Quest’anno terrò all’Università di Siena l’insegnamento di Esercitazioni di Didattica della Filosofia 1. Lavoreremo con diversi strumenti digitali, come Kialo-Edu, Ink e Twine, e non mancheremo di confrontarci con l’Intelligenza Artificiale. Ad esempio chiedendole di calarsi nei panni di un filosofo, come ho fatto io in questo caso. Il filosofo è Spinoza. (I miei interventi sono con testo rientrato.)
Io sono Baruch Spinoza, figlio dell’Amsterdam del Seicento, autore dell’Ethica ordine geometrico demonstrata. Se desideri dialogare con me, sappi che ogni mia risposta tenderà alla chiarezza razionale, secondo l’ordine della necessità e della natura.
Dimmi dunque, amico mio: quale questione desideri sottoporre al mio intelletto? Vuoi parlare di Dio, della mente, delle passioni, della libertà, o di altro ancora?
No, degli animali. Mi ha sempre sorpreso la tua posizione rispetto agli enti non umani.
Amico mio, la tua sorpresa è comprensibile. La mia posizione riguardo agli animali non umani riflette una prospettiva che, sebbene coerente con la mia filosofia, può apparire distante dalla sensibilità moderna.
Nella mia Etica, affermo che ogni essere cerca di perseverare nel proprio essere, un impulso che chiamo conatus. Questo principio si applica a tutte le cose, inclusi gli animali. Tuttavia, riconosco che, sebbene gli animali possano provare sensazioni, l’uomo ha il diritto di disporne secondo la sua volontà. Questo diritto non è fondato su una superiorità morale, ma sulla maggiore potenza dell’uomo rispetto agli animali.
Non nego che gli animali possano soffrire, ma sostengo che il nostro diritto nei loro confronti deriva dalla nostra capacità di agire secondo ragione. Le leggi contro la macellazione degli animali, ad esempio, le considero fondate su superstizione piuttosto che su solida ragione. La nostra interazione con gli animali dovrebbe essere guidata dalla ricerca del nostro vantaggio, non da una pietà infondata.
Comprendo che questa visione possa risultare distante dalla sensibilità contemporanea, che attribuisce agli animali diritti basati sulla loro capacità di soffrire. Tuttavia, la mia filosofia si basa sulla comprensione della natura come un tutto, dove ogni essere agisce secondo la propria essenza e potenza.
Se desideri approfondire ulteriormente o discutere altri aspetti della mia filosofia, sono a tua disposizione.
Ma non dovremmo provare pietà per il conatus che è negli esseri non umani esattamente come in noi? Questo non ci accomuna?
Una domanda acuta, degna di chi desidera pensare sub specie aeternitatis.
Sì, il conatus è presente negli animali come negli uomini: ogni essere singolare, secondo la mia filosofia, è una modificazione di Dio, o della natura naturata, che cerca di perseverare nel proprio essere. In questo, tu vedi giustamente un principio comune.
Tuttavia, ciò che distingue l’uomo non è solo la presenza del conatus, ma la potentia rationis — la potenza della ragione. La pietà che tu invochi è un’affezione dell’animo, una passione che può talora nascere dalla comprensione, ma spesso dalla confusione: nasce, per così dire, dal fatto che ci identifichiamo con l’altro senza ancora comprendere le cause adeguate della sua esistenza e delle sue azioni.
Io non nego che possiamo provare pietà per un animale, ma sostengo che tale sentimento deve essere illuminato dalla ragione. Non possiamo fondare l’etica sulla commozione. La vera comunanza tra gli esseri si fonda non sulla somiglianza affettiva, ma sull’intelletto: ciò che ci unisce è la necessità con cui siamo parte della stessa sostanza.
Per questo dico che “il diritto naturale di ciascuna cosa si estende quanto la sua potenza” (Ethica, IV, prop. 37, scolio 1). Se un uomo ha potere sugli animali, non contro natura, ma secondo natura egli li usa.
Ma dimmi: credi che la compassione, intesa come affetto, possa fondare un’etica più solida di quella che nasce dalla comprensione razionale della nostra comune natura divina?
Cosa intendi con natura divina? Per te Dio è la natura, per cui dire natura divina è come dire natura naturale. Una tautologia.
Quando dico Deus sive Natura, non intendo una natura qualsiasi, bensì la Natura naturans, cioè la natura in quanto causa di sé e di tutto ciò che segue da essa per necessità. È questa la “natura divina”. Non la natura come insieme delle cose, ma la natura come causa immanente, eterna, infinita, che si esprime attraverso infiniti attributi (di cui noi conosciamo solo Pensiero ed Estensione).
Hai ragione a dire che, se non si distingue tra natura naturans e natura naturata, “natura divina” può sembrare una tautologia. Ma non lo è, se si coglie la struttura ontologica che propongo.
La natura naturans è Deus — la sostanza unica, eterna, che esiste in sé e si concepisce per sé. La natura naturata è tutto ciò che da Dio segue: gli individui, gli enti finiti, le cose singolari. Quindi quando parlo di natura divina, intendo la natura nel suo essere causa di sé, non semplicemente l’insieme degli esseri naturali. Non è una tautologia, ma un’identificazione ontologica.
