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La libertà di culto non vale per i satanisti?
Qualche giorno fa, a margine della risibile polemicuccia italiota riguardo le presunte invocazioni a Satana al festival di Sanremo, con immancabile presa di posizione del ministro dell'Interno, mi son chiesto sul mio profilo Facebook: "Ma esattamente perché le sette sataniche dovrebbero essere un problema? Non è grave che un ministro attacchi pubblicamente gli appartenenti ad una credenza religiosa? Che sarebbe successo se avesse detto che i protestanti, gli ebrei o i neocatecumenali sono un problema da combattere? Perché in questo paese non è possibile essere satanisti?".Il mio post ha inquietato assai alcuni bravi senesi, che improvvisandosi piccoli inquisitori di provincia hanno gridato allo scandalo per le mie parole di gravità inaudita, incompatibili con il mio ruolo di docente nel liceo cittadino. Quelle parole, dicono, dimostrano che il sottoscritto non può avere "le qualità morali richieste per un ruolo delicato come il suo quale quello di formare le giovani menti". Per questi Torquemada in sedicesimo io avrei violato l'articolo 415 del Codice Penale: "Altrimenti, quando un domani troveremo tombe sfregiate, cadaveri vilipesi, animali trucidati per le strade, non vi lamentate".Non è naturalmente il caso di difendersi da questa accuse deliranti. Ci sarebbe da scrivere qualcosa su un certo ambiente provinciale che si scandalizza ogni tre per due, per il quale tutto ciò che esce dalla sacra triade Dio-Patria-Famiglia è eresia e fa sudare le mani e tremare le gambe, ma magari un'altra volta. Voglio scrivere due o tre cose sulla faccenda del satanismo e della libertà religiosa, che davvero mi sta a cuore.Dunque: non hanno i satanisti diritto di seguire le loro credenze? Non è il satanismo un credo come un altro? La libertà di culto deve trovare un limite preciso nel solo satanismo?Vediamo intanto la Costituzione. L'articolo 19 dice che "Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume". Ora, il concetto di "buon costume", che qui costituisce unica possibile restrizione dell'altrimenti illimitata libertà religiosa, è estremamente controverso. Lo era molto meno quando la Costituzione è stata scritta, e nel Paese c'era un sentire comune, un modo di vita condiviso, un sistema pacifico di costumi e di usanze. Come pensare una cosa come il "buon costume" in una società complessa, nella quale si sono moltiplicati i culti religiosi, le credenze, le usanze, le scelte di vita? Dove esiste il criterio condiviso, unanime per stabilire quale costume è buono e quale no? Una lettura restrittiva dell'articolo riconduce il buon costume alla sola sfera sessuale, per cui bisognerebbe vietare tutti quei culti che prevedano pratiche sessuali promiscue e contrarie al comune senso del pudore. Ma, se è comprensibile che si vietino ipotetiche pratiche religiose a carattere sessuale in pubblico, cosa dire di pratiche private? Si può impedire ad adulti consenzienti di praticare sesso in privato attribuendogli un significato religioso? Se lo facessimo, saremmo ai tempi di Suor Giulia di Marco. Era il[…]