Movimento ha chiuso per altre ragioni, sostituito dalla Sala Farina, che benché parrocchiale si sforza di mantenere la tradizione del buon cinema).
Quello che sta succedendo, a Foggia e altrove, è che la città si sta progressivamente svuotando in favore di strutture dedicate interamente al consumo. E’ l’anima stessa della nostra società, il consumo; l’acquisto è il rituale sacro che la tiene in vita, il gesto che dà senso all’individuo e lo lega alla collettività. Se questo è ciò che conta, allora i luoghi più significativi saranno quelli nei quali meglio potrà realizzarsi il rituale del consumo. La trasformazione della città in palinsesto semicancellato dalle vetrine dei negozi non è più sufficiente. Essa cede al luogo del consumo puro o del puro divertimento (che è anch’esso consumo). L’ipermercato è il luogo nel quale l’individuo si abbandona felicemente alla massa e in essa di oblia. Ne è attratto come la farfalla dal fuoco, come il mistico da Dio. In questo abbandono prova un piacere particolarissimo, il piacere di chi compie la sua missione. Perché, come avvertiva Baudrillard, nella società dei consumi il consumo non è un diritto o un piacere, ma un dovere del cittadino.
Se il progetto venisse approvato ed andasse in porto, si accelererebbe una movimento che già procede per conto suo, apparentemente inarrestabile, e che può essere caratterizzato come la periferizzazione del centro. La città diventa satellite della sua periferia. La gente passa sempre più tempo nelle grandi aree commerciali al di fuori del centro abitato; la città come luogo di scambio umano diventa poco significativa, poiché poco significativo è lo scambio umano. La realizzazione di una grande area dedicata al consumo ed al divertimento favorirebbe la trasformazione della città in semplice luogo da attraversare per andare altrove, un quasi dormitorio privo di interesse, in cui qualche attrattiva riuscirebbe ad avere soltanto la via centrale con i negozi alla moda.
Ho usato poco fa le parole sviluppo e progresso come se fossero sinonimi. Per Pasolini, come è noto, non lo erano. Lo sviluppo era quello che volevano gli industriali che producono merci e beni, ed hanno bisogno di gente che li compri; il progresso lo volevano gli altri: gli operai, i contadini, gli intellettuali. Ha ancora senso, oggi, questa distinzione? Esistono ancora persone che vogliono il progresso? E’ evidente che il consumo non è più, solo, una faccenda da industriali. Il consumo non lo vuole solo chi produce beni inutili. Esso, come detto, è ormai un dovere sociale oltre che una necessità psicologica.
La più grande trasformazione italiana dell’ultimo secolo, quella del “boom economico” della fine degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta del secolo scorso, si è svolta con una rapidità ed una forza di persuasione che non ha quasi incontrato ostacoli. Pasolini è stato tra i pochissimi a tentare di opporsi, e non è probabilmente azzardato scorgere nella sua morte tragica ed avvolta ancora nel mistero un segno dello scacco di chi cerca di fronteggiare, a mani nude e con la sola forza della sua intelligenza, dinamiche tanto più grandi di lui. Se ci chiediamo cosa resta del suo impegno – e di quello di tanti altri: ad esempio il mite ed inquieto Alex Langer – ci imbattiamo in qualche domanda: dove vogliamo andare? siamo sicuri di volere questo sviluppo? è questa davvero la società che vogliamo?
Queste domande sono oggi al centro del dibattito economico, filosofico e sociologico: basti pensare ad autori come Serge Latouche, Amartya Sen, Vandana Shiva. Autori che si interrogano sui limiti dello sviluppo e sulle sue contraddizioni. E tuttavia, benché molti di questi autori siano conosciuti anche al di fuori della cerchia dei cosiddetti intellettuali, le loro idee stentano a suscitare un dibattito pubblico.
Un cambiamento importante come quello legato alla creazione di una grande area commerciale a ridosso della città non può essere affidato soltanto alla classe politica. Ogni cambiamento dovrebbe essere discusso, analizzato, soppesato. E dietro questa discussione dovrebbe esserci la riflessione più ampia sulle domande di cui s’è detto. Dove vogliamo andare? Una comunità che non si interroga su questo – che non trova i luoghi ed i modi per farlo – è condannata a subire i cambiamenti che la riguardano. Per essere precisi, non è nemmeno più una comunità, ma una ossimorica massa fatta di atomi che nulla hanno in comune tra loro. E’ appena il caso di notare che questo dovrebbe essere il compito della politica: interrogare, suscitare domande e cercare insieme le risposte, avviare il dialogo e favorire l’autocoscienza. Chiedere incessantemente: dove vogliamo andare? Ove manchi questo inesausto interrogare, si può esser certi che siam in presenza di cattiva politica: quella che non fa il bene comune, ma persegue gli interessi privati.
Editoriale per  Stato Quotidiano.

La relazione educativa

Una scuola ad Islamabad. Foto di Muhammad Muheisen
Una delle convinzioni più radicate in chi educa è che la relazione educativa debba essere inevitabilmente asimmetrica: l’educatore in alto (il padre, il professore), l’educando in basso (il figlio, lo studente). Certo, i segni esteriori di questa asimmetria – le tante cattedre con la pedana che ancora esistono nelle nostre scuole, ad esempio – suscitano qualche disagio, ma la struttura mentale, per così dire, è ancora ben salda. Da chi è nella posizione di figlio o di studente ci si aspetta un atteggiamento di sottomissione più o meno palese. A scuola il professore dà del tu allo studente, il quale darà del lei o addirittura (soprattutto al sud) del voi al docente. Uno degli affronti che i docenti tollerano meno è quando lo studente “risponde”, vale a dire quando tenta di porre il confronto con il docente su un piano di parità. I docenti ne parlano come di un azzardo inaudito, che bisogna rintuzzare prontamente; e quando si tratta di attribuire il voto di condotta, a fine anno, non si mancherà di tener conto di questi azzardi. L’alunno da nove o dieci in condotta è per definizione l’alunno che “non risponde”.
Una delle lamentele più diffuse nella pubblicistica pedagogica di largo consumo riguarda l’assottigliarsi reale o presunto di questa asimmetria. I genitori, si dice, oggi non vogliono più fare i genitori. Accorciano le distanze con i loro figli: vogliono essere loro amici. Non solo non sono più autoritari, non sanno essere nemmeno autorevoli. C’è qualcosa di vero in queste lamentele. E’ vero, mi sembra, che oggi non vi sia in giro molta voglia di impegnarsi in una relazione educativa, vale a dire in una relazione profonda, impegnativa, anche destabilizzante. E’ una conseguenza della deriva generale delle nostre relazioni umane, legata al tipo di società che abbiamo creato – o che abbiamo lasciato che altri creassero. Da un lato c’è l’individualismo, il mito dell’io, che ostacola (ma non sempre) la dedizione all’altro senza la quale non c’è educazione; dall’altro c’è il consumismo che brucia il tempo della relazione, erode la calma necessaria per un incontro significativo, mercifica tutto quello che può mercificare, rendendo sempre più esigui gli spazi – umani, sociali, esistenziali – per essere oltre sé stessi.

Una relazione educativa è una relazione umana autentica. Essa si riconosce in primo luogo per l’impegno: ci coinvolge, ci prende, ci costringe a metterci a nudo, ad abbandonarci. In una relazione educativa non solo si comunica, ma ci si comunica, ossia si mette in comune il proprio essere. In secondo luogo, in una relazione educativa l’altro è fine e non mezzo. Se l’io fa ombra al tu, se chiediamo all’altro di farci da specchio e di rimandarci un’immagine gratificante di noi stessi, che sostenga ed alimenti il nostro narcisismo, non siamo in una relazione educativa. Infine, una relazione educativa è dinamica, è uno star-dentro, ma anche un camminare-verso. L’educazione è sempre una situazione di ricerca – del bene, del vero, del bello, del giusto. Cose che non sono mai un possesso, ma indicano una direzione verso la quale muoversi.
Nulla di tutto ciò è possibile in una relazione asimmetrica. Non è possibile il coinvolgimento personale. In una relazione asimmetrica chi occupa la posizione superiore è distante, nascosto dietro la maschera del suo ruolo, e di sé comunica solo ciò che il ruolo prevede. Non c’è comunicazione, ossia lo scambio reciproco di due persone che mettono in comune il loro essere e cercano una forma di comunione, ma mera trasmissione, secondo la distinzione di Danilo Dolci. Per comunicare bisogna essere sullo stesso piano, altrimenti c’è il semplice passaggio di un messaggio dall’emittente al destinatario, che non ha facoltà di replica (o ha una facoltà di replica molto parziale). In una relazione educativa (meglio: pseudo-educativa) asimmetrica, chi educa rappresenta il modello verso il quale l’educando deve muoversi, l’ideale umano che deve adeguare e realizzare. L’io dell’educatore occupa tutto lo spazio della relazione educativa, schiacciando il tu dello studente. Peraltro, il proporsi come modelli ha come inevitabile risvolto l’inautenticità, poiché chiunque ha debolezze più o meno gravi, fragilità, contraddizioni, incoerenze. Per proporsi come modelli occorre nasconderli agli occhi dell’educando; una cosa non difficile, se si resta dietro la maschera del ruolo.
In una relazione asimmetrica il dinamismo è parziale. C’è un movimento che va dall’educando all’educatore. L’educatore è il modello, l’educando si muove verso di lui. Così, almeno, crede l’educatore. Provate a chiedere a degli studenti se considerano i loro docenti dei modelli. Molti di loro risponderanno semplicemente ridendo. In famiglia va diversamente – la famiglia è il valore fondamentale dei ragazzi di oggi: le ribellioni degli anni Settanta sembrano essere definitivamente alle spalle -, ma non sono comunque molti i genitori percepiti come modelli dai figli.
C’è vera educazione quando il dinamismo è totale, ossia riguarda tanto l’educatore quanto l’educando. Il dinamismo, in realtà, fa saltare anche questa distinzione terminologica. Poiché l’educazione è un processo che non ha mai fine, l’educatore non esiste: ognuno è sempre un educando. Il cosiddetto educatore si sta educando, e molto può imparare dal cosiddetto educando. Nella relazione educativa abbiamo dunque due soggetti in formazione che si muovono insieme. Può essere che uno sia più avanzato, che cammini davanti all’altro, ma il cammino resta comune. Nessuno sa esattamente dove porterà il cammino. Quello che si sa, è cosa spinge a mettersi in cammino: la ricerca della verità, della giustizia, del bene. Nella società delle cose, i valori sono non-cose per eccellenza; non sono mai dati, disponibili, tangibili. Sono stelle distanti, a volte occultate dalle nuvole, spesso così fioche che sembra che stiano per spegnersi.
Gli pseudo-educatori, quelli con la maschera, fanno un gran parlare di valori. Interpretano il loro ruolo come quello di chi consegna e trasmette i valori più sacri. Ma i valori di cui parlano spesso non sono affatto valori. Un valore si riconosce anch’esso per il dinamismo: esso è al di là dell’esistente, lo giudica, lo inquieta, lo costringe al cambiamento. I valori di cui parlano gli pseudo-educatori sono invece i valori dell’esistente, l’accettazione e glorificazione della società così com’è: ossia ingiusta, falsa, violenta, inautentica. Gli pseudo-educatori sono rappresentanti dell’ordine costituito, sicari dello status quo, nemici del sogno e dell’utopia. Quella che chiamano educazione è la riproduzione dell’esistente, la replica delle vecchie generazioni nelle nuove.
Il compito dell’educazione sembra essere quello di fare in modo che la società cambi pur restando la stessa. Cambino pure le tecnologie, le abitudini, gli stili di vita, purché restino immutati i rapporti di potere. Le istituzioni scolastiche educano all’individualismo, alla ricerca personale del profitto e del successo. Ad inserirsi nel modo migliore nel mondo così com’è, senza avere la presunzione di cambiarlo.
Per cambiarlo bisognerebbe uscire dall’individualismo. Legarsi all’altro, comunicare con lui, condividere il proprio disagio – che ordinariamente ognuno soffre per sé: perché è convinzione diffusa che, se si è infelici nella società del benessere, è per mancanza propria, non del sistema – e cercare insieme una via d’uscita. Per questo la vera educazione, intesa come un muoversi insieme alla ricerca dei valori, è sempre anche politica.
Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.

Nulla di eclatante

Renato Accorinti

L’elezione di Renato Accorinti a sindaco di Messina è una delle notizie più confortanti degli ultimi anni. Esiste in Italia una tradizione politica nobilissima, per quanto sotterranea. E’ la tradizione di Aldo Capitini, di Danilo Dolci, di Lanza del Vasto, di Ernesto Balducci, di Tonino Bello, di Alex Langer, di migliaia di uomini e donne che hanno lottato per la pace, per la giustizia, per un rinnovamento sociale che parte dalla considerazione dell’ultimo, dell’escluso, di colui che è schiacciato o espulso dal sistema. Nella mia analisi, si tratta di una tradizione che interpreta il terzo principio del motto della rivoluzione francese: quello della fraternità. Abbiamo avuto nel Novecento una tradizione politica centrata sul valore della libertà (quella liberale) ed una tradizione politica fondata sulla giustizia (quella comunista). La nonviolenza rappresenta la terza via: la via di una politica della fraternità. E’ evidente che si tratta di una politica diversa. La giustizia e la libertà sono valori che possono concretizzarsi giuridicamente, incarnarsi in leggi e provvedimenti governativi. Nel caso della fraternità, questo è possibile solo parzialmente. Certo, leggi in favore della solidarietà e dell’inclusione degli svantaggiati vanno nella direzione di una società fraterna; ma per realizzare realmente un ideale simile non è sufficiente la politica dall’alto. Occorre un mutamento, una trasformazione della vita individuale. Occorre uscire dall’individualismo e dall’atomismo giuridico per acquistare il senso della necessità dell’altro, l’urgenza della sua presenza accanto. Occorre un cambiamento morale e spirituale. E’ per questo che quella della nonviolenza è una via così difficile. Perché opera, per dirla con Langer, più lentamente, più profondamente, più dolcemente (lentius, profundius, suavius).

Se dovessi indicare un personaggio politico da porre agli antipodi di Accorinti – un personaggio cioè politicamente ed umanamente squallido ed insignificante – avrei, purtroppo, l’imbarazzo della scelta. Tra i tanti, mi viene in mente Antonio Razzi. Eletto nel 2006 nelle fila dell’Italia dei Valori, è stato rieletto nel 2013 con il Popolo delle Libertà. Di qualche giorno fa è un suo intervento in Senato a proposito del corridoio ferroviario Pescara-Roma. Un intervento nel quale questo senatore della Repubblica italiana si è dimostrato incapace si esprimersi correttamente in lingua italiana e di esporre con passabile chiarezza il suo pensiero.
Chi volesse saperne di più su questo figuro può leggere la pagina Wikipedia a lui dedicata. Dalla quale può apprendere anche gli squallidi retroscena del suo voto di fiducia al governo Berlusconi nel dicembre 2010:

« […] Andavamo e dicevamo “Presidente, siamo noi due, quanto ci molla? […] Qui, ce ne date un milione?” E io e lui, con un milione ci facevamo una campagna elettorale, facevamo un partito nuovo. […] Perché per noi due il governo s’è salvato. Che 314 a 311. Se io e Scilipoti andavamo di là per un voto cadeva, cadeva Berlusconi. […] Io avevo già deciso da un mese prima [di votare la fiducia, ndr]. […] Io non avevo la pensione ancora. Dieci giorni mi mancavano. E per dieci giorni mi inculavano. Perché se si votava dal 28 come era in programma, il 28 di marzo, io per dieci giorni non pigliavo la pensione. […] »

Cerchiamo ora la pagina Wikipedia dedicata a Renato Accorinti. Fortunatamente c’è, ed è anche approfondita. Ma è una pagina che ha avuto un percorso travagliato, come è possibile constatare leggendo la Discussione che la accompagna.  “Che cosa ha fatto di cosi eclatante o di carattere enciclopedico Renato Accorinti per finire su wikipedia?”, si chiede qualcuno. Già, che cosa ha fatto Accorinti? Ha lottato contro l’installazione della base militare a Comiso, si è impegnato contro la mafia, per i diritti civili, per l’ambiente ed i beni culturali. Nulla di eclatante.
Molte cose eclatanti ha fatto, invece, il senatore Razzi. Cose per le quali merita una pagina Wikipedia, senza che nessuno osi fare obiezioni. Perché lui appartiene al potere, o meglio al dominio. E’ della casta, come si dice. E anche il più spregevole appartenente alla casta merita il suo riconoscimento, la sua pagina enciclopedica, la sua visibilità. Mentre anche il più nobile rappresentante dell’altra politica, quella che nasce dalla società civile, merita l’oblio, quando non lo scherno.
Gli italiani non fanno che lamentarsi della casta, ma non si accorgono che essa è incardinata profondamente nei loro schemi mentali. Un istinto più forte di loro li porta a genuflettersi di fronte ai segni del dominio, ad ammirare l’auto blu, a provare soggezione di fronte alla scorta ed ai bodyguard. E, specularmente, a considerare insignificante chiunque, pur ben diversamente dedito al bene comune, non acceda alla sfera del dominio e non mostri anche esteriormente il suo status.

