Dove comincia il mondo nuovo

Dove comincia il mondo nuovo, amico,
si scavano le vene della vita
di domani, e si vuole si decide
per ognuno giustizia e compiutezza

lo indovini, lo so: non è nel centro
dove ricchezza eleva verso il cielo
l’uomo televisivo ultimo mostro
senz’occhi senza lingua senza sangue.

E’ dove l’esistenza si contorce
– nella Sicilia di Danilo gli uomini
erano legno antico e sofferente –
che qualcuno ha l’ardore di colpire

la terra reclamandone speranza:
e la terra risponde e nuovi umori
soccorrono e ciascuno si rianima
le schiene si raddrizzano le mani

si stringono la voce si schiarisce
e l’uomo dice “io” e dice “tu”
come si dice il bello delle cose:
e quando dice “noi” non c’è violenza.

Il groviglio di Piazza Mercato

Foto ripresa dal sito www.ispastrutture.it
Tra le ragioni per le quali la vita è un groviglio c’è il fatto che le ciambelle raramente riescono col buco. Il che vuol dire che c’è uno scarto tra il progetto e la sua esecuzione, tra l’idea e la sua concretizzazione, tra quel che si vorrebbe fare – spesso con le migliori intenzioni – e quello che si riesce davvero a fare.
Una ciambella penosamente malriuscita è stato l’incontro di domenica mattina tra il sindaco ed i cittadini per discutere del futuro di Piazza Mercato. Nelle intenzioni del sindaco doveva essere un bel momento di democrazia partecipata: cosa rara di questi tempi, rarissima a Foggia, e quanto mai opportuna in campagna elettorale. Ne ė venuta fuori invece una gazzarra delle peggiori, che ha messo a dura prova la flemma mongelliana: a un certo punto ha dovuto far la voce grossa (per quanto sia possibile far la vice grossa a Mongelli) per imporre ordine e disciplina.
Le contestazioni più dure sono state per l’ex assessore Maria Rosaria Lo Muzio, che ha preso la parola per ricordare che quella piazza oggi tanto contestata quando era ancora un progetto venne apprezzata in una mostra a Bruxelles e inserita dalla Fondazione Agnelli tra trenta opere di grandi architetti italiani. Dal pubblico la interrompono: “Ci vuole un coraggio… No, fa schifo questa piazza”. Eppure non aveva tutti i torti, l’ex assessore. La piazza progettata e la piazza realizzata, quello che doveva essere e quello che è stata ed è, sono due cose diverse. Ancora una volta lo scarto, il groviglio. Nelle intenzioni di chi l’ha progettata, quella piazza doveva essere un centro di aggregazione sociale, ospitare iniziative culturali, diventare uno dei luoghi più vivi del cuore storico della città. Se è andata diversamente, la responsabilità non è di chi l’ha progettata, ma di chi non è riuscito a farla funzionare. E’ molto triste, ed è un indice del degrado civile e non solo politico della città, che non si riesca a Foggia a far funzionare uno spazio culturale (si pensi, oltre a Piazza Mercato, all’abbandono delle strutture di parco San Felice), mentre a Manfredonia con i fondi della Regione hanno trasformato il mercato del pesce in un laboratorio culturale che, affidato ad una cooperativa, ospita ogni giorno concerti, corsi di musica, mostre d’arte, convegni e conferenze.

Oggi si vorrebbero abbattere le contestate strutture metalliche della piazza – il “trenino” – e lasciare solo la pavimentazione. Anche qui rischia di esserci uno scarto, e tra i peggiori, tra il progetto e la sua realizzazione. Perché il dato più impressionante che è emerso dall’incontro di domenica è l’altissimo malessere della gente di quel quartiere, di quel centro storico che è diventato, dicono, terra di nessuno. Il timore, fondato, è che, liberata dalle strutture metalliche, quella piazza finisca per diventare un buco nero nel bel mezzo del centro storico, un pisciatoio e vomitatoio a due passi dalla cattedrale.
All’incontro di domenica mattina è intervenuta anche una ragazza dai capelli rossi. Il problema del centro storico non si risolve, ha detto, facendo le multe, ma dando ai giovani degli spazi, perché quello che accade è sintomo di un disagio. Il sindaco s’è detto d’accordo: “Ci vogliono le multe, ma ci vogliono anche altre cose”. Quali altre cose? E’ una domanda difficile, ed è proprio dal modo in cui riesce a rispondere ad una domanda del genere che si può valutare l’operato di una amministrazione. E’ certo che con l’amministrazione Mongelli sono mancate sia le multe che le “altre cose”. E indubbiamente smantellare una struttura che doveva essere uno spazio culturale, invece di lavorare per ripristinarla e farla funzionare, mettendo a tacere gli opposti egoismi, appare come una sconfitta della politica delle “altre cose”.
Articolo per Stato Quotidiano.

