Poesia della natura offesa

Seduto su un colle, il poeta si abbandona a considerazioni sull'infinito contemplando una siepe, oppure interroga la luna, che si staglia in un cielo intatto. Ma che accade se, dando uno sguardo alla siepe, vi trova impigliato un sacchetto di plastica, oppure al di là di essa scorge una discarica? Che accade se il suo solitario colloquio con la luna è disturbato dal passaggio di un volo di linea? Non ha che due possibilità. Può fingere di non vedere, rattristandosi magari per la sfortuna di essere nato in tempi in cui la pura contemplazione della natura e del paesaggio è contrastata da elementi cosi prosaici e antiestetici, oppure può fare poesia della siepe e del sacchetto di plastica, della luna e dell'aereo. E questo realismo poetico - perché dire il reale oggi significa dire la discarica non meno del bosco - può prendere provocatoriamente la direzione della ricerca di una nuova bellezza, che nasca dall'incontro della siepe con il sacchetto di plastica (si pensi alla scena del sacchetto di plastica, appunto, nel film American Beauty di Sam Mendes) oppure farsi strumento di denuncia e di cambiamento.E' quest'ultima la via della ecopoesia, nata sul finire del secolo scorso nel mondo anglosassone. Naturalmente non sono mancati, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, poeti in grado di interpretare la crisi ecologica: si pensi a Gary Snyder oppure all'ultimo Danilo Dolci e, in tempi più recenti, all'impegno di Marcia Theophilo per la difesa dell'Amazzonia, ma si è trattato della sensibilità di singoli, mentre l'ecopoesia intende essere un movimento poetico-politico-pedagogico con un suo preciso programma. Nel Manifesto dell'ecopoesia italiana, scritto nel 2005 dalla biologa Maria Ivana Trevisani Bach, l'ecopoeta appare come colui che "testimonia i diritti di quei viventi che non hanno diritti". Si tratta naturalmente di qualcosa di più di una testimonianza: il passaggio dal non avere diritti all'averne avviene grazie al cambiamento nella sensibilità pubblica, ed è un cambiamento nel quale l'arte - la poesia, ma anche la pittura, la fotografia e il cinema - può avere un ruolo decisivo. Mentre la filosofia morale si sfinisce in discussioni teoriche - come dimostrare il valore di una vita animale? - la fotografia di un animale sottoposto a vivisezione può suscitare quel disgusto da cui parte il cambiamento. E lo stesso può dirsi per la poesia. Non è un caso che in passato, quando i mezzi tecnologici non consentivano di riprodurre la sofferenza animale, si ricorresse alla poesia ed all'arte come completamento della riflessione filosofica. Ne è un esempio The Cry of Nature di John Oswald, piccolo classico dell'etica del non umano  scritto da un pensatore vicino a Thomas Paine morto in Francia combattendo per gli ideali rivoluzionari, che nei momenti decisivi del suo discorso ricorre alla voce dei poeti - in particolare Le Stagioni di James Thomson - per suscitare emozione, oltre la riflessione.C'è il rischio di intellettualismo, di fare della poesia a tema (qualcuno direbbe: ideologica), ma rettamente intesa l'ecopoesia non fa nulla di diverso dalla poesia tout court: fa attenzione. Fa[…]

La caccia è un pericolo per tutti

Non sapevo che fosse cominciata la stagione della caccia. Me lo hanno annunciato, questa mattina alle sette, le fucilate intorno a casa. Abito in una delle ultime case di un borgo sui colli senesi, in una via che si inoltra nella campagna, che la gente del luogo chiama "strada dei caprioli": non è infrequente che un capriolo ti attraversi la strada. Quando vi portavo la mia cagna bisognava fare attenzione, perché l'istinto la portava ad inseguirli ed a perdersi con loro nei campi. La mia cagna, che non c'è più da quasi un anno, era una meticcia che aveva molto del segugio. Era stata abbandonata da un cacciatore perché poco abile. Il giorno prima che morisse le abbiamo fatto dei raggi: aveva - chissà da quanto - dei pallini nella gola, residuo di una fucilata.Nel pomeriggio c'è stato un acquazzone, ora è tornato il sole. E sono tornate le fucilate.Mentre loro sparano, io rifletto un po'. Lascio da parte ogni considerazione sugli animali. Credo che gli animali abbiano diritto alla vita, e che ucciderli per divertimento sia un atroce insulto alla vita, ma non è di questo che voglio parlare ora. Mi interrogo sul rischio che la caccia rappresenta per le persone e sulle contraddizioni singolari di questo paese. Non è difficile trovare dati sulla pericolosità della caccia. L'ultima stagione venatoria ha fatto 84 feriti e 30 morti. Dei morti, dieci erano persone estranee alla caccia. Dieci persone che hanno perso la vita perché altre persone volevano divertirsi andando in giro a sparare. Tra i morti c'è anche un minore. Ed è il dato sui minori il più agghiacciante: tra il 2007 e il 20015 sono stati uccisi dai cacciatori undici minori. Undici. Undici vite di bambini e adolescenti stroncate.Dicevo delle contraddizioni. Viviamo in un paese ossessionato dalla sicurezza. Un paese in cui, nonostante tutti i dati dicano che da molto tempo ormai i reati più gravi, a partire dagli omicidi, sono in calo verticale, la gente ha una paura terribile. Una paura che esige poliziotti di quartiere, videocamere, uno spazio pubblico sempre più blindato, fogli di via sempre più facili per chiunque sia percepito come un pericolo, con il rischio sempre maggiore di violazioni. Una paura su cui si costruisce il successo politico. Ma come si spiega che gli stessi politici che alimentano l'ossessione per la sicurezza siano favorevoli alla caccia? Poco più di un mese fa Salvini ha difeso a spada tratta i cacciatori: "Giù le mani dalle nostre tradizioni, dalla nostra storia dalla nostra cultura. Se non ci fossero nei nostri boschi coloro che i nostri animali li amano e li curano sarebbero problemi per tutti". E' un esempio particolarmente efficace di quella offesa aperta, sfacciata alla verità che è propria del linguaggio dei regimi totalitari: chi insegue, stana ed uccide degli animali diventa uno che gli animali li ama e li cura. Ma, ripeto, qui non voglio parlare di animali. Mi interessano le vittime umane. Mi interessano le decine di bambini e ragazzi uccisi dai cacciatori.[…]

