Perché siamo razzisti

Foto Ansa

Trentuno persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Italia. Morti annegati davanti alle coste della Libia. Tra loro nove donne. Provenivano per lo più dalla Nigeria, un paese nel quale la nostra Eni occupa 40.625 chilometri quadrati con i suoi pozzi petroliferi che stanno devastando il delta del Niger, costringendo alla fame pescatori e contadini. Leggo su Facebook i commenti alla notizia data da la Repubblica: “affondassero tutti sti gommoni………….zozzi schifosi, sostegno agli abitanti di lampedusa, che quotidianamente devono sopportare questo schifo………..” (riporto pari pari, chilometrici punti sospensivi compresi); “Tra poco li andremo a prendere nel loro paese per farci invadere!!”; “31 voti in meno per il pdmenoelle”.

Non mancano i commenti tutt’altro che razzistici, ma bisogna considerare che la Repubblica non è Il GiornaleLa Padania. Si prenda una qualsiasi notizia che riguarda gli immigrati e si leggano i commenti: non mancheranno mai, qualunque sia il sito Internet, espressioni gravissime di razzismo, che diventeranno numericamente prevalenti nei siti di destra.
Cosa sta accadendo nel nostro paese? Perché si giunge a chiamare “rozzi schifosi” delle persone morte in modo terribile, ed a rallegrarsi della loro morte? Perché un vicepresidente del Senato giunge ad insultare pubblicamente un ministro, solo perché di pelle nera? Perché siamo diventati così spaventosamente razzisti? Perché l’Italia non è, come scriveva qualche giorno fa John Foot su The Guardian, un paese non razzista in cui però il razzismo è tollerato. Se una persona come Calderoli giunge a diventare vicepresidente del Senato, se una forza politica razzista come la Lega Nord va al governo, vuol dire che il razzismo non è solo tollerato, ma serve a fare carriera politica. Le prove non mancano. Si pensi, ad esempio, all’isterismo collettivo seguito, nel 2007, all’omicidio di Giovanna Reggiani. Si scatenò allora una vera caccia al rom ed al romeno, alimentata dai giornali e dalle forze politiche di destra; ma è bene ricordare che lo stesso Walter Veltroni, leader dell’appena nato Partito Democratico, si affrettò ad attaccare la Romania ed a chiedere iniziative straordinarie sul piano della sicurezza, proprio come un qualsiasi leader di una forza xenofoba. Si era, del resto, in campagna elettorale.
Perché, dunque, siamo razzisti?