Perché i ravanelli sì?

Francesco Pullia segnala questo articolo di Claudio Sabelli Fioretti su Io Donna, che presenta una obiezione non infrequente al vegetarianesimo/veganesimo: perché mangiare i vegetali non sarebbe violenza? Ricordo di aver scritto un post sul tema quasi dieci anni fa sul mio vecchio blog, Minimo Karma. Blog che non è più accessibile per l’improvvisa chiusura del server. Grazie a Web Archive sono riuscito a recuperare il post, che ripropongo, dal momento che la mia posizione sull’argomento non è cambiata.


Una sera mi trovavo a casa di un amico molto morale, ecologico, vegetariano e nonviolento: mi stava preparando una cena tutta a base di vegetali. Sul tavolo si allineavano i corpicini gialli, rossi e verdi: carote, pomodori e lattughe. Con le faccine tonde ornate da una lieve barbetta, braccia alzate, fibre vive e gonfie d’acqua, un mazzo di ravanelli agonizzava in un canto: il mio amico ne prese una per le verdi braccine e con un morso ne addentò la rossa testolina. […] Se non bisogna mai uccidere, perché i ravanelli sì?

Questo interrogativo venne posto una decina d’anni fa da Sandro Gindro in un articolo pubblicato su Studi cattolici (389-390, 1993) (e viene citato ora nel bel saggio di Adriano Mariani, Do per cibo il verde dell’erba. Il cristianesimo alla prova della condizione animale, “Quaderni Satyagraha” n. 8, Pisa 2005). Naturalmente la descrizione dei corpicini che agonizzano fa sorridere, ma la domanda non è affatto oziosa. Perché mangiare i vegetali invece degli animali?

La risposta più semplice è che gli animali soffrono ed i vegetali no. E’ una risposta insoddisfacente. Se la sofferenza fosse l’unico argomento contro l’uccisione di animali a scopo alimentare, bisognerebbe approvare l’uccisione indolore di animali allevati in condizioni di vita accettabili. Io sono dell’opinione che vada riconosciuto agli animali un valore intrinseco. Non direi un diritto all’esistenza, perché i soggetti che hanno diritti sono soltanto quelli che fanno parte di una comunità di soggetti giuridici, e questo con ogni evidenza non si può dire degli animali. Proprio per questo, però, si può contestare che gli uomini abbiano il diritto di uccidere gli animali ad uso alimentare. Proprio perché noi possiamo avere diritti solo su chi fa parte di una comunità di soggetti di diritti, non possiamo averne sugli animali, che di tale comunità non fanno parte. Uccidere un animale per cibarsene non è l’esercizio di un diritto, ma un atto di forza. Per trasformarlo in un diritto occorre una metafisica o una mitologia, che attribuisca il creato a Dio e faccia dire a Dio che tutto è finalizzato all’uomo. E’ precisamente la metafisica, la mitologia cristiana e cattolica; la quale anche, ponendo una comunità di uomini ed animali sotto la giurisdizione di Dio, potrebbe consentire di parlare di diritti animali: forse.
Una seconda risposta è che gli animali sono esseri più perfetti dei vegetali. Io contesto questo modo di vedere. Considero vegetali, piante ed alberi gli esseri più perfetti della natura, certamente più perfetti degli animali e dell’uomo. Non c’è nessuno, credo, che non sia stato colto almeno una volta nella vita da un senso di profonda ammirazione al cospetto di un albero; anzi, da un vero sentimento religioso. Non è improbabile, del resto, che alcune tra le prime pratiche religiose siano nate nelle selve, in mezzo a questi esseri meravigliosi. Unici nella natura, i vegetali riescono a vivere senza uccidere altri esseri. Ed a restare immobili, privi di pensiero. Credo che questa condizione – l’immobilità priva di pensiero – sia quanto di meglio possa desiderare un essere tahat ha-shamesh. Non sono lontano dal desiderio di quel poeta zen:

Di tutte le cose del mondo
vorrei essere una patata dolce
appena dissotterrata.

