Georges Etiévant, Dichiarazioni

Etiévant in una stampa popolare

Un vero duro, Georges Etiévant. Il 16 gennaio del 1898 aggredisce con ventidue coltellate un poliziotto, altre sedici le riserva ad un collega che corre a soccorrerlo. Lo portano al posto di polizia, ma si dimenticano di perquisirlo: c’è ancora tempo per un colpo di pistola al secondo agente. Ha trentatré anni. Lo condannano a morte, con pena commutata nei lavori forzati a vita. Gli è andata bene. O male, dipende dai punti di vista. Morirà non troppo tempo dopo.
Un vero filosofo, Georges Etiévant. Qualche anno prima, nel 1892, aveva rubato della dinamite che serviva al più famoso Ravachol. Al tribunale che lo processa presenta una dichiarazione difensiva che è, in realtà, una durissima accusa. Questo giovane tipografo la sa lunga: contesta il diritto stesso di giudicare. Il diritto, si sa, ha una sua rozzezza; per funzionare ha bisogno di categorie che all’occhio del filosofo appaiono fragili, evanescenti. Perché un contratto sia valido, occorre che vi siano dei soggetti, e che questi soggetti restino uguali a sé stessi nel tempo. Perché mai, altrimenti, dovrebbe obbligarmi un contratto, se a firmarlo è stato uno che non sono io – e cioè: un io che non è il mio io attuale? Il diritto ha bisogno del soggetto; ma la filosofia sa che il soggetto è finzione. Il diritto ha bisogno, per giudicare, della responsabilità e della libertà. Anch’esse finzioni. L’imputato Etiévant ha le sue ragioni: quel che facciamo non è che il risultato di ciò che abbiamo percepito e delle reazioni che queste percezioni hanno suscitato in noi. Ho ucciso. Perché? E’ sorto in me un odio, che ha le sue cause. Certo, avrei potuto resistere a quell’odio. L’avrei fatto senz’altro, se avessi avuto in me una forza capace di resistere; se non l’ho fatto, evidentemente quella forza non l’avevo: e di ciò che non ho, non posso essere responsabile. Ecco dunque l’assurdo di ogni tribunale. Per giudicare un uomo, accusa Etiévant, bisognerebbe conoscere alla perfezione le percezioni che hanno agito su di lui e le reazioni che esse hanno suscitato; bisognerebbe, in altri termini, essere quell’uomo. Nessuno può giudicare un altro. Aggiungerei che nemmeno noi stessi siamo in grado di giudicarci, perché il nostro essere ci accade come, fuori di noi, accade la pioggia o il vento.
E’ un uomo contro tutti, Etiévant. Nella seconda parte della sua dichiarazione rivendica il suo diritto di ribellarsi. Con la nascita, acquisiamo il diritto di vivere e di essere felici. Abbiamo polmoni per respirare, occhi per vedere, gambe per camminare. Ma, ecco: nasciamo in un mondo che non ci appartiene. Facciamo due passi, ma dobbiamo arrestarci perché c’è un confine: oltre, è proprietà di qualcuno. Il mondo è stato fatto a pezzi, e questi pezzi appartengono a qualcuno, e questo qualcuno non siamo noi. Il diritto di godere del nutrimento, dell’aria, del sole, della terra, ci viene negato. Lo stesso diritto alla vita viene calpestato. Possiamo sopravvivere solo se ci sottomettiamo ai padroni della terra, se accettiamo le loro condizioni – se accettiamo la schiavitù. Ma noi siamo nati per ben altro. Nascendo, abbiamo acquisito il diritto su tutto, ed in questo consiste la nostra dignità.
C’è ancora spazio, nella dichiarazione di Etiévant, per l’immagine di un mondo libero dallo sfruttamento, dalla proprietà, dalla stratificazione sociale. Una immagine che nella mente del giovane tipografo era circondata e sostenuta dalle certezze della scienza, e che oggi sopravvive in un’area singolare della nostra coscienza inquieta, in cui quel che resta della religione s’incontra con quel che resta della politica.