La questione cardinale dell’acacia

Il fiore dell’acacia di Costantinopoli
(www.neoplantarum.it)
Ieri sera eravamo seduti sotto un’acacia di Costantinopoli, in piazza Giordano: io, Xho e Happy (il cane che vive con noi). Happy leccava beata il residuo dello yogurt al pistacchio di Xho, tuffando il muso nel bicchiere. Da un capannello di gente a due passi s’è staccata una bambina, attirata da Happy. Ha cominciato a giocarci, accarezzandole la testa e le orecchie; poi ha chiamato la sorella più piccola, all’inizio timorosa, poi conquistata anche lei dalla dolcezza di quella cagnona dalle orecchie enormi.
C’era un profumo molto forte di fiori. “Ma da dove viene?”, ha detto Xho. Saranno i fiori dell’acacia? E per verificare l’ipotesi è saltata sull’erba e li ha annusati. “Sì, sono i fiori dell’albero”. La bambina più grande l’ha subito imitata, saltando anche lei sull’erba ed annusando i fiori (che sono peraltro molto belli): “Sì, sono questi fiori”. In quello stesso istante la madre s’è accorta di lei; e: “Scendi dall’erba, ci sono gli scarafaggi”. Immediatamente le ha fatto eco il padre: “Ci sono gli scarafaggi”. La bambina ha ubbidito. Ha lasciato perdere i fiori dell’acacia di Costantinopoli – bellissimi, profumatissimi – per paura di immaginari scarafaggi.
Ecco, ho pensato, come funziona quella che chiamano educazione. Alla fine il mondo ti pare uno schifo, con scarafaggi che spuntano ovunque: perché hai disimparato ad accorgerti dei fiori.

Educare alla libertà attraverso la libertà

Fonte: http://onsparklingform.tumblr.com

Che l’educazione abbia a che fare con la libertà nessuno, o quasi, lo nega. Tutti affermano che fine dell’educazione è formare persone libere ed autonome. Il problema è che la libertà è concepita come il fine, non come il mezzo dell’educazione. Ci si aspetta che la persona diventi libera attraverso un percorso formativo che comincia con l’assoluta negazione della libertà e diviene man mano meno rigido, fino a lasciare libero il soggetto ormai maturo. Il bambino è considerato un po’ come una pianta (le metafore botaniche sono frequentissime in pedagogia), che dev’essere legata, avvinta ad un palo affinché cresca dritta, e non segua le proprie disordinate inclinazioni. Quando la pianta è ormai adulta e ben formata, la si può slegare e lasciare che cresca come vuole. Come vuole? Crescerà, in realtà, come vuole chi dall’esterno ha pensato il suo sviluppo. Ed è quello che accade ai bambini. Avvinti dall’autorità, impacciati, costretti in mille modi, vengono lasciati in pace solo quando hanno interiorizzato le norme, quando hanno ormai quello che Augusto Boal chiama “il poliziotto nella testa” (flic dans la tete).

Libertà è, essenzialmente, autonomia. La parola autonomia rimanda a due cose: sé stessi (autos) e la legge (nomos). Autonomia può voler dire due cose: o offrirsi spontaneamente, da sé, alla legge, oppure darsi la legge da sé. La prima è la concezione conservatrice della libertà e dell’autonomia. Libero, si dice, è soltanto colui che è giunto a consentire interiormente con la legge, fino al punto di non volere se non ciò che la legge stessa vuole. Un soggetto libero così inteso non viola la legge perché l’ha interiorizzata al punto tale da essere tutt’uno con essa. Non si può dire che la legge venga dall’esterno a limitare la sua azione; la legge è tutt’uno con lui. La seconda concezione considera la legge come qualcosa che il soggetto non interiorizza, ma conquista da sé: e può essere che vi sia un contrasto tra ciò che lui ritiene buono e giusto e ciò che la società impone come buono e giusto. Una libertà di questo genere è indubbiamente pericolosa per la società, poiché mette in discussione i valori, le norme, i rituali condivisi; al tempo stesso è per essa una benedizione, perché le offre il dinamismo che è necessario per farla evolvere, per aprirla a nuove posizioni morali, a più avanzate conquiste civili. Chi oggi è un deviante, domani appare come un precursore. L’obiettore di coscienza che oggi è un criminale da sbattere in galera, domani apparirà come colui che ha difeso il sacrosanto diritto di non uccidere, che non può che essere riconosciuto dallo Stato.

E’ chiaro che i conservatori, quando parlano di libertà, si riferiscono a qualcosa che libertà non è. Ciò spiega il curioso paradosso riguardante i fini ed i mezzi. Come è evidente, esiste una relazione necessaria tra fini e mezzi: non è possibile raggiungere certi fini, se non con mezzi che ad essi sono omologhi. C’è un rapporto tra il seme e l’albero, tra l’azione e la sua conseguenza. Educare alla libertà attraverso la coercizione è semplicemente impossibile, se intendiamo la libertà come darsi da sé la legge. Una persona che fin dalla prima infanzia è stata educata a seguire la legge imposta da un’autorità difficilmente riuscirà, da adulta, ad essere realmente autonoma. Ciò non vuol dire che non potrà esserlo affatto. Fortunatamente, l’educazione ha influenza sullo sviluppo personale solo fino ad un certo punto. Il processo educativo è guidato dall’interno non meno che dall’esterno; e spesso accade che il movimento interiore contrasti efficacemente l’azione esteriore e prevalga su essa (ed abbiamo allora i ragazzi rivoluzionari figli di conservatori). La libertà cui si educherebbe in questo modo è la stessa del cane che, ben addestrato, può essere lasciato senza guinzaglio, poiché si è certi che non scapperà. Ma essere liberi vuol dire essere capaci di scappare.
Non si educa alla libertà se non attraverso la libertà. Tornando alla metafora botanica, ciò significa riconoscere alla pianta il diritto di crescere come vuole. C’è una saggezza vitale nella pianta, come nel bambino. A Maria Montessori va riconosciuto il merito di aver richiamato l’attenzione sul grande, straordinario lavoro che il bambino fa da sé – non un foglio bianco su cui gli adulti scrivono cose via via più complesse, ma un progetto che si svolge progressivamente da sé, assimilando ciò di cui ha bisogno dall’ambiente. Non c’è nulla che un bambino reclami con più forza del fare da sé: è un suo bisogno evolutivo. Ed è compito di chi lo educa provare un profondo rispetto per questo bisogno e riconoscere al bambino tutte le volte che è possibile il diritto e l’agio di muoversi autonomamente.
Coloro che negano la libertà al bambino in nome dell’educazione sono guidati da una visione positiva del mondo adulto. Essi sono consapevoli del potenziale rivoluzionario che c’è nel bambino, e per questo ritengono necessario intervenire al più presto per inquadrarlo, per fargli accettare il sistema socio-economico con le sue regole. Questa consapevolezza del potenziale rivoluzionario infantile è alla base anche dell’educazione libertaria. La differenza è che tale potenziale è in questo caso percepito positivamente, poiché si è dolorosamente consapevoli delle storture della società. Nel bambino, nella sua libertà, nella sua gioia si riconosce la leva per trasformare un mondo malato di tristezza, di autorità, di violenza. Educare il bambino vuol dire al tempo stesso andare alla sua scuola, imparare la sua lezione, ascoltare la sua voce.
Articolo per Il bambino naturale.

Femminicidio e cultura del dominio

Murale a Roma, quartiere San Lorenzo
(fonte: roma.repubblica.it)
Nei giorni scorsi alcune donne ed alcuni uomini si sono incontrati a Foggia, convocati dalla associazione Donne in rete (presieduta da Rita Saraò), per discutere insieme di violenza sulle donne. E’ l’inizio di un percorso comune di riflessione e di autoanalisi di cui non si può non avvertire la necessità e l’urgenza, ed al quale auguro di fare molta strada e di coinvolgere quante più persone possibile.
L’avvio di questa riflessione comune non può che essere la domanda che sempre torna a tormentarci di fronte alla violenza: perché? Perché accade? Perché si violenta, si tortura, si uccide? E perché lo si fa alle donne? Vorrei azzardare qualche ipotesi, offrendo il mio minimo contributo alla discussione. Lo faccio da persona che si è occupata a lungo, con esiti che non sta a me giudicare, del problema della violenza. E lo faccio con la consapevolezza, che mi viene da quegli stessi studi, che ogni tentativo di pensare la violenza non è che un balbettio.
Perché, dunque, la violenza sulle donne? Per cercare di rispondere a questa domanda ci sono due vie: si può considerare la violenza sulle donne come un fatto a sé stante o la si può considerare una forma di una violenza più generale. Il mio tentativo di analisi seguirà questa seconda via. La violenza sulle donne mi preoccupa, ma non è l’unica forma di violenza che mi preoccupa. Mi preoccupa la violenza dell’uomo sull’uomo (e sulla donna) che prende la forma dello sfruttamento economico, mi preoccupa la violenza sui bambini, mi preoccupa la violenza sui diversi, siano omosessuali, Rom o extracomunitari, mi preoccupa la terribile violenza sugli animali. Credo che ci sia un nesso essenziale tra tutte queste forme di violenza, al punto tale che non sia possibile combattere una senza combattere anche le altre. Mi rendo conto che alle donne può dar fastidio che la loro causa sia accostata a quella degli animali; d’altra parte, vi sono anche antispecisti come Leonardo Caffo, cui dà fastidio che la causa degli animali sia accostata a quella delle donne. Eppure credo che l’antispecismo politico – la posizione di chi afferma che le lotte di liberazione umana ed animale debbano procedere di pari passo – abbia ottime ragioni.

Quale è la radice della violenza? Proviamo ad immaginare una situazione in cui non esista violenza. Non riesco a figurarmela se non come una situazione simmetrica dal punto di vista relazionale: vi sono persone che sono sullo stesso piano, dotate di pari dignità, che sono in grado di vivere insieme. Poiché sono antispecista, mi piace immaginare che in questa situazione ideale la simmetria riguardi anche gli animali. Immaginiamo ora che qualcosa venga a turbare questa armonia originaria. Accade, ecco, che qualcuno si sottrae alla simmetria. Si pone in una posizione superiore, costringendo gli altri in una posizione inferiore. L’armonia è infranta.
Questa è la situazione che io chiamo di dominio. Ed è, esattamente, la situazione nella quale siamo da qualche millennio. Non da sempre. Che il dominio, e la violenza che esso comporta, siano fatti naturali, nati con l’essere umano, è una affermazione che si può confutare con la semplice considerazione delle società di caccia e raccolta. Le quali non erano società comuniste, come vuole qualcuno, ma nemmeno conoscevano le disuguaglianze e lo sfruttamento delle società che sono venute dopo. Si dirà: ma si tratta di società arcaiche, lontane, che nulla hanno più da dirci. Non è proprio così. Le società acquisitive coprono circa il 90% della vita dell’uomo sulla terra; cioè: nella gran parte della sua vicenda su questo pianeta, l’uomo è vissuto così.
Oggi vive diversamente. Che è accaduto? E’ accaduto che è nata la proprietà, che è per eccellenza il fattore di separazione e di gerarchizzazione. Con le società agricole e pastorali e poi con le prime organizzazioni statali, si è impiantato il dominio. L’uomo si è separato dalla donna (la distinzione di ruoli era molto debole nelle società acquisitive) e dall’animale. E’ nata una cultura del dominio che ha giustificato e codificato questa distinzione. La Bibbia, espressione di una società pastorale, è interamente attraversata dalla cultura del dominio. C’è un Dio che è Padre, ed è un padre violento, collerico, mutevole, perfino capriccioso ed arbitrario, che si presenta come Signore degli eserciti ed esige lo sterminio dei nemici. C’è il mandato di dominare la natura e gli animali, dato al maschio da questo Dio maschio. E c’è la donna considerata come una proprietà maschile, una cosa tra le altre. Nel comandamento dell’Esodo è evidente la logica del dominio: “Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Esodo, 20, 17). La casa, la donna, lo schiavo, l’animale. Le cose e gli esseri viventi ridotti a cose. La reificazione è l’essenza stessa del dominio: poiché essenza delle cosa è l’usabilità, la passività, l’essere sempre disponibile.
Il capitalismo è la massima espressione storica della cultura del dominio, nata con le prime società agricole e pastorali. E’ il sistema economico culturale che industrializza la violenza sugli animali, portando la reificazione della vita animale a livelli prima assolutamente inconcepibili. L’animale come essere vivente autonomo semplicemente non esiste più. Fin dalla nascita è una cosa al servizio dell’uomo. E’ il sistema economico che ha bisogno di milioni, di miliardi di schiavi, nonostante annunci la liberazione dal bisogno e dalla povertà. La produzione continua di merci a buon mercato non è possibile se non grazie a una manodopera a costo bassissimo. E’ il sistema che devasta la natura, privata ormai di qualsiasi sacralità e considerata un campo di risorse da sfruttare. Ed è, anche, il sistema che fa del corpo della donna un oggetto da usare per il piacere del maschio; anzi, di più: la donna diventa una moneta, una cosa buona per acquistare altre cose (ne parla Walter Siti in Resistere non serve a niente). Non è possibile non scorgere un nesso essenziale tra tutte queste reificazioni.
I giornali si occupano di femminicidio soprattutto quando le donne vengono uccise. Ma c’è un femminicidio meno apparente, ma non meno grave. E’ la terribile riduzione a cose di migliaia di donne – spesso ragazzine, a volte anche minorenni – che vengono rese schiave e costrette alla prostituzione sulle nostre strade. C’è qualcosa di più, in questo fenomeno, del bisogno di soddisfare un bisogno sessuale. C’è il bisogno non solo di possedere un corpo, ma di umiliarlo, degradarlo, di ridurlo davvero a cosa. Basta leggere le testimonianze raccolte da una ex schiava nigeriana, Isoke Aikpitanyi, in Le ragazze di Benin City (Melampo editore) per rendersi conto delle terribili violenze che quotidianamente migliaia di maschi italiani fanno subire a migliaia di donne, segnate per di più dall’essere straniere, e dunque ai loro occhi doppiamente disprezzabili.
Ma, si chiederà, perché questa violenza caratterizza il nostro paese più che altri? Per una serie di ragioni. Per il modo particolare in cui si è affermato nel nostro paese il capitalismo, spazzando via nel giro di pochi anni la civiltà contadina (che era anch’essa segnata dalla violenza sulle donne) ed affermandosi in una forma particolarmente rozza e volgare. Per il fascismo, questa vera e propria malattia dello spirito da cui il nostro paese non è mai davvero guarito. La commistione delle due cose – un capitalismo rozzo ed il persistere di una mentalità fascista – ha dato vita a quel tipo di italiano rappresentato alla perfezione dall’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi: un uomo che non avrebbe avuto il successo elettorale che ha avuto se gli italiani – i maschi italiani – non si fossero identificati con lui e con il suo delirio di dominio. E, infine, per il peso della tradizione cattolica, che ha impedito ed impacciato il diffondersi di una sessualità liberata e liberante, sana e priva di tabù, riproponendo peraltro lo stereotipo della donna moglie e madre che è funzionale al dominio maschile (completata, naturalmente, dalla figura della schiava-prostituta).
Se questa analisi non è sbagliata, lottare contro il femminicidio vuol dire diverse cose. Vuol dire lottare contro la cultura da cui vediamo – decostruirla, per dirla con Derrida. Ripensare, ad esempio, il Dio-Padre, Signore degli Eserciti, come un Dio-Madre (il Dio della partoriente diverso dal Dio delle zecche, diceva Danilo Dolci). Vuol dire lottare contro un sistema economico che riduce a cose, una cultura che, sotto l’apparenza del benessere, è malata di necrofilia e di violenza. E vuol dire cercare, qui ed ora, si creare situazioni simmetriche, progettare aree sociali libere dal dominio, zone autonome nelle quali uomini e donne (e, mi piace immaginare, anche animali) possano incontrarsi e comunicare in modo diverso.
Editoriale per Stato Quotidiano.