Rinuncerei però all’ultima condizione. Vorrei essere una patata dolce sotterrata, senza il contatto profanante della mano dell’uomo.
E allora: perché i ravanelli sì?
Se fosse possibile una semplice scelta tra vite animali e vite vegetali, sarebbe difficile scegliere. Ma le cose stanno diversamente. La sarcofagia non esclude, anzi implica l’uccisione dei vegetali. La sarcofagia ha bisogno di immensi allevamenti di animali. Questi milioni di animali mangiano vegetali. E quindi la sarcofagia richiede un immenso sterminio di vegetali. Oltre alla distruzione di foreste per far spazio agli allevamenti. Mangiare carne vuol dire distruggere una quantità immensa di sostanze di origine vegetale che potrebbero servire, tra l’altro, all’alimentazione umana, dando un contributo notevole alla soluzione del problema della fame nel mondo.
Volendo formalizzare il discorso, si può dire questo: 1) né gli animali né le piante hanno alcun diritto, in quanto non fanno parte di una comunità di soggetti giuridici; 2) per la stessa ragione, però, non abbiamo alcun diritto né su animali né sulle piante; 3) ogni uccisione di un essere vivente è un atto di forza, e non l’esercizio di un diritto; 4) la sarcofagia comporta la soppressione di vite vegetali e animali, mentre l’alimentazione vegetariana comporta la soppressione delle sole vite vegetali; 5) l’alimentazione vegetariana è quindi preferibile, se non moralmente doverosa.

Appunti di ateologia #4

L’ateo nega Dio e con Dio la religione. L’ateologo nega il discorso su Dio, ma non l’esperienza religiosa.
Cos’è l’esperienza religiosa? Chiamo religiosa ogni esperienza che abbia il carattere della transpersonalità, mentre è non religiosa o irreligiosa ogni esperienza personale.
Il rapporto con un Dio-Persona è sempre irreligioso. Il Dio-Persona è un portato dell’io; un appendi-io trascendente.