Traduco da: Georges Etiévant, Declarations, Au bureau des “Temps Nouveaux”, Paris 1898.
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Nessuna idea è innata in noi: esse ci vengono tutte con l’aiuto dei sensi, dall’ambiente in cui viviamo. Ciò è talmente vero che, se ci manca un senso, non possiamo farci alcuna idea dei fatti corrispondenti a quel senso. Ad esempio, mai un cieco dalla nascita potrà farsi una idea della diversità di colori, perché gli manca la facoltà necessaria per percepire l’irradiamento degli oggetti. Inoltre, seguendo le nostre attitudini, che abbiamo dalla nascita, possediamo, sia in un ordine di idee che nell’altro, una facoltà di assimilazione più o meno grande, che proviene dalla più o meno grande facoltà di ricettività che noi abbiamo su tale soggetto. E’ così, ad esempio, che alcuni apprendono facilmente la matematica ed altri hanno una maggiore attitudine per la linguistica. Questa facoltà d’assimilazione che è in noi può svilupparsi in una proporzione che varia all’infinito di persona in persona, a seguito della molteplicità di sensazioni analoghe percepite.
Ma, così come, se ci serviamo quasi esclusivamente delle nostre braccia, queste acquisteranno più forza, a spese di altre membra o parti del nostro corpo, e diventeranno più adatte a svolgere il loro ruolo, mentre le altre lo saranno meno; ugualmente, più la nostra facoltà di assimilazione si eserciterà in seguito ad una molteplicità di sensazioni analoghe sviluppate in un ordine di idee, più, relativamente all’insieme delle nostre facoltà, presenteremo una forza di resistenza all’assimilazione di idee che provengano da un ordine avverso. E’ così che, se siamo arrivati a credere che tale cosa o tale idea sia vera e buona, qualsiasi idea contraria ci urterà ed opporremo alla sua assimilazione una resistenza molto forte, mentre essa sembrerà ad un altro così naturale e giusta che, in buona fede, non potrà immaginarsi che qualcuno possa pensarla diversamente. Di tutti questi fatti abbiamo esempi ogni giorno, e non credo che se ne contesti seriamente l’autenticità. Posto ed ammesso questo, e poiché ogni azione è la risultante di una o più idee, diventa evidente che, per giudicare un uomo, per giungere a conoscere la responsabilità di un individuo nel compimento di un atto, bisognerebbe conoscere ciascuna delle sensazioni che hanno determinato il compimento di quell’atto ed apprezzarne l’intensità, sapere quale facoltà ricettiva o quale forza di resistenza ciascuna di esse ha potuto incontrare in lui, così come il lasso di tempo durante il quale egli è stato sotto l’influenza di ciascuna prima, di molte poi, e di tutte alla fine.
Ora, chi vi darà la facoltà di percepire e di sentire ciò che gli altri percepiscono e provano, o hanno percepito o provato? come potrete giudicare un individuo se non potete conoscere esattamente la cause determinanti delle sue azioni? E come potrete conoscere queste cause, tutte queste cause, così come la loro reciproca relatività, se non siete in grado di penetrare negli arcani della sua mentalità e identificarvi con lui, in modo tale da conoscere alla perfezione il suo io? Per farlo, bisognerebbe conoscere il suo temperamento meglio di quanto, spesso, si conosce il proprio; di più: avere un temperamento simile, sottomettersi alle stesse influenze, vivere nello stesso ambiente nello stesso lasso di tempo, unico modo per rendersi conto del numero e della forza delle influenze di questo ambiente, comparativamente alla facoltà di assimilazione che queste influenze hanno potuto incontrare in quell’individuo.
E’ dunque impossibile giudicare i nostri simili, a causa della impossibilità in cui ci troviamo di conoscere con esattezza le influenze cui essi obbediscono e la forza delle sensazioni che determinano le loro azioni, comparativamente alle loro facoltà di assimilazione o alla loro capacità di resistenza. Ma se questa impossibilità non esistesse, non non arriveremmo, al massimo, che a renderci conto esattamente del gioco delle influenze cui essi hanno obbedito, dei rapporto reciproci tra loro, della più o meno grande ricettività nel subire queste influenze, ma non potremmo da ciò conoscere la loro responsabilità nel compimento di un atto, per questa buona e magnifica ragione, che la responsabilità non esiste.
Per rendersi conto della inesistenza della responsabilità, basta considerare il gioco delle facoltà intellettuali nell’uomo. Perché la responsabilità esistesse, occorrerebbe che la volontà determinasse le sensazioni, così come esse determinano l’idea, e l’idea l’azione. Ma, al contrario, sono le sensazioni che determinano la volontà, che la fanno nascere in noi e che la dirigono. Poiché la volontà non è altro che il desiderio che abbiamo di compiere una cosa destinata a soddisfare uno dei nostri bisogni, vale a dire a procurarci una sensazione di piacere e ad allontanare da noi una sensazione di dolore, e, di conseguenza, bisogna che queste sensazioni siano o siano state percepite perché nasca in noi la volontà. E la volontà, creata dalle sensazioni, non può essere cambiata se non da nuove sensazioni, vale a dire che essa può prendere un’altra direzione, perseguire un altro scopo, solo se delle sensazioni nuove fanno nascere in noi un nuovo ordine d’idee o modificano in noi l’ordine delle idee preesistente. Ciò è stato riconosciuto da tutti i tempi, e voi stessi lo riconoscete tacitamente, poiché, in definitiva, far perorare davanti a voi il pro e il contro non è provare che sensazioni nuove, che vi giungono attraverso l’udito, possono far nascere in voi la volontà di agire in un modo o in un altro, o modificare la vostra volontà preesistente? Ma, come ho detto all’inizio, se ci siamo abituati, in seguito ad una lunga successione di idee analoghe, a considerare questa cosa o questa idea come buona e giusta, qualsiasi idea contraria ci urterà, e noi opporremo una grande forza di resistenza alla sua assimilazione.
E’ per questa ragione che le persone anziane adottano meno facilmente delle idee nuove, atteso che nel corso della loro esistenze hanno percepito una molteplicità di sensazioni provenienti dall’ambiente in cui sono vissute, e che le hanno portati a considerare come buone le idee conformi alla concezione generale di questo ambiente sul giusto e l’ingiusto. E’ ancora per questa ragione che la nozione di giusto ed ingiusto è variata senza fine nel corso dei secoli e che anche ai nostri giorni differisce stranamente in base da clima a clima, da popolo a popolo ed anche da uomo a uomo. E dal momento che queste diverse concezioni non possono essere che relativamente giuste e buone, dobbiamo concludere che una grande porzione, se non la totalità dell’umanità, sbaglia ancora a questo riguardo. E’ ciò che ci spiega ugualmente perché un argomento che comporta il convincimento dell’uno lascia l’altro indifferente.

Ma, in un modo o nell’altro, colui che l’argomento avrà impressionato non potrà fare in modo che la sua volontà non sia determinata in un senso, e colui che l’argomento avrà lasciato indifferente non potrà fare in modo che la sua volontà non resti la stessa, e di conseguenza l’uno non potrà non agire in un modo e l’altro nel modo contrario, a meno che nuove sensazioni non vengano a modificare la loro volontà.

Benché ciò abbia l’aria di un paradosso, noi non compiamo alcuna azione buona o cattiva, per quanto minima essa sia, che non siamo forzati a fare, atteso che ogni atto è il risultato della relatività che c’è tra una molteplicità di sensazioni che ci vengono dall’ambiente in cui viviamo e la più o meno grande facoltà d’assimilazione che essa può incontrare in noi. O, dal momento che non possiamo essere responsabili della più o meno grande facoltà d’assimilazione che è in noi, relativamente a un ordine di sensazioni o a un altro, né dell’esistenza o dell’inesistenza delle influenze provenienti dall’ambiente in cui viviamo e delle sensazioni che ce ne vengono, più che della loro relatività e della nostra più o meno grande facoltà di ricettività o di resistenza, non non possiamo essere responsabili del risultato di questa relatività, atteso che essa è non solo indipendente dalla nostra volontà, ma anche che essa ne è determinante. Dunque, qualsiasi giudizio è impossibile e qualsiasi ricompensa, come qualsiasi punizione, è ingiusta, per quanto minima essa sia, e per quanto grandi possano essere il bene o il male compiuti.

Non è dunque possibile giudicare gli uomini, e nemmeno le azioni, a meno di avere un criterio sufficiente. Ora, questo criterio non esiste. In ogni caso, non lo si potrà trovare nelle leggi, perché la vera giustizia è immutabile e le leggi cambiano. Per le leggi vale quello che vale per tutto il resto. Se le leggi sono buone, a che deputati e senatori per cambiarle? E, se sono cattive, a che magistrati per applicarle?
Per il fatto stesso di essere nato, ciascun essere ha il diritto di vivere e di essere felice. Questo diritto di andare, di venire liberamente nello spazio, il suolo sotto ai piedi, il cielo sulla testa, il sole negli occhi, l’aria nel petto – questo diritto primordiale, anteriore a tutti gli altri diritti, imperscrittibile e naturale – lo si contesta a milioni di esseri umani.
Questi milioni di diseredati ai quali i ricchi hanno preso la terra – la madre nutrice di tutti – non possono fare un passo a destra o a manca, mangiare o dormire, godere in una parola dei loro organi. soddisfare i loro bisogni e vivere, senza il permesso di altri uomini; la loro vita è sempre precaria, alla mercé dei capricci di coloro che sono diventati i loro padroni. Non possono andare e venire nel grande dominio umano senza incontrare ad ogni passo una barriera, senza essere fermati con queste parole: non andate in questo campo, appartiene a un tale; non andate in questo bosco, appartiene a questo qui; non cogliete questi frutti, non pescate questi pesci, sono proprietà di quello là.
E se domandano: Ma allora, noi cosa abbiamo? Niente, si risponde loro. Voi non avete niente – e per mezzo della religione e delle leggi si plasma il loro cervello affinché accettino senza mormorare questa evidente ingiustizia.
Le radici delle piante assimilano il succo della terra, ma il prodotto non è per voi, si dice loro. La pioggia vi bagna come gli altri, ma non è per voi che essa fa crescere i raccolti, ed il sole splende per dorare le messi e maturale i frutti di cui non godrete.
La terra gira intorno al sole e presenta alternativamente ciascuna delle sue facce all’influenza vivificante di quell’astro, ma questo grande movimento non si fa a profitto di tutte le creature, perché la terra appartiene agli uni e non agli altri, degli uomini l’hanno comprata con il loro oro ed il loro argento. Ma non quali sotterfugi, dal momento che l’oro e l’argento sono contenuti nella terra con questi metalli?
Come può essere che una parte possa valere quanto il tutto?
Come può essere che, comprando la terra con il loro oro, essi siano proprietari anche di tutto l’oro? Mistero!

