Le liturgie di Marina Abramovic

Qualche nota sparsa sulla mostra di Marina Abramovic “The Cleaner” (Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 20 gennaio 2019).

Due sono gli elementi centrali della sua arte: il gesto e la partecipazione del pubblico. L’insieme delle due cose è, etimologicamente, liturgia: che è appunto l’azione, il gesto, l’opera per il popolo. Non è un caso, mi pare, che Abramovic sia discendente di un santo della Chiesa ortodossa. Ciò verso cui tende è il gesto sacro, archetipico ed evocativo al tempo stesso; il gesto che richiama il passato, il sempre stato, ed apre il futuro, il non ancora. Con il rischio di scadere nel moralistico, come osservava una donna straniera che seduta accanto a me seguita il video di presentazione prima della mostra.

Come l’arte iconica, così l’arte liturgica di Abramovic attraversa le fasi del barocco, del realismo, dell’espressionismo, dell’arte di denuncia. Definirei barocche performances come “Imponderabilia” o “Luminosity”, nelle quali Abramovic cerca soprattutto il non comune, quell’insolito che, in una società nella quale la nudità dà ancora brividi, ha inevitabilmente la sfumatura dello scandaloso; espressionistica – psicanaliticamente espressionista – “The Freeing Series”; realismo (postmoderno) è quello di “The House with the Ocean View”, in cui l’artista vive per dodici giorni in una struttura sospesa, sotto gli occhi dei visitatori; arte di denuncia è quella di “Cleaning the Mirror” e di “Balkan Baroque”: due performances che hanno a che fare con la guerra, e con le ossa. Usciti dalla mostra, sono queste le immagini che restano dentro. L’immagine di un essere umano che cerca di lavare via lo sporco da uno scheletro, che è al tempo stesso protesta contro la guerra ed evocazione di un tempo in cui la morte e la vita non erano separati da una barriera invalicabile.
Abramovic ha studiato meditazione vipassana. Lo si nota in “Counting the Rice”, che mette i visitatori a dividere e contare chicchi di riso e lenticchie, vale a dire a compiere gesti minuti, attenti, apparentemente improduttivi. Liturgici.
Uscendo capita di pensare che sì, Abramovic ha compreso qualcosa di importante: che, morto Dio, morta la religione, abbiamo ancora bisogno di una liturgia, di gesti essenziali, esatti, che ci mettano in contatto con la vita e con la morte. E che la ricerca di questi gesti appartiene all’arte. A patto che non diventi anch’essa religione – sia pure la religione del mercato.

Nella foto: “Cleaning the Mirror”. Foto mia.

Lettera aperta a un leghista foggiano

Gentile Joseph Splendido,

fino a qualche giorno fa ignoravo la sua esistenza; ieri l’altro mi sono imbattuto per caso nel suo profilo Facebook. C’era un video dell’incendio che qualche giorno fa ha colpito il ghetto di Borgo Mezzanone, uno dei luoghi in cui una concezione feudale dei rapporti di lavoro – Fabrizio Gatti parlava semplicemente di schiavitù – costringe a vivere i lavoratori africani delle campagne della Capitanata. Baracche di lamiera e legno che spesso vanno a fuoco, come è successo lo scorso anno al Gran Ghetto di Rignano, dove sono morti tra le fiamme due braccianti del Mali, mentre ad agosto dodici braccianti hanno perso la vita mentre tornavano dal lavoro in uno dei tanti furgoni privi dei requisiti minimi di sicurezza con i quali il caporalato gestisce gli spostamenti dei lavoratori-schiavi. L’incendio dell’altro giorno ha fatto diversi feriti, alcuni gravi. Sul suo profilo lei ha commentato così: “La nostra Puglia continua a subire l’onta dell’illegalità e dell’immigrazione clandestina”. Ha ragione. E’ motivo di vergogna che esistano clandestini, e che siano costretti a vivere in baracche che vanno a fuoco. Ho qualche dubbio però sul fatto che si tratti di qualcosa che la Puglia subisce. Ma vorrei parlarle di un’altra cosa. Continue reading “Lettera aperta a un leghista foggiano”