La crisi culturale della scuola italiana

La qualità di un sistema scolastico è data da quattro cose: qualità della cultura, qualità delle relazioni umane, qualità dell'apertura alla società, qualità strutturale. Un sistema scolastico che funziona è un sistema nel quale la cultura è viva, piena di senso, tale da appassionare, le relazioni umane sono reciprocamente arricchenti e prive di violenza e di ipocrisia, le scuole non sono chiuse in sé ma partecipano alla vita sociale, alla quale offrono un loro contributo, e le strutture sono tali da rispecchiare l'importanza del lavoro che si svolge in esse. In questo articolo vorrei soffermarmi sul primo punto: la qualità della cultura nella scuola italiana. Ritengo che una delle ragioni della crisi della scuola italiana vada cercata nella crisi culturale, nel fatto cioè che a scuola non si fa - non si fa più o non si è mai fatta: se ne potrebbe discutere - cultura autentica. I docenti italiani si autorappresentano come coloro che formano le nuove generazioni al pensiero critico. Non c'è molto di vero in questa autorappresentazione. Per la sua stessa struttura, perfino per il setting delle aule, la scuola favorisce più il pensiero convergente ed il conformismo che il pensiero critico. Lo studente a scuola per lo più impara, spesso a memoria, le cose dette a lezione dal docente, che a loro volta rispecchiano quanto è scritto nel manuale, e lo ripete durante l'interrogazione. E' lo schema dominante, ed è uno schema che ha poco a che fare con una vera formazione intellettuale. Lo schema è talmente consolidato, che molti docenti si chiedono sinceramente cos'altro si potrebbe fare. Fare scuola è fare lezione. Il docente parla, gli studenti ascoltano ed assimilano. Poi ripetono. Soffermiamoci ancora un attimo sulla figura del docente. Che si autorappresenti come formatore di coscienze critiche, mentre lavora in una istituzione conformistica, è cosa comprensibile. Il suo prestigio sociale ha subito un calo verticale negli anni, lo stipendio lascia a desiderare, spesso la sua stessa situazione lavorativa è precaria: a più di quarant'anni insegue ancora una supplenza, ed è spaventato da ogni annunciata riforma scolastica (ed ogni governo ne annuncia una). E' comprensibile che rivendichi il suo fondamentale ruolo sociale. La sua frustrazione aumenterebbe, se si soffermasse a considerare il modo in cui è stato selezionato. Ad un docente in Italia non si chiede se non di saper insegnare la sua disciplina; che sappia anche far ricerca nel suo campo disciplinare è superfluo. In altri termini, il docente è uno che non produce cultura, ma la trasmette. Se scrivesse un libro, quel libro non avrebbe alcun peso sul suo curriculum; e la stessa cosa varrebbe se ne scrivesse dieci. Si giunge a questo curioso paradosso: un docente di scuola secondaria che superasse l'abilitazione per l'insegnamento universitario sarebbe adatto, appunto, ad insegnare all'università, ma questo non gli darebbe comunque alcun vantaggio nella scuola secondaria: non sarebbe titolo preferenziale, ad esempio, se volesse ottenere un passaggio di cattedra sulla disciplina per la quale è abilitato all'insegnamento universitario. Lo Stato stabilisce che puoi insegnare filosofia all'università, ma questo[…]

Tolstoj, Kierkegaard e il crocifisso nelle aule dello Stato

In un paese che è stato governato per quasi cinquant’anni da un partito legato alla Chiesa – e governato male: con la corruzione, le stragi, la collusione con la mafia – non sorprende che dei docenti finiscano nei guai per aver staccato il crocifisso dalle pareti dell’aula. Succede a Trieste, dove Davide Zotti, docente di filosofia al Liceo “Carducci”, ha rimosso il crocifisso perché offeso da alcune dichiarazioni del cardinale Ruini sugli omosessuali. E succede a Terni, dove Franco Coppoli, docente di italiano e storia presso un Istitito tecnico, ha staccato il crocifisso dalla sua aula per rivendicare la laicità ed inclusività della scuola. Il primo ha subito il provvedimento disciplinare della censura, il secondo è stato sospeso dall’insegnamento per un mese. Le ragioni laiche per le quali il crocifisso non dovrebbe trovarsi in un’aula scolastica sono ben note e ben solide: perché il crocifisso è un simbolo religioso, ed un’aula non è un luogo in cui si facciano pratiche religiose, ma un ambiente di studio; perché il crocifisso è il simbolo di una religione, anzi di una sola confessione religiosa; perché la presenza del simbolo di una confessione religiosa è simbolo di chiusura verso chiunque sia di altra religione, o di nessuna religione. Ragioni ben solide che tuttavia sono destinate a restare inascoltate, poiché non hanno dalla loro la forza della maggioranza: ed è noto che, nella storia e nella vita civile, il prevalere di una ragione sull’altra è legato più alla forza della maggioranza che alla sua solidità. Un corollario di questa tesi è che, poiché la maggioranza, in Italia più che altrove, è spesso stupida, le buone ragioni sono per lo più ragioni sconfitte. Vorrei provare a spendere qualche parola per spiegare per quale ragione la presenza del crocifisso, oltre che offendere la laicità, offende la religione stessa. Lo farò ricorrendo a due pensatori tra i più religiosamente profondi dell’Ottocento: Lev Tolstoj e Soren Kierkegaard. Come molti sapranno, Tolstoj non è stato solo lo straordinario scrittore di Guerra e pace e Anna Karenina, ma anche l’appassionato ricercatore di una nuova etica e di una nuova religione, fondate sul principio della non resistenza al male e su una interpretazione radicale del Vangelo. In realtà non è così scontato che lo sappiano in molti, se si considera che il capolavoro del Tolstoj pensatore, Il Regno di Dio è in voi, è stato tradotto in italiano una sola volta nel 1894, ed ha poi avuto rare riedizioni di scarsa diffusione. Il suo pensiero, che gli valse la scomunica della Chiesa ortodossa, è tanto semplice quanto rivoluzionario. L’insegnamento del Vangelo è tutto concentrato nel Sermone della Montagna: la legge dell’amore, che afferma l’eguaglianza e la fratellanza di tutti gli esseri umani. Seguire questa legge, seguirla in modo non ipocrita né retorico, vuol dire cambiare radicalmente la propria vita e lottare per una società diversa: perché “il nostro ordinamento sociale è fondato, non come vorrebbero darlo ad intendere uomini interessati all’attuale ordine di cose, su basi giuridiche, ma sulla violenza più grossolana, sull’assassinio e[…]