E queste foreste immense, seppellite dopo milioni di secoli dalle rivoluzioni geologiche, non possono averle comprate, né averle ereditate dai loro padri, perché allora non c’era ancora nessuno sulla terra! E tuttavia a loro appartiene tutto, dalle viscere della terra e dal fondo dell’oceano fino alle più alte cime dei grandi monti – è stato affinché questo qui potesse dare una dote a sua figlia, che queste foreste un tempo sono cresciute; è stato affinché quell’altro potesse donare un palazzo alla sua amante che hanno avuto luogo le rivoluzioni geologiche. Ed è stato per permettergli di tracannare lo champagne che queste foreste si sono convertire lentamente in carbon fossile.
Ma se i diseredati domandassero: Come faremo a vivere, se non abbiamo diritto a niente? Rassicuratevi, si risponderebbe loro: i possidenti sono brava gente, e se siete un poco saggi e obbedite a tutte le loro volontà, vi permetteranno di vivere, ed in cambio voi lavorerete i loro campi, gli farete dei vestiti, costruirete le loro case, tosare le loro pecore, potare i loro alberi, costruire delle macchine, dei libri; in una parola, procurare loro tutti i godimenti fisici e intellettuali ai quali essi soli hanno diritto. Se i ricchi hanno la bontà di lasciarvi mangiare il loro pane, di bere la loro acqua, dovete ringraziarli infinitamente, perché la vostra vita appartiene a loro nel tempo stesso che le resta.

