La mafia e la città inesistente

La mafia e la città inesistente

L'Attacco di oggi ha in prima pagina un'intervista all'ex capo della Digos. Che dice che no, Foggia non è una città mafiosa. Certo, c'è la mafia, ma la città è un'altra cosa. La mafia foggiana è diversa dalle altre mafie. E' nata per derivazione dalla camorra, in quella maledetta riunione all'hotel Florio del 5 gennaio 1979 voluta da Raffaele Cutolo. È dunque una mafia giovane, senza grandi tradizioni, e pertanto, si direbbe, senza alcun profondo radicamento nel territorio. Questo vuol dire che sarebbe facile, volendolo, sradicarla. C'è un'altra ragione di debolezza della mafia foggiana. La mafia è sempre, anche, un sistema politico di gestione del territorio, cosa che implica il controllo dell'ordine pubblico. La mafia contrasta la piccola criminalità, sia come servizio, diciamo così, che per evitare l'intervento dello Stato che potrebbe ostacolare le sue attività. A Foggia non solo questo non avviene - la microcriminalità è probabilmente la più alta in Italia - ma la mafia stessa è visibile, rumorosa, oppressiva. Non una mafia law and order, ma davvero un gangsterismo che _schiaccia_ letteralmente la città. Perché la città non si libera da una presenza che la schiaccia e che non è così radicata? Le ragioni sono tre. La prima è la mancanza di un qualsiasi senso di comunità e l'eccezionale capacità di distrazione del foggiano medio. Al quale non crea grandi problemi l'ammazzatina sotto casa, se può continuare con il suo rituale delle paste domenicali, della partitina a carte con gli amici, dello struscio per corso Vittorio Emanuele. I foggiani amano riempirsi la bocca con espressioni come "orgoglio foggiano", ma di fatto non hanno alcun orgoglio per la propria città. La quale propriamente non esiste. Foggia è un insieme di individui. Gli unici collanti sociali sono la Chiesa e il calcio. Ma evidentemente non bastano. L'azione della Chiesa crea l'irresponsabile baciapile, quella del calcio il tifoso: e né con il baciapile né con il tifoso crei una comunità. La seconda ragione è nella struttura di classe della società foggiana. Foggia è una delle città italiane con una più ampia presenza di sottoproletariato. Interi quartieri sono storicamente sottoproletari o si sono sottoproletarizzati negli ultimi decenni. E sul sottoproletariato la mafia esercita un fascino irresistibile: consente di raggiungere in modo efficace gli scopi sociali ed economici che sarebbe estremamente difficile ottenere per altre vie. La terza ragione è nella mancanza di fiducia sistemica. E qui la responsabilità è tutta politica. Generazioni di stramaledetti figli di puttana hanno governato la città sostituendo il diritto con il favore. Per un foggiano ormai questo è un dato acquisito: anche se siamo in Italia, un paese democratico, non esiste in realtà alcun diritto. Nulla che possa essere ottenuto per il solo fatto di essere cittadini. Tutto va ottenuto grazie alle conoscenze giuste. E una società in cui la fiducia non è sistemica, ma posizionale, è intrinsecamente mafiosa. Checché ne dica l'ex capo della Digos.

