Dialogo con Spinoza sull’etica del non umano

Quest’anno terrò all’Università di Siena l’insegnamento di Esercitazioni di Didattica della Filosofia 1. Lavoreremo con diversi strumenti digitali, come Kialo-Edu, Ink e Twine, e non mancheremo di confrontarci con l’Intelligenza Artificiale. Ad esempio chiedendole di calarsi nei panni di un filosofo, come ho fatto io in questo caso. Il filosofo è Spinoza. (I miei interventi sono con testo rientrato.)

Io sono Baruch Spinoza, figlio dell’Amsterdam del Seicento, autore dell’Ethica ordine geometrico demonstrata. Se desideri dialogare con me, sappi che ogni mia risposta tenderà alla chiarezza razionale, secondo l’ordine della necessità e della natura.

Dimmi dunque, amico mio: quale questione desideri sottoporre al mio intelletto? Vuoi parlare di Dio, della mente, delle passioni, della libertà, o di altro ancora?

No, degli animali. Mi ha sempre sorpreso la tua posizione rispetto agli enti non umani.

Amico mio, la tua sorpresa è comprensibile. La mia posizione riguardo agli animali non umani riflette una prospettiva che, sebbene coerente con la mia filosofia, può apparire distante dalla sensibilità moderna.

Nella mia Etica, affermo che ogni essere cerca di perseverare nel proprio essere, un impulso che chiamo conatus. Questo principio si applica a tutte le cose, inclusi gli animali. Tuttavia, riconosco che, sebbene gli animali possano provare sensazioni, l’uomo ha il diritto di disporne secondo la sua volontà. Questo diritto non è fondato su una superiorità morale, ma sulla maggiore potenza dell’uomo rispetto agli animali. Leggi tutto “Dialogo con Spinoza sull’etica del non umano”

L’arte dei piaceri

Esistono due forme di piacere: il piacere dei cercatori di piacere e il piacere dei negatori del piacere. Il piacere dei primi è quello dell’acqua e del vino, del cibo e della musica, della lettura e del pensiero. I negatori del piacere hanno qualcosa di più alto, in genere qualche forma di dovere, e in nome di questo più alto negano, sdegnati, i piaceri. Il piacere in questo caso non è estetico, legato alla sensazione, ma nasce dalla percezione di sé in rapporto all’altro. Il negatore del piacere qui ed ora trae il suo piacere dal sentire di avere un posto nella società, o nel cosmo, perfino; di essere un soggetto riconosciuto. Per ottenere questo piacere più alto, o preteso tale, il nostro soggetto deve farsi seduttore: dell’altro o di Dio stesso. Può godere di sé solo nella misura in cui l’altro cede alla sua seduzione. E quando ciò riesce, potrà riposare nel suo io come in un nido. E godere di questo. Leggi tutto “L’arte dei piaceri”

Gli individui che non siamo

Il re greco Menandro, che regnò nel secondo secolo a.C. su un territorio che comprendeva l’India del nord e l’attuale Pakistan, fu con ogni probabilità uno dei primi occidentali convertiti al buddhismo, grazie ai lunghi dialoghi con un saggio buddhista, Nagasena, registrati in uno dei testi più importanti del buddhismo antico, il Milindapañha (Milinda è il nome greco del re). Al re che gli chiede il suo nome, il saggio buddhista risponde di chiamarsi Nagasena, ma precisa che si tratta solo di una convenzione, “perché nessuna persona è presente qui” (Milinda’s Questions, Luzac & Company, London 1969, vol I, p.34). Il re resta sconcertato. Come può essere che Nagasena dica una cosa del genere? Come può essere che lì, di fronte a lui, dica di non esistere?
Non è diverso lo sconcerto – lo choc culturale – di un occidentale di oggi quando si avvicina al pensiero buddhista. Fin dalle sue radici greche, la visione del mondo occidentale è fondata su tre cose: la solidità delle cose, assicurata dall’idea di sostanza; la solidità, razionalità, comprensibilità del mondo, assicurata dall’esistenza di Dio; la solidità di noi stessi, che nemmeno la morte può intaccare: l’immortalità dell’anima. A partire dall’età moderna questi tre pilastri dell’Occidente sono stati progressivamente attaccati, fino a sgretolarsi. Il mondo ordinato, solido, strutturato gerarchicamente come un sistema di enti con al centro l’uomo (proprio nel senso di maschio) entra in crisi sotto i colpi congiunti della scienza e del libero pensiero, mentre l’ascesa della borghesia spazza via i rapporti di produzione feudali. La morte di Dio annunciata da Nietzsche è il momento più noto, ma non necessariamente il più significativo, di questa lunga decostruzione. L’eclissi di Dio è un dato sociologico: nelle società occidentali il sacro tradizionale ha ormai un ruolo marginale. Restano saldi invece nel senso comune gli altri due pilastri: la certezza della cosa e la certezza dell’io.[read more]