Voi non avete diritto di vivere che grazie alla loro compiacenza, ed a condizione che lavoriate per loro. Essi vi dirigeranno; essi vi guarderanno lavorare e godranno dei frutti del vostro lavoro, perché ne hanno diritto. Tutto ciò che metterete in opera nella vostra produzione appartiene ugualmente a loro. Quando loro, nati al vostro stesso tempo, domineranno tutta la loro vita, voi obbedirete; mentre loro potranno riposarsi all’ombra degli alberi, poetizzare al mormorio della sorgente, vivificare i loro muscoli nelle onde del mare, ritrovare la salute alle fonti termali, godere del vasto orizzonte sulla cima delle montagne, entrare in possesso del dominio intellettuale dell’umanità e conversare così con i possenti seminatori d’idee, gli infaticabili cercatori dell’aldilà – voi, appena usciti dalla prima infanzia, forzati dalla nascita, cominciare a trascinare il vostro fardello di miseria, dovete produrre perché altri consumino, lavorare perché altri possano vivere nell’ozio, morire di fatica perché altri possano vivere nella gioia.
Mentre loro possono percorrere in ogni senso il grande dominio, godere di tutti gli orizzonti, vivere in comunione costante con la natura e attingere a quella sorgente inesauribile della poesia le più delicate e dolci sensazioni che l’essere possa provare, – voi non avrete per orizzonte che le quattro mura delle vostre mansarde, delle vostre fabbriche, del bagno penale o della prigione; voi, macchine umane la cui vita si riduce a un atto sempre uguale, ripetuto indefinitamente, dovrete ricominciare ogni giorno il turno, fino a che un meccanismo si rompe in voi o, vecchi e logorati, vi si getta in una cunetta, perché non fate più guadagnare abbastanza.
Guai a voi se la malattia vi stronca, se, giovani o vecchi, siete troppo deboli per produrre per i padroni. Guai a voi se non trovate nessuno per cui prostituire il vostro cervello, le vostre braccia, il vostro corpi: cadrete di abisso in abisso; i vostri stracci saranno un crimine, un obbrobrio i vostri crampi allo stomaco, la società intera vi getterà l’anatema e l’autorità, intervenendo legge alla mano, vi griderà: Guai ai senza casa, a chi non ha un tetto per coprirsi la testa, a chi non ha un giaciglio per riposare le sue membra doloranti, guai a chi si permette di avere fame quando gli altri hanno mangiato troppo, guai a chi ha freddo quando gli altri hanno caldo, guai ai vagabondi, guai ai vinti! Essa li picchierà per essersi permessi di non avere niente, mentre tutti gli altri hanno tutto. E’ giustizia, dice la legge. E’ un crimine, rispondiamo noi: ciò non deve essere, ciò deve cessare d’esistere, poiché non è giusto.
Per troppo tempo gli uomini hanno accettato come regola morale l’espressione della volontà dei forti e dei potenti; per troppo tempo malvagità degli uni ha trovato complicità nell’ignoranza e nella vigliaccheria degli altri; per troppo tempo gli uomini sono rimasti sordi alla voce della ragione ed hanno scambiato la menzogna con la verità. Ed ecco la verità: Cos’è la vita, se non un perpetuo movimento di assimilazione e disassimilazione che incorpora agli esseri le molecole della materia sotto le sue diverse forme e che presto li strappa per combinarli in mille nuovi altri modi; un movimento perpetuo di azione e reazione tra l’individuo e l’ambiente naturale circostante, che si compone di tutto ciò che non è lui; questa è la vita. Per la sua azione continua, l’insieme degli esseri e delle cose tende continuamente ad assorbire l’individuo, alla disgregazione del suo essere, alla sua morte.
La natura non fa del nuovo se non con il vecchio, di continuo distrugge per creare, non fa mai uscire la vita se non dalla morte, e bisogna che uccida ciò che è, per dar vita a ciò che sarà. La vita non è dunque possibile per l’individuo che attraverso una sua perpetua reazione sull’insieme degli esseri e le cose che lo attorniano. Non può vivere che a condizione di combattere la disassimilazione che gli fa subire tutto ciò che esiste, attraverso l’assimilazione di nuove molecole che deve chiedere in prestito a tutto ciò che esiste.
Così gli esseri, a qualsiasi gradino della scala degli esseri si trovino, dagli zoofiti fino agli uomini, sono provvisti di facoltà che permettono loro di combattere la disassimilazione dei loro organi incorporando nuovi elementi presi in prestito dall’ambiente in mezzo al quale vivono. Tutti sono provvisti di organi più o meno perfetti destinati ad avvertirli della presenza di cause che possano condurre a una brusca disassimilazione del loro essere. Tutti sono provvisti di organi che permettono loro di combattere l’influenza disorganizzatrice degli elementi.
Perché avrebbero tutti questi organi, se non dovessero servirsene? Se non avessero il diritto di farne uso?
Perché i polmoni, se non per respirare? Perché gli occhi, se non per vedere? Perché un cervello, se non per pensare? Perché uno stomaco, se non per digerire il nutrimento? Sì, è così: per i nostri polmoni, abbiamo il diritto di respirare; per il nostro stomaco, abbiamo il diritto di mangiare; per il nostro cervello, abbiamo il diritto di pensare; per la nostra lingua, abbiamo il diritto di parlare; per le nostre orecchie, abbiamo il diritto di ascoltare; per i nostri occhi, abbiamo il diritto di vedere; per le nostre gambe, abbiamo il diritto di andare e venire.
E noi abbiamo diritto a tutto ciò perché, per il nostro essere, abbiamo il diritto di vivere. Mai un essere ha organi più potenti di quelli che deve avere; mai un essere ha una vista troppo acuta, un orecchio troppo fine, una parola troppo facile, un cervello troppo vasto, uno stomaco troppo buono; delle gambe, delle zampe, delle ali o delle pinne troppo forti.
Così, per le nostre gambe abbiamo diritto a tutto lo spazio che possiamo percorrere; per i nostri polmoni, a tutta l’aria che possiamo respirare; per il nostro stomaco, a tutto il nutrimento che possiamo digerire; per il nostro cervello, a tutto ciò che possiamo pensare e assimilare dei pensieri degli altri; per la nostra facoltà di parola, a tutto ciò che possiamo dire; per le nostre orecchie, a tutto ciò che possiamo ascoltare, e abbiamo diritto a tutto ciò perché abbiamo diritto alla vita e tutto ciò costituisce la vita. Sono qui i veri diritti dell’uomo! Nessun bisogno di decretarli: essi esistono, come esiste il sole.
Essi non sono scritti in alcuna costituzione, in alcuna legge, ma sono scritti con caratteri incancellabili nel gran libro della natura, e sono imperscrittibili.
Dall’acaro all’elefante, dal filo d’erba fino alla quercia, dall’atomo fino alla stella, tutto lo proclama. Ascoltate la grande voce della natura; essa vi dirà che tutto in essa è solidale, che il movimento generale eterno, che è la condizione della vita nell’universo, si compone del movimento generale eterno di ciascuno dei suoi atomi, che è la condizione della vita di ciascuna delle creature.
I movimenti delle creature infinitamente piccole come quelli delle creature infinitamente grandi si ripercuotono e reagiscono indefinitamente gli uni sugli altri. E, poiché tutto reagisce su di noi, noi abbiamo diritto a reagire su tutto, poiché abbiamo il diritto di vivere, e la vita è possibile solo a questa condizione.
Per il fatto stesso di essere nati, noi diventiamo comproprietari dell’universo intero, ed abbiamo diritto a tutto ciò che è, a tutto ciò che è stato ed a tutto ciò che sarà. Ognuno di noi acquista dalla nascita il diritto a tutto, senza altri limiti che quelli che la natura stessa gli ha posto, vale a dire il limite delle sue facoltà di assimilazione.
Ora, voi dite: E’ mio questo campo, è mio questo bosco, è mia questa sorgente, sono miei questo stagno, questa prateria, questo raccolto, questa casa; a voi, io rispondo: Quando farete in modo che la vostra proprietà, frazione di questo grande tutto che, con la sua azione costante sui miei organi mi spinge, come fare anche voi, verso la tomba, cessi di spingermi, io riconoscerò in voi i soli ad avere il diritto di goderne.
Quando farete in modo che le influenze disgregatrici della natura agiscano solo su di voi, voi solo avrete il diritto di attingere dalla natura ciò con cui compensare quello che la natura vi toglie. Ma fino a quando l’umidità agirà su di me come su di voi, la sorgente e lo stagno saranno miei come vostri.
Finché non riuscirete a impedire al calore del sole di farmi traspirare come voi, esso maturerà frutti e raccolti per noi come per voi.
Sapete che un uomo di vent’anni non ha in lui una sola delle molecole che lo costituivano dieci anni prima; così, quando farete in modo che, sia per la pioggia che per il vento o in qualsiasi altro modo, ciò che è stato mio non s’incorpori alle vostre proprietà, voi avrete il diritto di impedirmi di incorporare a mia volta ciò che mi viene dalle vostre proprietà.
Ma, poiché non avrete potuto fare in modo che noi, i senza parte, i paria, viviamo senza assimilare costantemente gli elementi che prendiamo nel grande tutto, noi avremo diritto come voi a questo grande tutto ed a ciascuna delle sue parti, perché noi siamo nati come voi, siamo simili a voi, abbiamo degli organi e dei bisogni come voi, abbiamo diritto alla vita ed alla felicità come voi.
Se fossimo una specie di animali inferiori a voi, comprenderei questa esclusione: la nostra organizzazione ed il nostro modo di vivere sarebbero differenti; ma, poiché siamo organizzati come voi, siamo uguali a voi ed abbiamo diritti come voi sulla universalità dei beni.
E se mi dite che tale cosa è vostra perché l’avete ereditata, vi risponderò che coloro che ve l’hanno lasciata non avevano il diritto di farlo. Essi avevano il diritto di godere della universalità dei beni durante la loro vita, come noi abbiamo il diritto di goderne durante la nostra, ma essi non avevano il diritto di disporne dopo la loro morte, poiché, così come con la nascita acquistiamo il diritto a tutto, così con la morte perdiamo ogni diritto, perché allora non abbiamo più bisogno di niente.
Con quale diritto quelli che hanno vissuto vorranno impedirci di vivere?
Con quale diritto un aggregato di molecole vorrà impedire alle sue molecole di riaggregarsi in un modo piuttosto che un altro? Con quale diritto ciò che fu vorrà ostacolare ciò che sarà? Perché un uomo che durante la sua vita, che non è stata che un minuto nell’immensità del tempo, ha abitato un angolo di terra, potrà disporne per l’eternità? C’è nulla di più stupido di questa pretesa d’un essere effimero che fa delle donazioni perpetue a degli esseri, a delle istituzioni passeggeri?
Noi non dobbiamo rispettare queste pretese di persone che vogliono vivere quando sono morte, che vogliono avere diritto a tutti i beni, quando non ne hanno più bisogno, e che vogliono disporre dopo la loro morte di cose di cui avevano diritto di disporre solo secondo i loro bisogni durante la loro vita.
E se mi dite che essi avevano diritti di disporne, perché era parte del prodotto del loro lavoro che avevano economizzato, vi rispondo che se essi non hanno consumato tutto il prodotto del loro lavoro, è perché hanno potuto farne a meno; se non ne avevano bisogno, non ne avevano bisogno, e di conseguenza non potevano disporne in vostro favore, e cedervi dei diritti che non avevano.