Dio è falso

Ho lavorato lo scorso luglio a un opuscolo sull'ateismo che è cresciuto fino a diventare un libro: Dio è falso. Una breve introduzione all'ateismo, uscito con il mio progetto libertario endehors. Il libro è disponibile in ebook e cartaceo presso tutti gli store online: La Feltrinelli, IBS, Kobo, Amazon, StreetLib. Ringrazio intanto Marco Trainito per questa bella recensione in anteprima (dal suo profilo Facebook). La copertina Sulla miseria morale del Dio biblico Ho avuto il privilegio di poter leggere in anteprima questo brillante pamphlet dell’amico Antonio Vigilante, che sta per essere pubblicato in versione sia cartacea che digitale. Non si tratta solo di una rapida sintesi dei più noti argomenti razionalistici contro i testi sacri dei tre principali monoteismi che l’Occidente ha elaborato - diciamo - da Vanini a Dawkins (entrambi citati nella “bibliografia minima” posta in chiusura, insieme a Spinoza, Meslier, Hume, Feuerbach, Nietzsche, Rensi, Onfray e Odifreddi). Vigilante è filosofo e pedagogista, conosce l’ebraico ed è soprattutto un cultore della spiritualità orientale, e questo lo spinge a focalizzare l’attenzione soprattutto sugli aspetti etici delle dottrine religiose esaminate. Dopo una carrellata sulle classiche argomentazioni filosofiche contro l’idea stessa di un qualsiasi dio, il lettore è guidato nel luna park dell’orrore dell’Antico Testamento, in cui il dio ebraico appare in tutta la sua ferocia, a tratti persino grottesca: un creatore che ordina e compie in prima persona stragi pantagrueliche, tradisce il suo stesso popolo eletto, si contraddice platealmente e rivela tratti comportamentali di un infantilismo molesto e profondamente immorale.Ma non è qui che Vigilante offre i suoi contributi più originali. La sua analisi diventa di notevole interesse filosofico-morale laddove decostruisce il dispositivo di discorso neotestamentario, rivelandone la natura intimamente violenta. Contro la vulgata che vede nel messaggio di Gesù una rivoluzione etica all’insegna dell’amore universale e di una nuova immagine di Dio, più conciliante e “umana”, Vigilante mette in luce il meccanismo della demonizzazione e della conseguente disumanizzazione del diverso che sta alla base del messaggio cristiano e che sfocia in una vera e propria metafisica del Nemico, in nome della quale chi non è già da sempre “con” Gesù è ipso facto esposto all’odio e alla cancellazione in questa vita e alla dannazione eterna nell’altra.Per fare un esempio di come persino le prime comunità cristiane praticassero un’etica che oggi non può non farci inorridire, vale la pena leggere per intero la storia poco nota di Anania e Saffira, sulla quale giustamente Vigilante richiama l’attenzione. È narrata in Atti 5: 1-11 e questa è la versione della Bibbia CEI: 1 Un uomo di nome Anania, con sua moglie Saffìra, vendette un terreno 2e, tenuta per sé, d’accordo con la moglie, una parte del ricavato, consegnò l’altra parte deponendola ai piedi degli apostoli. 3Ma Pietro disse: "Anania, perché Satana ti ha riempito il cuore, cosicché hai mentito allo Spirito Santo e hai trattenuto una parte del ricavato del campo? 4Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e l’importo della vendita non era forse a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor[…]

Docenti: differenziare, non gerarchizzare

“È finalmente giunta nel mondo della scuola un’innovazione che rompe l’egualitarismo”, leggo nell’incipit di quello che, a mia conoscenza, è l’unico articolo che discuta seriamente l’idea del docente esperto.[1] Ed è un incipit tristissimo per chi, come me, crede che l’uguaglianza sia un valore importante, se non il più importante di tutti. Di mali la scuola ne ha infiniti, ma l’egualitarismo è davvero l’ultimo. Mi piacerebbe poter dire che le scuole italiane sono meravigliose comunità di eguali, impegnate nell’impresa solidale di istruire ed educare, ma mentirei. Non c’è alcuna reale comunità, salvo poche lodevoli eccezioni. Più che al comunismo anarchico, le scuole fanno pensare all’individualismo libertario: ogni docente è una monade, chiuso nella sua classe, nella sua disciplina e nel suo metodo. Ma anche con questi limiti, mi terrei stretta questa orizzontalità. Che non è nemmeno completa, perché ci sono comunque docenti che hanno la certezza di esserci anche il prossimo anno ed altri che non sanno invece dove saranno, così come permane una certa percezione inferiorizzante dei docenti di sostegno. Un docente non ha prospettive di carriera. Avrà aumenti di stipendio solo in base all’anzianità. E questo è un male, si dice. E può essere. Ma non è il male peggiore. Il male peggiore è che tutti i docenti facciano le stesse cose, come se la scuola non avesse bisogno di valorizzare competenze specifiche. Molti docenti hanno un dottorato di ricerca. Un titolo di studio che certifica una competenza di altissimo livello, che però alla scuola non interessa. A nessuno è venuto nemmeno in mente di prendere in considerazione il possesso del dottorato, per selezionare i docenti esperti. Mi piace pensare ad una scuola che consenta a chi ha un dottorato di dedicarsi alla ricerca insieme all’insegnamento. Oggi essa è rigorosamente riservata all’Università. Chiunque, con attitudine, passione e competenze adeguate a far ricerca, non riesca a entrare nel mondo universitario, è condannato al dilettantismo. La scuola trasmette il sapere, non lo crea. È un errore madornale. Ed è l’errore da cui scaturisce quel tanfo di stantio della cultura scolastica. Più che i docenti esperti, ci servono i docenti ricercatori, cui la scuola dia il tempo e l’agio di studiare, insieme ed oltre l’insegnamento, in sinergia con le Università ed altri enti di ricerca. Ma abbiamo bisogno anche di docenti che facciano ricerca nella didattica della loro disciplina e che si documentino, studino, sperimentino nell’interesse della scuola. Abbiamo bisogno, ancora, di docenti che sappiano leggere il territorio, che abbiano le competenze per comprendere dove nasce un insuccesso scolastico, quali sinergie attivare per affrontare una povertà educativa, come aprire la scuola alla comunità. E poi abbiamo bisogno di competenze manageriali: il middle management di cui si parla tanto. Docenti che collaborano con i dirigenti nella gestione quotidiana della scuola, occupandosi di faccende per lo più noiosissime, ma senza le quali la scuola non funzionerebbe. Abbiamo bisogno, più di qualsiasi altra cosa, di pensare le scuole come sistemi di apprendimento e autoformazione per i docenti, contesti di sviluppo umano e professionale. La[…]
L’autoassoluzione della Chiesa in Canada

