Una città che non sa sognare i propri figli

“Ciascuno cresce solo se sognato”. E’ il bellissimo verso conclusivo di una poesia di Danilo Dolci, che compendia con straordinaria efficacia tutto il suo impegno educativo e sociale. E che vale, da solo, più di qualche tomo di pedagogia, una disciplina che oscilla tra un vacuo moralismo e una non meno vacua ricerca del nuovo. Vuol dire, quel verso, che non puoi educare nessuno se non hai la capacità di interpretare le sue possibilità; se non sai vedere nel ragazzino rozzo e violento di oggi la persona onesta, buona, pacifica che potrà essere domani. Diseducare è invece prendere il dato attuale e considerarlo definitivo.
La figura di Dolci sta uscendo da qualche anno dall’oblio nel quale era precipitata dopo la sua morte, nel 1997, e quel verso è oggi perfino un po’ abusato. Ma non è un male. Basterebbe, da solo, ad avviare una discussione pubblica sull’educazione. Non è forse vero che educare significa sognare quello che saranno i nostri figli? E siamo davvero capaci di farlo? Sappiamo sognare le nuove generazioni?

Negli ultimi giorni – mentre le forze dell’ordine arrestavano alcuni pericolosi, e giovanissimi, rappresentanti della innominata mafia locale – il principale tema di discussione a Foggia è stato quello di alcune ragazzine, anzi bambine, che terrorizzavano i passanti in centro, con aggressioni gratuite. Sono diventate, queste bambine di cui non era difficile indovinare il profilo sociale, il primo problema della città. E sui social la città ha riservato loro quella ferocia che in genere riserva agli extracomunitari. Riporto qualche commento; mi piacerebbe, perché qualcuno dovrebbe cominciare ad assumersi la responsabilità sociale delle sue azioni, riportare anche i nomi, ma mi limiterà al genere. “Linciatele” (donna), “Bruciatele vive” (uomo), “Pestatele a ste bestie” (donna), “Ste puttanelle… andrebbero massacrate di sberle” (uomo), ” A queste zoccole prima ai genitori è [sic] poi a loro un bel paliatone se denunciano ancora paliatone è [sic] poi portarle su un’isola a pane e acqua” (uomo), “Linciare no e il minimo una volta prese si portano al centro della piazza via lanza e subiscono cio [sic] che loro facevano alle loro vittime, cosi la prossima volta ci pensano di nn ronpere [sic] il cazzo alle persone ste cesse” (uomo; una donna dice di concordare: sul suo profilo c’è una foto in cui sventola una bandiera della pace); “saranno future bestie, figlie di bestie” (donna). Eccetera.
Ho detto che questa è la ferocia che in genere si riserva agli extracomunitari. Non mi sorprende. Nei commenti è chiara la percezione della provenienza sociale delle bambine. E il nuovo razzismo, per me, non è altro che questo: odio verso chi vive situazioni di esclusione sociale. Un odio che è performativo: crea a sua volta maggiore esclusione sociale, in una spirale tragica.
Una verità elementare è che non siamo noi a decidere quello che siamo. Non, certamente, a dieci o dodici anni. Siamo il risultato di un contesto. La famiglia, certo; ma anche la città. Un bambino che a dodici anni conosce solo la violenza è il risultato di una città in cui molte cose non vanno. Una città in cui la ricchezza è distribuita in modo diseguale, tanto per cominciare. In cui alcuni sono ricchi, moltissimi sono poveri, alcuni sono poverissimi. E’ un problema che riguarda tutti i paesi occidentali (negli ultimi decenni la disuguaglianza è aumentata a causa delle politiche neoliberiste), e colpisce città come Foggia più di altre. La povertà genera disagio, ignoranza, abbandono, che a sua volta genera altra povertà, anzi miseria. A spezzare questa spirale dovrebbe pensare la politica. Ma avere masse di disperati da manipolare, il cui voto costa un pacco di pasta o poco più, fa comodo. E allora lasciamo stare le cose così. 
Dolci chiamava un sistema simile clientelare-mafioso. Un sistema che trasuda rabbia e violenza, in cui il sogno di molti – espresso in pubblico, senza pudore, sapendo di trovare consenso – è poter linciare o dar fuoco a qualcuno. Purché sia debole. Un migrante o una bambina di dodici anni, poco importa. 
Articolo pubblicato su l’Attacco, 12 febbraio 2019.

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