Le mucche si sono estinte

La mucca come oggetto industriale

Vorrei considerare brevemente una obiezione al vegetarianesimo che mi è stata avanzata recentemente da un collega, docente di scienze naturali. L’obiezione è così formulata: 

Se si diffondesse il vegetarianesimo, molte specie animali – quelle attualmente sfruttate per scopri alimentari – si estinguerebbero. Gli asini, ad esempio, erano quasi estinti; stanno ricominciando a diffondersi da quando si è tornati a mangiare la loro carne e bere il loro latte.

Mi pare che a questo argomento si possa replicare con quattro controargomenti.
1. Cosa vuol dire che una specie non si è estinta? Quando una specie esiste? Richiamiamo alla mente la situazione del film Matrix: gli esseri umani sono sfruttati dalle macchine come semplici fonti di energia, chiusi ed immobili in distese sterminate di baccelli. Si può dire, in quel caso, che la specie umana esiste ancora? E’ lecito dubitarlo, poiché un essere umano non è una batteria. Lo stesso vale anche per gli animali. Il criterio generale è: un essere vivente non è una cosa. Quando viene ridotto a cosa, semplicemente non esiste più come essere vivente. Le mucche ed i polli ridotti a cose dal sistema industriale non esistono più come mucche e polli. Si sono estinti. 

2. Esistono molte specie animali che sono al di fuori del sistema di sfruttamento industriale, senza per questo essere a rischio di estinzione. Non esiste dunque (per fortuna) alcun nesso essenziale tra la mancanza di sfruttamento industriale e l’estinzione di una specie vivente.
3. Se si diffondesse il vegetarianesimo fino al punto di smantellare il sistema industriale di sfruttamento degli animali, si diffonderebbe con esso anche la sensibilità ecologica che ne è alla base. E dunque si tutelerebbe la biodiversità e si difenderebbero le specie a rischio di estinzione.
4. Chi è vegetariano non lo è soltanto perché ama gli animali e vorrebbe liberarli dallo sfruttamento, ma anche perché il sistema industriale di sfruttamento animale è tra le cause principali a) della mancanza di cibo sufficiente per tutti gli esseri umani, b) della compromissione dell’ecosistema. In genere chi si preoccupa di questi due aspetti è anche sensibile alla salvaguardia delle vite animali; tuttavia l’eventuale estinzione di specie animali non è un argomento valido contro i punti a) e b).

Dino Frisullo e la vera politica

Dino Frisullo

Cos’è la politica? A giudicare dall’operare della classe politica italiana – ma altrove non va diversamente – negli ultimi decenni, bisognerebbe rispondere così: è il movimento che distacca il centro della società dalla periferia. Grazie all’opera della politica e dei politici, ci sono un numero ristretto di persone che hanno denaro, prestigio, potere, e molte altre persone che non ne hanno. La politica, come la guerra secondo Eraclito, “gli uni fa schiavi e gli altri liberi”. E’ sufficiente considerare la distribuzione delle ricchezze in Italia e nel mondo per constatare i risultati di questa politica. Secondo dati della Banca d’Italia, il 10% delle famiglie italiane possiedono il 45% delle ricchezze del nostro paese. Nel mondo va anche peggio: secondo uno studio delle Nazioni Unite, il 2% della popolazione mondiale possiede più della metà della ricchezza mondiale complessiva.

La cosiddetta classe politica rientra, naturalmente, nel nucleo ricco e privilegiato della società, e ciò senza differenze di rilievo tra la cosiddetta destra e la cosiddetta sinistra. I politici sono fondamentalmente uomini e donne d’affari, ben attenti a difendere i propri interessi economici anche quando parlano di solidarietà e giustizia sociale.
Ma la politica – bisogna dirlo con chiarezza – non è questa. La politica è altro; ed altri sono i politici. La politica è il movimento che cerca con sforzo continuo, inesausto, di portare al centro della società coloro che sono alla periferia. La politica non tollera l’esclusione, la marginalizzazione, il rifiuto. E’ costruzione della polis intesa come il luogo in cui tutti sono liberi e nessuno è inferiore a nessuno. C’è politica ovunque qualcuno lotta perché qualche altro possa ottenere il riconoscimento pieno dei suoi diritti. C’è politica ovunque qualcuno scopre il volto dell’altro.
Come il sacro, la politica autentica la trovi dove meno te l’aspetti: non nelle chiese, il primo; non nei parlamenti, il secondo. La trovi, la politica, lì dove qualcuno aiuta una prostituta, un pregiudicato, un clandestino, un lavoratore sfruttato a conquistare la propria piena umanità. Ed è lì che in genere trovi anche il sacro.

La politica escludente, la politica degli uomini e delle donne d’affari, esalta i suoi eroi. Dedica loro strade e piazze, scopre targhe, erige busti. I protagonisti della politica autentica sono invece per lo più uomini e donne che agiscono in silenzio, senza che nessuno conosca i loro nomi. E quando si giunge a parlare di loro, è solo per qualche tempo: presto vengono dimenticati. Forse è giusto così – lo esige l’umiltà che sempre accompagna chi lavora davvero per il bene comune -, ma forse non lo è. Forse è giusto, doveroso, necessario ricordarli, trarli dall’oblio, presentarli per quello che sono stati: uomini e donne coraggiosi, che hanno tentato di accendere una luce nel buio che ci circonda.
Dieci anni fa, il 5 giugno del 2003, è scomparso uno di questi politici autentici: Dino Frisullo. E’ nato a Foggia, ma a Foggia non sono molti a ricordarsi di lui. Non ci sono vie o piazze dedicate a lui: ed è bene così. Ma non è un bene l’oblio, la dimenticanza.
Di Frisullo i giornali italiani si occuparono nel 1998, quando finì nelle terribili carceri turche per la sua difesa ferma, coraggiosa, ma sempre priva di qualsiasi atto di violenza, dei diritti del popolo curdo. I giornali lo chiamavano pacifista, e per qualche tempo si appassionarono anche alle vicende di quel personaggio singolare, che finiva in galera per i diritti di un popolo di cui in Italia non importava nulla a nessuno. Ma non era pacifista, Frisullo, benché fosse una persona assolutamente pacifica ed aliena dalla violenza. Nel bellissimo Testamento, scritto quando già la malattia aveva minato il suo fisico, si definisce “un comunista avido di conoscenza e d’amore, vissuto e morto povero e curioso”. Il suo comunismo consisteva nel mettere in pratica le parole del Che Guevara: “Soprattutto, siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo”. E Frisullo le sentiva nel più profondo, fin dentro la carne, le ingiustizie commesse contro i curdi, ma anche le infinite ingiustizie commesse contro i migranti, contro coloro che cercano una vita degna di un essere umano e trovano discriminazioni, violenze, disumanità, disprezzo.
Una raccolta di suoi scritti pubblicata dopo la sua morte si intitola Con lo sguardo delle vittime. E’ una frase che sintetizza alla perfezione la sua prospettiva, che è la stessa di chiunque faccia politica in senso autentico. Visto dall’alto, anche il peggiore degli inferni può sembrare un paradiso. Non c’è deserto che non abbia le sue oasi, e chi sta nell’oasi può ritenere che ovunque ci sia acqua e verde in abbondanza. Fare politica è uscire dall’oasi e affrontare il deserto. E’ guardare il mondo dal basso, dal di fuori, da prospettive eccentriche. Far proprio il punto di vista dell’escluso. Gandhi chiamava Sarvodaya la considerazione di un sistema economico dal punto di vista dei più deboli. Dal punto di vista capitalistico, conta l’incremento dal PIL, l’aumento della ricchezze generale: e poco importa se questa ricchezza finisca nelle mani di una ristretta élite, mentre la maggioranza della gente resta povera. Dal punto di vista di una politica autentica, si può anche perseguire l’obiettivo di diminuire la ricchezza e lo sviluppo generale (lo sostiene, con ottime ragioni, il movimento per la decrescita), lottando invece affinché nessuno resti indietro ed a tutti siano garantite condizioni di vita degne di un essere umano.
Negli ultimi decenni la vita pubblica italiana ha subito un processo di involuzione. Siamo diventati sempre più chiusi, più feroci, più miopi nella difesa della nostra tranquillità quotidiana, del nostro miserabile benessere borghese, pronti a qualsiasi violenza verso chiunque sia al di fuori della cerchia della nostra pseudo-rispettabilità. Abbiamo inventato la figura del clandestino, abbiamo portato al governo miserabili leghisti, abbiamo rigettato a mare i migranti. Ed abbiamo fatto guerre per difendere i nostri interessi economici.
Questa è stata, questa è la normalità della nostra vita pubblica. Dino Frisullo, con pochi altri, ha provato a insegnarci che no, non è normalità questa. Che la vita – la possibilità della gioia – è altrove. Un altrove che va conquistato giorno per giorno, lottando contro quella cultura necrofila che “gli uni fa schiavi e gli altri liberi”.

Beppe Grillo e il test del cinese

Elio Vittorini

In un post di due mesi fa ponevo il problema della presenza di più di qualche razzista tra i cittadini del Movimento 5 Stelle. Essendo un movimento non ideologico, notavo, il M5S ha imbarcato gente tanto di destra quanto di sinistra. Di qui la necessità di una scelta: o prendere posizione sul tema dei diritti civili, e perdere l’appoggio dei razzisti, o evitare qualsiasi presa di posizione su ciò che potrebbe dividere le due anime del movimento, quella di destra e quella di sinistra. Non avevo previsto una terza possibilità: la virata a destra. Un post di ieri l’altro sul blog di Beppe Grillo toglie ogni dubbio: è questa la via presa dal M5S. 

Kabobo d’Italia, titola Grillo: e fa l’elenco degli immigrati che in Italia hanno compiuto reati gravi. Un gioco facile, nel migliore stile leghista. Un gioco idiota, nel migliore stile leghista. Perché dimentica, Grillo, Gianluca Casseri, il fascista vicino a Casapound che nel dicembre del 2011 a Firenze ha ucciso in strada due senegalesi. Dimentica, Grillo, gli spari contro i lavoratori africani a Rosarno, nel gennaio del 2010. Dimentica i sei immigrati africani – tutti estranei a qualsiasi traffico illecito – massacrati dalla camorra a Castelvolturno nel settembre del 2008. Dimentica i migliaia di lavoratori sfruttati e ridotti in schiavitù nelle nostre campagne. E dimentica le migliaia di ragazze africane e dell’est ridotte in schiavitù sulle nostre strade e violentate dal maschio italiano – lo stesso che è responsabile della grande maggioranza delle violenze (uccisioni e stupri) sulle stesse donne italiane.
Dica quel che vuole, d’ora in poi, Grillo. Cianci di quello che gli pare, mandi a fare in culo chi vuole. Non mi interessa. C’è un criterio semplice per valutare un movimento politico. Potremmo chiamarlo il test del cinese. Ricordate Vittorini? Ricordate quel capitolo meraviglioso di Conversazione in Sicilia? Ecco:

– Vedi? – io esclamai. – Un povero cinese è più povero di tutti gli altri. Cosa pensi tu di lui?
– Al diavolo il cinese, – disse.
E io esclamai:  – Vedi? Egli è più povero di tutti i poveri e tu lo mandi al diavolo. E quando lo hai mandato al diavolo e lo pensi, così povero nel mondo,  senza speranza e mandato al diavolo, non ti sembra che sia più uomo, più genere umano di tutti? (1)


Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle (perché, benché Grillo e Casaleggio affermino di non esserne i leader, di fatto il Movimento non ha mostrato alcuna autonomia) non hanno superato il test del cinese. Il che vuol dire che, semplicemente, non hanno da dare nulla alla nostra democrazia ed alla nostra vita civile.



(1) E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, BUR, Milano 2000, p.252.

Educare è come togliere la polvere

Questo articolo inaugura la mia rubrica Educazione e libertà, nel sito Il bambino naturale.

La conta dei frutti delle azioni nel mondo evanes­cente è una di quelle opere che si situano felicemente all’incrocio tra culture e civiltà diverse: nel caso specifico quella musulmana e quella buddhista del Tibet.
Sull’autore, Khache Phalu (Phalu il kashmiro), nulle sono le notizie certe e molte le congetture: c’è chi vuole che si tratti del quinto o del sesto Dalai Lama, chi di un ricco mercante musulmano amico del Panchen Lama, chi del Panchen Lama stesso. Quello che è certo è che l’autore di quel trattatello che ancora oggi i tibetani venerano come un indispensabile manuale di saggezza popolare conosceva bene la letteratura del sufismo islamico, ed in particolare la mistica di Sa’di.
Nel libretto c’è una sezione dedicata all’educazione che, come il resto del libro, è piena di un buon senso tutt’altro che superficiale. Tra le altre, mi ha colpito questa sentenza: “Finché non vengano rip­ulite dalla terra da cui sono emerse, non puoi sapere se una pietra è preziosa né se una las­tra di met­allo levi­gato è uno spec­chio” (trad. G. Magi).
La pietra è, naturalmente, il bambino. Phalu il kashmiro ci dice che non dovremmo mai dare giudizi affrettati sui bambini o sugli adolescenti, poiché non possiamo sapere cosa c’è davvero sotto la polvere. Quello che verrà fuori non lo sa nessuno. Il bambino che oggi appare indolente, capriccioso, incapace di mantenere un impegno, irresponsabile, potrà diventare un adulto rigoroso, serio, profondo. Ma potrà diventarlo solo se gli adulti lo aiuteranno, e per poterlo aiutare gli adulti – i suoi educatori – dovranno avere la capacità di vedere in lui l’oltre, il più, il diverso. Continue reading “Educare è come togliere la polvere”

