Famiglia

A voler essere proprio pignoli, la parola famiglia fa schifo. Deriva da famulus, schiavo. Era l'insieme degli schiavi che vivevano sotto la direzione di un pater familias. Spero che i sostenitori della famiglia tradizionale non vogliano riportare restaurare anche la schiavitù (al di là di quella dei lavoratori africani nelle nostre campagne, intendo). Non mi meraviglierei troppo.

Scuola: la laicità difficile

Qualche mese fa ha fatto discutere la scelta del preside di un istituto comprensivo di Porto Tolle, nel cattolicissimo Veneto, di non consentire al vescovo di Chioggia di far visita alla sua scuola. L’argomento del dirigente era semplice: la scuola pubblica e statale è laica. La semplicità, sensatezza, evidenza dell’argomento naturalmente non sono state sufficienti ad evitare le polemiche, per lo più politiche: per certe forze conservatrici notizie del genere sono manna dal cielo.
Non si è fatto troppi problemi invece il dirigente dell’istituto “Ungaretti-Madre Teresa” di Manfredonia, che sulla homepage del sito pubblicizza con grande enfasi la visita di monsignor Moscone, nuovo vescovo della Diocesi. “Un pieno di emozioni questa mattina per alunni, docenti, personale e genitori”, si legge. E le foto fanno quasi tenerezza: sembrano uscite dagli anni Cinquanta, quando il Paese era fervidamente, unanimemente cattolico, i pochi anticonformisti, come i coniugi Bellandi di Prato – che si erano permessi di sposarsi solo civilmente – venivano pubblicamente umiliati e Dio, Patria e Famiglia era uno slogan che non faceva sorridere. Se non fosse per gli smartphone che spuntano qua e là, le foto sarebbero perfettamente vintage: il vescovo dall’aria bonaria, il preside compiaciuto, lo stemma episcopale in bella mostra, e soprattutto loro, i bambini. Col grembiulino azzurro, le bandierine, le mani sollevate per accompagnare chissà quale canto.

Cristianesimo:
che farsene ormai?

Fa un certo effetto leggere Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede di François Jullien (Ponte alle Grazie). Jullien non è solo uno dei massimi pensatori europei; è uno dei pochissimi che riesca a pensare oltre l’Europa, grazie alle sue competenze di sinologo. In quest’opera si occupa, dunque, di cristianesimo. E comincia così: “Vi chiederete perché mi occupi oggi proprio di questo – ovvero, del ‘cristianesimo’. Che cosa farsene, ormai?”. E poco oltre aggiunge: “Finito il tempo del suo dominio e poi quello della sua denuncia, e oggi nel tempo della sua marginalizzazione, occorre infatti tracciare il bilancio di quel che il cristianesimo ha fatto avvenire nel pensiero”. Non voglio discutere, qui, le risorse che Jullien scopre nel cristianesimo e crede di poter riprendere anche senza la fede; dirò solo che sono risorse che con ogni probabilità sorprenderebbero buona parte dei credenti. Mi interessa soffermarmi sull’incipit, sul punto di partenza del suo discorso. Dunque: il cristianesimo è giunto al momento dei bilanci?