Queste due certezze attacca uno dei libri più coraggiosi e interessanti prodotti dalla filosofia italiana negli ultimi anni: Tratti. Perché gli individui non esistono di Paolo Godani (Ponte alle Grazie, Milano 2020; il libro è uscito prima in edizione francese con il titolo: Traits. Une Métaphysique du singulier). La tesi di Godani, che ripercorre il pensiero occidentale da Aristotele ad Heidegger e Deleuze, ma rilegge anche L’uomo senza qualità di Musil, è quella del sottotitolo: gli individui non esistono. Non esiste tesi più irritante per il senso comune. L’individuo è ciò che ho di fronte a me, lo vedo, lo tocco, posso anche annusarlo: come dire che non esiste? E tuttavia le cose non sono così semplici. Questa realtà individuale, questa cosa o questa persona qui, è mutevole. Posso guardarla, farne esperienza, ma ogni volta sarà in modo diverso. Non ho mai una esperienza assolutamente identica di una realtà individuale. In cosa consiste allora il suo essere individuo? Dobbiamo postulare, in modo esplicito o implicito, che al di sotto di tutte le modificazioni esista qualcosa, un sostrato stabile, e che questo qualcosa sia l’individuo al di là delle sue modificazioni. Il libro di Godani, che sto riguardando ora per scrivere questo articolo, si presenta in un certo modo, con una certa luce dovuta al fatto che mi trovo alla mia scrivania, ed alla mia sinistra ho una finestra aperta con una tenda rossa. Se ora lo portassi in un’altra stanza, il libro apparirebbe diverso, con una diversa luce. Sarebbe lo stesso libro? Sì, pensiamo: è uno stesso libro che si mostra in modo diverso. Così pensando operiamo una distinzione tra un’essenza e le sue caratteristiche contingenti. Ma questa essenza, scrive Godani, è “una X indicibile e impensabile” (p. 145). L’alternativa proposta è quella di pensare “la coappartenanza essenziale dell’essere e delle sue determinazioni” (ivi). Il libro e l’ombra che appare sulla pagina in questo preciso momento; non un libro-essenza che ha ora, qui, questo particolare aspetto. Questo vuol dire pensare la realtà come una costellazione di tratti che si compongono in un certo modo, qui ed ora, ma che sempre possono tornare a comporsi in modi diversi.
Al re Menandro-Milinda, il saggio Nagasena rispose con il noto paragone del carro. Cos’è un carro, se non un insieme di elementi che non sono carro? Tolti le aste, le ruote, il telaio eccetera, non ne resta nulla. E tuttavia nessuna di queste cose, in sé, è il carro. Lo stesso vale per noi. Come ogni cosa, non siamo che il momentaneo aggregarsi di alcune caratteristiche. Nel libro di Godani il buddhismo compare di sfuggita, attraverso Derek Parfit, uno dei pensatori che con maggior rigore hanno messo in discussione l’identità individuale; ma vi compare nel momento decisivo: quando si tratta di trarre le conclusioni. Se non siamo individui, ma costellazioni di tratti, allora la morte non è (più), come nell’esistenzialismo, il segno della nostra irripetibilità ed autenticità, ma si spezza in “una molteplicità di piccole morti ricorrenti” (p. 223). E si presenta l’idea di una liberazione dall’io che non è davvero diversa dalla via che nel buddhismo conduce al nibbana.
Il libro di Godani conferma, mi pare, che al di là dei penosi e lucrosi fraintendimenti occidentali della tradizione spirituale orientale – con la meditazione vipassana che diventa mindfulness: una pratica per il trascendimento dell’io messa al servizio della crescita personale – è possibile una convergenza tra i temi più difficili e sofferti del pensiero occidentale contemporaneo e la millenaria riflessione buddhista. Il buddhismo è fin dall’inizio lì dove l’Occidente è sospinto dalla sua vis critica: un mondo fatto di relazioni più che di sostanze, una rete di connessioni che non impiglia, ma libera.