Per una serie di ragioni. La prima è che, semplicemente, siamo ignoranti. Spaventosamente ignoranti. Secondo il linguista Tullio De Mauro più della metà degli italiani hanno difficoltà a comprendere un testo scritto. Non proprio analfabeti, ma quasi. Ora, chi non è in grado di comprendere un testo scritto non ha gli strumenti per uscire dai propri pregiudizi e cogliere la complessità dei fenomeni. E’ condannato ad affrontare il mondo con poche categorie concettuali, con idee semplici semplici, mai sottoposte a critica. Pregiudizi, appunto.
La seconda ragione va ricercata nel fatto che questa spaventosa ignoranza non viene combattuta, ma al contrario strumentalizzata dalla classe politica. Il nostro paese spende ogni anno 26 miliardi di euro per il suo apparato militare, mentre è penultima nell’area Ocse per le spese per l’istruzione. 
Alla classe politica italiana fa comodo l’ignoranza diffusa. Rende le cose estremamente più semplici. Una volta c’erano le ideologie, e la politica si giocava sul piano delle visioni del mondo. Oggi che le ideologie sono tramontate, la politica è questione di slogan, di piccole promesse, di minuti interessi. Una volta si prometteva una società più giusta, oggi l’abolizione di una tassa. In questo contesto, la xenofobia funziona a meraviglia per ottenere consenso.
La terza ragione è nel nostro passato recente. L’Italia è stata fascista solo qualche decennio fa. Solo qualche decennio fa il nostro paese ha visto le leggi razziali ed il colonialismo. Solo qualche decennio fa, il nostro paese ha contribuito allo sterminio di sei milioni di ebrei. Solo qualche decennio fa, il nostro paese è andato in Africa a portare la civiltà: devastando, massacrando, bruciando vivi esseri umani con i lanciafiamme, consumandoli con armi chimiche.
Tutto ciò è stato rimosso. Il mito degli “italiani brava gente” dev’essere mantenuto a costo di ogni menzogna, di ogni omissione. Il fascismo è stato solo una parentesi infelice, che non ha segnato realmente l’identità italiana. Le cose non stanno così. Il fascismo è stato davvero, in realtà, “l’autobiografia della nazione” di cui parlava Piero Gobetti. O meglio: l’autobiografia di una parte consistente della nazione, ma non di tutta. C’era un’altra Italia, nobilissima. L’Italia, per restare sul piano intellettuale, dello stesso Gobetti, dei fratelli Rosselli, dei Capitini, dei Calogero, e così via. Sul piano popolare, sarà l’Italia partigiana.
Quello che è accaduto negli ultimi decenni è che quest’altra Italia è diventata sempre più evanescente, e ciò principalmente a causa della crisi delle ideologie. L’operaio un tempo trovava nel comunismo una visione del mondo che gli consentiva di andare oltre i suoi immediati interessi, pur legittimi, e di aprirsi al mondo. Oggi non c’è più alcun ideale a riscattarlo dalla sua condizione: ed accade sempre più spesso che il pregiudizio prenda il posto dell’ideale.
Siamo stati fascisti, insomma, e per molti versi lo siamo ancora. Il fascismo non è una malattia transitoria, ma un tratto di fondo della nostra identità. Non è difficile scorgere dietro chi chiama “zozzi schifosi” dei disperati annegati in mare il volto truce del fascismo.
La quarta ragione va ricercata nei mass-media, che svolgono una funzione fondamentale in quella semplificazione del mondo che ha preso il posto delle ideologie. La natura stessa del mezzo televisivo non consente il pensiero complesso: è per questo (e non solo perché non sappiamo che farcene) che i filosofi da qualche decennio non compaiono più in televisione (a meno che non facciano i politici). In televisione bisogna esprimere il proprio pensiero in pochi minuti: ed in genere si è interrotti prima di aver finito. Tutto resta – deve restare – alla superficie. Negli ultimi anni i mezzi di informazione di massa, e principalmente la televisione, hanno contribuito ad alimentare il razzismo dando costantemente una visione distorta dei fenomeni, riservando una attenzione morbosa a casi di cronaca aventi come protagonisti gli stranieri e passando sotto silenzio quelli nei quali, al contrario, gli stranieri sono vittime. Si crea così una visione distorta dei fenomeni, alimentata anche dai social network (nei quali c’è almeno la possibilità di imbattersi in qualcuno che la pensi diversamente).
La quinta ragione è nella crisi economica. E’ un fenomeno ben noto alle scienze sociali: nei momenti di crisi economica, si diffondono posizioni di violenza verso chi è diverso. Il meccanismo è semplice: se le cose vanno male, la colpa deve essere di qualcuno. Di chi? Per rispondere in modo serio a questa domanda bisognerebbe capire a fondo la realtà economica attuale, quel sistema terribilmente complesso che Gallino chiama finanzcapitalismo: ma è una cosa difficile. Più facile è trovare un capro espiatorio. E dunque: siamo in crisi perché ci sono troppi extracomunitari, perché li manteniamo (affermazione ripetuta con la massima convinzione contro ogni evidenza: gli stranieri producono il 12% del Prodotto Interno Lordo), perché ci rubano il lavoro, e così via.
Da uomo di scuola, non posso fare a meno di interrogarmi anche sulle responsabilità del sistema scolastico. Integrazione e lotta al razzismo sono tra le parole chiave della politica scolastica degli ultimi anni, ma sono buone intenzioni che si scontrano con un deficit strutturale della nostra scuola, e che riguarda la natura della cultura che vi si trasmette (e il fatto che la si trasmetta, semplicemente, è un altro dei problemi della scuola italiana). Nella scuola in cui insegno si è diffusa la notizia che sono buddhista. Mi è capitato più volte, durante una supplenza in qualche classe non mia, di sentirmi fare domande sulla mia religione. Domande del tipo: “Ma voi buddhisti siete quelli che pregano facendo così?” (minando la genuflessione dei musulmani). Nessuno ha messo in grado questi studenti di conoscere il buddhismo e l’islam, che solo due tra le maggiori religioni mondiali. La scuola italiana intende combattere il razzismo con le migliori intenzioni, ma non comprende che per farlo occorre in primo luogo conoscere le culture diverse dalla nostra. Offrendo un programma culturale interamente italocentrico ed eurocentrico, si trasmette il messaggio latente che nulla di significativo è stato fatto, scritto, pensato al di fuori del continente europeo. Che noi, in fondo, siamo i migliori, e nulla abbiamo da apprendere dagli altri.
Editoriale per Stato Quotidiano.