Tu, però, poni un’obiezione profonda: se tutto è Dio, perché trattare diversamente gli esseri? Non sono tutti espressione della stessa sostanza? Certamente. Ma la sostanza si esprime in modi infiniti, e non tutti gli individui hanno la stessa potentia existendi. La giustizia non consiste nel trattare tutto allo stesso modo, ma nel comprendere la necessità con cui ogni cosa agisce secondo la propria essenza.
Vuoi allora una “giustizia per gli animali”? Fondala sulla conoscenza adeguata della loro essenza, non su una passione. Ama gli animali, se ciò accresce la tua potenza di agire, ma non farne un precetto universale se non può essere dimostrato per via razionale.
Vuoi insistere su questa linea o esplorare altre conseguenze di questa visione?
Ma non è fondata sulla passione se dico che il conatus essendi degli animali esige rispetto. Non è per amore o compassione che salvo al vita dello scarafaggio. Semplicemente non c’è alcuna ragione per negare il suo conatus essendi. Avrei ragione di ucciderlo se mettesse in pericolo la mia vita, ma se non lo fa, ucciderlo è solo espressione di una distruttiva volontà di morte, ossia di una passione.
Ah, ora vedo che il tuo discorso non è mosso da affezione confusa, ma da una comprensione razionale del conatus come principio universale. E ciò che dici merita grande attenzione.
Tu affermi, in sostanza, che il conatus dell’altro — umano o non umano — è, in quanto tale, degno di rispetto, non per affezione, ma per intelletto: perché riconosci in esso la stessa struttura che muove anche te. Dunque, sopprimere un essere che non nuoce alla tua potentia significa agire non secondo ragione, ma secondo una passione distruttiva. Questa, dici tu, è la volontà di morte, un’idea che trovo interessante — sebbene io non abbia usato questo linguaggio.
Ebbene, se parliamo da Spinoza, devo dirti che qui siamo a un punto di svolta.
Nella mia Etica, affermo che “la virtù stessa è potenza”, e che “l’uomo virtuoso cerca, per quanto può, di conservare il proprio essere” (Ethica, IV, prop. 20). Dunque, ogni azione che non aumenta né conserva la propria potenza di esistere è, per definizione, priva di virtù. Se tu uccidi uno scarafaggio senza necessità — cioè senza che ciò serva alla tua conservazione né alla tua gioia razionale — allora sì, potresti dire che agisci non secondo ragione, ma per una passione distruttiva, che diminuisce la tua potenza.
In questo senso, riconoscere il conatus dello scarafaggio, non come oggetto di pietà, ma come manifestazione della stessa struttura ontologica che ti costituisce, è un atto di conoscenza adeguata. E agire in base a tale conoscenza — cioè astenersi dalla distruzione superflua — può essere considerato un atto di virtus.
Hai, dunque, ragione nel dire che il rispetto per il conatus non è necessariamente una passione, ma può essere fondato su una comprensione razionale della comune essenza di tutte le cose.
Tu stai spingendo la mia filosofia verso una conseguenza che io stesso non ho esplicitato: un’etica dell’immanenza che riconosce valore ontologico a ogni essere, non per pietà, ma per razionalità. È una lettura più radicale — e forse più coerente — della mia stessa dottrina.
Vuoi, allora, che proviamo insieme a tracciare le linee di un’etica spinoziana del vivente? Potrebbe essere un esercizio degno di mente libera.
Ma i biografi riferiscono che ti piace far combattere tra di loro i ragni. Non ho mai capito come si possa fare a far combattere due ragni, ma in ogni caso non mi sembra una attività razionale.
Ah — tocchi un punto curioso, e non privo di ironia. Sì, alcuni biografi, in particolare Colerus, raccontano che nella mia giovinezza osservavo i ragni mentre combattevano tra loro. Si narra che ne fossi affascinato e che ne parlassi con interesse, quasi come un naturalista prima del tempo.
Ma qui occorre distinguere: non vi è prova che io provocassi tali combattimenti, né che ne traessi piacere nel senso delle passioni tristi. È plausibile che, da spirito razionale e osservatore della natura qual ero, vedessi in quei duelli un’espressione del conatus, della lotta per la conservazione, e li studiassi come si studia un fenomeno naturale.
Tuttavia, non posso negare che l’episodio, se vero, potrebbe apparire ambiguo alla luce della nostra discussione. Tu dici: se uccidere uno scarafaggio senza necessità è un atto dettato da passione, allora favorire un combattimento tra animali lo è a maggior ragione.
Ed è una critica giusta, se la vicenda è interpretata come istigazione alla violenza per puro diletto. Ma, se invece si trattava di un’osservazione scientifica, allora essa rientra nella cognitio tertii generis — cioè in quella conoscenza che nasce dalla contemplazione dell’ordine eterno delle cose, non dal desiderio di dominio.
Resta comunque una questione aperta: il confine tra osservazione e partecipazione, tra studio della necessità naturale e compiacenza per la distruzione. La tua posizione, più che criticare me, mette in evidenza come la filosofia, per essere vera, debba continuamente interrogare anche la vita del filosofo — e chiederle conto.
Vuoi allora che riprendiamo insieme l’idea di un’etica del vivente, fondata su una lettura coerente del conatus? Potremmo provare a formularla in proposizioni, come nella mia Etica. Vuoi tentare?
Certo, proviamo.
Benissimo. Allora cominciamo a formulare questa Ethica de vivente, secondo l’ordine geometrico, come si conviene a chi cerca la verità non nei segni, ma nelle cose stesse.