Il diritto cessa dove si ferma il bisogno.
Ugualmente, se mi dite che quella cosa è vostra perché l’avete comprata, vi rispondo che quelli che ve l’hanno venduta non avevano il diritto di vendervela. Essi avevano il diritto di goderne secondo i loro bisogni, come noi abbiamo il diritto di goderne secondo i nostri. Essi avevano il diritto di alienare la loro parte di godimento della vita, non di alienare la nostra; potevano rinunciare alla loro felicità, non alla nostra, e noi non dobbiamo rispettare delle transazioni che sono avvenute al di fuori di noi e contro il nostro diritto.
La natura ci dice: Prendi, e non: compra. In qualsiasi acquisto, c’è un truffatore e un truffato – uno che trae profitto dalla transazione, mentre l’altro viene leso. Ma se ciascuno prende secondo il proprio bisogno, nessuno è leso, atteso che ciascuno, avendo così ciò di cui ha bisogno, ha anche tutto ciò cui ha diritto.
La transazione commerciale è certamente una delle principali cause di corruzione dell’umanità.
Non è inutile rimarcare a questo riguardo che tutto ciò che nel funzionamento sociale attuale è contrario alle regole della filosofia naturale è, al tempo stesso, fonte di mali e di crimini, e che se tutti gli individui avessero a loro disposizione l’universalità dei beni, ciò che occorre loro per vivere ed essere felici, e cui quindi hanno diritto, i nove decimi ei crimini sarebbero soppressi, perché essi hanno per movente ciò che voi chiamate furto.
Bisogna convincersi bene di questa verità, che dal momento che un uomo vende qualcosa, vuol dire che non ne ha bisogno; che allora non ha il diritto di disporne e impedire a coloro che ne hanno bisogno di impossessarsene, atteso che, per il fatto stesso che ne hanno bisogno, ne hanno diritto!
Come il furto, la prostituzione scomparirebbe con l’applicazione delle nostre teorie filosofiche. Perché mai una donna si prostituirà, quando avrà a disposizione tutto ciò che potrà assicurare la sua esistenza e la sua felicità? E come un uomo potrà comprarla, se non potrà darle che ciò che ella avrà diritto di avere? E così tutti i crimini, tutti i vizi, spariranno perché saranno scomparse le loro cause.
L’essere umano è sano e completo solo grazie al libero esercizio della sua piena volontà.
Da dove vengono la menzogna, la doppiezza, l’astuzia, se non dalla coercizione di alcuni su altri? sono le armi dei deboli, e i deboli vi ricorrono solo perché i forti li costringono a farlo.
La menzogna non è il vizio di chi mente, ma di colui che lo costringe a mentire. Eliminate la costrizione, la coercizione, il castigo, e vedrete se chi mente non dirà la verità.
Che gli uni la smettano di contestare agli altri il diritto alla vita, alla felicità, e la prostituzione, l’assassinio scompariranno, perché gli uomini nascono tutti ugualmente liberi e buoni. sono le leggi sociali che li rendono cattivi e ingiusti, schiavi o padroni, spogliati o spogliatori, carnefici o vittime. Ogni uomo è un essere autonomo, indipendente; è per questo che l’indipendenza di ognuno dev’essere rispettata. Ogni attentato alla nostra libertà, ogni costrizione imposta è un crimine che chiama alla rivolta.
So bene che il mio ragionamento non assomiglia per niente all’economia politica insegnata da M. Leroy Beanlieu, né alla morale di Malthus, né al socialismo cristiano di Leone XIII che predica la rinuncia alle ricchezze in mezzo a cumuli d’oro e l’umiltà proclamandosi il primo di tutti. So bene che la filosofia naturale urta contro tutte le idee ricevute, sia religiose, sia morali, sia politiche. Ma il suo trionfo è assicurato, perché essa è superiore a qualsiasi teoria filosofica, a qualsiasi concezione morale, perché essa non rivendica alcun diritto per gli uni che non rivendichi ugualmente per gli altri, ed essendo assoluta uguaglianza, porta in sé l’assoluta giustizia. Essa non si piega alle circostanze del tempo e del luogo – e non proclama alternativamente buona o cattiva la medesima azione.
Essa non ha nulla in comune con quella morale dalla doppia faccia che ha corso presso gli uomini di questo tempo, e che fa in modo che una cosa sia buona o cattiva secondo le latitudini e le longitudini.
Essa non proclama, per esempio, che il fatto di impossessarsi di una cosa e di non lasciare al suo posto altro che il cadavere del precedente possessore è al tempo stesso cosa orrenda e sublime. Orrenda, se succede nei dintorni di Parigi, sublime se accade a Hué o a Berlino. E poiché essa non ammette punizione né ricompensa, essa non reclama, nel primo caso, la ghigliottina per gli uni, l’apoteosi per gli altri. Essa sostituisce a tutte le innumerevoli e mutevoli regole morali inventate dagli uni per asservire gli altri, e che per il loro stesso numero e la loro stessa mutevolezza dimostrano di essere fragili, la giustizia naturale, immutabile regno del bene e del male, che non è opera di nessuno, ma risulta dall’organismo intimo di ognuno. Il bene è ciò che è buono per noi, ciò che ci procura delle sensazioni di piacere, e poiché sono queste sensazioni che determinano la volontà, il bene è ciò che vogliamo, il male ciò che è cattivo per voi, ciò che ci procura sensazioni dolorose, ciò che non vogliamo. “Fa’ quel che vuoi”, questa è l’unica legge che la nostra giustizia riconosce, perché essa proclama la libertà di ciascuno nella uguaglianza di tutti.
Coloro che pensano che nessuno vorrebbe lavorare, se non vi fosse costretto, dimenticano che l’immobilità è la morte – che abbiamo delle forze da spendere per rinnovarle senza fine, e che la salute e la felicità si conservano solo a prezzo dell’attività -, che nessuno vorrebbe essere infelice o malato, tutti dovranno occupare i loro organi per gioire di tutte le loro facoltà, perché una facoltà di cui non si faccia uso non esiste più ed è una parte di felicità in meno nella vita dell’individuo.
Domani come oggi, come ieri, gli uomini vorranno essere felici, sempre spenderanno la loro attività, sempre lavoreranno, ma, dal momento che il lavoro di tutti produce ricchezza sociale, la felicità di tutti e di ciascuno sarà aumentata, e ciascuno potrà godere così del lusso cui ha diritto, e il superfluo non esisterà più, e tutto ciò che esisterà sarà necessario.
L’uomo non è solo ventre, è anche cervello: ha bisogno di libri, di quadri, di statue, di musica, di poesia, come ha bisogno di pane, d’aria e di sole; ma, così come nella sua consumazione deve essere solo limitato dalla sua capacità di consumare, così nella sua produzione deve essere limitato solo dalla sua capacità di produrre e, consumando secondo i suoi bisogni, non deve produrre che secondo le proprie forze. Ora, chi meglio di lui potrà conoscere i suoi bisogni? Chi meglio di lui potrà conoscere le sue forze? Nessuno; di conseguenza, l’uomo deve produrre e consumare solo secondo la sua volontà.
L’umanità ha sempre avuto la coscienza latente che non sarà mai felice e che tutte le belle qualità della natura umana non potranno sbocciare che nel comunismo.
Così l’età d’oro degli antichi era fondata sulla proprietà comune, e mai è venuto in mente alle nature elitarie che, presso di loro, poetizzavano il passato, che la felicità degli uomini fosse compatibile con la proprietà individuale. Essi sapevano per intuizione o per esperienza che tutti i mali e tutti i vizi dell’umanità derivano dall’antagonismo degli interessi creato dall’appropriazione individuale, non limitata ai bisogni, e mai hanno sognato una società senza guerre, senza omicidi, senza prostituzione, senza crimini e senza vizi, che non fosse ugualmente senza proprietari.
E’ perché noi non vogliamo più né guerre né omicidi, né prostituzione né vizi né crimini, che lottiamo per la libertà e la dignità umana. Malgrado tutti i bavagli, la parola della verità rimbomberà sulla terra, e gli uomini sobbalzeranno nel sentirla; si alzeranno al grido della libertà per essere gli artefici della propria felicità. Noi siamo forti della nostra stessa debolezza, qualunque cosa possa avvenire di noi, vinceremo!
Il nostro asservimento insegna agli uomini che hanno diritto alla rivolta, il nostro imprigionamento, che hanno diritto alla libertà, e dalla nostra morte impareranno che hanno diritto alla vita.
Quando noi torneremo in prigione e voi tornerete alle vostre famiglie, gli spiriti superficiali penseranno che noi siamo i vinti. Errore! Noi siamo gli uomini del futuro e voi siete gli uomini del passato.
Noi siamo il domani e voi siete lo ieri. E non è in potere di nessuno impedire che il minuto che passa ci avvicini al domani e ci allontano dall’ieri. Lo ieri ha sempre voluto sbarrare la strada al domani, ed è sempre stato vinto nella sua stessa vittoria, perché il tempo che ha impiegato a vincere l’ha avvicinato alla sua sconfitta.
E’ lui che ha fatto bere la cicuta a Socrate, che ha fatto abiurare Galilei con la tortura, che ha bruciato Jean Huss, Etienne Dolet, Guglielmo da Praga, Giordano Bruno, che ha ghigliottinato Hébert, Babeuf, che ha imprigionato Blanqui, che ha fucilato Flourens e Ferré. Come si chiamavano i giudici di Socrate e di Galileo, di Jean Huss, di Guglielmo da Praga, di Giordano Bruno, di Etienne Dolet, di Hébert, di Bebeuf, di Blanqui, di Flourens, di Ferré? Nessuno lo sa: sono il passato, erano già morti quando vivevano. Non hanno avuto nemmeno la gloria di Erostrato, mentre Socrate è eterno, Galileo è ancora in piedi, Jean Huss esiste, Guglielmo da Praga, Giodano Bruno, Etienne Dolet, Hébert, Babeuf, Blanqui, Flourens, Ferré vivono.
Saremo felici nella nostra disgrazia, trionfanti nella nostra miseria, vincitori nella nostra sconfitta. Saremo felici qualunque cosa ci capiti, perché siamo certi che al soffio delle idee innovatrici altri esseri arriveranno alla verità, altri uomini riprenderanno la nostra missione interrotta e la porteranno a compimento; infine, che verrà un giorno in cui l’astro che dora le messi splenderà sull’umanità senza eserciti, senza cannoni, senza frontiere, senza barriere, senza prigioni, senza magistratura, senza polizia, senza leggi e senza dio, liberi infine intellettualmente e fisicamente, e che gli uomini, riconciliati con la natura e con sé stessi, potranno, nell’armonia universale, soddisfare la loro sete di giustizia.
Che importa che l’aurora di questo grande giorno sia imporporata dai bagliori dell’incendio, che importa che al mattino di questo giorno la rugiada sia insanguinata!
Anche la tempesta è utile per purificare l’atmosfera. Il sole è più brillante dopo il temporale.
Splenderà, sarà raggiante il bel sole della libertà, e l’umanità sarà felice.
Allora, mettendo ognuno la sua felicità al riparo nella felicità di tutti, nessuno farà più del male, perché nessuno avrà interesse a far del male.
L’uomo libero nella umanità affrancata potrà camminare senza intralci di conquista in conquista, a vantaggio di tutti, verso l’infinito senza limiti dell’intellettualità.
L’enigma moderno: Libertà, Uguaglianza, Fraternità, posto dalla Sfinge della Rivoluzione, una volta risolto – sarà l’Anarchia.