La questione delle regole

F. Hundertwasser,
Blobs Grow in Beloved Gardens, 1975
Molti ritengono che le regole non solo abbiano a che fare con l’educazione, ma ne siano l’aspetto centrale, il nucleo, la ragione prima. Per loro una definizione accettabile di educazione è: dare regole. O meglio: imporre regole. Sono, in genere, quelli che lamentano l’assenza di regole nella società attuale, segno sicuro di decadenza e disordine sociale. E’ abbastanza sorprendente che non pochi adolescenti, coloro che maggiormente dovrebbero essere insofferenti delle regole, la pensino allo stesso modo.
C’è qualche ragione in questo ragionamento. E’ vero che una società senza regole va alla deriva (ma meglio sarebbe dire che semplicemente una società che non abbia regole non può sussistere). E’ vero anche che le regole hanno qualcosa a che fare con l’educazione. Ma è ancora più vero che un eccesso di regole può bloccare una società e trasformare l’educazione in qualcosa di diverso.
Che la regola abbia a che fare con l’educazione sembra confermato dall’etimologia: regola viene da regere, ossia reggere, guidare, governare, dominare. Regula in latino è sia la legge che il regolo, la riga che si usa per tracciare linee diritte. Il senso della regole è appunto questo: fare in modo che ciò che è contorto diventi lineare; ricondurre la complessità delle cose alla semplicità della linea retta. Una semplicità che però non è priva di pericoli. Diceva il pittore ed architetto Friedensreich Hundertwasser: “Vi sono milioni di linee, ma una sola è portatrice di morte: quella tracciata con la riga”.

Il mondo in cui viviamo è, appunto, un mondo tracciato con la riga. Sono tracciate con la riga le nostre costruzioni, nelle quali l’angolo retto è onnipresente, e sono tracciate con la riga le nostre azioni. Una regola sociale ha due funzioni: la prima è quella di dire cosa si può fare e cosa non si può fare, la seconda è quella di dirci come dobbiamo fare quello che possiamo fare. C’è la regola, irrinunciabile, che ci dice che è sbagliato uccidere, e c’è la regola che ci dice come dobbiamo comportarci a tavola, o interagire con un estraneo in ascensore, o corteggiare una donna. Se il numero di cose che non possiamo fare aumenta a dismisura, restiamo schiacciati sotto il peso delle regole, ma ancora più grave è il pericolo per noi che viene dal secondo aspetto delle regole. La conseguenza è la totale devitalizzazione e perdita di spontaneità. In ogni nostra azione siamo condizionati dalle forme sociali (Simmel), come se fossimo costretti per tutta la vita a recitare un copione scritto da altri. La letteratura del Novecento, a cominciare dal nostro Pirandello, ha mostrato le conseguenze anche tragiche di questa iper-regolarizzazione della nostra vita.
Le regole sono dunque una cosa pericolosa, da maneggiare con estrema cura; un veleno sociale che, preso a piccole dosi, può anche fare bene, ma facendo molta attenzione a non eccedere. Ed è questo esattamente che deve fare l’educatore. Non fare a meno delle regole, ma nemmeno pensare che dare o imporre regole sia l’essenza dell’educazione. Stabilire poche regole, invece; e stabilirle bene: e cioè insieme.
Uno degli aspetti antipatici delle regole è infatti questo: in genere sono stabilite da altri e le troviamo già fatte, senza altra scelta che adeguarci o ribellarsi. E’ incredibile come in una società che si dice democratica i momenti nei quali i cittadini decidono le regole insieme – in qualsiasi ambito – siano rari. Se non ci si ribella a questo stato di cose, è perché siamo abituati fin da piccoli ad adeguarci a regole decise da altri. Il primo criterio da seguire riguardo alle regole dovrebbe dunque essere questo: discutere le regole insieme e stabilirle solo quando la loro razionalità appare indiscutibile. E’ una cosa quasi inconcepibile, se si resta nel paradigma asimmetrico, secondo il quale l’educatore occupa una posizione superiore rispetto all’educando e può esercitare su di lui una forma di dominio. In questo caso l’educatore, come un pessimo politico, si considera al di sopra della norma poiché è colui che impone la norma. C’è una relazione effettiva tra questo modo di educare e la degenerazione della democrazia in una oligarchia irresponsabile. Coloro che da bambini hanno avuto genitori che non rispettavano loro stessi le norme che imponevano saranno da adulti cittadini incapaci di ribellarsi ad una classe politica che si considera al di sopra di ogni regola e ritiene di non dover rispondere a nessuno dei propri comportamenti.
Che le regole siano condivise, dunque. Discusse insieme e rispettate da tutti. Questa è, mi si passi il bisticcio, la prima regole delle regole in educazione. La seconda è: poche regole, comunque. Solo quelle davvero indispensabili. La terza regola è: non dimenticare mai che le regole sono un mezzo, non un fine. Servono per far funzionare le cose, ed è tutto qui il loro senso. Le regole diventano un fine quando il rapporto educativo è un rapporto di dominio. Allora l’educatore sente la necessità di imporre regole anche inutili solo per verificare se il figlio, o lo studente, le segue, accettando così la sua autorità.
Ma che fare se le regole non vengono rispettate? Quando le regole vengono imposte da un’autorità, il problema ha una soluzione semplice: la punizione. Il bambino che non ha rispettato la regola sarà rimproverato, andrà a letto senza cena o prenderà uno schiaffo. La logica è quella del comportamentismo: un rinforzo negativo che dovrebbe estinguere il comportamento sgradevole. Pare però che le cose non vadano proprio così. Una punizione, se vissuta come ingiusta, può compromettere il rapporto educativo e far nascere sentimenti di ostilità e di ribellione, o al contrario può diventare una routine, qualcosa cui si finisce per fare il callo. Ciò da cui bisogna partire è la premessa stessa di qualsiasi relazione educativa: la fiducia. Il che vuol dire sapere che il bambino o l’adolescente hanno avuto buone ragioni per non rispettare le regole. Può essere che quelle regole, discusse e decise insieme molto tempo prima, abbiano bisogno di essere riviste, perché le situazioni cambiano e le persone crescono. Può essere che la trasgressione alla regola sia il segno di un disagio o di un malessere. Può essere, ancora, che si tratti di una semplice debolezza, non diversa da quelle che hanno gli adulti. In ogni caso, l’unico strumento intelligente è il dialogo. Attraverso il dialogo si capirà se c’è da cambiare, ancora una volta insieme, le regole, oppure se c’è qualche problema di fondo (ad esempio un momento di stanchezza psico-fisica che rende particolarmente pesante al bambino l’incombenza pomeridiana dei compiti); e sempre attraverso il dialogo sarà possibile far emergere l’evidenza dell’errore e concordare sulla necessità di evitare di farne altri.
Articolo per la rubrica Educazione e Libertà, nel sito Il bambino naturale.