Se i bambini diventano nemici

Calcio per strada
(www.maidirecalcio.com)
Chi si trovi a passare oggi davanti allo stadio “Pino Zaccheria” di Foggia non può immaginare quello che era quel posto negli anni ottanta. Il vasto piazzale antistante lo stadio – ora chiuso da cancelli – era interamente colonizzato ed attentamente lottizzato da bambini ed adolescenti. In decine di campi di calcio tirati fuori dall’asfalto a forza di immaginazione, con le porte delimitate da semplici pietre, centinaia di ragazzini si esercitavano nella nobile arte del calcio. Ma la festa non si limitava a quell’area, che pure ne era il centro. Ogni marciapiede, ogni slargo, ogni pezzo d’asfalto libero era buono per giocare a pallone. Se lo spazio era poco, si poteva giocare a pallamuro, una variante rumorosissima della pelota. Se era un luogo tranquillo, senza molte automobili, si poteva azzardare una partita a mazza e bustico, variante popolare dell’antico gioco della lippa: con una mazza di legno si colpiva un fuso, che partiva a grande velocità – finendo spesso per centrare qualche passante.
Non era una vita facile, sia chiaro. Allo stadio il tuo pezzo di campo dovevi conquistartelo. Non era infrequente che dai quartieri popolari scendessero tribù ostili, che ti intimavano di lasciar loro il campo al più presto, minacciando in caso contrario le violenze più efferate (e spesso, per risparmiare il fiato, cominciavano senz’altro con queste ultime). C’erano poi quelli che ti bucavano il pallone, o che si rifiutavano di restituirtelo se finiva nelle loro mani. Per un certo periodo abbiamo giocato a pallone su un pezzo di marciapiede che era davanti alla Sala del Regno dei Testimoni di Geova. A volte il pallone finiva nella sala durante una delle loro riunioni, ed occorreva farsi coraggio per andare a recuperarlo in quel consesso religioso – che in genere lo restituiva senza farsi troppo distrarre dalla cosa. Peggio andava quando il pallone finiva sul terrazzino che sovrastava la sala. In quel caso bisognava arrampicarsi, ed il coraggio necessario era il doppio, perché il padrone del terrazzino era uno 007.
A volte il pallone finiva contro lo specchietto di un’automobile, e per quanto si facesse in fretta a correre via e nascondersi, tornando a casa si trovava inevitabilmente la propria madre furiosa per aver già ricevuto la visita del proprietario dell’automobile che pretendeva il risarcimento del danno. Una volta – si era allo stadio – riuscimmo a far saltare gli occhiali ad un passante senza nemmeno sfiorargli la testa.
Ho accennato agli 007. Per noi ragazzi di strada degli anni ottanta gli 007 erano quei pensionati la cui unica attività riconoscibile consisteva nel darci la caccia. Persone con un sistema nervoso estremamente sensibile, preso a martellate dai nostri palloni e dalle nostre grida. Li chiamavamo 007 perché avevano la capacità ammirabile di comparire quando meno te l’aspettavi. Nel bel mezzo della partita, quando gli animi cominciavano a scaldarsi, compariva lo 007, e la partita era finita. O meglio: ricominciava da qualche altra parte.
Negli anni ottanta c’era una guerra tra i ragazzini ed i pensionati, tra il diritto al gioco ed il diritto al riposo. Considerando come sono andate le cose, è difficile negare che abbiano vinto loro: i pensionati. Del resto, l’età media si è innalzata, ci sono più vecchi che bambini. Una vittoria anagrafica. (Hanno vinto i vecchi: può essere una buona sintesi di qualche decennio di politica italiana.)
Le strade si sono svuotate, sono diventate sempre più silenziose, eppure mai abbastanza silenziose, perché la retorica della quiete pubblica è insaziabile. Una città non è mai abbastanza silenziosa, per chi esige silenzio. Lo sarà, forse, quando diventerà un immenso cimitero, ed i morti saranno gli unici a far compagnia ai vecchi.
I bambini passano la loro vita chiusi in casa. Una vita da gatti, più che da cani. Quei pochi che ancora tentano una qualche appropriazione degli spazio pubblici diventano nemici da perseguitare formalmente. L’azione degli 007 non basta più: ora occorre che si muovano le autorità. Ed è così che alcuni paesi del Barese vietano formalmente ai bambini di giocare: le contravvenzioni, per chi sia trovato a giocare per strada, giungono fino a cinquecento euro. A sorprendere non è tanto l’ordinanza, quanto ciò che l’ordinanza presuppone: che cioè esistano ancora dei bambini che giocano per strada.
Tre circostanze hanno portato via i bambini dalle strade. La prima è la paura dei genitori. Oggi si fanno meno figli – spesso uno soltanto – e si presta loro una attenzione assoluta, che per lo più ha risvolti negativi. Si vive nel costante terrore che possa succedere loro qualcosa, che quell’unico bene possa essere minacciato da qualche malintenzionato. Si sentono tante cose brutte, del resto. E veniamo alla seconda circostanza: l’ossessione securitaria. Negli ultimi decenni ci siamo lasciati sempre più convincere che le nostre città sono piene di pericoli, che ad ogni angolo si nasconda un’insidia. I dati oggettivi dicono il contrario, ma i dati oggettivi contano poco, se la televisione martella con notizie di cronaca nera. E dunque ci si chiude in casa e si vota per chi promette di cacciar via tutti coloro che rappresentano minacce reali o potenziali (evitando di posare l’attenzione sulle minacce reali, naturalmente; su coloro che fanno prosperare i propri interessi finanziari a spese della collettività). Quel che è peggio, si chiudono in casa (o in ambienti protetti) i bambini. In questo modo – e veniamo alla terza circostanza – si interpreta anche una esigenza del sistema. Nella società dei consumi bisogna essere consumatori: è un imperativo al quale non si può derogare. Chi non consuma non esiste. Ora, dei bambini che giocano al pallone per strada non solo dei consumatori. Il loro consumo si limita al pallone: poca cosa. Non pagano per usare la strada o il marciapiede; sono al di fuori della logica del commercio. Se li chiudiamo in casa e li piazziamo davanti ad un televisore o ad un computer, li trasformiamo in consumatori: consumatori di programmi televisivi (telespettatori), consumatori di prodotti pubblicizzati dalla televisione, consumatori di videogiochi, e così via. Se proprio vogliono uscire, possiamo mandarli in palestra, o in piscina, o alla scuola di calcetto (ma non avviene così spesso, a giudicare dalla preoccupante obesità dei bambini); oppure a scuola di violino, o di danza. Pagando, naturalmente. E’ così che anche i bambini fanno girare l’economia.
Non sorprende l’ordinanza, ho detto; ma indigna. Indigna che si sia così ciechi da non capire che il fatto che esistano ancora dei bambini che giocano per strada è un patrimonio comune da tutelare, e non un problema da combattere aggiungendo i bambini – i bambini liberi, non ancora aggiogati al consumo – alla lista infinita dei nemici del sistema dei consumi e del benessere.

Editoriale per Stato Quotidiano.

29 aprile, lunedì

Questa mattina ho accompagnato i miei studenti ad una specie di partita del cuore: gli studenti di un istituto tecnico contro gli ospiti di una casa di accoglienza per extracomunitari. Prima della partita la preside tenta di prendere la parola. I suoi studenti la sommergono di fischi. Penso: dev’essere una pessima preside, per essere odiata così dai suoi studenti anche dopo aver organizzato una cosa del genere. Ma mi sbaglio. Nella mia carriera di docente (mi si passi l’ossimoro) ho visto gli studenti degli istituti tecnici e professionali fischiare e dileggiare chiunque. Ci sono passato anch’io, una volta che mi lasciai malauguratamente coinvolgere in un incontro con i poeti locali (mi si passi questo secondo ossimoro). Perché lo fanno? La risposta è, forse, nelle cose che dicevano qualche giorno fa le mie studentesse di prima. Che, cioè, chi studia è un “Pierino”. Usano il termine esattamente nel senso del “Pierino del dottore” di don Milani. Pierini sono i professori, più Pierini sono quelli che scrivono libri e che fanno conferenze per parlare agli altri. E i Pierini vanno fischiati (perché nemici di classe? può essere).

Seduto tra gli spalti ho finito di leggere Storia di un corpo di Pennac. Correndo il rischio di mettermi a piangere davanti ai miei studenti. La storia del declino inesorabile, e inesorabilmente doloroso, di un corpo colpisce alcune delle mie paure più radicate. Non la paura della morte, ma la paura del consumarsi del corpo e del dolore. Se ci rifletto meglio, mi accorgo che non è proprio del dolore che ho paura. Sono in grado di sopportare il dolore, se è una cosa che viene dal mio corpo – come i terribili mal di schiena che a volte (ma fortunatamente non succede da due anni) mi costringono all’immobilità. Vi vedo quasi un richiamo alla consapevolezza, per dirla buddhisticamente. No, a terrorizzarmi è il dolore che viene dal di fuori; o anche solo il fastidio: basta che ci sia qualcuno che fa qualcosa con il mio corpo. Mi spaventano le pur banali analisi del sangue – e mi basta nominarle o sentirle nominare per flettere automaticamente il gomito (come sto facendo ora), quasi a difendermi dall’intrusione di un ago immaginario. Ciò di cui ho terrore è essere in balìa di altri. Che qualcuno faccia del mio corpo qualcosa, mentre non sono cosciente. Terrore di dover essere operato, più di ogni altra cosa. Essere operato: essere oggetto per l’altro. Corpo, null’altro che corpo.
Tornando dallo stadio ho visto due poliziotti che indicavano educatamente, facendo anche un disegno su un pezzo di cartone, la strada ad un ragazzo africano. Devo ricordamene quando mi succederà di discutere di poliziotti.

Educare nella società delle merci

Tutto è merce, tutto si può comprare e vendere, anzi tutto si deve comprare e vendere. Anche gli esseri umani.
Tutto, in quanto merce, è superficie, apparenza, vetrina. Vivere vuol dire stare nella vetrina ed attrarre i clienti: sedurre, portare con sé. Nessuno è escluso dal gioco universale della seduzione. Ad un corpo non è concesso di diventare vecchio. Occorre che si mantenga sempre giovane, perché non cessi di sedurre. Anche a costo di diventare ridicolo. Donne di quarant’anni si gonfiano le labbra a dismisura, uomini di settant’anni ottengono dalla chirurgia un volto finto in cambio delle loro rughe autentiche. Questo si chiama, oggi, bellezza: il tentativo disperato, triste, patetico di sedurre, di costringere a volgere lo sguardo, di imporre la propria presenza. Una degenerazione della bellezza e del suo senso. Se la bellezza autentica porta sempre con sé una scheggia di sofferenza con la quale ci ferisce e ci commuove, dandoci il presentimento di un altrove, la bellezza sguaiata delle merci, che spesso confina con il mostruoso, tiene avvinti al qui ed ora, è la negazione di ogni trascendimento, avanza una arrogante pretesa di appagamento totale. Continue reading “Educare nella società delle merci”

Elogio delle parole cattive

George Carlin

Una delle prime cose che un bambino impara a scuola – se non l’ha prima imparato in famiglia – è che le parole non sono tutte uguali: esistono parole e parolacce, parole buone e parole cattive. Le prime vanno bene, le seconde no. Un bambino può e deve chiedere alla maestra di andare in bagno; non può e non deve chiederle di andare al cesso. Se lo fa, la maestra lo richiama. Se insiste, la maestra comincia a preoccuparsi: c’è nel bambino qualcosa che non va.

Cosa c’è che non va in un bambino che dice cesso invece di bagno? A pensarci, la parola cesso e la parola bagno indicano esattamente la stessa cosa. Coprono, cioè, lo stesso campo semantico, sono due significanti che hanno lo stesso significato. Cesso non è dunque una parola imprecisa. Perché allora non va bene? Perché ha un brutto suono, dirà qualcuno. Le parolacce sono tali perché suonano male? Ma se così fosse, dovrebbero essere parolacce anche messo, nesso, lesso. Sono tutte parole che hanno un suono quasi identico a cesso: eppure non sono considerate parolacce. Culo è una parolaccia, ma mulo va benissimo. Cazzo è una parolaccia, ma pazzo e razzo no. Perché, allora, il bagno non si può chiamare cesso, il sedere non si può chiamare culo, il pene non si può chiamare cazzo? Perché siamo in una società stratificata. Una società, cioè, in cui non c’è uguaglianza. Esistono le classi sociali, ovvero ci sono persone che hanno più soldi e persone che hanno meno soldi, persone che hanno più potere e persone che hanno meno potere, persone che hanno più status e persone che hanno meno status. Ci sono, insomma, i ricchi e i poveri. E i ricchi sono quelli che decidono, per così dire, le regole del gioco. Sono quelli che controllano le istituzioni, a cominciare dalla scuola, e grazie a questo controllo hanno il potere di decidere quali, tra le idee in circolazione, sono giuste e quali sbagliate, quali accettabili e quali inaccettabili. La stessa cosa fanno con le parole. I ricchi decidono quali parole sono parole e quali parole sono parolacce. Non è difficile capire perché, allora, bagno va bene e cesso no. Bagno è la parola che usano i ricchi, cesso la parola che usano i poveri. E le parole che usano i poveri non sono parole, ma parolacce.

I ricchi sembrano ossessionati dal sesso. Ci pensano talmente spesso, che avvertono il bisogno di rimuovere tutto ciò che vi fa riferimento. Non riescono ad avvertire il sesso come qualcosa di naturale. Ne sono attratti irresistibilmente e, proprio per questo, lo temono. E’ per questo che gli innumerevoli termini che i proletari usano per riferirsi al sesso ed ai suoi strumenti sono, per i ricchi, parole oscene. Se proprio bisogna parlare di quello che uomini e donne hanno tra le gambe, bisognerà usare parole dal sapore scientifico: pene e vagina. Cazzo e fica non vanno bene, così come il rapporto sessuale è fare l’amore, non scopare. Soprattutto, il sesso è come il nome di Dio nella Bibbia: non bisogna nominarlo invano. I poveri hanno questo spiacevole vezzo, di infilare di continuo nel discorso termini sessuali. Anche questo non sta bene. Lo fanno anche i ricchi, a dire il vero, ma loro sanno che c’è differenza tra sfera pubblica e sfera privata, tra ciò che si può dire in pubblico e ciò che è bene dire in privato. Probabilmente la vita politica sarebbe più facile e comprensibile se, poniamo, un presidente della Repubblica alle prese con una difficile crisi di governo, sbottasse: “Mi sono rotto i coglioni”. Ma non starebbe bene. Occorre che faccia dei giri di parole per dire più o meno la stessa cosa.
Una parola ha un solo compito: quella di essere precisa. Di indicare esattamente qualcosa. Ogni parola che indica esattamente qualcosa è una parola, ogni parola ambigua – che sembra indicare una cosa, ma in realtà ne indica un’altra – è una parolaccia. Le parole cattive, le parolacce, sono le parole ipocrite, quelle che vengono usate per ingannare. Esiste un’etica della parola che si può riassumere in questo semplice imperativo: usa le parole per dire la verità o per cercarla insieme agli altri, mai per ingannare e per far apparire le cose diverse da come sono. Sono parolacce, parole oscene, tutte quelle che coprono la realtà invece di svelarla. A ben vedere, siamo immersi nelle cattive parole, ma non sono quelle che crediamo. Sono le parole della politica, sono le parole dell’economia, sono le parole della pubblicità. Anche parole straordinariamente belle subiscono un processo di corruzione e finiscono per non significare più nulla di preciso. Cosa vuol dire, oggi, libertà? Un tempo era la parola che usavano gli oppressi ed indicava l’ideale perseguito nella loro lotta contro gli oppressori. Oggi è una parola di cui si sono appropriati gli oppressori, ed indica appunto la possibilità di opprimere senza troppi impacci.
Permettetemi, allora, un elogio dei quelle altre parole: quelle che sembrano cattive, ma cattive non sono. Le parole dei poveri, che non hanno diritto di cittadinanza a scuola ma che non mancano di comparire nella letteratura, perché per fortuna i poeti e gli scrittori veri sono ben diversi dai professori di italiano; le parole degli oppressi, dei disprezzati, dei diversi; le parole incerte di coloro che sono in cammino per liberarsi dall’oppressione e cercano la verità nell’epoca dell’inganno eretto a sistema.

Quello che possiamo imparare dai rom

In occasione della Giornata Internazionale di rom e sinti, il presidente della Camera Laura Boldrini ha ricevuto a Montecitorio una delegazione di giovani rappresentanti di queste due comunità. Il post con il quale ha comunicato l’iniziativa sulla sua pagina Facebook ha dato il via ad una serie tanto prevedibile quanto preoccupante di commenti razzistici. Ne cito solo alcuni a caso: “propongo la cittadinanza onoraria rom per la signora Boldrini. così almeno si dimetterà da italiana”; “paradossalmente difenderesti anche un rom che ti stuprasse.. è la loro cultura… o che ti rubasse in casa.. (hanno milioni proventi dai furti) e sussidi????… tu sei strana… e pericolosa… una mente perversa… se non pensassi che sei italiana… mi preoccuperei… sei una scoria un pericolo per la nazione… tu Monti Napolitano dovreste essere giudicati per ‘Alto Tradimento'”; “Siate fieri della vostra identita’….(che non avete)!! Siate fieri di quello che fate,(quindi rubare)…il 90% degli Italiani non li vuole…ma sono qua e li manteniamo pure!!! Che schifo!!!!”; “Tanto un altro paio di anni e andremo a cacciarli con i forconi!!! (intendo i nostri politici)”. Ho detto che era una reazione prevedibile.

Basta che si tocchi, o che si sfiori soltanto, l’argomento dei rom, per suscitare una catena di reazioni palesemente razzistiche. Basta attaccare i rom per essere immediatamente confortati dall’approvazione generale, così come basta difenderli per ritrovarsi disperatamente soli. Essere rom in Italia, oggi, vuol dire essere in pericolo. Esiste una tensione latente, che in qualsiasi momento può esplodere e portare alla caccia al rom. La cronaca degli ultimi anni offre non pochi esempi: dalle aggressioni in seguito all’omicidio di Giovanna Reggiani, nel 2007, ai raid punitivi dell’anno seguente a Ponticelli, Napoli, dopo un controverso tentativo di rapimento di una bambina da parte di una ragazzina rom fino all’aggressione al campo rom delle Vallette, a Torino, nel gennaio del 2012, motivato dalla violenza sessuale ai danni di una ragazzina torinese da parte di due uomini rom. Violenza sessuale mai esistita, come si scoprirà poi: la sedicenne si era inventata tutto per coprire un rapporto sessuale con un fidanzatino italiano.