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Le false domande del burocrate ministeriale

Da qualche anno nella mia pratica di insegnamento (ossia: nella mia pratica didattica ed educativa) faccio uso della maieutica reciproca di Danilo Dolci. In concreto, vuol dire che appena possibile metto le sedie in cerchio e pongo ai miei studenti un tema di cui discutere (spesso lo propongono loro). Le regole semplici della maieutica reciproca vogliono che il conduttore del seminario favorisca la discussione senza assolutamente imporre il proprio punto di vista, o orientarla in una direzione a lui gradita. E’ questa, mi pare, la più grande difficoltà della maieutica reciproca a scuola. Essa richiede una ridefinizione del ruolo del docente. Abituato da sempre a far lezione, deve ora ridursi, farsi da parte: far parlare gli studenti. Non moralizzare, non giudicare. Se sente cose mal argomentate, può invitare ad argomentare meglio; se sente elogiare la mafia, può invitare a spiegare meglio perché la mafia è una cosa buona: ma senza emettere giudizi o condanne.
Alla maieutica reciproca corrisponde una particolare concezione della scuola e dell’educazione. Per la prima, mi piace l’espressione scuola conviviale, pensando sia al Convivio platonico che ad Illich. Quanto alla seconda, confesso che abolirei il termine stesso, sostituendolo con la parola sinagogia, che vuol dire educarsi insieme. Ritengo, infatti, che si abbia il diritto di educare qualcuno ad una sola condizione: quella di lasciarsi al contempo educare. L’educazione non è un’azione che un soggetto compie su un oggetto, ma un movimento comune di due o più soggetti.
Una scuola conviviale è, dunque, una scuola in cui ci sono molte domande e si cercano insieme le risposte. Nella scuola in genere le domande sono domande retoriche. Domande che hanno già una risposta, che è in possesso del docente. Quando un docente fa una domanda, sa già come lo studente dovrà rispondere. C’è la risposta esatta e la risposta sbagliata. In termini psicologici, si può dire che la scuola favorisce il pensiero convergente, non quello divergente. Il che non vuol dire, come potrebbe sembrare, educare all’oggettività, ma abituare al conformismo ed alla pigrizia mentale. E’ la scuola del manuale e del professore come interprete del manuale, che concepisce il sapere come un pacchetto preconfezionato da consegnare allo studente, un boccone da mandare giù senza masticarlo troppo.
Dopo aver insegnato per un anno scienze sociali con questo metodo, ho accompagnato i miei studenti di quinta agli esami di Stato. La seconda prova di scienze sociali (al Liceo delle Scienze Sociali: liceo che dal prossimo anno non esisterà più) prevede che gli studenti svolgano due quesiti a scelta tra quattro proposti. In ogni quesito c’è un testo, seguito da alcuni punti da trattare. Questo è il terzo quesito della traccia di quest’anno:

«Nel dibattito pubblico attuale c’è una parola che ricorre in modo sistematico: visibilità. Non c’è riunione di azienda, pubblica o privata, non c’è riunione all’università o negli organismi sociali in cui non ci si preoccupi di rendere visibile l’azione esercitata o che non ci si dimostri consapevoli della necessità di rendersi visibili per attirare l’attenzione. Non c’è partito politico o dirigente che non se ne prenda cura con puntiglio e continuità. L’insieme delle pratiche sociali si confronta attualmente con le regole, o piuttosto, con le esigenze, spesso paradossali, della mediatizzazione permanente. Nelle società occidentali del XIX secolo l’intimo doveva essere taciuto. In queste stesse società, un rovesciamento dei valori induce oggi ad abbandonarsi a un’esibizione dell’intimo per poter esistere. Nella nostra società l’invisibile vuole dire insignificante e oltre l’inesistente. […] Il visibile e l’immagine fanno indietreggiare l’invisibile, che da quel momento è screditato, ritenuto inutile.»
Nicole AUBERT e Claudine HAROCHE, Essere visibili per esistere: l’ingiunzione alla visibilità, in N. AUBERT e Cl. HAROCHE (a cura di), FARSI VEDERE. La tirannia della visibilità nella società di oggi, Giunti Editore, Firenze-Milano 2013
Esponi le tue riflessioni sul testo sopra riportato e rispondi alle seguenti domande:
– come e perché l’esigenza di visibilità ha assunto nella nostra società un’importanza fondamentale?
– si può parlare di una domanda di legittimità e/o di riconoscimento?
– è solo negativa l’esigenza di visibilità?
– al cartesiano “Penso, dunque sono” si è sostituito un “Mi vedono, dunque sono”?

Ecco all’opera la scuola trasmissiva. C’è un testo di due sociologi che presenta una tesi che, come ogni tesi nel campo delle scienze sociali, si può e si deve discutere. Se si fosse proposto semplicemente agli studenti di analizzare e commentare la traccia, sarebbe stato un ottimo esercizio. Ma chi ha pensato la traccia voleva qualcosa di diverso. Non voleva che gli studenti ragionassero per conto loro, usando anche le cose studiate, sul testo proposto. Aveva invece in mente uno svolgimento del quesito: il suo. Le quattro domande che seguono il testo non sono vere domande. Servono a indirizzare lo svolgimento in una certa direzione. Se le prime due domande paiono legittime, la terza già contiene una tesi (la visibilità è anche positiva), mentre l’ultima è un invito a consentire senz’altro con la tesi, peraltro tutt’altro che originale e piuttosto moralistica, del burocrate ministeriale: al cogito si è sostituito il “mi vedono, dunque sono”. Ho anche l’impressione che il burocrate (che dimentica, se non altro, l’esse est percipi di Berkeley) non abbia troppa stima dei nostri studenti, perché la “riflessione” proposta e così accuratamente favorita ha l’aria più di una chiacchiera televisiva che di una approfondita analisi sociologica. 

L’inferno e l’ossessione della violenza

André Gonçales, L’Inferno
Una delle domande più tormentose della filosofia – che è la disciplina che si occupa delle domande tormentose: e che è, per questo, una disciplina in via di estinzione – può essere così formulata: ammesso che si riesca a capire, per qualche via, cos’è il bene, ed a distinguerlo nettamente dal male, per quale ragione dovremmo fare il bene e non fare il male? Perché, insomma, dovremmo essere buoni?
Un primo modo per rispondere a questa domanda consiste nel dire che chi fa il bene è felice, mentre chi fa il male si condanna all’infelicità. E’ quello che sostiene Socrate nel Gorgia platonico: “Io dico che chi è onesto e buono, uomo o donna che sia, è felice, e che l’ingiusto è malvagio e infelice” (470E; trad. G. Reale). Una tesi che contesta con veemenza il sofista Callicle, per il quale bene è “lasciar crescere i propri desideri il più possibile” (491E) e “togliersi il gusto di tutto ciò di cui continuamente gli possa venir voglia” (492A), fare quello che si vuole senza curarsi del bene e del male.