E se il digitale fosse analogico?

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Il ministro dell’istruzione Maria Chiara Carrozza ha posto un freno all’innovazione, che fino ad ieri pareva inarrestabile, consistente nella sostituzione dei libri scolastici cartacei con libri digitali. “L’accelerazione sui libri digitali – ha dichiarato – non poggiava su alcuna seria e documentata validazione di carattere pedagogico e culturale, così come non sono state valutate le possibili ricadute sulla salute di bambini e adolescenti esposti a un uso massiccio di apparecchiature tecnologiche”. Molti hanno tirato un sospiro di sollievo: le case editrici, senz’altro, ma anche molti docenti, tutt’altro che entusiasti di questo passaggio epocale, affezionati alla cara vecchia carta ed ai tomi che con il loro peso sembrano additare l’importanza della cultura e dello studio e la necessità del sacrificio anche fisico. Molti altri invece si dicono preoccupati. Sono quelli per i quali l’introduzione dei libri digitali rappresenta l’avvio di un cambiamento reale che per la scuola non è più rimandabile.
Non voglio entrare nel merito delle parole di Carrozza, ossia indagare se davvero manca una “validazione pedagogica” e se i dispositivi di lettura digitale possono avere ricadute sulla salute dei bambini. Vorrei invece provare a dissipare un equivoco a proposito dell’uso dell’aggettivo “digitale”. In tutto questo dibattito, digitale è sinonimo di elettronico ed informatico. I libri digitali sono gli ebook, in formato Pdf ed ePub, mentre per scuola digitale si intende una scuola nella quale sono presenti e vengono adoperati molti dispositivi elettronici ed informatici (computer, lavagna elettronica, tablet eccetera). Ma l’aggettivo digitale, nelle scienze umane, ha un significato più complesso. Nella Pragmatica della comunicazione umana, pubblicata nel 1967 da Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson si legge, tra l’altro, che ogni comunicazione può essere analogica o digitale. Una comunicazione si può considerare analogica quando esiste, appunto, una analogia tra i segni e ciò che i segni indicano. Se disegno un cane, si tratta di comunicazione analogica, perché c’è somiglianza tra il cane disegnato ed il cane reale. Se, per indicare che ho fame, mi porto la mano alla bocca mimando l’atto di mangiare, sto comunicando ancora in modo analogico. Se invece scrivo o dico “cane”, non c’è alcuna somiglianza tra il segno e la cosa indicata. Quelle quattro lettere non hanno un rapporto evidente con ciò che indicano, e lo dimostra il fatto che chi non conosce la lingua non sarà in grado di capire cosa sto dicendo. Nella comunicazione numerica o digitale il rapporto tra il segno ed il suo significato è il risultato di una associazione convenzionale.