Gli Stati Generali[/read]

La filosofia e il negativo:
il tempo per essere veri

I momenti più belli dell’anno scolastico sono i primi giorni di giugno, quando il programma è ormai finito e, liberi dall’incombenza delle lezioni, è possibile parlare seduti sull’erba, godendosi il sole e la compagnia. In uno di questi momenti ho provato a fare un bilancio dell’anno con gli studenti di quarta. Una classe che ho preso quest’anno, e con la quale c’è stato qualche problema iniziale dovuto alla sensibile differenza di metodo tra me ed il docente dell’anno precedente. In quest’anno scolastico abbiamo attraversato più di mille anni di filosofia, dalle certezze del pensiero medievale fino alle inquietudini kantiane. Come è andata, dunque?
Dopo qualche complimento di rito viene fuori un aggettivo che, nonostante la bella giornata, mi gela: deprimente. Studiare filosofia è stato deprimente. Poiché so che spesso i ragazzi danno alle parole un significato un po’ diverso da quello corrente, chiedo spiegazioni. E viene fuori che la filosofia è deprimente perché toglie ogni certezza. Non abbiamo assistito solo al crollo della visione del mondo medioevale. Non abbiamo seguito solo Cartesio nel suo dubbio metodico. Ci siamo interrogati anche sulla validità dello stesso cogito cartesiano. Quanto è solida la certezza di noi stessi? Chi siamo davvero? Hume ci ha gettato addosso un bel po’ di domande; con Kant siamo finiti ad interrogarci sulla realtà di ciò che vediamo.
E ci siamo fatti poi mille domande morali. Leggi tutto “La filosofia e il negativo:
il tempo per essere veri”

Quant’è falso (e pericoloso) Dio

Superati i settant’anni Sergio Givone, che conosciamo come uno dei massimi filosofi italiani, s’accorge d’aver sbagliato mestiere e ci consegna un’enciclica: Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018). Il titolo è azzeccato, e davvero rincresce che non sia venuto in mente a qualcuno degli ultimi papi, ai quali non si può rimproverare, tuttavia, di non aver pensato quello che si trova oltre il frontespizio. La tesi è semplice semplice, ed è tutta nel sottotitolo: non possiamo fare a meno della religione, perché se neghiamo Dio finiamo per negare anche l’uomo. Sì, Dostoevskij: se Dio non esiste, tutto è permesso. Poiché centottanta pagine bisogna pur riempirle, Givone aggiunge Berdiaev, Pareyson. Agamben e perfino un po’ di Habermas. Fosse stato più audace, avrebbe aggiunto anche un Ferdinando Tartaglia, e il discorso forse sarebbe diventato più interessante. Così com’è, non è che una stanca, piatta, inutile variazione su uno dei temi più stantii della pubblicistica cattolica degli ultimi decenni.
Primo compito d’un filosofo dovrebbe essere il rigore: rigore nell’argomentazione, rigore nella definizione dei termini. Che cosa vuol dire che non possiamo fare a meno della religione? Noi chi? Noi esseri umani, noi europei? E cos’è la religione? E cos’è Dio? Quale Dio? Non uno di questi concetti è scontato. Esistono religioni senza Dio, come il buddhismo. Givone sostiene che dopo duemila e cinquecento anni i buddhisti non possono, ora, fare a meno di Dio? Ma lo stesso buddhismo è poi una religione? Il concetto indiano di dharma solo molto approssimativamente può essere ricondotto a quello occidentale di religione. Di cosa abbiamo allora bisogno? Leggi tutto “Quant’è falso (e pericoloso) Dio”