Quando si parla di rom, non si va troppo per il sottile. Gli organi d’informazione sbattono il mostro in prima pagina, i cittadini indignati recuperano immediatamente fiaccole e bastoni, pronti alla strage. Nel rapporto annuale di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo un paragrafo a parte, nella sezione che riguarda il nostro paese, è riservato ai rom. Non è difficile comprendere le ragioni di questo odio così radicato e così difficilmente scalfibile. I rom rappresentano in Italia una minoranza particolarmente vulnerabile, priva di difese. Pur essendo presenti sul nostro territorio da secoli, i rom non sono ancora riconosciuti come minoranza etnica. Pur essendo stati sterminati insieme agli ebrei nei campi di concentramento, non sono inseriti nella commemorazione annuale della Giornata della memoria. Lo sterminio dei rom – il Porrajmos – è un evento rimosso dalla memoria collettiva. Non se ne parla a scuola, non ne riferiscono i libri di storia. Perché presentare i rom come vittime, ecco, non ci piace. Ci piace immaginarli colpevoli di ogni nefandezza. Ci piace credere che i rom rubano i bambini, ad esempio. Anche se uno studio fatto da ricercatori dell’Università di Verona ha dimostrato che nessuna delle quaranta accuse di rapimento di bambini a carico di rom dal 1986 al 2007 ha portato a condanne: tutte accuse infondate (1). Un caso a dire il vero c’è. Tristissimo. Quello di Angelica Varga, la ragazza del caso di Ponticelli cui ho accennato. Condannata a tre anni e otto mesi quando aveva appena sedici anni in base alla sola accusa dell’unica testimone, la madre della bambina. Nessun altro testimone, nessuna prova. Condannata in base alla testimonianza di quella che, secondo il giornalista Giulio Di Luzio, era la figlia di un camorrista (e la camorra aveva interesse affinché i rom venissero cacciati da Ponticelli) (2).

Tacciono, i giornali, dei bambini rom sottratti dalla polizia e di cui le famiglie non hanno saputo più nulla, come ha denunciato l’europarlamentare Viktória Mohácsi; e tacciono anche sui raid notturni nei campi, dei sequestri di persona, delle violenze dei poliziotti che risultano da testimonianze raccolte dalla stessa europarlamentare. Sono fragili, dunque. E la loro fragilità attira irresistibilmente le tensioni collettive. In particolare nei periodi di crisi economica, quando aumenta la frustrazione, sono un capro espiatorio fin troppo comodo – anche per i politici. Mentre i padroni della finanza continuano i loro giochi sulla pelle di milioni di persone, ci si illude che basti dar fuoco a qualche campo rom perché le cose vadano meglio. “Siate orgogliosi della vostra identità e appartenenza. Sempre nel rispetto delle cultura degli altri, ma con la consapevolezza che avete un patrimonio da far conoscere e da tutelare”, ha detto Boldrini incontrando i giovani rom. Parole che per molti suonano come una provocazione. Identità? Orgoglio? Patrimonio? “No Signora Boldrini hanno un patrimonio da restituire… tutto quello che hanno rubato agli italiani… e non solo a loro…”, ha commentato qualcuno. I rom sono furto, e null’altro. A nessuna cultura si nega il riconoscimento di un qualche valore, tranne che a quella rom.

I furti. Sono davvero tutti ladri, i rom? No, naturalmente. Nessun rom è ladro? Nemmeno. Alcuni rom sono ladri, altri no. Proprio come gli italiani. Quando un italiano ruba, nessuno si sogna di attribuire il suo furto alla cultura italiana, come invece accade con i rom. E nessuno si sogna di considerare corresponsabile tutta un’etnia per le colpe di uno solo. C’è una lettura della realtà rom che può aiutarci a superare qualche pregiudizio, e consiste nel mettere da parte, per un momento, l’etnia, e considerare invece la classe sociale. A quale classe sociale appartengono i rom? Non sono borghesi, naturalmente; ma non sono nemmeno proletari. Sono sottoproletari, appartengono a quel “proletariato straccione” (Lumpenproletariat) costituito da disoccupati o sotto-occupati di cui parlava Marx. Persone al di fuori del ciclo produttivo che vivono di espedienti, privi di coscienza politica.

Ora, proviamo a leggere la realtà rom in quest’ottica. Confrontiamo i rom con un certo sottoproletariato napoletano o più in generale meridionale, ad esempio. Ci sono differenze? No. I mali sono gli stessi, i tentativi di porvi rimedio anche. Sia chiaro: non intendo, ora, criminalizzare il sottoproletariato per assolvere i rom. I crimini dei sottoproletari sono, spesso, il risultato di una prolungata indifferenza di chi dovrebbe curare il bene comune e invece fa gli interessi di chi ha di più. Interi quartieri abbandonati a sé stessi, tranne che nei periodi elettorali, quando torna comoda l’esistenza di una massa di disperati il cui voto si può acquistare con qualche pacco di pasta. Bambini che crescono in case fatiscenti, a volte in vere e proprie grotte senz’aria né luce, mentre con la compiacenza delle amministrazioni si costruiscono nuovi palazzi – case che i poveri non vedranno mai. Servizi sociali inesistenti, mentre si moltiplicano i centri commerciali. Ed uno Stato che è sempre pronto a sperperare per il carcere i soldi che non ha voluto investire per aiutare i poveri a vivere più dignitosamente.

Ma c’è ancora una differenza, qualcosa che fa del rom un sottoproletario sui generis. Il sottoproletariato, pur vivendo ai margini del sistema economico, ne condivide la logica, i rituali, i miti, le narrazioni. Nel sistema capitalistico il sottoproletario ha gli stessi desideri del proletario e del borghese. Come loro, è principalmente un consumatore. Ogni status symbol è da lui avidamente desiderato, quando non acquistato contraendo debiti. Pur disponendo di poco denaro, non disconosce la centralità assoluta del denaro nella vita individuale e comune. Il suo modo di vivere, se potesse, sarebbe esattamente lo stesso di quello di un borghese. Non così i rom. In una società capitalistica i rom vivono in modo non capitalistico. Non sono consumatori, come dimostra il fatto che nessun pubblicitario li ha mai considerati un target valido per qualche prodotto. Non condividono i valori dominanti della carriera, della ricerca dello status, dell’affermazione personale. Soprattutto, non condividono l’individualismo, che è essenziale per il capitalismo, e la mercificazione di ogni cosa. In un campo rom le relazioni umane sono ancora più importanti del denaro. La vita al campo si regge sullo scambio di prestazioni gratuite, sulla solidarietà e il sostegno reciproco. E’ questo legame che i rom considerano la loro più grande ricchezza – chiedendosi, ad esempio, come facciano i gagè, i non rom, ad abbandonare i genitori anziani in un ospizio. Ogni uomo, ogni donna ha qualcosa da insegnare; e così ogni popolo. Anche il popolo rom. E quello che ha da insegnare – quello che noi possiamo imparare – è forse qualcosa di molto importante: come sopravvivere al capitalismo ed alla sua universale mercificazione.  

Note  
(1) S. Tosi Cambini, La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007), CISU, Roma 2008.
(2) G. Di Luzio, Brutti, sporchi e cattivi. L’inganno mediatico sull’immigrazione, Ediesse, Roma 2011.

Editoriale per Stato Quotidiano

L’equivoco dello schiaffo educativo

E’ triste, nel paese che ha dato i natali a Maria Montessori, dover scrivere ancora oggi un articolo per confutare l’opinione che gli schiaffi possano essere educativi. E’ triste ma necessario, poiché si tratta di una convinzione ancora ben salda e diffusa, come lo è la pratica corrispondente. Ho avuto modo di constatare che si tratta di una convinzione diffusa anche tra i giovani, ed in particolare tra quei giovani che, per gli studi intrapresi, si troveranno con ogni probabilità a lavorare in futuro nel sociale ed in campo educativo.

Vorrei provare a spiegare per quale motivo ritengo che questa convinzione sia una bestialità pedagogica, e che la pratica corrispondente sia una violenza inaccettabile. Faccio notare, per cominciare, che nessun soggetto può essere preso a schiaffi impunemente. Una donna non può essere presa a schiaffi dal marito, un lavoratore non può essere preso a schiaffi dal suo superiore, un cliente importuno non può essere preso a schiaffi dal commesso, e così via. Nemmeno il giudice, dopo aver letto la sentenza, può prendere a schiaffi l’imputato, e lo stesso vale per le guardie carcerarie. Perché una persona condannata, poniamo, per omicidio non può essere presa a schiaffi, mentre un bambino che ha mangiato di nascosto la cioccolata sì? Perché nella nostra società il detenuto resta, nonostante la condanna, un essere umano dotato di dignità (ed è giusto che sia così); il bambino no. Il bambino è un essere umano a metà, per così dire; per quanto sia grande l’amore che affermiamo di provare per lui, non siamo disposti a riconoscergli piena umanità e piena dignità. Altrimenti mai ci sogneremmo di prenderlo a schiaffi.

Si dirà: ma il bambino non è, appunto, un uomo; non ha ancora sviluppato le sue capacità. E questo è un motivo per negargli dignità? Seguendo questa logica, bisognerebbe dunque prendere a schiaffi i portatori di handicap, le persone con ritardo mentale, i malati, i vecchi ormai spenti. Invece pensiamo il contrario: qualsiasi atto di violenza verso questi soggetti viene considerato particolarmente grave proprio perché si tratta di soggetti deboli. Perché non vale lo stesso con i bambini?

Nel caso dei bambini, la violenza ha l’alibi dell’educazione. Bisogna a questo punto chiedersi cos’è educazione. Senza farla troppo lunga, possiamo con ragionevole approssimazione dire che educare vuol dire aiutare una persona a crescere ed a diventare una persona completa. Ora, chi schiaffeggia un bambino è guidato da questa concezione dell’educazione? Lo dubito. Per chi usa lo schiaffo come risorsa pedagogica educare è evidentemente una cosa diversa: fare in modo che il proprio figlio faccia quello che lui vuole, che ubbidisca, che non dia fastidio, che si lasci guidare dall’esterno. Tutto questo ha naturalmente ben poco a che fare con l’educazione intesa nel suo senso autentico. Un bambino che non dà fastidio, che ubbidisce ai genitori, che si lascia guidare non è un bambino educato. Può essere, al contrario, un bambino infelice, incapace di esprimere i suoi bisogni, inibito. Un bambino che diventerà un adulto conformista, una persona priva di originalità e incapace di scelte autonome.

Lo schiaffo rivela dunque un tragico equivoco di fondo riguardante l’educazione. Si pensa che educare significhi modellare dall’esterno, mentre vuol dire creare le condizioni perché il bambino prenda forma da sé; che voglia dire far tacere, mentre vuol dire dare la parola. Perché vi sia educazione occorre una disposizione preliminare: la capacità di mettersi dalla parte del bambino, di ascoltarne e rispettarne i bisogni. L’adulto che ricorre alla violenza interpreta al contrario il rapporto educativo a partire da sé stesso, dalle sue esigenze, da quello che vuole o non vuole che il bambino faccia. Il bambino come essere autonomo per lui semplicemente non esiste. E dunque non esiste l’educazione.

E’ interessante, poi, che anche coloro che affermano il valore educativo dello schiaffo si guardino bene dal riconoscere ad altre figure educative il diritto di prendere a schiaffi il loro figlio. Genitori che schiaffeggiano normalmente i bambini sono pronti a correre a scuola a protestare se vengono a conoscenza della minima violenza fatta ai loro figli dagli insegnanti. Perché? Se lo schiaffo educa, e l’insegnante educa, l’insegnante dovrebbe poter ricorrere allo schiaffo. E’ un semplice sillogismo. Se si nega agli insegnanti il diritto di schiaffeggiare i bambini, è perché si sa in fondo che non è affatto vero che lo schiaffo educa. Il genitore sa bene, anche se lo nega, che si tratta di una violenza, e pensa di essere l’unico ad avere il diritto di compiere quella violenza. C’è, al fondo, una concezione pericolosissima: l’idea che il bambino sia proprietà della famiglia, che può farne quello che vuole. Un genitore può picchiare il bambino, l’insegnante no, perché il bambino è cosa del genitore, non dell’insegnante.

Ma cosa succede a un bambino che viene preso a schiaffi? Proviamo a guardare le cose dal punto di vista del bambino. Immaginiamo che abbia sei o sette anni. Il suo corpo è minuscolo rispetto all’ambiente ed al corpo di quelli che ha intorno. E’ un nano in un mondo di giganti. Questo è il primo aspetto da considerare: l’impotenza fisica. Il bambino, per la sua inferiorità corporea, si sente debole ed indifeso, in balia dei grandi, che possono fare di lui quello che vogliono. La mano di un adulto è gigantesca per lui. E’ un po’ come, per noi, essere colpiti da un essere mostruoso.
Chiunque riceva violenza sviluppa sentimenti negativi: l’impressione di essere stato vittima di una ingiustizia, la rabbia, la paura. La paura è in particolarmente devastante; meglio la rabbia della paura. Un bambino di quell’età considera i propri genitori come un modello.

Non, si badi, per quello che dicono, ma per quello che fanno. Questa è una cosa fondamentale. Non educhiamo con le parole, educhiamo con i fatti. Se prendiamo a schiaffi un bambino, è poi assolutamente inutile dirgli che la violenza è sbagliata. Con le nostre azioni gli stiamo dicendo il contrario, e per i bambini contano le nostre azioni, non le nostre parole. Ecco dunque una delle conseguenze di questa pedagogia bestiale: il bambino che subisce violenza diventa violento; gli schiaffi ricevuti a casa li restituisce a scuola ai compagni. L’insegnante chiama poi i genitori e si lamenta del comportamento del bambino; ed a casa il genitore punisce il bambino per aver preso a schiaffi il compagno prendendolo a sua volta a schiaffi. Il circolo vizioso continua.

In sostanza, ricorrendo allo schiaffo il genitore baratta lo sviluppo sereno di suo figlio per qualche momento di tranquillità. Qualche momento, non di più. Perché è una illusione credere che il bambino educato a suon di schiaffi vanga su davvero tranquillo ed ubbidiente. Al contrario. In anni di lavoro educativo ho avuto modo di osservare una costante: i bambini più irrequieti (e spesso violenti) sono quelli che vengono educati nel modo più rude. Non occorre essere dei pedagogisti per capire il perché. Il bambino è come una spugna: assorbe dall’ambiente. Ed in particolare, ovviamente, dall’ambiente familiare. Se in quest’ambiente c’è malessere relazionale, il bambino crescerà con questo stesso malessere. Se in una famiglia i conflitti si affrontano con la violenza fisica o verbale, il bambino affronterà i conflitti in questo modo. Inutilmente i genitori gli diranno che non dovrà fare così. Per ottenere un diverso comportamento, dovrebbero cambiare clima familiare. Cosa molto più difficile che dare uno schiaffo ad un bambino o rimproverarlo.

I bambini hanno bisogno di un clima sereno, hanno bisogno di osservare quotidianamente esempi di rispetto reciproco, di ascolto, di amore. Hanno bisogno dell’esempio di adulti che siano in grado di affrontare i conflitti in modo costruttivo. Hanno bisogno di delicatezza, di cura, di armonia. Diamo loro invece minacce, punizioni, regole inutili, perfino violenza fisica. Ogni volta che educhiamo un bambino abbiamo la possibilità di cambiare (in modo infinitesimale, ma non per questo non significativo) il mondo oppure di confermare le sue strutture di dominio. A noi la scelta.

Editoriale per Stato Quotidiano.

Papa Francesco tra arroganza ed interrogazione

E’ nota la facilità con cui sui social network si diffondono notizie non controllate e citazioni attribuite con grande leggerezza a questo o quel personaggio, che mai si sarebbe sognato di dire cose simili. In questi giorni ha avuto grande diffusione un presunto appello di Papa Francesco ad evitare la mattanza degli agnelli per Pasqua. Un appello che nasce in realtà interamente da un equivoco. Le parole citate non sono del papa, ma di una associazione animalista che, felicitandosi per le parole dette dal papa in occasione della festa di San Giuseppe – una omelia nella quale ha invitato ad essere custodi del creato -, ha invitato gli italiani a non mangiare agnello per Pasqua.