L’ebook conviviale

Ivan Illich
Quale mezzo di trasporto favorisce maggiormente la libertà, l’automobile o la bicicletta? La risposta sembra facile: la prima. L’automobile è forse l’unico simbolo rimasto della libertà; non c’è pubblicità che manchi di sottolineare questo aspetto. Ma Ivan Illich, uno dei più grandi pensatori della seconda metà del secolo scorso (autore, tra l’altro, di un Elogio della bicicletta), non era d’accordo. Per comprendere la sua posizione, possiamo riformulare la questione in altri termini. Quale strumento possiamo dominare meglio, l’automobile o la bicicletta? Posta così la questione, qualche dubbio verrà anche al più entusiasta sostenitore delle virtù della tecnologia automobilistica. Perché è vero che l’automobile ci porta dove vogliamo, ma è anche vero che sono in molti ad avvertire che l’automobile ed il sistema di cui fa parte al tempo stesso hanno potere su di noi. Avere l’automobile vuol dire pagare la tasse, pagare la benzina (e dunque dipendere dai petrolieri), pagare i parcheggi, pagare le autostrade, e così via. Quando poi si rompe, cosa che accade spesso, bisogna portarla dal meccanico. E’, insomma, uno strumento che ci sfugge di mano. La bicicletta al contrario è semplice da usare (non occorre la patente), si rompe difficilmente, è facile da riparare, non richiede benzina né tasse. Illich chiama strumento conviviale uno strumento che io posso padroneggiare. Gli strumenti industriali in generale non sono strumenti conviviali, non si lasciano dominare ma al contrario ci dominano: si può dire che è l’uomo che si adatta alla macchina e non il contrario.
Chiediamoci ora: cosa direbbe Illich dell’ebook? Lo considererebbe più o meno conviviale del libro di carta? Considerando l’ostilità del filosofo verso il mondo industriale e la sua scelta dell’austerità, la risposta sembra scontata: l’ebook sta al caro vecchio libro di carta come l’automobile sta alla bicicletta. Ma le cose stanno davvero così? Forse no.
Per produrre un libro di carta, come per produrre un ebook, occorre in primo luogo scriverlo. Poi, nel percorso tradizionale, il libro viene affidato ad un editore, e da questo momento sfugge al controllo dell’autore. Il libro viene impaginato da un tecnico, quindi mandato in stampa, quindi alla distribuzione. Il libro così prodotto viene acquistato dal lettore, che lo legge e lo studia. Sul libro di carta il lettore può compiere una serie di operazioni: può sottolineare, può evidenziare, può segnare la pagina piegando l’angolo.
Consideriamo ora l’ebook. L’autore lo scrive, dopo di che può considerare due vie. Può mandarlo ad un editore, che sceglierà se pubblicarlo o meno, lo impaginerà e creerà il libro elettronico da mandare alla distribuzione. Ma può anche scegliere la via dell’autopubblicazione. In questo caso sarà lui stesso a creare il libro elettronico ed a distribuirlo. Il lettore acquisterà il libro da una libreria on-line e lo trasferirà sul proprio computer, o sul tablet, o sul lettore ebook. Anche sul libro elettronico il lettore può compiere le stesse operazioni possibili sul libro di carta. Può evidenziare, annotare, mettere segnalibri. Più qualche altra cosa. Può, ad esempio, fare una ricerca nel testo.
Ma c’è una differenza più significativa tra libro di carta e libro elettronico. Poniamo che dopo aver comprato un libro di carta io mi accorga che è fatto male. Che ci sono errori di impaginazione o di stampa. Non posso farci nulla; al massimo, manderò il libro alla casa editrice per chiederne la sostituzione. Se invece mi capita un ebook fatto male (cosa che succede abbastanza spesso), ed ho un minimo di competenza tecnica (cosa facile da acquisire), posso sistemare gli errori e rifare l’ebook. Non solo. Nel libro di carta posso aggiungere al testo delle mie annotazioni, ma limitatamente. Posso farlo al margine della pagina, che può essere più o meno ampio. Nel caso del libro elettronico, le mie annotazioni non hanno alcun limite di spazio, ma soprattutto non devono essere necessariamente sistemate a margine del testo. Se voglio, posso costruire un nuovo testo che comprenda il testo originale più le mie annotazioni a margine. Se mi piace, posso riscrivere il testo, dialogando con l’autore. 
Insomma, se il libro di carta è una cosa, un oggetto chiuso, il libro elettronico è aperto, modificabile, ripensabile. Cioè, è più conviviale.
Illich è noto soprattutto come teorico della descolarizzazione. Sosteneva che bisognerebbe liberare la società dalle scuole, perché le scuole non sono realtà conviviali. La scuola non risponde a bisogni reali delle persone; al contrario: crea il falso bisogno di istruzione, che ritiene di essere l’unica a poter soddisfare. La scuola si presenta come l’unica istituzione in grado di dare una istruzione valida, squalificando qualunque altra fonte di istruzione  e qualunque conoscenza ottenuta al di fuori di essa. Ma che succede se chiudiamo le scuole? Quali le alternative? Per Illich sono tanti i modi in cui ci si può istruire, da soli o insieme ad altri. Ci si può istruire se è possibile “accedere a cose, a luoghi, a processi, a eventi e a documenti” senza l’ostacolo costituito dalla mercificazione. E’ importante che sia facilitato l’accesso alle risorse formative di ogni genere. Illich pensava a luoghi fisici, ma è chiaro che la diffusione di Internet ha reso tutto ciò molto più facile. In rete è possibile accedere ad informazioni di ogni tipo, guardare film, leggere giornali, ed anche contattare persone con gli stessi interessi per studiare insieme. In Internet, soprattutto, è possibile trovare migliaia di libri elettronici gratuiti. Libri privi di licenza e di pubblico dominio, ma anche libri con copyright che sono stati piratati. Mi rendo conto del rischio di fare apologia di reato, ma trovo commovente che vi siano persone che impiegano una parte considerevole del proprio tempo per passare allo scanner libri di filosofia per metterli gratuitamente a disposizione di tutti. Come gli amanuensi nei conventi medioevali, queste persone lavorano non perché la cultura in generale non vada persa, ma perché non vada persa una certa concezione della cultura: quella della cultura come attività libera e gratuita, cui tutti possano accedere senza ostacoli legati alla disponibilità economica.
Sospetto che Illich sarebbe d’accordo.
Editoriale per Stato Quotidiano.