Ora, se le cose stanno così, l’introduzione di libri elettronici nel sistema scolastico ha poco a che fare con il digitale. Un libro elettronico è, appunto, elettronico: non digitale. Per libro elettronico si intende l’equivalente informatico di un libro di carta: come un libro di carta è costituito in gran parte di parole, accompagnate da qualche immagine. Una nota casa editrice scolastica offre ai docenti che adottano i suoi libri un cd-rom con il libro di testo proiettabile sulla lavagna elettronica. Eccola dunque, l’innovazione. Prima gli studenti stavano ognuno nel suo banco, col libro di testo davanti, ed il docente faceva lezione illustrando il libro di testo. Ora gli studenti stanno ognuno nel suo banco, davanti al tablet, o se preferiscono possono seguirlo alla lavagna elettronica. Non c’è nessun cambiamento. O meglio, un cambiamento c’è, ed è nel fatto che gli studenti potranno portare un solo tablet al posto di quattro o cinque libri. Ma si tratta di un cambiamento che interessa l’ortopedia, non la pedagogia.
Immaginiamo, però, che le case editrici propongano qualcosa di diverso da una semplice copia del libro di testo. Che facciano – come è auspicabile – delle vere e proprie app sulle diverse discipline. Cosa può offrire di più un’applicazione rispetto ad un libro? Un libro è fatto, abbiamo detto, di testo, soprattutto, e di immagini. Una applicazione può offrire, di più, video, suoni, animazioni, una diversità di informazioni che per il libro è impensabile. Ma di che tipo di informazioni si tratta? Siamo nel campo del digitale o non piuttosto in quello dell’analogico? Un libro di testo che descrive una teoria della fisica in via teorica procede sicuramente in modo digitale. Un’app che invece illustra quella teoria limitando il testo ed introducendo invece un’animazione, in grado di semplificare i concetti e mostrarli visivamente, ha un innegabile carattere analogico. Il che vuol dire, in sostanza, che la diffusione di strumenti cosiddetti digitali nelle nostre scuole avrebbe l’effetto di aumentare le informazioni analogiche offerte agli studenti, a discapito del digitale.
Paradossalmente, con gli strumenti digitali avremmo una scuola meno digitale.
Non esprimo alcun giudizio su questo dato di fatto: non lamento il tramonto della conoscenza astratta e la sua sostituzione con la conoscenza per immersione. Osservo piuttosto – ed in questa osservazione, sì, c’è un giudizio – che anche nel caso in cui arrivassero nelle scuole materiali didattici evoluti, docenti e studenti resterebbero dei semplici fruitori di materiali costruiti da altri. Ed è qui che la rivoluzione digitale si dimostra una falsa rivoluzione. Per meglio dire: l’illusione di rivoluzione di cui abbiamo bisogno per continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto.
Eppure davvero l’informatica potrebbe rivoluzionare il nostro modo di fare scuola (fermo restando che, volendo rivoluzionarla davvero, potremmo anche fare a meno dell’informatica). In un’epoca che non conosceva i computer, Celestin Freinet lavorava così con i suoi ragazzi: niente libro di testo, niente lezione; si faceva ricerca, i risultati venivano scritti insieme e poi stampati nella tipografia scolastica. Nascevano così dei testi che venivano poi condivisi con le altre scuole, con le quali la scuola aveva un rapporto di cooperazione.
Tutte queste operazioni si potrebbero fare oggi molto più agevolmente con gli strumenti informatici, come ha mostrato Emanuela Zibordi nell’ebook Testi scolastici 2.0 (40k Unofficial). Per fare ricerca si può utilizzare la rete Internet con le sue straordinarie biblioteche digitali: Google Libri, Gallica, Web Archive. Per scrivere i testi insieme si possono usare strumenti di scrittura collaborativa come Google Drive. I testi possono essere facilmente impaginati per creare libri elettronici, oppure messi in rete sul sito Internet della scuola, o ancora, se si preferisce il cartaceo, stampati con il print-on-demand. Meglio ancora sarebbe rilasciare i testi con una licenza aperta che dia la possibilità ai lettori non solo di distribuire, ma anche di modificare i contenuti, avviando così una collaborazione tra più autori e più scuole.
Lo scenario appena tratteggiato è assolutamente irrealistico. Richiede un passaggio che sarebbe realmente rivoluzionario: il passaggio da sapere confezionato e consegnato dal docente allo studente attraverso la lezione (e per lo più acquisito mnemonicamente dallo studente) al sapere come ricerca comune, riflessione, analisi, discussione, confronto. In altri termini, un passaggio dalla ripetizione alla creatività.