Il karma di Agamben

1. Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto di Giorgio Agamben (Bollati Boringhieri) è una delle non frequenti incursioni della filosofia italiana – di uno dei maggiori filosofi italiani, in questo caso – nel pensiero orientale, al di fuori del settore specialistico (e in Italia ancora quasi allo stato nascente) della filosofia comparata ed interculturale.
Il problema del libro è quello dell’azione responsabile e dunque imputabile; o meglio: del rapporto tra azione e soggettività. Un rapporto che si fissa, nell’etica occidentale, nel concetto di colpa. Ci si può chiedere se sia davvero opportuno mettere in discussione questo nesso, ma qui vorrei soffermarmi sulla lettura del buddhismo da parte di Agamben.
Come è noto, uno dei problemi più rilevanti del buddhismo dal punto di vista filosofico è la contraddizione tra la negazione dell’esistenza di un sé o anima e la concezione del karma e della rinascita. Se non esiste un sé, cos’è che rinasce? Come è possibile che vi sia continuità tra una vita e un’altra, se non c’è un sé sostanziale? Per Agamben, questa contraddizione apparente nasce da una precisa strategia: “si tratta di spezzare il nesso che lega il dispositivo azione-volontà a un soggetto”; “il soggetto come attore responsabile dell’azione è solo una apparenza dovuta alla nescienza o all’immaginazione (nei termini della nostra ricerca, esso è una finzione prodotta dai dispositivi del diritto e della morale)” (p. 128). 

Non c’è molto altro, oltre queste righe citate; se la prima parte del libro contiene una analisi raffinata dei concetti di causa e colpa in Occidente, la parte finale, dedicata al karman, si sviluppa per passaggi rapidi ed essenziali. Proviamo a ragionare su quelle poche righe. 

2.In uno dei testi fondamentali del buddhismo, il Milindapanha, il saggio Nagasena risponde alla domanda secca del re greco Menandro (Milinda) : “Chi nasce è lo stesso o un altro?”. La sua risposta è che chi nasce è al tempo stesso sé stesso e un altro, esattamente come noi, nello scorrere della nostra vita, siamo al tempo stesso noi stessi ed altri. Il neonato che eravamo, il bambino, l’adolescente, non esistono più in età adulta, e tuttavia l’adulto è al tempo stesso quel neonato, quel bambino, quell’adolescente. Come una fiamma che faccia luce per tutta la notte è al tempo stesso la stessa fiamma (alimentata dallo stesso olio e stoppino) e non lo è, poiché si rinnova di continuo [La rivelazione del Buddha. I testi antichi, a cura di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001, pp. 126-7]. Un altro esempio fatto da Nagasena illustra il rapporto tra questa dottrina e l’etica. Se l’individuo (namarupa, nome e forma) che rinasce non fosse lo stesso della vita precedente, pur essendo diverso, “allora una persona sarebbe liberata dalle azioni malvagie” (p. 133). E continua: si immagini un uomo che ha rubato dei manghi, e che viene processato per questo. Certo, i manghi che lui ha rubato non sono gli stessi che sono stati piantati dall’uomo che l’accusa (sono cambiati, crescendo), ma ciò non scagiona l’uomo.
E’ qui evidente la preoccupazione buddhista di confermare la responsabilità del soggetto, nonostante la negazione della sostanzialità del sé.

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