Soggetti pericolosi

Stai passeggiando per una città d’arte, quando vieni avvicinato dalla polizia. Vogliono sapere che ci fai da quelle parti. Domanda strana: quella città, proprio perché è una città d’arte, è piena di gente che viene da ogni parte del mondo; e proprio a te vengono a chiedere che ci fai? Alla domanda, dunque, rispondi con un volto incredulo: e non è la risposta che a polizia si aspettava. E allora ti portano in Questura. Detto così, sembra l’inizio di un racconto kafkiano. Tutto acquista un senso, evidentemente, se si specifica che le protagoniste di questa vicenda sono di etnia Rom. Due ragazze Rom di di 21 e 26 anni, informa la polizia di Siena, sono state fermate nei pressi della Fortezza Medicea e, poiché “non hanno saputo giustificare la loro presenza nella nostra città”, sono state accompagnate in Questura. Evidentemente questa cosa di non saper giustificare la propria presenza da qualche parte dev’essere grave. Può essere che i poliziotti si siano offesi, perché le due ragazze non si sono lasciate andare ad elogi della città di Santa Caterina, delle sue bellezze e del cuore grande che ti apre, come assicura la scritta su porta Camollia. Alla ricerca d’una risposta, si sono messi a rovistare nell’automobile delle due ragazze, nella quale hanno trovato qualcosa di terribile: dei cacciavite. I quali, notoriamente, non sono aggeggi che servono per stringere le viti, e che come altri aggeggi di ferramenta possono tornare utili quando si è alla guida di un’automobile, ma attrezzi da scasso. Dal controllo emerge anche che l’automobile ha l’assicurazione scaduta. Brutta cosa, per la quale l’automobile è stata sequestrata e la proprietaria multata. Provvedimento doveroso e giusto. Ma come si giustifica l’ulteriore denuncia e il provvedimento di allontanamento da Siena per tre anni? “A seguito degli accertamenti svolti dalla Polizia Anticrimine della Questura, sono state infatti, ritenute persone pericolose per la sicurezza pubblica, anche perché entrambe non avevano alcun legame con il territorio, né svolgevano attività lavorativa nella nostra città”, si legge nel comunicato della Questura. Ragioniamo. Queste due ragazze sono state allontanate perché ritenute pericolose dal momento che “non avevano alcun legame con il territorio“. E allora? Hanno qualche legame con il territorio le decine e decine di giapponesi, tedeschi, inglesi che ogni giorno invadono le strade e le piazze di Siena? Per visitare una città, occorre avere un legame con quella città, oppure lavorarci? Può essere che ci siamo distratti: chi e quando ha stabilito che la libertà di circolazione può essere limitata dalla polizia se manca il “legame con il territorio”? Da chi e quando è stato stabilito che ci si può spostare solo verso luoghi con i quali abbiamo legami? Quando abbiamo perso la libertà di andare dove ci pare? Le due ragazze, definite senz’altro “ladre” nel comunicato della Questura, erano “probabilmente intenzionate a commettere furti in abitazione”. Che novità è questa, di punire qualcuno in base alle sue intenzioni? O meglio: in base a quelle che la polizia ritiene essere le sue intenzioni? Non per quello che ha[…]

Pedagogias da libertaçao

E' uscita presso l'editore Quartet di Rio de Janeiro l'edizione brasiliana di Pedagogie della liberazione, libro che ho scritto a quattro mani con Paolo Vittoria, docente di Filosofia dell'educazione all'Università di Rio de Janeiro. Nel libro io e Paolo ragioniamo di educazione e liberazione facendo interagire il pensiero e la prassi educativa di Freire, Boal, Capitini e Dolci. Un lavoro di pedagogia politica ed interculturale che mi ha arricchito molto, e che spero possa servire, ora, a far conoscere meglio in Brasile i nostri Aldo Capitini e Danilo Dolci. Sono particolarmente grato a William Soares dos Santos, per essersi sobbarcato la fatica della traduzione e per la bella introduzione all'edizione brasiliana del libro (che si aggiunge a quella dell'edizione italiana, di Peter Mayo).