Quelli che non la bevono

La parola apota fu creata all'inizio degli anni Venti da Prezzolini per indicare "quelli che non se la bevono", una categoria di uomini in grado di sottrarsi al gioco delle contrapposizioni e considerare le cose con distacco, cercando la verità oltre le passioni di parte. La parola non ha avuto grande successo; l'idea ne ha avuto fin troppo. L'Italia di oggi è il paese degli apoti. Nessuno vuole berla; nessuno vuole lasciar intendere di essere ingenuo. Come una vera epidemia si diffonde nella società il sospetto: dietro tutto dev'esserci dell'altro. Bisogna sospettare, sospettare sempre. Corruptio optimi pessima, dicevano gli antichi. Non c'è nulla di peggio della corruzione delle cose migliori. L'apotismo attuale è la corruzione di una cosa tanto importante quanto poco diffusa: il pensiero critico. Che è pensiero, appunto: e dunque una cosa difficile. Esige lo studio, l'informazione, la considerazione attenta delle ragioni e dei torti. In una società complessa, sono davvero pochi quelli che possono vantare una capacità critica nei campi diversi che rientrano nella sfera politica: l'economia, l'istruzione, la politica estera eccetera. L'impresa è talmente disperata che si finisce per gettare la spugna. E cercare scorciatoie. Una è quella di sempre: gli stereotipi, gli slogan, la semplificazione isterica della realtà. La strategia sottocognitiva che genera il leghismo salviniano, la politica del rancore, dell'odio, del capro espiatorio. L'altra (che alla prima spesso conduce) è il sospetto come sistema di vita. L'abbiamo visto all'opera l'altro giorno, in occasione della Giornata mondiale del clima. Migliaia di giovani che in tutto il mondo manifestano per difendere il pianeta al seguito di una ragazzina di sedici anni? Ma a chi vogliono darla a bere? Davvero si può essere così ingenui? Davvero una ragazzina può sfidare i potenti della terra? Ci dev'essere dietro qualcosa. Un sito pieno zeppo di pubblicità assicura che si tratta di una trovata pubblicitaria. E che non può avere alcun interesse per l'ambiente, dal momento che è una ragazzina con Asperger, ed è noto che chi ha l'Asperger non è in grado di provare empatia.Non occorre dimostrare: basta sollevare un sospetto. Anche non legittimo: la legittimità la conquista con la diffusione. E la diffusione è sicura. L'appartenenza a un movimento politico ha sempre un ritorno in termini di immagine di sé. Il comunista sognava un mondo libero e giusto, e intanto sentiva di appartenere a una avanguardia sociale, e questo sentimento inseriva dinamicità, eroismo perfino nella sua vita quotidiana. Il democristiano poteva sentirsi al contrario custode della democrazia, della sacralità della religione, della famiglia e dei valori tradizionali, ed anche questo, nonostante la disperata mediocrità di tanti politici democristiani, gli conferiva una qualche patina eroica. Perfino l'elettore di Forza Italia guadagnava qualcosa, in termini di immagine di sé. Poteva sentirsi membro, se non altro per simpatia e affinità, di una classe rampante, di successo, dell'avanguardia economica del paese. E' questa dinamica che ha portato tanti operai a votare per Berlusconi.Oggi l'italiano medio (che, lo dicono gli studi, cognitivamente è spesso regredito alla condizione di analfabeta funzionale) votando il nuovo[…]

Essere rizomi

Green Book di Peter Parrelly è un film gradevole, ma poco più; certo non passerà alla storia del cinema. C'è una scena, però, che resta. Il film racconta (e romanza) la storia vera di un musicista nero, Don Shirley, che nell'America degli anni Sessanta decide di fare una tournée negli stati del sud. Per farlo ha bisogno di un autista che sia anche in grado di occuparsi della sua incolumità fisica, e lo trova in Tony Vallelonga, un buttafuori italiano non proprio onestissimo e un po' razzista. C'è questa scena, dunque, in cui l'autista italiano rivendica il suo essere nero, più nero del musicista nero. Perché lui, Tony, è un proletario, è cresciuto nel Bronx, vive la vita difficile di chi è escluso, mentre l'altro sì, è nero, ma è ricco, abita una casa lussuosa, ha una vita di successo. Shirley allora scende dalla macchina, offeso. E poi si sfoga. No, la sua condizione non è quella di un privilegiato. E' un nero che non è amato dai neri, perché privilegiato; è un pianista classico che non può suonare musica classica, perché non gli è consentito (è musica da bianchi), ed è costretto a fare la musica che piace ai bianchi per sentirsi colti; ed è omosessuale. La sua condizione è quella di chi non è più e non è ancora, per usare un'espressione del filosofo iraniano Dariush Shayegan. Non è più nero e non è ancora bianco. Abita uno spazio intermedio, ed è un abitare difficile.Confesso che la scena mi ha colpito per la mia condizione di fuoriuscito, che è comune a tanti. Il non più-non ancora è la mia situazione quotidiana: non più pugliese, non ancora toscano. Se parlo di Foggia, mi si dice che non ne ho più il diritto, perché me ne sono andato; e se parlo (se parlo in modo critico) di Siena - la città in cui ora vivo - spesso capita che qualcuno mi dica che posso tornarmene a Foggia. Il non più-non ancora è una condizione che dovrebbe condannare all'afasia: si perde il diritto di parlare, per manifesta non appartenenza. Si cita spesso una frase di Simone Weil: "Chi è sradicato sradica". Si trova ne L'enracinement, un libro che, come capita spesso in Simone Weil, è pieno di cose sublimi miste a semplici idiozie. Questo discorso sullo sradicamento, peraltro, è uno degli argomenti del suo antisemitismo: perché gli ebrei, il popolo della diaspora, sono nella sua analisi - semplicemente delirante - "un manipolo di sradicati" che hanno "causato lo sradicamento in tutto il globo terrestre". Di fronte a queste uscite, che sono tra i momenti più oscuri della filosofia europea del Novecento, vien da fare l'elogio dello sradicamento: dell'essere liberi, autonomi, creativi, in grado di costruire la propria identità e il proprio destino abbandonando gli ormeggi e inoltrandosi in mare aperto. Ma sarebbe retorica o poco più.Mi viene in mente piuttosto l'immagine del rizoma, che Gilles Deleuze contrapponeva al modello gerarchico dell'albero. La radice affonda nella terra, verticalmente; salda, fissa, immobilizza. Il[…]