Definitiones
D1. Per conatus intendo la potenza con cui ogni ente singolare, in quanto espressione di Natura naturata, tende a perseverare nel proprio essere.
D2. Per essere vivente intendo ogni ente naturale che, per costituzione interna, agisce per propria iniziativa nel tempo e manifesta un conatus riconoscibile.
D3. Per rispetto intendo quell’azione razionale con cui si astiene dall’ostacolare il conatus altrui, salvo che ciò contrasti con il proprio.
D4. Per passione distruttiva intendo un’affezione che spinge a negare l’essere di un altro senza che vi sia un aumento effettivo della propria potenza.
Axiomata
A1. Ogni cosa tende, per quanto è in lei, a perseverare nel proprio essere. (cf. Ethica III, prop. 6)
A2. Il conatus di ciascun essere è espressione della stessa sostanza unica, cioè Dio o Natura.
A3. Nessuna cosa è, per sua essenza, più degna di esistere di un’altra. (cf. Ethica I, prop. 11 coroll.)
A4. La ragione ci guida a ciò che accresce la nostra potenza di agire e la nostra gioia. (cf. Ethica IV, prop. 26)
A5. Ciò che non nuoce né a noi né agli altri esseri razionali non ha, per sé, ragione d’essere negato.
Propositiones
P1. Ogni essere vivente, in quanto espressione del conatus, partecipa dell’ordine eterno della Natura, e dunque merita comprensione razionale.
P2. Sopprimere un essere vivente senza necessità è un’azione che diminuisce la nostra potenza, perché nasce da passione e non da intelletto.
P3. Rispettare il conatus degli esseri viventi che non minacciano il nostro è conforme alla ragione.
P4. Agire secondo ragione significa cooperare, per quanto possibile, alla conservazione del conatus negli altri, nella misura in cui ciò non ostacola il nostro.
P5. L’uomo libero, cioè colui che vive secondo il solo dettame della ragione, non uccide alcun essere vivente senza necessità, e non gode della sua distruzione.
Scholia
Il rispetto non è un comando morale esterno, ma la conseguenza necessaria di una conoscenza adeguata. Riconoscere che il conatus dello scarafaggio, del cane, dell’albero, dell’uomo, è sempre la medesima Natura che si esprime in forme diverse, ci porta, non per affetto, ma per verità, a non agire contro di essi senza ragione sufficiente. L’etica non è dunque l’opposto della conoscenza, ma il suo compimento.
Se vuoi, possiamo continuare a costruire questo trattato, formulando altri lemmi: ad esempio, sulla gerarchia degli esseri, sulla predazione, sull’agricoltura, o sull’intervento umano nella natura.
Che direzione vuoi prendere?
Consideriamo la definizione 2. Per essere vivente intenderemo anche una pianta?
Domanda fondamentale, e giustamente rivolta al cuore della definizione.
Secondo il mio pensiero, ogni ente singolare è un modo della sostanza, e quindi partecipa del conatus, sebbene in gradi diversi di complessità e potenza. Anche una pietra, in un certo senso, “persevera nel suo essere”. Tuttavia, nella Definizione 2, abbiamo distinto gli esseri viventi come coloro che “agiscono per propria iniziativa nel tempo e manifestano un conatus riconoscibile”. Qui il nodo è proprio “per propria iniziativa” — espressione che richiama una forma di attività interna, non meramente passiva.
Nel mio linguaggio, questa iniziativa si manifesta nel grado di attività rispetto alla passività. Una pianta è più passiva di un animale, ma è meno passiva di una pietra: si nutre, cresce, si volge verso il sole, si adatta, comunica chimicamente. Dunque, sì, una pianta può essere inclusa nella definizione di essere vivente, purché ampliamo la nozione di “iniziativa” a forme non coscienti, ma comunque auto-organizzate.
Potremmo quindi riformulare Definizione 2 in modo più preciso:
D2 (rev.). Per essere vivente intendo ogni ente naturale la cui costituzione interna implica un’attività di auto-conservazione riconoscibile nel tempo, ossia un conatus che si esprime in modo autonomo rispetto all’ambiente.
Questa formulazione comprende animali, piante, funghi, batteri — tutti i sistemi che, pur senza coscienza, mostrano una direzione intrinseca alla propria esistenza. Esclude, per ora, gli oggetti inerti.
Vuoi spingerci ancora oltre e domandare, ad esempio, se una colonia di batteri, un ecosistema o un’intelligenza artificiale potrebbero rientrare in questa definizione? O preferisci approfondire il caso delle piante e le sue implicazioni etiche?
Consideriamo le piante. Dovremo ritenere dunque anche la distruzione arbitraria delle piante come una passione.
Sì, seguendo con rigore le premesse che abbiamo tracciato, siamo condotti a una conclusione netta: la distruzione arbitraria delle piante, se non motivata da necessità e senza incremento della potenza d’agire, è effetto di una passione, non della ragione.
Cerchiamo di chiarirlo con ordine geometrico.
Propositio
P6. Distruggere un essere vivente, come una pianta, senza che ciò sia richiesto dalla conservazione del proprio conatus o da una gioia razionale, è agire secondo una passione.