Come si spiega la bufala? Si tratta di un meccanismo frequente in campo religioso: ci si forma una certa idea di cosa è e di cosa dovrebbe fare o dire un sant’uomo, e quando qualcuno, per alcuni suoi tratti, ci sembra che possa incarnare questa idea, compiamo senz’altro la proiezione: gli facciamo dire e fare ciò che ci sembra che dovrebbe dire e fare. Benché papa Francesco sia stato eletto da poco, il meccanismo è già all’opera. Nell’immaginario dei credenti (e anche di qualche non credente) Francesco è già il papa buono: e dal papa buono ci si aspetta che faccia e che dica certe cose. Che magari non ha fatto o detto

Cosa pensa realmente papa Francesco su molti temi, può aiutare a comprenderlo il volume Il cielo e la terra, un dialogo con il rabbino Abraham Skorka pubblicato da Mondadori ed uscito in edicola con La Repubblica. Si tratta di una vera e propria summa del pensiero di papa Bergoglio: Dio, il potere, la donna, l’aborto, l’eutanasia, il divorzio, il matrimonio tra persone omosessuali, eccetera. Leggendolo si può capire perché, ad esempio, è molto improbabile che in futuro possa davvero invitare a non mangiare agnelli a Pasqua. Un pensiero che ricorre nel libro è quello del dominio dell’uomo sulla natura. “L’uomo – afferma – è fatto per dominare la natura, questo è il suo compito divino” (1). E ancora: “Il potere è stato dato all’uomo da Dio, che ha detto: ‘Dominate la terra, siate fecondi e moltiplicatevi'” (2). Si tratta della visione tradizionale dei rapporti tra l’uomo e la natura: rapporti di dominio. La natura è stata fatta per l’uomo (ed anche gli agnelli, dunque). Nelle posizioni più aperte, si giunge ad affermare che questo dominio non dev’essere né dispotico né distruttivo, ma prendere la forma di una saggia amministrazione. Che è cosa ben diversa, tuttavia, dall’affermare che la natura ed il mondo animale hanno un valore intrinseco.

La prima tentazione, avendo tra le mani un libro del genere, è quella di andare a vedere che dice il papa sui temi caldi del dibattito anche politico: l’eutanasia, ad esempio, o i matrimoni omosessuali. Ma papa Francesco è il capo di una religione, e del capo di una religione conta, soprattutto, il pensiero teologico, vale a dire il modo in cui concepisce Dio e la verità. La Chiesa è una istituzione che negli ultimi decenni si è sempre più chiusa in sé stessa, assestata nella posizione di una condanna generalizzata del mondo moderno, sempre più incapace di dialogare con il pensiero laico, sempre più lontana dalla sensibilità morale diffusa tra gli stessi cattolici (tra i quali si diffonde la doppia morale: sono cattolico, ma faccio quello che credo essere giusto, anche se la Chiesa dice che è sbagliato). Questa chiusura deriva dalla convinzione di possedere tutta intera la verità e di essere l’unica via si accesso alla salvezza: extra Ecclesiam nulla salus. Una sorta di arroganza spirituale che impedisce il dialogo, che esige orizzontalità e pari dignità dei dialoganti. E’ la Chiesa che, guardando il mondo dall’alto, giudica e condanna. Il contrario dell’arroganza spirituale è l’interrogazione, il chiedere insieme. L’arrogante ha la risposta a tutte le domande, non conosce il dubbio o, quando ne fa esperienza, lo allontana come una tentazione diabolica. Non ha nulla da imparare da nessuno: è l’uomo chiuso nella cerchia di quelli che la pensano come lui; chi è al di fuori di quella cerchia, non ha nulla da dirgli. L’interrogante al contrario si considera in cammino verso la verità ed avverte questo cammino come un cammino comune. L’arrogante è uomo (o donna) dell’identità, l’interrogante è uomo (o donna) della differenza.

Il cambiamento più urgente, per la Chiesa, è questo: abbandonare l’arroganza e passare alla posizione dell’interrogazione, del dialogo reale. Smetterla di considerarsi unici detentori della verità e chiedersi, piuttosto, quale contributo si può dare alla soluzione dei problemi comuni. E’ la posizione che Aldo Capitini chiamava “aggiunta”. Che vuol dire: io non chiedo che il mondo mi segua, mi onori, mi ascolti, mi esalti, mi riconosca; mi chiedo cosa posso dare io al mondo, cosa posso aggiungere di buono e di valido alla vita di tutti.

Da questo punto di vista, trovo nel pensiero di papa Francesco dei punti non privi di interesse. Nella discussione con il rabbino Skorka la questione dell’arroganza viene fuori discutendo di ateismo. E’ arrogante l’ateo che “è convinto al cento per cento che Dio non esiste”, dice Skorka, mentre l’agnostico è in posizione dubitativa. Questa affermazione comporta la conclusione logica che, se è arrogante chi non dubita, il credente è arrogante non meno del non credente. E infatti Skorka afferma: “Ha la stessa arroganza [l’ateo] di chi sostiene l’esistenza di Dio con la stessa certezza con cui sosterrebbe l’esistenza della sedia su cui sono seduto”. Papa Francesco non protesta, anzi rilancia: “Anch’io concordo nel definire arroganti quelle teologie che non solo hanno tentato di definire con certezza e precisione gli attributi di Dio, ma hanno avuto la pretesa di dire esattamente com’era” (3). E sottolinea l’importanza della teologia apofantica, ossia la teologia che parla di Dio per via negativa, dicendo cosa non è. Cita a riguardo The Cloud of Unknowing, un trattato del tredicesimo secolo che parla di una “nube di non-conoscenza” che sempre si frappone tra l’uomo e Dio. Da questo punto di vista diventano molto meno nette, mi pare, le distinzioni tra credente ed ateo; poiché l’ateo è spesso colui che nega una certa concezione di Dio, o la pretesa di afferrare Dio, di averlo in tasca: è, in altri termini, una reazione all’arroganza religiosa. Nella mistica speculativa, peraltro, affermazione e negazione di Dio si richiamano in un modo estremamente affascinante. “Egli [Dio] è colui che, mediante l’opera della notte oscura, si ritira per non essere amato come un tesoro da un avaro. Elettra che piange Oreste morto. Se si ama Iddio pensando che non esiste, egli manifesterà la sua esistenza”, scrive Simone Weil (4). Ed Eckhart: “Preghiamo Dio di diventare liberi da Dio…” (5)

Il Dio in tasca, il Dio conosciuto e posseduto dal credente, è il Dio in nome del quale si combattono le guerre. Fa tutt’uno con la propria identità individuale e collettiva; è una stampella per puntellare le proprie incertezze. Con espressione che felice, Bergoglio parla di un “ideologizzare l’esperienza religiosa”, che porta ad “uccidere in nome di Dio” (6). E’, mi sembra, una osservazione importantissima, che potrebbe aprire nuovi capitoli della riflessione teologica. Cosa vuol dire avere fede in modo non ideologico? E’ possibile credere senza che la propria fede diventi una stampella o un segno di riconoscimento? E’ in questa direzione che va la riflessione teologica di Dietrich Bonhoeffer – una delle più alte del Novecento – con la sua distinzione tra religione e fede.

Sembra dunque che vi siano tutte le premesse per un nuovo rapporto non solo con le altre religioni, ma anche con la cultura laica e scientifica. Ma sono premesse che coesistono con elementi di segno opposto, con persistenti chiusure. Parlando delle “culture idolatre”, Bergoglio mette sullo stesso piano “il consumismo, il relativismo e l’edonismo” (7), ponendosi in linea di continuità con la condanna del relativismo (una vera e propria crociata) di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Discutendo di matrimoni tra persone omosessuali, sostiene che essi rappresenterebbero un “regresso antropologico” e che tale opinione “non ha un fondamento religioso, ma antropologico” (8). Anche questo modo di ragionare non è nuovo: si affrontano le questioni di morale sessuale pretendendo che le proprie opinioni non siano legate alla propria visione religiosa – e dunque rigettabili da chi non crede -, ma valide di per sé, perché fondate su una presunta legge naturale: e dunque vincolanti per tutti. Nel caso di Bergoglio, l’appello all’antropologia prende il posto del ricorso alla natura. Ma a quale antropologia si riferisce il papa? L’antropologia culturale è la via più sicura verso l’aborrito relativismo. Dal punto di vista dell’antropologia culturale non esiste una famiglia standard: la famiglia nucleare non ha più dignità della poligamia o addirittura della poliandria. Se poi ci inoltrassimo nei costumi sessuali dei popoli verrebbero fuori cose che scandalizzerebbero l’anima candida di un papa. E’ evidente che non all’antropologia culturale che il papa può chiedere soccorso. A quale, allora? All’antropologia filosofica. La quale consiste in questa operazione: ci si fa una idea dell’essere umano in base alle proprie convinzioni filosofiche o religiose; si dice poi che l’essere umano è senz’altro così; si fa capire, in modo più o meno garbato, che chiunque si allontani da quel modello è un essere umano dimezzato, parziale, insufficiente. Si dice, ad esempio, che l’essere umano è antropologicamente in relazione con Dio. Il rapporto con Dio, cioè, fa parte della sua natura. E se uno non crede? Gli manca qualcosa, naturalmente; è un essere umano che non realizza la sua natura se non in modo molto parziale. Un procedimento che è l’esatto contrario del dialogo.

Di qui, anche, conclusioni non proprio esaltanti sul rapporto tra scienza e fede. “La scienza – scrive Bergoglio – ha una sua autonomia, che va rispettata e incoraggiata. Non dobbiamo intrometterci nell’autonomia dello scienziato. A meno che questi non oltrepassi il proprio campo e sconfini nel trascendente. La scienza è fondamentale in funzione del precetto di Dio: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela'” (9). Questo vuol dire, in sostanza, negare qualsiasi valore conoscitivo alla scienza e ridurla alla tecnica. E’ sorprendente che un religioso che ha scelto come papa il nome Francesco sia così ossessionato dal dominio sulla natura, quel dominio nel quale molti pensatori, anche religiosi, anche cattolici, hanno scorto e scorgono la radice dell’attuale crisi ecologica. La scienza è scienza, ossia conoscenza. Il suo valore principale consiste nella ricerca della verità, non nel dominio della natura. La tecnoscienza è una degenerazione, una prostituzione del fine puramente conoscitivo della scienza. E’ inevitabile che la scienza oltrepassi il proprio campo, se il confine che le ha imposto il religioso è quello della tecnica. Si pensi alla fisica. Sappiamo che l’universo nel quale viviamo è di una complessità straordinaria, tale che per pensarlo dobbiamo accantonare il modo corrente di pensare cose come lo spazio ed il tempo. Possiamo, al cospetto di queste teorie, continuare a pensare alla creazione dal nulla? Possiamo pensare un Dio che crea i cieli e la terra “in principio”? Ha senso il concetto di principio, ad esempio? Porsi queste domande per un cattolico vuol dire interrogarsi, confrontarsi in modo aperto con la scienza. Dirsi che la fisica non riguarda la fede, perché il suo campo è quello del dominio del mondo, e nulla ha a che fare col campo intangibile e sicuro della verità religiosa, vuol dire peccare ancora una volta di arroganza religiosa.

Note
(1) J. Bergoglio, A. Skorka, Il cielo e la terra, tr. it., La Biblioteca di Repubblica – L’Espresso, Roma 2013, p. 24.
(2) Ivi, p. 134.
(3) Ivi, pp. 23-24.
(4) S. Weil, L’ombra e la grazia, tr. it., Rusconi, Milano 1996, p. 29.
(5) M. Eckhart, Sermoni tedeschi, tr. it., Adelphi, Milano 1997, p. 133.
(6) J. Bergoglio, A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 29.
(7) Ivi, p. 31.
(8) Ivi, p. 110.
(9) Ivi, p. 116.

Editoriale per Stato Quotidiano.

“Mattinata era una farfalla”. Una storia di vita

Nelle scienze umane le storie di vita sono uno strumento fondamentale per indagare a fondo il cambiamento sociale. Come è cambiata nel tempo la vita delle persone? Quali erano i valori condivisi qualche decennio fa? Quali le condizioni di vita? In che modo la vita dei singoli si lega ai grandi eventi storici? Per rispondere a queste e ad altre domande si può chiedere alle persone anziane di raccontare semplicemente la propria vita, con un tipo di intervista che lascia grande libertà all’intervistato, con domande che servono solo a stimolare il racconto ed a far sì che non tralasci punti importanti.
Poiché queste storie di vita sono anche un modo per ascoltare la voce degli anziani, che nel nostro mondo si avverte sempre più debolmente, ho spesso proposto ai miei studenti del liceo “Roncalli” di Manfredonia di intervistare i loro nonni, nell’ambito del corso di Metodologia della ricerca. Il risultato è spesso una narrazione di grande interesse, anche piacevole da leggere, uno spiraglio su un passato che è dietro l’angolo, ma che sembra dimenticato. Dopo il boom economico il nostro paese ha rimosso letteralmente il suo vissuto di povertà, di sofferenza, di emigrazione; gli anziani sono diventati dei testimoni scomodi di un mondo con cui non vogliamo più avere a che fare.[read more]

Qui di seguito propongo una di queste narrazioni. Si tratta della storia di vita di Lorenzo di Mauro, nato a Mattinata nel 1934. Ad intervistarlo la nipote Giusy Bisceglia.

Puoi parlare dei primi ricordi, l’infanzia, la famiglia, i giochi, la scuola…?
Non esistevano… Non gioco e no niente… Che gioco dovevamo avere prima? Che ci stava? Non ci stava niente. Non ci stava manco la sedia.

La scuola non l’hai frequentata?
Un anno e mezzo di scuola ho fatto. Il motivo perché è morto mio padre. Mio padre è morto a trentun anni, io non ho potuto andare a scuola per motivi di soldi, che non ci stava la lira, non ci stava niente, mia madre era sola, perciò non ho potuto andare a scuola, sono stato sotto a un padrone a lavorare, perciò ho dovuto rifiutare la scuola per andare a lavorare, perché non c’era niente da mangiare, non avevo dei genitori, mia madre era sola, e mia madre per darci a mangiare a noi andare a lavare della roba per guadagnare qualcosa.

Come vestivi da giovane?
Da giovane mancava tutto, mancavano i divertimenti, non ci stava niente, da giovane posso dire una cosa io, che i divertimenti non esistevano proprio, non esistevano proprio i divertimenti, e io posso dire che in quell’anno e mezzo di scuola che ho fatto sono stato vestito da balilla, nel periodo fascista, tutto vestito nero, però… si stava bene come ordine, però il resto mancava tutto, non esisteva niente, esisteva molta povertà. Nel ’43 è stata la guerra e non ci stava niente da mangiare, ma niente di niente, e quando si comprava un po’ di grano, il grano, si metteva a cuocere il grano, si metteva un po’ di zucchero sopra e mangiavano il grano, perché mancava il pane, mancava la pasta, mancava tutto.
La sera quando andavo a letto non potevo dormire perché la pancia era vuota, avevo fame, non potevo dormire. E comunque la vita di prima non facciamo cambio con quella di adesso, perché adesso, adesso si butta il pane, ci siamo dimenticati il passato, però adesso il pane si butta perché c’è, ma prima mancava tutto tutto tutto. Durante la guerra non ci stava niente.

E tuo padre come è morto?
Mio padre è andato sotto le armi, dopo di cinque giorni che è venuto da sotto le armi l’ha preso un male di pancia e è morto con l’appendicite, il 1936 è morto, io avevo due anni. Quando sentivo di chiamare papà, tatà si diceva allora, agli altri bambini, io chiamavo pure io, e chiamando piangevo. Io vedevo che mia madre piangeva e dicevo “ma’, perché piangi” e mamma non diceva a noi “è morto tuo padre”, visto che noi ci siamo fatti un po’ grandi lo abbiamo capito, no? E comunque per me con quattro fratelli la vita è stata dura, siamo stati costretti sempre a lavorare, da piccoli, all’età di nove dieci anni stavamo già sotto i padroni a lavorare. E come andavo a scuola, se dentro la mia casa mancava tutto? Non soltanto dentro la mia casa, allora mancava dappertutto, allora le scuole le facevano quelli che avevano un po’ di soldi.