L’autoassoluzione della Chiesa in Canada

Tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e gli anni Novanta del secolo scorso il governo canadese ha costretto i bambini appartenenti a famiglie di nativi americani a frequentare un sistema di scuole gestito da diverse Chiese cristiane, l’Indian residential school system. Il compito di queste scuole era quello di far sì che i bambini dimenticassero la loro cultura di origine e venissero formati secondo la cultura e la religione dominante. Questa violenza culturale, già terribile, è tuttavia solo parte della violenza che questi bambini si trovarono a subire. Sequestrati alle famiglie, sottoposti a maltrattamenti ed abusi sessuali, sterilizzati, racchiusi in edifici malsani, tenuti in condizioni igieniche precarie, migliaia di questi bambini - in alcuni periodi addirittura più della metà degli ospiti - hanno perso la vita negli anni in queste scuole più simili a lager che a istituzioni educative. Quelli che sono sopravvissuti hanno trovato, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la forza per denunciare ciò che hanno subito ed avviare le ricerche su quello che appare come un vero genocidio. La Truth and Reconciliation Commission of Canada, nata nel 2007 per accertare la verità e favorire la riconciliazione nazionale, ha chiesto da tempo a papa Francesco di chiedere perdono per il coinvolgimento della Chiesa cattolica. Il viaggio apostolico dei giorni scorsi intendeva venire incontro a questa richiesta. Ma lo ha fatto in modo del tutto insoddisfacente. Sin dai tempi di Giovanni Paolo II la richiesta di perdono papale - quasi ormai un genere letterario - segue uno schema autoassolutorio: una succinta ed eufemistica descrizione della colpa; una lettura della stessa che la riconduce alla ben nota imperfezione della natura umana; una lunga celebrazione della grandezza della Chiesa. Il viaggio apostolico di papa Francesco in Canada non fa eccezione. In Canada il papa ha fatto tre cose. Ha chiesto scusa. Ha sottolineato, con una scelta attenta dei termini, che quello che è accaduto non è opera della Chiesa come istituzione, ma di singoli cattolici. E ha usato strumentalmente i valori, reali o presunti, della comunità nativa canadese come conferma dei valori cattolici. Il punto fondamentale, per i nativi, è la mancanza di ammissione di una responsabilità istituzionale della Chiesa cattolica. In un primo discorso del 25 luglio presso la Chiesa del Sacro Cuore di Edmonton ha fatto ricorso alla parabola della zizzania: E al tempo stesso, non dobbiamo dimenticare che anche nella Chiesa al grano buono si mescola la zizzania. Anche nella Chiesa. E proprio a causa di questa zizzania ho voluto intraprendere questo pellegrinaggio penitenziale, e cominciarlo stamani facendo memoria del male subito dalle popolazioni indigene da parte di tanti cristiani e chiedendone perdono con dolore. Mi ferisce pensare che dei cattolici abbiano contribuito alle politiche di assimilazione e affrancamento che veicolavano un senso di inferiorità, derubando comunità e persone delle loro identità culturali e spirituali, recidendo le loro radici e alimentando atteggiamenti pregiudizievoli e discriminatori, e che ciò sia stato fatto anche in nome di un’educazione che si supponeva cristiana. (1) Analizziamo queste parole. Anche nella Chiesa[…]