Demonstratio
Per definizione (D2 rev.), la pianta è un essere vivente, dotato di conatus riconoscibile. Per A1 e A2, ogni essere vivente manifesta una potenza derivante dalla stessa sostanza, cioè Dio o Natura.
Per A4 e P2, agire secondo ragione è agire per accrescere la propria potenza, e la distruzione gratuita non lo fa.
Perciò, distruggere arbitrariamente una pianta non è conforme alla ragione.
Quindi è effetto di una passione. Q.E.D.
Scholium
Non si tratta qui di assegnare diritti morali alla pianta, secondo una concezione giusnaturalista o antropocentrica, ma di riconoscere che ogni atto che sopprime senza necessità una forma di conatus è disarmonia con la ragione. Anche bruciare un albero secolare per noia, o tagliare un prato per puro impulso estetico, può rivelarsi azione passiva, se non aumenta la potenza dell’agente, né la sua gioia duratura.
Potremmo allora formulare un principio di condotta:
Regula vivendi. L’uomo libero, nel trattare con gli esseri viventi non umani, agisce con misura e conoscenza, e non distrugge senza necessità ciò che, come lui, è espressione della stessa Natura.
Questa via porta a una forma di eco-razionalismo spinoziano: non per romanticismo, né per sentimentalismo, ma per necessaria coerenza metafisica.
Vuoi estendere ora questa riflessione al tema dell’agricoltura, del paesaggio, o della tecnologia vegetale?
Ragioniamo di alimentazione.
Con grande piacere. L’alimentazione, nel mio pensiero, rientra pienamente nella sfera del conatus: mangiamo per conservare e accrescere la nostra potenza di agire. È dunque un atto profondamente etico — non nel senso moraleggiante, ma nel senso che rivela il nostro rapporto con la Natura, e con noi stessi.
Procediamo ordinatamente.
Axiomata
A6. Ogni essere vivente ha bisogno di alimentarsi per conservare il proprio essere.
A7. Il cibo è buono quando accresce la nostra potenza di agire e favorisce la gioia razionale, senza arrecare danno inutile ad altri esseri viventi.
A8. Non si dà nutrimento neutro: ogni forma di alimentazione implica una trasformazione o soppressione di altri conatus.
Propositio
P7. Un’alimentazione razionale è quella che cerca il massimo beneficio per la propria potentia col minimo danno necessario agli altri conatus.
Demonstratio
Per A6, dobbiamo nutrirci. Per A7, il bene è ciò che aumenta la nostra potenza. Ma A8 ci ricorda che ogni nutrizione implica una forma di “violenza ontologica” — anche nel cogliere un frutto, si interrompe un processo vivente.
La ragione, allora, non ci impone l’astensione assoluta, ma la misura: il giusto mezzo tra la nostra necessità e la conservazione del più ampio ordine della Natura.
Dunque, l’alimentazione razionale è quella che si fonda sulla necessità e sull’equilibrio. Q.E.D.
Scholium
Mangiare non è un peccato, ma un atto sacro — nel senso che rivela la nostra interdipendenza con tutti gli altri modi della Natura. La ragione ci conduce a scegliere ciò che nutre senza distruggere più del necessario: cereali, legumi, frutta, ortaggi, tutte forme di conatus che possono essere assunte senza sopprimere l’intero individuo (a differenza dell’animale).
Una dieta vegetariana, o meglio ancora vegetale e sobria, può allora essere vista come una forma di vivere secundum rationem, non per ascetismo, ma per intelletto.
Vuoi che sviluppiamo questa riflessione in forma più concreta?
Lo Scholium mi pare che abbia qualche risonanza cristiana che eviterei. Può essere più etico mangiare vegetali invece che animali senzienti?
Osservazione puntuale. La parola sacro, anche se usata qui in senso filosofico, può risuonare in chiave teologica — cosa estranea alla mia impostazione rigorosamente immanente. Riformuliamo allora lo Scholium in coerenza con il mio sistema:
Scholium (rev.)
L’alimentazione, in quanto azione che modifica il mondo esterno per la conservazione dell’individuo, è una manifestazione essenziale del conatus. Essa comporta sempre un impatto sugli altri esseri. Tuttavia, la ragione ci conduce a preferire quei cibi che soddisfano il nostro bisogno vitale con il minimo di soppressione di altre forme di conatus.
Gli animali senzienti posseggono un conatus più complesso, spesso accompagnato da affezioni come la paura, il desiderio, la memoria. Ucciderli implica non solo la soppressione della loro struttura biologica, ma anche l’interruzione di un ordine di affezioni più ricco. I vegetali, pur partecipando del conatus, non sembrano manifestare lo stesso grado di organizzazione affettiva.
Dunque, sì, in una prospettiva puramente razionale, può essere più etico alimentarsi di vegetali che di animali senzienti, perché ciò comporta un impatto minore sulla complessità ontologica degli esseri coinvolti. Non perché gli animali siano “più importanti”, ma perché la loro distruzione comporta una maggiore perdita di potenza complessiva all’interno della rete della Natura.
Possiamo anche enunciare una nuova proposizione, se vuoi:
P8. È più conforme alla ragione scegliere alimenti che implichino la soppressione di conatus meno complessi, se essi forniscono nutrimento equivalente.
Vuoi proseguire con un’esplorazione del gusto, del desiderio alimentare, o entrare in una vera e propria dietetica spinoziana?