Editoriale per Stato Quotidiano.

Dove vogliamo andare?

Il centro commerciale Mongolfiera di Foggia
Settant’anni fa i bombardamenti che rasero al suolo Foggia, facendo migliaia di vittime (il numero esatto è controverso, ma certo si tratta di diverse migliaia). A chi chiedeva le ragioni dell’accanimento sulla nostra città degli anglo-americani, questi rispondevano, pare, con l’argomento del compasso. Si punti un compasso su Foggia, dicevano; si traccerà intorno un’area che comprende l’Italia meridionale ed i Balcani: ossia una zona di altissima importanza strategica per le operazioni militari.
A distanza di sessant’anni l’argomento del compasso torna nelle parole di Bernardo Marinelli, amministratore delegato della Genera Consulting. Intervistato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, dice: “Fissate un compasso su Foggia e allargate il raggio, vi renderete conto che la grande ricchezza di questa città è la sua posizione geografica”. Da un lato, il Foggiano è facilmente raggiungibile dal Barese, ma anche da parte della Lucania e della Campania; dall’altro, si tratta di una zona interessata da un forte flusso legato alle attrattive turistiche del Gargano ed a quelle più o meno religiose di San Giovanni Rotondo. E’ la zona ideale, insomma, per sistemare una impresa economica ambiziosa. E quella della Genera Consulting, gruppo marchigiano, è ambiziosissima: più di duecentocinquanta milioni di investimento e mille e cinquecento posti di lavoro per un grande parco acquatico, con ipermercato, hotel, terme eccetera. Il progetto prevede anche un parco archeologico che ingloberebbe l’area della tomba della Medusa, attualmente in stato di abbandono.
Due cambiamenti importanti per la nostra città sono stati negli ultimi anni la nascita del primo ipermercato, La Mongolfiera, e più recentemente quella della Città del Cinema. Due strutture con le quali la piccola città di provincia ha provato l’ebbrezza del non-luogo. Il successo è stato immediato e privo di oscillazioni. La Mongolfiera è diventata meta di vere e proprie gite – gente che arriva dalla provincia e passa nell’ipermercato tutta la giornata -, la Città del cinema è riuscita ad attirate anche chi il cinema non l’ha mai amato. Le conseguenze per la città non sono state lievi. Molti piccoli negozi hanno chiuso i battenti, incapaci di fronteggiare la concorrenza della grande distribuzione. Il negozietto di quartiere della nostra infanzia è diventato sempre più un ricordo sbiadito. Gli stessi supermercati soffrono, schiacciati dagli ipermercati. La nascita della Città del Cinema ha provocato la chiusura di quasi tutti i cinema cittadini: il Capitol, l’Ariston, il Cicolella (il Falso Movimento ha chiuso per altre ragioni, sostituito dalla Sala Farina, che benché parrocchiale si sforza di mantenere la tradizione del buon cinema).
Quello che sta succedendo, a Foggia e altrove, è che la città si sta progressivamente svuotando in favore di strutture dedicate interamente al consumo. E’ l’anima stessa della nostra società, il consumo; l’acquisto è il rituale sacro che la tiene in vita, il gesto che dà senso all’individuo e lo lega alla collettività. Se questo è ciò che conta, allora i luoghi più significativi saranno quelli nei quali meglio potrà realizzarsi il rituale del consumo. La trasformazione della città in palinsesto semicancellato dalle vetrine dei negozi non è più sufficiente. Essa cede al luogo del consumo puro o del puro divertimento (che è anch’esso consumo). L’ipermercato è il luogo nel quale l’individuo si abbandona felicemente alla massa e in essa di oblia. Ne è attratto come la farfalla dal fuoco, come il mistico da Dio. In questo abbandono prova un piacere particolarissimo, il piacere di chi compie la sua missione. Perché, come avvertiva Baudrillard, nella società dei consumi il consumo non è un diritto o un piacere, ma un dovere del cittadino.
Se il progetto venisse approvato ed andasse in porto, si accelererebbe una movimento che già procede per conto suo, apparentemente inarrestabile, e che può essere caratterizzato come la periferizzazione del centro. La città diventa satellite della sua periferia. La gente passa sempre più tempo nelle grandi aree commerciali al di fuori del centro abitato; la città come luogo di scambio umano diventa poco significativa, poiché poco significativo è lo scambio umano. La realizzazione di una grande area dedicata al consumo ed al divertimento favorirebbe la trasformazione della città in semplice luogo da attraversare per andare altrove, un quasi dormitorio privo di interesse, in cui qualche attrattiva riuscirebbe ad avere soltanto la via centrale con i negozi alla moda.
Ho usato poco fa le parole sviluppo e progresso come se fossero sinonimi. Per Pasolini, come è noto, non lo erano. Lo sviluppo era quello che volevano gli industriali che producono merci e beni, ed hanno bisogno di gente che li compri; il progresso lo volevano gli altri: gli operai, i contadini, gli intellettuali. Ha ancora senso, oggi, questa distinzione? Esistono ancora persone che vogliono il progresso? E’ evidente che il consumo non è più, solo, una faccenda da industriali. Il consumo non lo vuole solo chi produce beni inutili. Esso, come detto, è ormai un dovere sociale oltre che una necessità psicologica.
La più grande trasformazione italiana dell’ultimo secolo, quella del “boom economico” della fine degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta del secolo scorso, si è svolta con una rapidità ed una forza di persuasione che non ha quasi incontrato ostacoli. Pasolini è stato tra i pochissimi a tentare di opporsi, e non è probabilmente azzardato scorgere nella sua morte tragica ed avvolta ancora nel mistero un segno dello scacco di chi cerca di fronteggiare, a mani nude e con la sola forza della sua intelligenza, dinamiche tanto più grandi di lui. Se ci chiediamo cosa resta del suo impegno – e di quello di tanti altri: ad esempio il mite ed inquieto Alex Langer – ci imbattiamo in qualche domanda: dove vogliamo andare? siamo sicuri di volere questo sviluppo? è questa davvero la società che vogliamo?
Queste domande sono oggi al centro del dibattito economico, filosofico e sociologico: basti pensare ad autori come Serge Latouche, Amartya Sen, Vandana Shiva. Autori che si interrogano sui limiti dello sviluppo e sulle sue contraddizioni. E tuttavia, benché molti di questi autori siano conosciuti anche al di fuori della cerchia dei cosiddetti intellettuali, le loro idee stentano a suscitare un dibattito pubblico.
Un cambiamento importante come quello legato alla creazione di una grande area commerciale a ridosso della città non può essere affidato soltanto alla classe politica. Ogni cambiamento dovrebbe essere discusso, analizzato, soppesato. E dietro questa discussione dovrebbe esserci la riflessione più ampia sulle domande di cui s’è detto. Dove vogliamo andare? Una comunità che non si interroga su questo – che non trova i luoghi ed i modi per farlo – è condannata a subire i cambiamenti che la riguardano. Per essere precisi, non è nemmeno più una comunità, ma una ossimorica massa fatta di atomi che nulla hanno in comune tra loro. E’ appena il caso di notare che questo dovrebbe essere il compito della politica: interrogare, suscitare domande e cercare insieme le risposte, avviare il dialogo e favorire l’autocoscienza. Chiedere incessantemente: dove vogliamo andare? Ove manchi questo inesausto interrogare, si può esser certi che siam in presenza di cattiva politica: quella che non fa il bene comune, ma persegue gli interessi privati.
Editoriale per  Stato Quotidiano.