Cosa dovrebbe dire un ministro dell’istruzione (e cosa non dirà)

Credevamo che, per qualche accordo interno al governo, il ministro dell'Istruzione Marco Bussetti avesse delegato (non diversamente dal premier Conte) le sue funzioni al ministro dell'Interno, dal quale sono venute, negli ultimi tempi, precise e preziose indicazioni pedagogiche, che vanno dal prendere a sberle i ragazzi al mandarli in caserma per farsi educare dai soldati. Ci sbagliavamo, perché Bussetti qualche idea l'ha. E la comunica al Corriere della Sera. Ecco: "Dobbiamo cambiare impostazione della didattica; usare le nuove tecnologie, insegnare a relazionarsi con i social media, valorizzare il public speaking e il debate, puntare sulle materie Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). Il tablet sarà il nuovo quaderno tra pochi anni, possiamo usare meglio investimenti fatti."Prima di diventare ministro Bussetti è stato insegnante, e questo è un buon segno, perché con l'aria che tira rischiavamo di trovarci come ministro un generale, ma viene da chiedersi in quale scuola abbia insegnato. Perché un discorso sulle nuove tecnologie forse poteva essere una proposta sensata cinque anni fa: oggi dà l'impressione di una assoluta cecità alla realtà scolastica. Sulle nuove tecnologia c'è stato sui docenti un martellamento prossimo all'indottrinamento, in particolare nell'era renziana, che qualche effetto l'ha ottenuto. LIM, tablet, cellulari, piattaforme di social classroom sono strumenti quotidiani del nostro lavoro. Ci hanno detto che questo avrebbe cambiato radicalmente la scuola. Oggi sappiamo che non è vero, o è vero solo in parte. Non c'è nessuna reale rottura, nessun cambiamento strutturale, nessun miglioramento negli apprendimenti. Non è quella tecnologica, la rivoluzione che la scuola attende.C'è un grave errore di valutazione nel ritenere che sia rivoluzionario togliere il quaderno e dare un tablet a studenti che già si relazionano con lo schermo per il resto della loro giornata. E', se non altro, una diminuzione di esperienza, una riduzione sensoriale, e la scuola dovrebbe moltiplicare le esperienze, non ridurle. Lo dico senza alcun astio anti-tecnologico. Con il computer, il tablet e il cellulare si possono fare in classe molte cose interessanti. Perfino divertenti. Quando invito gli studenti a una partita su Kahoot!, è difficile farli smettere. E spesso vengono a protestare dalla classe vicina, perché il loro divertimento è rumoroso. Ma ci sono altri momenti in cui stiamo bene in classe. Sono le ore che passiamo a discutere seduti in cerchio. Uno fa una domanda, gli altri riflettono e poi provano a rispondere. Poi intervengono gli altri, le idee si raffinano, si intreccia il dialogo. Si giunge a una conclusione o si constata la divergenza. Si rimanda ad una discussione successiva: il dialogo continua. Non sono momenti divertenti, a volte ci può essere anche tensione. Ma sono momenti intensi. Momenti in cui il sapere si fa riflessione, decisione, confronto. E in cui si impara una cosa essenziale per la nostra democrazia: riconoscere l'altro, saper stare in una situazione dialogica. Una cosa che ha poco a che fare con la tecnologia, pochissimo con gli investimenti: basta mettersi in cerchio e parlare. Una rivoluzione dialogica della scuola a costo zero.Non manca, Bussetti, di richiamare due metodologie che[…]