E i dottori non potevano curare l’appendicite di tuo padre?
No, è stato un dolore… così… subito, perché con l’appendicite a peritonite prima si moriva. Che poi il dolore che è venuto a mio padre è stato di sera, quando usciva la processione a Mattinata l’hanno operato, al ritorno della processione mio padre è morto.
Quando il dottore l’ha operato ha detto alla mamma, alla mia nonna, di andare a Monte Sant’Angelo a prendere il dottore, e mancavano pullman, non è che stava l’aereo come adesso che per prendere una medicina vai a Roma a prenderla, mancava tutto, e così è uscito la processione e l’hanno operato, e al ritorno della processione è morto, aveva trentun anni.

Ma parecchi morivano per l’influenza, anche?
Sì, sì, perché mancava tutto, mancavano i dottori, mancava… non è che ci stava l’ospedale come adesso, che adesso, che adesso un piccolo male e subito c’è il dottore, prima si faceva in casa, l’hanno operato in casa a mio padre, senza anestesia, niente. Si metteva la pentola dell’acqua bollente sul fuoco, si metteva la forbice dentro, gli accessori dentro, e il dottore operava. Tra parentesi a Mattinata a quell’ora ne sono morti tre o quattro, tanti anni fa, e comunque adesso come dottori, come ospedali, cose… adesso stiamo bene, ogni minima cosa siamo nell’ordine di essere aiutati, ma prima mancava tutto tutto tutto.

Avevi amici?
Io? Sì, ma prima uno come faceva a tenere gli amici, perché non è… uno può tenere gli amici se va all’asilo, e l’asilo, c’hai gli amici se uno va a scuola, e durante la scuola, quando esci dalla scuola c’hai gli amici, ma prima le scuole chi le faceva?

Andavi a lavorare, non potevi trovare qualche amico?
Sì, sì, mentre che lavoravi tutt’al più potevi avere un amico, due amici, tre quattro persone durante il lavoro, ma non come adesso, adesso c’è il pallone, si sente la partita al pallone, esci in piazza e trovi a centinaia gli amici, ma prima non esisteva proprio questo qua.

Tua moglie è stata la tua prima ragazza?
Sì, sì, mia moglie è stata la prima, la prima, e se ti dico perché mi sono sposato piccolo, perché ci siamo sposati piccoli, perché dentro a casa nostra, povera, non è che aspettavano che tu stavi fino a trent’anni e avevi la possibilità di avere il corredo, eh, soltanto il vestito che portavi addosso, perché mancavano i soldi per fare il corredo, tra parentesi io mi sono sposato perché… eh, la mia avventura è stata lunga, mio padre è morto a trentun anni, io avevo la mamma, e mia madre s’è sposata di nuovo, ha avuto tre figli, e cinque ne aveva il primo marito, e quattro ne eravamo noi, e due loro, quattordici persone, perciò io ho passato una vita in mezzo a quattordici persone, dentro una casa, e non è che ci stavano quattordici piatti, come adesso, un piatto ciascuno, si metteva in mezzo un piatto soltanto e si mangiava dentro quel piatto, quello che ci stava, e dovevi mangiare sempre al posto tuo, no che ti dovevi spostare dal posto tuo, ti dovevi mettere vicino al posto tuo con la forchetta in mano, dovevi mangiare sempre vicino al tuo posto, e non è che eri sicuro di mangiare, perché parecchie volte la pentola bolliva e mancava la roba da mettere dentro, l’acqua bolliva e mancava la pasta, mancava la farina, e io oppure qualche altro mio fratello andavamo al negozio, dicevo “signo’, ha detto mia madre mi puoi dare due chili di farina, che poi quando fa i soldi li porta”, e ti rispondeva “dì a tua madre che mi deve pagare ancora un chilo, due chili di prima”, perché non ci stava niente, insomma, la vita di prima è stata una vita… però una cosa era bella prima, che ci stava il rispetto familiare, un grande rispetto, quello che non c’è adesso, perché adesso sorelle e sorelle non si parlano, fratelli e fratelli non si parlano, un figlio se deve stare un mese senza andare a casa dei genitori, ci sono, invece prima no, prima i genitori non venivano lasciati soli, quel pezzettino di pane che ci stava veniva diviso tutti uniti, e se andava a terra un pezzetto di pane, quando si prendeva il pane si baciava, e dopo lo mettevi in bocca, invece adesso il pane lo trovi nei secchi della spazzatura, lo trovi per terra, nemmeno i cani lo mangiano, e io quando vedo queste cose qua, mi fa male il cuore veramente, e io lo prendo il pane e lo cerco di proteggere, di mettere da qualche parte, invece ci sono bambini che adesso il panino per terra lo prendono a calci, e non lo mangiano nemmeno i cani, perché ce n’è.

E’ stato difficile trovare lavoro?
Ecco, mo ti dico questo qua. Venticinque febbraio ’57 sono sposato, di giovedì, dopo di due settimane ho avuto la chiamata per partire all’estero, sono andato in Austria, e non avevo nemmeno il bagaglio, la valigia, da mettere la roba dentro, sono andato al negozio, dal tabaccaio, l’ho presa la valigia e… che poi quando sono andato là l’ho mandato i soldi della valigia, e mi è stato così duro di lasciare mia moglie due settimane sposata, quando sono arrivato a salire sulla montagna, mi sono girato dietro e ho guardato Mattinata. Ho pianto.
Ho pianto veramente. Poi sono andato a Verona, sono stato cinque giorni a Verona, poi sono partito in Austria, e andavo a lavorare dentro una fabbrica di marmo, con gli stivali ai piedi, con i guanti alle mani, e dentro una baracca, a dormire dentro una baracca, che poi piano piano ci hanno dato la sistemazione buona, e poi ho fatto sei anni ancora all’estero in Germania, sono stato ancora sei anni all’estero in Germania, e sono stato uno che… sempre attaccato alla famiglia, che anche in Germania di fronte al letto dove dormivo avevo il quadro con tutta la famiglia, di mia nonna, di mia moglie, dei figli e di tutto, tra parentesi all’estero non è che era bello starci, lontano dalla famiglia è la più cosa brutta di stare lontano dalla famiglia.
Dunque, quando sono partito in Germania io ero un operaio comune, ho fatto il contratto da manovale meccanico, e io non sapevo tenere nemmeno il martello in mano, sono andato nella fabbrica, quattro settimane nel reparto solo a guardare, e piano piano, piano piano, piano piano ci ho messo delle mani, ed ho imparato tante, tante cose, a distanza di un anno io lavoravo come i tedeschi, e mi davano la busta paga identica come i tedeschi.

E’ stato difficile imparare la lingua?
Per imparare la lingua… se uno c’ha tante scuole, non ci fa tanta attenzione, se uno non c’ha scuole, c’ha qualcosa così, ci fa tanta, tanta attenzione a imparare. Io ho imparato la lingua tedesca… un anno sono stato in Austria, e in Austria parlano il tedesco… quando sono partito in Germania mi hanno chiesto chi sa parlare il tedesco, e io perché sono stato già un anno in Austria, sapevo qualcosa, e sono andato a lavorare dentro questa fabbrica qua, e piano piano piano piano l’ho imparato, ma bene bene bene bene, che quello che mi chiedevano sapevo rispondere tutto, durante il lavoro lo stesso, tra parentesi… non dico il cento per cento, ma il settanta per cento, lo so parlare.
E poi dopo di tre anni che ho lavorato in fabbrica ho lavorato tre anni alla posta, all’ufficio postale, e prima di assumermi a lavorare mi hanno domandato alcune domande in tedesco, e io gli ho risposto bene, mi hanno preso a lavorare, ho lavorato tre anni all’ufficio postale a Stoccarda… tra parentesi mi sono trovato bene, ho imparato il tedesco, ho… ti so rispondere in tedesco anche quando uno sogna la notte… ti dico che ancora adesso che sono dal ’65 che sono tornato a casa lo so bene bene bene, non mi sono dimenticato di niente, perché ho lavorato per quasi vent’anni in campeggio pure, in campeggio ci stanno i tedeschi, ho avuto sempre contatti a parlare, a parlare, a parlare… in conclusione dei fatti il tedesco è difficile, però se uno c’ha la volontà, impara.

Quando sei tornato dalla Germania le condizioni di vita erano migliorate?
Sì, erano migliorate, ho comprato la casa, ho comprato un po’ di terreno, ho fatto tutto per tutto per i figli, ci siamo voluti sempre bene, siamo una famiglia unita, e tra parentesi la più che ho avuto troppo stretta è stata mia moglie, perché non ci siamo mai abbandonati, io le mandavo i soldi e lei li sapeva gestire.

Dopo la nascita dei figli ci sono state ancora difficoltà, altri sacrifici?
No, sacrifici non ce ne sono stati, perché si dice che nella famiglia numerosa ti aiuta Dio, però quello che mi ha lasciato perplesso è che io mi sono sposato, due settimane e sono partito in Germania, ritorno dopo un anno e trovo un figlio, a Matteo, in due settimane abbiamo costruito, e sono partito, dopo un anno vengo a casa e trovo un bambino, e il bambino quando mi ha visto prendeva paura di me, nel letto, diceva “questo qua chi è?”, e è stata una cosa dolorosa proprio, perché la lontananza dei figli… e poi venivo sempre in ferie nello stesso periodo e ho avuto cinque sei figli, sempre nella data di gennaio sono nati… Cinque, cinque figli tutti e cinque a gennaio.

Com’era Mattinata una volta?
Mattinata nel periodo della guerra era bella, era una farfalla come paese, era troppo bella, a Mattinata s’è costruito nel periodo quando hanno emigrato in guerra, e s’è costruito un po’ di Mattinata, s’è fatto più grande, poi quando che hanno cominciato a migrare al Belgio, in Francia e in Germania, Mattinata s’è sviluppata almeno almeno per dieci volte di quando era prima, perché emigrando i soldi si sono guadagnati e ognuno s’è fatto la casa, chi s’è fatto la casa, s’è fatto il terreno, c’è stato un miglioramento di vita, però adesso, adesso, non è più come una volta, adesso la casa dei giovani non la fa più nessuno, perché la Germania è finita, la Francia è finita, tutte le nazioni che abbiamo emigrato lavoro non ce ne hanno nessuna nemmeno per conto loro, e tra parentesi i giovani di oggi per traversare questa, questo passaggio qua è dura, tra parentesi si sposano anche di meno, adesso.

Ora si usa la convivenza…
Ecco. Perché… manca la possibilità, manca il lavoro, manca tutto… sì, fanno le scuole, ma anche che fanno le scuole, quando uno è fatto ragioniere, è fatto maestro di scuola, non prende il posto nemmeno a quarant’anni… e non è che un maestro può migrare in Germania, che ci va a fare in Germania, che in Germania lavoro non ce n’è più, deve emigrare al nord, e al nord se trova un posto di lavoro, se no… eh.. oggi è critica, stiamo meglio come mangiare, assistenza e tutto, però stiamo attraversando pure un periodo non tanto bello.

Quanti figli hai?
Ce ne ho nove. Per fortuna i figli che c’ho tutti otto sono sposati e uno non ancora, che i figli non è che c’hanno nove figli come ho fatto io, massimo due, per ogni figlio, tra parentesi tutti i nipoti ne sono diciassette, tra parentesi se avessero fatto nove come ho fatto io avrei ottanta nipoti, i figli adesso non si fanno più per la paura di portarli avanti, perché oggi i figli costano, anche allora costavano i figli, ma allora allora era un altro…

Ma non costavano di più i figli allora?
No no, a tenere la famiglia numerosa per me è stato… niente, ho attraversato una vita tranquilla, per nove figli, ti dico che io mi sono trovato bene, però sono stato un grande lavoratore, ho sempre lavorato, i figli sono stati sempre uniti a noi, hanno lavorato anche loro, portando i soldi a casa.

So che ti piace vedere i telegiornali, soprattutto la politica. Perché?
Vedi, io… se devo dire la verità… perché ho passato… il passato quando non esisteva pane, quando non esisteva niente, ho passato una vita brutta, che il padrone ha fatto sempre il suo interesse, ma io come operaio con i padroni so’ stato sempre un collaboratore, che collaboravo coi padroni, ma i padroni cercavano di fare sempre a non pagarmi, e sono stato sempre un sindacalista, ma sindacalista sono stato, che mi piaceva fare il mio dovere e pretendevo anche quello che mi spettava, tra parentesi adesso mi piace a sentire la politica, mi piace a sentire la politica, io no… se sto a Mattinata, se sto in casa, lo sento dieci volte al giorno il telegiornale, che mi piace a sentire, perché delle cose che stanno accadendo adesso, dei politici, sono poco quello che fanno nei riguardi del basso popolo, pensano sempre per i grandi.[/read]