La relazione educativa

Una scuola ad Islamabad. Foto di Muhammad Muheisen
Una delle convinzioni più radicate in chi educa è che la relazione educativa debba essere inevitabilmente asimmetrica: l’educatore in alto (il padre, il professore), l’educando in basso (il figlio, lo studente). Certo, i segni esteriori di questa asimmetria – le tante cattedre con la pedana che ancora esistono nelle nostre scuole, ad esempio – suscitano qualche disagio, ma la struttura mentale, per così dire, è ancora ben salda. Da chi è nella posizione di figlio o di studente ci si aspetta un atteggiamento di sottomissione più o meno palese. A scuola il professore dà del tu allo studente, il quale darà del lei o addirittura (soprattutto al sud) del voi al docente. Uno degli affronti che i docenti tollerano meno è quando lo studente “risponde”, vale a dire quando tenta di porre il confronto con il docente su un piano di parità. I docenti ne parlano come di un azzardo inaudito, che bisogna rintuzzare prontamente; e quando si tratta di attribuire il voto di condotta, a fine anno, non si mancherà di tener conto di questi azzardi. L’alunno da nove o dieci in condotta è per definizione l’alunno che “non risponde”.
Una delle lamentele più diffuse nella pubblicistica pedagogica di largo consumo riguarda l’assottigliarsi reale o presunto di questa asimmetria. I genitori, si dice, oggi non vogliono più fare i genitori. Accorciano le distanze con i loro figli: vogliono essere loro amici. Non solo non sono più autoritari, non sanno essere nemmeno autorevoli. C’è qualcosa di vero in queste lamentele. E’ vero, mi sembra, che oggi non vi sia in giro molta voglia di impegnarsi in una relazione educativa, vale a dire in una relazione profonda, impegnativa, anche destabilizzante. E’ una conseguenza della deriva generale delle nostre relazioni umane, legata al tipo di società che abbiamo creato – o che abbiamo lasciato che altri creassero. Da un lato c’è l’individualismo, il mito dell’io, che ostacola (ma non sempre) la dedizione all’altro senza la quale non c’è educazione; dall’altro c’è il consumismo che brucia il tempo della relazione, erode la calma necessaria per un incontro significativo, mercifica tutto quello che può mercificare, rendendo sempre più esigui gli spazi – umani, sociali, esistenziali – per essere oltre sé stessi.

