Scuola e lavoro: per un dialogo

Scuola e lavoro: per un dialogo

Invitato dall’amico comune Carlo Ridolfi, scrivo alcuni punti per avviare un dialogo pubblico con Christian Raimo. Appena si è diffusa la notizia della morte di Giuseppe Lenoci, il sedicenne morto durante uno strage, Raimo ha scritto sul suo profilo: “L'alternanza scuola lavoro va abolita.” Vorrei spiegare per quali ragioni ritengo che l’alternanza non vada abolita (anche se di fatto il Pcto già non è più alternanza). Sono costretto però, per evitare ogni equivoco, a fare il giro lungo, con una premessa politica e una premessa pedagogica. a) Premessa politica Sono figlio di un operaio, cresciuto in una delle città italiane più difficili e povere. Sono cresciuto in una casa - un basso - di due stanze. La prima faceva da cucina e camera da letto per noi figli, e conteneva anche il bagno; l’altra era la camera da letto dei miei genitori. Questo era il livello di vita che il mio paese garantiva alla famiglia di un lavoratore. Il mio status personale era corrispondente. Era, cioè, pari a zero. Ho scoperto presto che chiunque avrebbe potuto farmi qualsiasi cosa. Un docente, ad esempio, avrebbe potuto tranquillamente insultarmi, senza ragione, davanti a tutti. Nessuno avrebbe vendicato il torto subito. Crescendo ho sviluppato una rabbia molto forte nei confronti di una società così diseguale. Rabbia che si è espressa, negli anni dell’adolescenza, con posizioni di estrema sinistra che non escludevano, in via di principio, il ricorso alla violenza per cambiare lo stato di cose. Dopo il 1989 sono approdato gradualmente, e non senza inquietudini, ad un anarchismo nonviolento o, se si preferisce, a una visione anarchica della nonviolenza. Decisivo è stato, per me, lo studio approfondito del pensiero di Aldo Capitini. Se dovessi sintetizzare in modo estremo la mia posizione politica attuale, direi questo: penso che si debba lavorare per costruire l’uguaglianza sociale combattendo l’autoritarismo e la concezione gerarchica dei rapporti sociali, con la cultura che la regge e giustifica; e ritengo che questo lavoro vada fatto nei contesti sociali concreti. Il lavoro politico, per come lo concepisco, non ha nulla a che fare con i partiti politici e con la scelta di presunti rappresentanti del popolo attraverso le elezioni. b) Premessa pedagogica La mia visione dell’educazione è la conseguenza di quanto detto sulla politica. L’educazione che pratichiamo nelle famiglie e nelle scuole è malata di asimmetria, e dunque di autoritarismo e di violenza. Penso che sarebbe buona cosa passare, sul piano terminologico, dalla pedagogia alla sinagogia, parola con la quale indico l’idea di un _educarsi insieme_ simmetrico, antiautoritario, centrato sulla ricerca comune dei valori. Da anni cerco insieme ad amici di lavorare ad una pedagogia antiautoritaria, critica, nonviolenta, che però non ceda ai miti facili di certa educazione naturale, come anche a quelli dell’homeschooling. L’ho fatto con la rivista Educazione Democratica, di cui sono stato direttore scientifico, e lo faccio ora come membro della Comunità di ricerca della rivista Educazione Aperta. In sintesi: non sono un neoliberista. Ed occorre precisarlo, perché quando si assumono posizioni non allineate su temi come l’alternanza scuola-lavoro o le competenze, capita di essere accusati di esserlo.[…]
La pedagogia dell’evitamento

La pedagogia dell’evitamento

Molti anni fa entrai in una sala molto affollata per seguire una conferenza sull’educazione. Una volta — stava dicendo il conferenziere — un bambino a scuola poteva essere definito turbolento; oggi lo stesso bambino sarebbe definito iperattivo. E tra turbolento e iperattivo, spiegava, c’è una differenza enorme. La turbolenza è un problema pedagogico. L’iperattività diventa, invece, un disturbo. Il conferenziere si chiamava Alain Goussot, e della questione avremmo discusso più volte, negli anni a venire. Mi sembrava che nella sua critica della medicalizzazione in atto nelle scuole ci fosse il rischio di non riconoscere problemi reali, che richiedono una personalizzazione della didattica, nella quale non riuscivo a non vedere una importante passo avanti della scuola italiana. A distanza di molti anni — e quando ormai non è più possibile, purtroppo, discuterne con lui — devo riconoscere che aveva molte ragioni. Si è fatta strada in questi anni nelle scuole, fino a diventare dominante e incontrastata, quella che chiamerei pedagogia dell’evitamento. La famiglia comunica alla scuola che lo studente ha un disturbo certificato. E alla luce di quella certificazione, succede sempre più spesso che, sostenuta dallo specialista, chieda ai docenti di non far fare alla figlia o al figlio ciò che ha a che fare con il suo disturbo. Si va al di là delle misure dispensative e compensative, che pure sono diventate ormai un meccanismo pedagogicamente idiota (spesso si tratta solo di compilare un modulo barrando alcune caselle; ogni tipologia di disturbo ha le sue caselle). Mi è capitato di dover discutere in un consiglio di classe la richiesta, sostenuta da uno specialista, di esentare uno studente con un ritardo mentale dalla scrittura, dal momento che scriveva con grandi difficoltà. Questo studente, di quindici anni, aveva la scrittura di un bambino di otto anni; se la scuola avesse smesso di chiedergli di scrivere, avrebbe perso del tutto la capacità di scrivere. I genitori di una studentessa a disagio con le verifiche orali in classe chiedono che la figlia sia del tutto esentata dal parlare davanti ai compagni. In che modo potrà affrontare gli esami universitari? Come farà l’esame di laurea? A fronte di un disagio — spesso si tratta di questo, più che di un disturbo — la scuola può rinunciare a lavorare su competenze che sono fondamentali? È doveroso riconoscere a uno studente dislessico il diritto di scrivere usando il computer, ma siamo sicuri di aiutare uno studente con sindrome di Asperger badando ad evitare con la massima cura qualsiasi cosa che possa infastidire un soggetto con sindrome di Asperger? I nostri cervelli sono in costante adattamento all’ambiente. Un ambiente privo di qualsiasi sfida, che venga modellato sullo stato attuale di un cervello e non gli richieda nessun cambiamento, nessuno sforzo, è un ambiente che non favorisce, ma ostacola la sua crescita. La rivendicazione delle famiglie è quella del successo scolastico. Che è sacrosanta. Il problema è che si confonde il successo con il voto. Se si chiede a uno studente di fare solo quello che sa fare, sicuramente i voti saranno alti. Ma lo scopo della scuola non è quello di mettere voti alti; è quello di far crescere gli studenti. E sappiamo che il nostro cervello[…]