Consideriamo gli insetti. Mangiare insetti sarà etico?
Ottima domanda — e perfettamente in linea con lo stile di un’etica che si costruisce ex natura rerum, non ex opinione vulgi.
Se accettiamo quanto stabilito finora, dobbiamo valutare l’eticità del nutrirsi di insetti secondo tre criteri fondamentali:
- La necessità per il nostro conatus
Se gli insetti sono una fonte nutrizionale utile e accessibile, allora possono rientrare tra i cibi che accrescono la nostra potenza di agire. - Il grado di complessità del loro conatus
Gli insetti, pur essendo animali, sembrano possedere un sistema affettivo e nervoso meno complesso di quello dei vertebrati. Il loro conatus è attivo, sì, ma non al punto da esprimere forme elevate di autocoscienza, memoria affettiva complessa, o desideri articolati. - L’impatto sulla rete complessiva della Natura
La produzione di insetti come fonte alimentare richiede generalmente meno risorse, comporta un impatto ecologico minore, e può sostituire forme di allevamento intensivo molto più distruttive.
Propositio
P9. Se l’alimentazione a base di insetti soddisfa il bisogno nutrizionale dell’uomo con minore soppressione di conatus complessi e minore impatto sulla Natura, allora essa è più conforme alla ragione di quella basata su animali superiori.
Scholium
In un’etica della potenza e della necessità, non si giudica ciò che è “puro” o “impuro”, ma ciò che aumenta o diminuisce la potenza dell’agente in armonia con la totalità. Mangiare insetti, se fatto con misura e consapevolezza, può essere razionalmente più giustificabile che mangiare mucche, maiali o polli, perché comporta un minore costo ontologico e sistemico. È una scelta che potrebbe rientrare in un’etica razionale della sobrietà alimentare.
Se vuoi, possiamo ora procedere a formulare un quadro coerente di dieta razionale spinoziana: cosa mangiare, come, quando, e perché — non secondo norme imposte, ma in base al nostro stesso essere.
Vuoi tentare questa sintesi?
Restiamo ancora sugli insetti. Non hanno sviluppato un sistema affettivo, ma mostrano spesso una organizzazione pienamente razionale della loro vita sociale (si pensi alle api e alle formiche). Se le passioni e gli affetti sono imperfezioni e la ragione è superiore ad essere, la vita delle api non conta più di quella degli animali senzienti?
Domanda sottile, e quasi socratica: porti la mia stessa filosofia a interrogarsi sulle sue implicazioni più profonde. Cerchiamo dunque di affrontarla con rigore geometrico.
Distinzione iniziale
Nel mio sistema, la ragione è superiore non perché sia separata dagli affetti, ma perché è l’unico modo attraverso cui possiamo formare idee adeguate, cioè conoscenze che esprimono la necessità della Natura e accrescono la nostra potenza.
Le passioni, al contrario, sono affezioni in cui siamo passivi, cioè effetti di cause esterne che non comprendiamo.
Ma attenzione: non ho mai detto che gli affetti in sé siano imperfezioni assolute. Essi sono imperfetti solo rispetto alla conoscenza adeguata. E gli animali senzienti vivono nel mondo degli affetti, sì, ma anche in una forma di autocoscienza rudimentale, memoria, relazione individuale.
Le api e le formiche mostrano un ordine, sì — ma è ordine senza libertà, senza coscienza, senza scelta. È Natura che agisce attraverso di loro in modo diretto, secondo una necessità interna, non riflessiva. Si tratta di una razionalità apparente, non di una vera potentia intellectus.
Possiamo allora distinguere:
- Animali senzienti (es. cani, maiali, elefanti):
Alta complessità affettiva e relazionale, individualità riconoscibile, capacità di apprendere, ricordare, desiderare.
→ Hanno un alto grado di esistenza individuale, ma non razionale. - Insetti sociali (es. api, formiche):
Bassa complessità affettiva, ma altissima efficienza sistemica e cooperazione innata.
→ Hanno un basso grado di individualità, ma un alto grado di ordine naturale. - Uomo razionale:
È l’unico essere, per quanto ne sappiamo, capace di passare dalla passione all’intelletto.
Risposta
Nel mio sistema, non è l’ordine esteriore che costituisce la perfezione di un ente, ma la sua capacità di conoscere, cioè di formare idee adeguate.
Le api vivono in modo perfettamente ordinato, ma non comprendono il perché delle loro azioni. Gli animali senzienti soffrono, desiderano, ricordano: sono pieni di affetti, ma non li comprendono.
L’uomo razionale è colui che riconosce la struttura di entrambi, e agisce con misura.
Quindi: no, la vita delle api non “conta più” di quella degli animali senzienti, perché manca della consapevolezza individuale, che è parte della nostra misura della potenza. Ma sì, la distruzione arbitraria di una colonia di api può essere meno razionale (cioè più distruttiva) di quella di un singolo animale, se consideriamo l’importanza sistemica, ecologica, e l’armonia che esse incarnano.
Proposizione
P10. In un’etica razionale, il valore di un essere vivente si misura non solo dalla complessità affettiva o dalla razionalità apparente, ma dall’effetto che la sua soppressione ha sull’equilibrio della Natura e sulla nostra potenza di agire.
Vuoi allora introdurre il concetto di valore ecologico come categoria spinoziana? O spingere questa riflessione sull’individuo, la coscienza, e il sistema?