Il diavolo e le fratture dell’occidente

Il diavolo come caprone
(F. M. Guaccio, Compendium maleficarum, 1626)
“Solo il cristianesimo ha dipinto il diavolo sulla parete del mondo; solo il cristianesimo ha portato il peccato nel mondo”, scriveva Nietzsche in Umano, troppo umano (1). E’ vero. L’oriente conosce una gran quantità di demoni, ma inutilmente si cercherebbe una figura paragonabile a quella del diavolo. Il negativo non rappresenta l’anti-divinità, ma è incorporato nel divino: è così che ad esempio Shiva può essere al tempo stesso il distruttore di mondi e il dispensatore di felicità, l’asceta per eccellenza e il dio che si venera attraverso il fallo (linga).
Perché l’occidente ha bisogno del diavolo? Perché è diabolico esso stesso. Diavolo deriva dal greco dia-ballein, separare, dividere (che è il contrario di synballein, unire, da cui simbolo). Il diavolo è dunque colui che divide, che crea separazioni, fratture, inimicizie, in primo luogo frapponendosi tra l’uomo e Dio, poi mettendo l’uno contro l’altro gli stessi esseri umani. Ma possiamo dare un’altra interpretazione: il diavolo come colui che è stato separato, diviso, emarginato. La considerazione della figura del diavolo nella cultura occidentale offre più di qualche appiglio per questa interpretazione. Nell’iconografia, il diavolo è in primo luogo rappresentato con dei tratti animaleschi, quali le corna ed il piede caprino. Il diavolo ha dunque un rapporto con l’animale. Ora, l’animale è per eccellenza ciò che l’occidente ha separato dall’umano. Nella visione del mondo giudaico-cristiana l’uomo è separato dal resto del creato, che è chiamato a dominare, poiché è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Vero è che in Qohelet si legge che “la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti” (3, 19), ma si tratta di una posizione assolutamente isolata nel contesto delle Scritture, che al contrario esaltano la dignità dell’uomo ed il suo destino di salvezza. Gli esseri umani hanno un’anima e sono chiamati alla vita ultraterrena, gli animali no.
L’essere umano non è tuttavia solo anima; egli ospita in sé la natura, è sospeso tra il cielo e la terra, tra lo spirituale e l’animale. Il diabolico s’insinua dunque all’interno dello stesso essere umano, nella frattura tra la parte spirituale, volta a Dio ed al bene, e quella passionale, volta al male, al desiderio, alla carne. La battaglia è contro la natura fuori di sé, ma anche contro la natura in sé. E’ una battaglia difficile, poiché l’essere umano, nonostante la sua natura spirituale, avverte in modo irresistibile il richiamo della natura. Di qui le infinite tentazioni del diavolo di cui sono piene le vite dei santi.
Il diavolo che tenta si presenta per lo più sotto forma di donna. Ed è qui la terza frattura: quella tra uomo e donna. L’uomo rappresenta, nonostante le sue infinite debolezze, la ragione, la donna è invece per sua natura passionale, legata alla natura, animalesca. L’uomo è apollineo, spirituale, la donna dionisiaca, votata al vizio, corrotta. La teologia cattolica non manca di riconoscere la dignità della donna, anche se con ragionamenti che celano un fondo di disprezzo. Sant’Agostino, ad esempio, si chiede nei Sermones come mai Cristo è voluto nascere da una donna. Se avesse voluto, avrebbe potuto facilmente non nascere da una donna. Se non lo avesse fatto, avrebbe dimostrato che c’era la possibilità, per lui, di essere contaminato dalla donna (ex illa contaminari potuisse). E’ nato da donna, dunque, per dimostrare di essere al di sopra di ogni contaminazione. Non solo. Nascendo da una donna, Cristo è venuto a “consolare il sesso femminile” (sexum consolari femineum), mostrando che anche le donne possono salvarsi, nonostante abbiano introdotto il peccato nel mondo. “Generando Cristo, la donna compenserà il peccato di aver ingannato gli uomini” (Compenset femina decepti per se hominis peccatum, generando Christum) (Sermones, 51, 2.3). Posizioni teologiche come questa, benché autorevolissime, non sono riuscite ad arginare una misoginia e quasi orrore della donna – in particolare della donna che sfugge al controllo della rigida morale dominante, pensata dall’uomo, ed al ruolo imposto di madre o vergine – che troverà un esito tragico nella caccia alle streghe, che è stata in realtà un olocausto femminile, la soppressione violenta di qualsiasi forma di femminilità che anche di poco si discostasse dal cliché imposto, e mettesse a repentaglio le fratture consolidate.
Una strega rende omaggio al diavolo.
(F. M. Guaccio, Compendium maleficarum, 1626)
Il diavolo, poi, è nero. E non solo perché il nero è il colore del buio che si oppone alla luce (e la stessa parola Dio proviene da una radice sanscrita che indica luminosità), ma anche perché il nero è il colore della pelle dei popoli africani. Nell’iconografia, il diavolo si incarna spesso nella figura dell’etiope o in quella dell’egiziano, così come saranno neri, nella rappresentazione dominante, i musulmani nemici della fede, contro i quali si faranno le crociate, ossia la lotta del bene contro il male. Più sorprendente è che il diavolo appaia a volte sotto la figura del niger puer, il bambino nero. In tale forma appare ad esempio a Sant’Antonio abate ed a San Gregorio Magno (1). Sorprende perché in occidente il bambino indica purezza ed innocenza, e lo stesso Gesù Cristo viene rappresentato spesso come bambino. Ma Sant’Agostino la pensava diversamente. Nelle Confessioni considera espressioni di peccato l’avidità con cui il neonato esige il seno materno e, più tardi, le bugie ed i piccoli furti commessi dai bambini. Quando Cristo disse che dei bambini è il regno dei cieli, per Agostino non voleva esaltare l’infanzia e la sua innocenza, che non esiste, ma semplicemente riferirsi alla loro statura come segno di umiltà: Humilitatis ergo signum in statura pueritiae, rex noster, probasti, cum aisti: Talium est regnum caelorum (Confessiones, I, 19). Il bambino è (ancora) un essere irrazionale, rappresenta una alterità, una differenza che bisognerà piegare attraverso la disciplina ed il rigore dell’educazione.
Naturalmente sono imparentati con il diavolo anche gli ebrei, pur non essendo di pelle nera. Lo sono in quanto non cristiani, e lo sono per l’accusa di deicidio. La quarta frattura è quella tra i cristiani e tutti coloro che incarnano una differenza etnico-religiosa: gli ebrei, perseguitati fin dal quarto secolo, i musulmani combattuti con le crociate, i neri e gli indios del Sudamerica, massacrati e ridotti in schiavitù. Per Bernardo di Chiaravalle l’omicidio degli infedeli non è un vero e proprio omicidio, ma un malicidium: “Quando [il cristiano] uccide il malfattore (malefactorem) non è omicida ma, per così dire, malicida (non homicida, sed, ut ita dixerim, malicida), e senz’altro è stimato vendicatore di Cristo contro quelli che agiscono male e difensore dei cristiani” (De Laude Novae Militiae, III, 4).
Immagine del XV secolo che mostra
le relazioni degli ebrei con gli animali ed il diavolo. 
C’è infine l’eresia, o per meglio dire la non ortodossia. L’occidente cristiano è ossessionato dall’ortodossia. Quelle che in oriente sono semplici correnti o scuole, varianti di un tema di fondo, in occidente diventano sette da combattere con il ferro e col fuoco. L’annuncio di pace e di amore del Vangelo non costituisce affatto un freno. Quelli che sono al di fuori della Chiesa, chiarisce Sant’Agostino parlando dei donatisti, non sono nemmeno un esseri umani, poiché non hanno lo Spirito Santo: Non habent itaque Spiritum sanctum, qui sunt extra Ecclesiam: de illis quippe scriptum est: Qui seipsos segregant, animales, Spiritum non habentes (Epistolae, 185, 11.50). La conclusione è facilmente intuibile. Demoniaco apparirà a Lutero il papato, così come demoniaca sarà per i cattolici la chiesa protestante.
Il diavolo è dunque il simbolo, l’immagine che abbraccia gli esclusi dell’occidente, tutti coloro che sono stati vittime di una medesima violenza culturale, tutti coloro che erano e sono segnati da una qualche diversità, che per qualche aspetto si allontanavano e si allontanano dalla figura dominante: il maschio adulto ortodosso (cattolico o protestante) e naturalmente eterosessuale. La sua esistenza dimostra che il diaballein, il dividere e discriminare, fa parte per essenza del cristianesimo, della sua logica dualistica, che così apertamente confligge con l’annuncio dell’amore verso lo stesso nemico che si trova nel Vangelo. La figura del diavolo, l’appartenenza al suo dominio, consente di derogare alla sacralità dell’essere umano (l’animale non l’ha mai posseduta); e colui che è privato di sacralità può essere liberamente massacrato. La logica escludente, diabolica del cristianesimo non consente mediazioni. O si è con Dio o si è contro Dio; o si è salvi o si è dannati: e chi sarà dannato nell’altra vita lo è già in questa. Il cristianesimo ha dato un contributo determinante alla conquista della categoria della sacralità della vita (umana), ma ha anche posto condizioni a tale sacralità ed ha mostrato in opera, durante secoli e secoli bagnati dal sangue di pagani, ebrei, albigesi eccetera, le pratiche di dissacrazione, la negazione teorica della dignità di un essere umano che anticipa e giustifica la sua soppressione.
Note
(1) F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, 78, tr. it., Newton Compton, Roma 1976.
(2) Cfr. T. Gregory, Principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 40.

Articolo scritto per Stato Quotidiano.

Contro la filosofia del mattatoio

Nella seconda metà degli anni Trenta un giovane di Perugia si interrogò sulle possibilità di una opposizione radicale al Regime fascista. Il fascismo – così ragionava – è un sistema politico che si regge su una visione del mondo. In cosa consiste questa visione? In quello che potremmo definire esclusivismo vitalista, vale a dire nella esaltazione di alcuni valori vitali (la giovinezza, l’esuberanza, la forza e la violenza) e nel considerare inferiori coloro che sono privi di questi valori – nel disprezzare il debole, il malato, il portatore di handicap. Per contrastare il fascismo bisogna allora pensare al contrario, portarsi dalla parte degli ultimi e dei deboli, cercare valori opposti a quelli vitalistici. E’ quello che Aldo Capitini (così si chiamava quel giovane) farà per tutta la vita, giungendo ad elaborare una teoria della nonviolenza che è, con ogni probabilità, la più filosoficamente profonda che sia mai stata pensata. Intanto fa subito una scelta pratica: se il fascismo esalta la violenza del più forte sul più debole, lui sceglierà di rispettare ogni forma di vita. Per questo diventa vegetariano, in anni in cui essere vegetariani era considerato una bizzarria assoluta. Gli stessi amici antifascisti vedevano in ciò una sua stranezza, più che una scelta coerente.L’eredità politica di Capitini è stata raccolta dal Movimento Nonviolento, da lui fondato nel 1961. Dal punto di vista filosofico, tuttavia, non si può dire che abbia molti continuatori. Tra i pochi, occorre annoverare Francesco Pullia, filosofo animalista che del complesso pensiero capitiniano (che comprende anche una teoria del “potere di tutti”) ha ripreso l’aspetto dell’apertura ad ogni essere vivente. In Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza (Mimesis, Udine 2010) Pullia analizzava quella tradizione filosofica che, partendo appunto da Cartesio, nega ogni valore alla vita non umana ed afferma la rigida separazione tra mondo umano e mondo animale. Per il filosofo francese gli animali non erano che automi, macchine prive di vita, di pensiero, di emozioni, come tali liberamente sacrificabili. E’ una convinzione che non si ritrova solo nella filosofia: anche la tradizione religiosa occidentale ha negato qualsiasi valore agli esseri non umani, rimarcano il legame tra uomo e Dio e la sua differenza da ogni altro vivente e dalla natura, che è chiamato a dominare. E se oggi la Chiesa parla di sacralità della vita, è chiaro che si tratta di sacralità della vita umana, mentre tutti gli altri esseri viventi restano privi di un valore intrinseco.

Nell’enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II (1995), documento fondamentale del magistero cattolico sul tema della vita, si legge che “la vita è sempre un bene”, ma subito dopo si precisa che non si tratta della vita in generale, ma della vita umana, poiché “la vita che Dio dona all’uomo è diversa e originale di fronte a quella di ogni altra creatura vivente” (par. 34). Il che non vuol dire che l’uomo possa fare del creato quello che vuole. Dio lo chiama a dominare il creato, ma non a distruggerlo. “Chiamato a coltivare e custodire il giardino del mondo (cfr. Gn 2, 15) – scrive Giovanni Paolo II – , l’uomo ha una specifica responsabilità sull’ambiente di vita, ossia sul creato che Dio ha posto al servizio della sua dignità personale, della sua vita; in rapporto non solo al presente, ma anche alle generazioni future” (par. 42). Come si vede, è negato qualsiasi valore intrinseco alla vita non umana, che resta al servizio della vita umana. L’uomo ha la dignità che gli viene dall’essere immagine di Dio, l’animale no. E se rispetta la vita non umana, non lo fa per rispetto nei suoi confronti, ma per il bene delle generazioni future. Rispettando la natura, l’uomo nell’ottica cristiana e cattolica non rispetta il non umano, ma rispetta sé stesso, poiché la distruzione della natura mette in pericolo la stessa esistenza umana.Nel suo ultimo libro, capitiniano fin dal titolo – Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del mattatoio (Mimesis, Udine 2012) – Pullia cerca gli spiragli per una filosofia altra all’interno del pensiero contemporaneo, andando oltre la teoria dei diritti degli animali, rappresentata dalle teorie ormai classiche di Tom Regan e Peter Singer. Se Martin Heidegger, considerato a torto o a ragione il più grande pensatore del Novecento, considera l’animale in una luce esclusivamente negativa, come essere “povero di mondo” che vive in una situazione si “sottrazione”, altri grandi pensatori hanno tentato di riconsiderare il dominio umano sulla natura e sui viventi non umani, mettendo alla luce il rapporto esistente tra violenza sui non umani e violenza sugli umani. Max Horkheimer, filosofo della Scuola di Francoforte, descrive la società capitalistica come un grattacielo che ha ai piani più alti i grandi gruppi di potere, alla base i poveri e più sotto ancora, nella cantina, i mattatoi, mentre Jacques Derrida considera arbitraria l’azione di tracciare un limite netto tra umano e non umano e di confinare tutti i non umani nella categoria dell’animale. Ralph R. Acampora parte dal corpo, elemento comune agli uomini ed agli animali, caratterizzato da una medesima vulnerabilità, per pensare una compassione corporea quale fondamento di un’etica interspecifica.

Non manca il contributo di pensatori italiani. Si va dal citato Aldo Capitini, con la sua suggestiva idea di un atto di unità-amore che abbraccia tutti gli esseri viventi e sfida la logica violenta della natura, a Piero Martinetti, filosofo antifascista come Capitini, che già nel ’22, nel suo Breviario spirituale condannava come immorale ogni violenza sugli animali ed affermava l’esistenza di una profonda comunanza tra esseri umani ed animali, ad Edmondo Marcucci, promotore della nonviolenza e del vegetarianesimo, fino ai pensatori di oggi. Tra questi in particolare meritano attenzione Leonardo Caffo e Marco Maurizi. Il primo, giovanissimo (è nato nell’88), considera il rispetto dei non umani come un momento della più generale opera di liberazione della società da ogni forma di oppressione, mentre Maurizi interpreta lo sfruttamento della natura e degli animali quale conseguenza del capitalismo, che ha assoggettato anche l’essere umano. La lotta di classe marxista va per Maurizi estesa anche al mondo animale, e dev’essere intesa come lotta per la liberazione da ogni forma di dominio.

Questo concetto di dominio è forse il concetto-chiave per un’etica interspecifica. E’ importante distinguere il potere dal dominio, che ne è la degenerazione. Il potere ha a che fare con la possibilità. Una persona ha potere se può soddisfare i suoi bisogni. Senza potere la vita stessa è impossibile: già mangiare è un atto di potere. Ora, c’è potere fino a quando questo soddisfacimento dei propri bisogni avviene non in contrasto con il soddisfacimento dei bisogni altrui; il potere è collaborativo: più persone che hanno potere soddisfano insieme i propri bisogni. E’, in fondo, quello che accade normalmente in società. Gli esseri umani si associano per provvedere meglio, insieme, ai bisogni di ognuno. Accade tuttavia che questa comunità si infranga, e che alcuni cerchino di soddisfare i propri bisogni limitando il soddisfacimento dei bisogni altrui. Alcuni vogliono essere di piùde gli altri. E’ così che nasce il dominio.

Lo sfruttamento della natura e degli animali è, per essenza, una forma di dominio: l’essere umano soddisfa i suoi bisogni, essenziali e non essenziali, a costo della vita di miliardi di esseri non umani. Ma non si tratta del dominio dell’essere umano sulla natura, bensì di un aspetto dello stesso dominio di alcuni umani su altri. Il sistema di dominio capitalistico, cioè, assoggetta tanto gli animali quanto gli esseri umani. Per sua natura, il capitalismo è escludente, anche se si presenta come una promessa di liberazione per tutti. Gli abitanti dei paesi ricchi possono vivere soddisfacendo bisogni fittizi, creati dal sistema dei consumi, solo se gli abitanti dei paesi poveri vivono in condizione di sfruttamento (e in condizioni simili sono, ogni giorno di più, ampie fasce della popolazione degli tessi paesi ricchi). I beni sul mercato capitalistico sono prodotti grazie alla manodopera a basso costo della Cina e di altri paesi asiatici. La stessa alimentazione carnea di chi vive nei paesi ricchi è possibile sottraendo risorse alimentari ai paesi poveri.

Non basta, per liberare gli animali, rivendicare i loro diritti. Come osserva lucidamente Pullia, “il diritto è, per sua natura, ambito di ambiguità e di violenza, coniato e plasmato, riconosciuto o negato a seconda del sistema socioeconomico dominante” (p. 70). Il diritto, cioè, non è al di sopra del sistema di dominio, ma ne è condizionato; per cui ci si illude, credendo che il diritto possa contrastarne le logiche. Cercare leggi contro il maltrattamento sugli animali o la vivisezione non basta. Pullia confida piuttosto nel diffondersi di una nuova sensibilità, dimostrata dalla presenza di numerosi movimenti per i diritti degli animali e da manifestazioni come quella contro Green Hill. Perché questa rivoluzione si compia, occorre che vi sia una svolta teoretica, un cambiamento radicale nella nostra visione del mondo che abbandoni il secolare antropocentrismo. Un cambiamento che può cominciare dal ricordare ad ognuno che ogni giorno, ogni ora, ogni istante in ogni parte del mondo si compie un olocausto silenzioso, lo sterminio di miliardi di vite ridotte a cosa, a prodotti da supermercato. I bambini nemmeno riescono più a risalire dal pezzo di carne che hanno nel piatto all’animale da cui quella carne è tratta. Vedono il prodotto, non la struttura di sofferenza che c’è dietro. Gli adulti non sono molto diversi. Sanno che dietro ogni pezzo di carne c’è un animale ucciso, ma in fondo non lo sanno davvero. Spesso non hanno mai visto un mattatoio o un allevamento industriale. Non vedono sia perché il sistema si preoccupa di mettere fuori dalla scena le immagini che disturbano – e le immagini della pubblicità sono al contrario rassicuranti –, sia perché sono condizionati da strutture di pensiero che giustificano qualsiasi violenza, poiché l’animale non è che una cosa.

Si tratta di strutture di pensiero sostanzialmente fragili, che non è difficile scardinare; “ragionamenti” come: “in fondo gli animali sono stati creati da Dio per noi”. Più difficile è combattere gli enormi interessi economici che sono dietro l’industria degli allevamenti, con la sua enorme capacità di condizionare l’opinione pubblica attraverso i mass media e gli investimenti pubblicitari. Il cambiamento, insomma, non è facile. Si tratta di una lotta che ha bisogno del contributo di figure diverse: economisti, pubblicitari, fotografi, documentaristi, scrittori (si pensi a Jonathan Safran Foer). E di filosofi come Francesco Pullia. 

Articolo scritto per Stato Quotidiano.