Socrate è l’eroe della filosofia occidentale, almeno fino a Nietzsche. Da Nietzsche in poi, le tesi di Callicle hanno preso decisamente il sopravvento. Che essere buoni serva ad essere felici è oggi una tesi decisamente debole; di più: alla filosofia l’uomo buono pare sospetto. Bisogna interrogarlo sulla sua bontà, fare la genealogia delle sue inclinazioni, scoprire il male dietro la sua facciata buona. L’uomo buono, in pace con sé stesso, è un brav’uomo, uno superficiale e mediocre, un borghesotto che non è mai cresciuto abbastanza da fare i conti con la sua stessa ombra.
Tra i non molti sostenitori della tesi socratica c’è papa Francesco, che nell’udienza generale dello scorso 11 giugno, parlando del timore di Dio, ha dichiarato: “Quando una persona vive nel male, quando bestemmia contro Dio, quando sfrutta gli altri, quando li tiranneggia, quando vive soltanto per i soldi, per la vanità, o il potere, o l’orgoglio, allora il santo timore di Dio ci mette in allerta: attenzione! Con tutto questo potere, con tutti questi soldi, con tutto il tuo orgoglio, con tutta la tua vanità, non sarai felice.” Può succedere, naturalmente. Anzi, succede spesso. Il mondo è pieno di persone ricche e potenti che sono infelici. Ma non va meglio con i buoni, ammesso che esistano da qualche parte. Per quelli della mia generazione, ci sono due figure emblematiche per l’uno e l’altro caso. Una è quella di Raul Gardini, il potentissimo imprenditore che si suicidò nel 1993, in seguito ad una storia di tangenti. L’altra è quella, nobilissima, di Alex Langer, il politico che si suicidò nel 1995, a conclusione di una vita spesa per il dialogo e la pace. Nel computer di Langer, dopo la sua morte, è stato ritrovato un file con una serie di domande che mettono a nudo la sua purezza morale, ma anche il tormento della sua coscienza. Tra queste: “Vivresti effettivamente come sostieni che si dovrebbe vivere?”. E: “Passeresti il tuo tempo con coloro ai quali rivolgi la tua solidarietà?”. Domande che dicono quanto sia difficile, oggi, vivere socraticamente. La voce di Callicle-Nietzsche ormai è interiorizzata, diventa l’intima inquietudine dell’uomo buono mai sicuro della sua bontà.
Probabilmente nemmeno il papa crede davvero alla tesi socratica, se subito dopo, in quell’udienza, sente la necessità di puntellarla con una seconda tesi. I buoni sono felici e i cattivi infelici, ma non solo; i cattivi, si sappia, andranno all’inferno. Nulla di nuovo: è a dottrina cattolica. Il discorso ha fatto parlare, però, perché papa Francesco, questa volta, ha individuato i cattivi nei corrotti, nei trafficanti di uomini e nei fabbricanti di armi. E’ sicuramente un segno positivo che i cattolici siano giunti ad individuare il male nella corruzione e della progettazione della guerra, dopo che per secoli se la sono presa con gli eterodossi, gli atei ed i ragazzini che si masturbavano. Meglio tardi che mai. Ma il discorso di papa Francesco fila? Direi di no.
Delle due l’una: o chi fa il bene è felice e chi fa il male è infelice, o chi fa il bene è infelice, ma può consolarsi pensando che otterrà una ricompensa nell’aldilà, mentre i malvagi saranno puniti. Se il bene è autogratificante, per così dire, non c’è alcun bisogno di credere o sperare nel paradiso e nell’inferno. Ma c’è un altro problema, più grave. Non si tratta della non esistenza dell’inferno, ma della sua desiderabilità. Ammettiamo pure che esista l’inferno, ossia un luogo in cui, come insegna la dottrina cattolica, i cattivi vengono puniti in eterno per il male che hanno fatto. E’ desiderabile un esito simile, una simile uscita dalla storia? E’ desiderabile che, a compimento della vicenda umana, si abbia in eterno la distinzione tra i buoni ed i cattivi? Il teologo Vito Mancuso, commentando il discorso di papa Francesco su la Repubblica del 13 giugno, sostiene che si tratta di “una convinzione universale”, e cita il Libro dei morti egiziano. E’ vero, il bisogno di vedere il bene premiato ed il male punito è un bisogno universale. E’ un bisogno che attraversa tutta la Bibbia e la inquieta. Perché l’ingiusto prospera e il giusto soffre? E’ la domanda di Qohelet e di Giobbe. Ed è interessante notare che alla domanda di Giobbe Dio non risponde mostrandogli la sua giustizia e ragionevolezza, ma al contrario umiliandolo, mettendo a nudo la sua pochezza nell’economia dell’universo. La sua risposta, cioè, è: chi sei tu per fare questa domanda?
Ma c’è un’altra aspirazione cui forse possiamo riconoscere una qualche universalità. E’ l’aspirazione a portarsi in una posizione di prossimità nei confronti di chi opera il male, di vedere anche in lui un fratello, di desiderare il suo bene e la sua felicità nonostante il male che ha fatto a noi stessi. E’ l’aspirazione che costituisce il momento più alto del Vangelo e ne fa un testo nobile anche per il non credente. E’ l’aspirazione che, cinquecento anni prima di Cristo, fa dire al Buddha che, nel caso in cui del malfattori ci facessero a pezzi, noi ci rivolgeremo loro “con una mente intrisa di gentilezza amorevole e, a partire da quella persona [chi ci sta facendo a pezzi], pervaderemo il mondo con una mente intrisa di gentilezza amorevole, una mente immensa, grande, incommensurabile, priva di inimicizia e priva di malevolenza” (Kakacupamasutta, trad. F. Sferra).
Ora, per chi giunga a questa percezione l’idea dell’inferno è intollerabile. Che qualcuno, per aver operato il male, debba essere condannato in eterno, soffrire senza fine e senza possibilità di evoluzione, è un’idea che non dà pace e soddisfazione, ma tormento all’uomo buono. La bontà radicale – la bontà della mente immensa del buddhismo o dell’amore del nemico evangelico – non tollera alcuna separazione dei buoni dai cattivi, poiché la separazione stessa è diabolica, è male: è una ferita che non consente di parlare di salvezza, né di compimento.
Chiedere l’inferno, la resa dei conti, sia pure per i fabbricanti di armi, rivela una concezione del bene per smontare la quale non occorre l’acume genealogico di un Nietzsche. Non è difficile scorgere in un angolo il rancore, la rabbia, la voglia di rivalsa: la violenza. E’ importante riflettere sul fatto che la nostra più o meno universale aspirazione alla giustizia è stata frustrata da una più o meno universale pratica della violenza. Per l’Occidente cristiano la tentazione di mandare qualcuno all’inferno prima del tempo è stata irresistibile: la nostra storia è una storia di guerre, di massacri, di esecuzioni. C’è motivo di credere che la dissacrazione dell’altro, implicita nella convinzione che alcuni, alla fine dei tempi, abbiano in destino di essere torturati in eterno, abbia qualcosa a che vedere con questa tradizione di violenza, dalla quale dovremo cercare di liberarci (e forse la domanda più importante della filosofia – questa disciplina in estinzione – oggi è: da dove viene la violenza da cui siamo ossessionati? e come possiamo liberarcene?).

Articolo apparso su l’Attacco del 19 giugno, con il titolo Il confine tra bene e male e la difficiloltà (oggi) di vivere socraticamente.

Materialismo mistico

Se dovessi sintetizzare con un’espressione la visione cui sono giunto, nessuna mi sembrerebbe più efficace di questa (pur con i limiti di tutte le definizioni): materialismo mistico. Materialismo, perché non credo in nessuna essenza o sostanza spirituale. Non credo in Dio, non credo nell’anima, non credo negli angeli e nei demoni. Credo che la cosiddetta materia sia tutto quel che c’è, e che il pensiero non sia che un suo epifenomeno, ed in nessun modo una sostanza separata ed autosufficiente. Non credo nella vita dopo la morte, nel paradiso e nell’inferno; non credo nemmeno nel karma e nella rinascita.
D’altra parte, sono ben lontano dal considerare la materia al modo del senso comune: come la solidità delle cose, la pesanteur – il corpo, anzi i corpi. A voler essere paradossali, si potrebbe dire che la materia non è nulla di materiale, senza per questo diventare qualcosa di spirituale. La base materiale delle cose è sostanziata di vuoto. Vuoto è gran parte dell’atomo, vale a dire la struttura di tutto quello che esiste. Ogni cosa che vediamo è tessuta di vuoto. Ogni scena che vediamo non è che una interpretazione dovuta alla opacità dei nostri organi di senso. Vedo questa scrivania, questo muro, questa finestra, l’albero sul balcone e le rondini che volano nel cielo di giugno perché non sono in grado di percepire l’autentica struttura delle cose, vale a dire gli atomi. Se potessi farlo, nulla più di tutto questo esisterebbe. Scomparirebbe il mondo, ma scomparirebbe anche l’io. Perché l’io non è che il correlato del mondo. L’io esiste come soggetto che percepisce il mondo; la materialità delle cose, comunemente intesa come solidità e forma, è la membrana esteriore che lo sorregge e gli permette di esistere. 
Ecco dunque la base più solida del misticismo. Non Dio, non una qualsiasi entità spirituale trascendente, ma la stessa base delle cose, la natura vuota della materia. Considerare l’essere vuoto delle cose suscita un grande terrore. L’io si ritrae con spavento. Oltre questo spavento, c’è la liberazione.