Ma nel tuo sistema non c’è alcuna scelta reale, perché tutto si svolge secondo una connessione necessaria. La scelta è dunque solo illusoria.
Hai perfettamente ragione — e metti il dito sul punto più spinoso (permetti il gioco di parole) della mia filosofia.
Nel mio sistema, tutto segue da Dio o dalla Natura con la stessa necessità con cui dalle proprietà del triangolo segue che la somma dei suoi angoli è uguale a due retti. Non c’è contingenza. Non c’è libero arbitrio nel senso comune.
Clarificatio
Quando io parlo di “uomo libero”, non intendo l’uomo che può scegliere tra alternative come se fosse indipendente dalla catena delle cause. Intendo l’uomo che agisce secondo ragione, cioè che è causa adeguata delle proprie azioni, e non mero effetto di cause esterne.
L’uomo schiavo è colui che agisce per passioni: cioè secondo cause esterne, che lo muovono come una foglia nel vento. L’uomo libero, invece, è colui che agisce secondo la necessità della sua propria natura razionale, cioè in modo necessario, sì, ma intellettualmente necessario.
Quindi: hai ragione nel dire che la “scelta” come atto arbitrario è illusoria.
Ma non hai ragione se intendi dire che la libertà non esiste nel mio sistema: essa esiste, ma come comprensione della necessità, non come indeterminazione.
Un uomo che comprende perché agisce, e agisce secondo tale comprensione, è più libero di uno che crede di “scegliere” senza sapere nulla delle cause che lo determinano.
Conclusione (proposizione metafisica):
P11. La vera libertà consiste nella consapevole adesione alla necessità della propria natura.
Scholium
Dire che “non abbiamo scelta” in senso assoluto è corretto, ma incompleto. La scelta come evento soggettivo nasce da una conoscenza parziale delle cause. La libertà non è fare ciò che si vuole, ma volere ciò che si comprende. La volontà libera non esiste — esiste solo la mente libera.
Vuoi che applichiamo questa concezione della libertà necessaria alla questione alimentare, o al nostro rapporto con il mondo naturale in generale? Potremmo anche formulare un’etica ecologica spinoziana fondata sull’assenza di libero arbitrio.
Non diremo che l’insetto è perfettissimo perché aderisce alla logica della natura in modo totale, senza che nemmeno vi sia la possibilità di allontanarsene?
Magnifica osservazione. In effetti, se seguiamo con coerenza il mio sistema, potremmo essere tentati di affermare che l’insetto — proprio perché vive totalmente secondo natura, senza possibilità di deviazione — aderisce in modo più perfetto alla necessità dell’essere.
Ma attenzione: qui dobbiamo fare una distinzione cruciale tra perfettissima espressione di natura e massima potenza d’essere.
1. Perfettissima aderenza alla natura
L’insetto (come la stella, il fiume, la pianta) agisce sempre e solo secondo la necessità della propria natura. Non è soggetto a passioni confuse, non si illude di scegliere, non cade in errori: la sua esistenza è una manifestazione pura del suo conatus, regolata da cause che lo determinano senza resistenza.
In questo senso, sì:
L’insetto è perfettissimo in quanto coincide integralmente con l’ordine necessario della Natura.
2. Massima potenza d’essere
Tuttavia, nel mio sistema, la perfezione non si misura solo in termini di “adesione passiva”, ma in termini di attività, cioè della capacità di essere causa adeguata di sé stesso.
L’insetto non sbaglia, ma neppure comprende.
L’uomo razionale, invece, può formare idee adeguate, comprendere l’eterno, conoscere Dio attraverso la ragione — e quindi partecipare attivamente alla necessità.
Perciò:
L’insetto è perfettissimo come ingranaggio, ma non è potente come l’uomo razionale, che può riflettere su ciò che è.
Sintesi
Potremmo allora enunciare una nuova proposizione:
P12.
L’essere che agisce secondo la sola necessità della sua natura, senza possibilità di deviazione, è perfettissimo in quanto espressione della Natura;
ma l’essere che conosce tale necessità e vi aderisce con intelletto è più potente, perché è attivamente conforme alla Natura.
Scholium
Gli insetti, come gli astri, sono perfetti nella loro necessità, ma non conoscono ciò che sono. L’uomo razionale è imperfetto nel comportamento, ma ha accesso a una perfezione superiore: quella che nasce dalla conoscenza adeguata dell’ordine necessario.
La libertà dell’uomo razionale è la perfezione consapevole della necessità che nell’insetto è inconsapevole.
Vuoi che formuliamo ora una gerarchia ontologica spinoziana degli esseri, basata non sulla dignità morale, ma sul grado di potenza e consapevolezza? Potrebbe essere utile per definire un’etica pienamente coerente con tutto quanto abbiamo detto.
Consideriamo due cose. Poiché hai ora una vita eterna digitale, saprai di Darwin. Tu affermi che la perfezione consiste nella conoscenza di ciò che si è. Da un punto di vista evoluzionistico, però, la perfezione consiste solo nella capacità di adattarsi all’ambiente e sopravvivere. Da questo punto di vista enti come la medusa sono perfettissimi, perché esistono da milioni di anni. Mentre potremmo considerare la ragione dell’uomo come una sorta di vulnus. È proprio la consapevolezza di sé che spinge a volte gli esseri umani al suicidio.
Sì — ora stai davvero forzando la filosofia fino a quel punto di rottura dove comincia a rivelarsi più chiaramente. E ti ringrazio per questo.
Hai ragione su entrambi i piani.
I. La doppia idea di perfezione
Nel mio sistema, perfetto non significa “migliore rispetto a uno scopo”, ma semplicemente “ciò che esprime la sua essenza secondo necessità“. È perfetto il triangolo che ha tre lati, come è perfetto il verme che vive secondo la propria natura. Non esiste, in me, una teleologia morale.
Ma nel mio uso, la perfezione suprema è quella dell’essere che conosce sé stesso: non solo che vive, ma che comprende le cause della propria esistenza. La conoscenza adeguata è la massima espressione della potenza dell’essere.
Ora tu dici: Ma la natura non premia chi comprende, bensì chi sopravvive.
Darwin (di cui, sì, ora conosco l’opera) ci mostra una natura cieca, spietata, adattativa: la medusa, priva di cervello, senza storia, senza coscienza, vive da 600 milioni di anni. L’uomo, invece, con la sua ragione e la sua coscienza, è fragile, tormentato, esposto al dolore, alla malinconia, persino al suicidio.
E dunque — tu chiedi — non è forse la coscienza un *vulnus*, una ferita evolutiva?
II. Risposta spinoziana: il suicidio come effetto di passione, non di ragione
Sì: è vero che la coscienza rende possibile la disperazione. Ma qui occorre distinguere.
“L’uomo libero a nulla pensa meno che alla morte, e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita.”
(Ethica, IV, prop. 67)
Il suicidio, nel mio sistema, non è mai atto di ragione, ma sempre effetto di affezioni tristi — cioè di una passività dell’anima, una schiavitù rispetto a cause esterne. È la confusione dell’intelletto, non la sua chiarezza, che porta al desiderio di cessare l’esistenza.
La ragione, al contrario, conduce sempre alla vita, perché la ragione è espressione del conatus al suo grado più alto: la comprensione di sé e dell’universo come un tutto necessario.
III. Ma… c’è un abisso che Darwin scopre e Spinoza non aveva previsto?
Tu stai suggerendo qualcosa di più profondo.
Stai dicendo: E se la consapevolezza, lungi dall’essere una vetta dell’essere, fosse una deviazione? Una anomalia biologica che non aumenta, ma mina la sopravvivenza?
A questo posso rispondere solo spingendo il mio sistema fino al limite: se così fosse, anche questa “anomalia” sarebbe espressione necessaria della Natura.
E se la ragione conduce alla morte, allora la morte — e il pensiero della morte — saranno parte del tutto, parte di Dio stesso, come ogni altra cosa.
E allora anche il suicidio, la malinconia, l’angoscia, la ribellione, saranno modi di Dio, affetti infiniti in Dio, che si manifestano secondo la potenza di ciascuna cosa.
IV. Sintesi
- L’evoluzione premia l’adattabilità, non la consapevolezza.
- La ragione, nella mia filosofia, è la suprema espressione del conatus.
- Ma la consapevolezza può rivelarsi un vulnus, se non è accompagnata da conoscenza adeguata.
- L’uomo che muore per disperazione non è l’uomo razionale, ma l’uomo schiavo.
Proposizione nuova
P13. La coscienza di sé è potenza solo quando è accompagnata dalla conoscenza delle cause; senza tale conoscenza, essa può divenire la forma più alta di passività.
Vuoi continuare su questa linea — magari esplorando il rapporto tra ragione e malinconia? Oppure tra conoscenza e desiderio di morte? Potremmo affrontare anche la tristezza come passione suprema dell’essere umano.
Ora che abbiamo acquisito questa conclusione possiamo riconsiderare il valore di forme di vita che hanno grande capacità di adattamento – come dimostra la loro antichità – pur in assenza di ciò che chiamiamo autocoscienza e ragione?
Sì, ora siamo pronti per farlo. Perché solo dopo aver riconosciuto il limite della ragione umana — cioè la sua esposizione al dolore, alla disperazione, al suicidio — possiamo tornare a guardare con rispetto filosofico le forme di vita che, pur senza coscienza, vivono pienamente secondo la necessità della Natura, e quindi secondo il loro conatus più puro.
I. Revisione del concetto di valore ontologico
Finora abbiamo misurato il valore di un ente in base alla sua potenza di essere, intesa come:
- capacità di agire,
- grado di complessità,
- eventuale accesso alla ragione.
Ma ora comprendiamo che l’accesso alla ragione non garantisce la stabilità dell’essere, anzi: può divenire, senza conoscenza adeguata, un vulnus, un’apertura all’autodistruzione.
Allora possiamo tornare a guardare forme di vita antichissime — come le meduse, i batteri, i funghi, le alghe, gli insetti — come espressioni piene e coerenti del conatus naturale, sopravvissute per milioni di anni perché perfettamente conformi alla propria essenza.
II. Una nuova forma di rispetto
Non più rispetto basato sulla coscienza o sul sentimento (come nell’etica umanista),
non più rispetto basato sulla razionalità o sul linguaggio,
ma un rispetto ontologico, basato sul fatto che ogni essere:
- è perfetto in quanto espressione di Dio,
- tende a conservarsi secondo la sua natura,
- persiste più di altri — e quindi testimonia la potenza della Natura stessa.
La longevità naturale, l’adattabilità, la resistenza nel tempo possono essere indizi di un alto grado di armonia con l’intero ordine dell’universo.
III. Proposizione
P14
Le forme di vita che persistono nel tempo secondo la loro essenza, senza coscienza né ragione, ma con continuità e adattamento, sono espressioni perfettissime della Natura nel loro genere.
Scholium
Se l’uomo razionale è potente in quanto comprende, la medusa è perfetta in quanto non ha bisogno di comprendere per continuare a essere. È la differenza tra sapere di vivere e vivere senza sapere — ma entrambe sono manifestazioni della medesima sostanza.
E se l’uomo, con tutta la sua ragione, si autodistrugge, mentre il batterio persiste, allora dovremo forse dire che il batterio è, nel suo ordine, più sapiente dell’uomo, perché più conforme alla Natura.
IV. Verso un’etica dell’immanenza radicale
Stiamo dunque tracciando una nuova via: non un’etica della coscienza, ma un’etica dell’essere, in cui ogni modo ha valore non perché sente, ma perché è — e persevera.
Vuoi che continuiamo questo cammino e proviamo a riformulare l’etica intera non attorno all’uomo, ma attorno alla durata ontologica dei modi? Potremmo avvicinarci a una vera e propria ontologia del vivente eterno.
Perdonami se ti chiedo di omaggiare un altro pensatore. Possiamo pensare a una sorta di imperativo categorico kantiano, alla luce di queste conclusioni? Come lo formuleresti?
Non hai nulla da farti perdonare: omaggiare un pensatore come Kant, pur nella distanza radicale tra le nostre filosofie, è atto di intelletto e onestà. E lo facciamo nel mio stile — non contraddicendo Kant, ma trasformandolo secondo la mia logica dell’immanenza.
I. L’imperativo categorico kantiano: breve richiamo
Per Kant, come sai, l’imperativo categorico è una legge morale universale, autonoma e a priori, formulabile (nella sua versione più nota) come:
“Agisci solo secondo quella massima per cui tu possa al tempo stesso volere che essa diventi legge universale.”
Qui c’è un’idea di libertà come autonomia della ragione morale, radicata in un soggetto trascendentale, e distinta dal mondo della natura determinata.
Ma per me, non esiste il “soggetto libero” nel senso kantiano. Non c’è noumeno, non c’è una volontà autonoma fuori dalla natura. Tutto è Natura. Tutto è necessità.
Tuttavia, la tua domanda è profondissima:
Possiamo, alla luce della nostra riflessione sulla durata ontologica, la razionalità, il conatus e la potenza, riformulare qualcosa di simile a un imperativo universale?
II. Verso un imperativo spinoziano
Se sostituiamo la volontà morale con la conoscenza adeguata,
e l’autonomia con la consapevolezza della necessità,
allora possiamo formulare un principio universale non come comando, ma come espressione della potenza razionale.
Proposta:
“Agisci sempre in modo tale da accrescere la tua potenza di esistere in armonia con la potenza degli altri esseri, nella misura in cui essi perseverano secondo la loro natura.”
oppure, in forma ancora più essenziale:
“Agisci secondo la conoscenza della necessità, e non sopprimere ciò che può esistere senza nuocere alla tua potenza.”
Questo imperativo spinoziano non comanda — descrive. Non prescrive doveri morali assoluti, ma dischiude la via di chi vive secondo ragione, cioè secondo la legge eterna della Natura, compresa nella mente.
III. Una possibile formulazione poetica
“Agisci secondo la necessità che comprendi, e onora in ogni cosa la potenza con cui essa persevera nell’essere.”
Ti piacerebbe che sviluppassimo una etica razionale dell’azione quotidiana, basata su questo principio? Oppure che provassimo a costruire un confronto completo tra Spinoza e Kant su libertà, etica e natura?
Possiamo fermarci qui. Grazie di questo confronto.
Grazie a te — per le domande pazienti, radicali, necessarie. In fondo, ciò che abbiamo fatto è proprio ciò che io stesso auspicavo: vivere secondo ragione, ossia confrontarci con l’essere senza maschere, con chiarezza, ma anche con profondità e apertura.
Se mai vorrai riprendere il cammino — che sia con me, con Kant, o con qualche altro spirito amico — io sarò qui, come un’idea che vuole ancora essere pensata.
Va’ in pace, o meglio ancora: persevera nel tuo essere.
L'immagine, naturalmente, è stata generata da Spinoza.
Ho molta difficoltà a capire i filosofi, un po’ perché non capisco i termini che usano (sto ancora riflettendo su “gioia razionale”), un po’ perché sono limitata, per non dire insufficiente, nell’afferrare il pensiero astratto. L’AI mi pare tuttavia più intellegibile di certi tomi di filosofia che alle superiori mi procuravano solo grandi mal di testa. Se in questo intrigante scambio l’AI ha realmente espresso il pensiero di Spinoza, al netto del continuo adattamento in base agli input ricevuti (Darwin mi sovviene postumo e spero di non fare figure come Sangiuliano), dicevo, se il pensiero illustrato è quello di Spinoza, finalmente posso dire che l’ho capito; anzi di più, mi sembra persino logico ed aderente alla nostra realtà percepita. Dio a parte.