Una relazione educativa è una relazione umana autentica. Essa si riconosce in primo luogo per l’impegno: ci coinvolge, ci prende, ci costringe a metterci a nudo, ad abbandonarci. In una relazione educativa non solo si comunica, ma ci si comunica, ossia si mette in comune il proprio essere. In secondo luogo, in una relazione educativa l’altro è fine e non mezzo. Se l’io fa ombra al tu, se chiediamo all’altro di farci da specchio e di rimandarci un’immagine gratificante di noi stessi, che sostenga ed alimenti il nostro narcisismo, non siamo in una relazione educativa. Infine, una relazione educativa è dinamica, è uno star-dentro, ma anche un camminare-verso. L’educazione è sempre una situazione di ricerca – del bene, del vero, del bello, del giusto. Cose che non sono mai un possesso, ma indicano una direzione verso la quale muoversi.
Nulla di tutto ciò è possibile in una relazione asimmetrica. Non è possibile il coinvolgimento personale. In una relazione asimmetrica chi occupa la posizione superiore è distante, nascosto dietro la maschera del suo ruolo, e di sé comunica solo ciò che il ruolo prevede. Non c’è comunicazione, ossia lo scambio reciproco di due persone che mettono in comune il loro essere e cercano una forma di comunione, ma mera trasmissione, secondo la distinzione di Danilo Dolci. Per comunicare bisogna essere sullo stesso piano, altrimenti c’è il semplice passaggio di un messaggio dall’emittente al destinatario, che non ha facoltà di replica (o ha una facoltà di replica molto parziale). In una relazione educativa (meglio: pseudo-educativa) asimmetrica, chi educa rappresenta il modello verso il quale l’educando deve muoversi, l’ideale umano che deve adeguare e realizzare. L’io dell’educatore occupa tutto lo spazio della relazione educativa, schiacciando il tu dello studente. Peraltro, il proporsi come modelli ha come inevitabile risvolto l’inautenticità, poiché chiunque ha debolezze più o meno gravi, fragilità, contraddizioni, incoerenze. Per proporsi come modelli occorre nasconderli agli occhi dell’educando; una cosa non difficile, se si resta dietro la maschera del ruolo.
In una relazione asimmetrica il dinamismo è parziale. C’è un movimento che va dall’educando all’educatore. L’educatore è il modello, l’educando si muove verso di lui. Così, almeno, crede l’educatore. Provate a chiedere a degli studenti se considerano i loro docenti dei modelli. Molti di loro risponderanno semplicemente ridendo. In famiglia va diversamente – la famiglia è il valore fondamentale dei ragazzi di oggi: le ribellioni degli anni Settanta sembrano essere definitivamente alle spalle -, ma non sono comunque molti i genitori percepiti come modelli dai figli.
C’è vera educazione quando il dinamismo è totale, ossia riguarda tanto l’educatore quanto l’educando. Il dinamismo, in realtà, fa saltare anche questa distinzione terminologica. Poiché l’educazione è un processo che non ha mai fine, l’educatore non esiste: ognuno è sempre un educando. Il cosiddetto educatore si sta educando, e molto può imparare dal cosiddetto educando. Nella relazione educativa abbiamo dunque due soggetti in formazione che si muovono insieme. Può essere che uno sia più avanzato, che cammini davanti all’altro, ma il cammino resta comune. Nessuno sa esattamente dove porterà il cammino. Quello che si sa, è cosa spinge a mettersi in cammino: la ricerca della verità, della giustizia, del bene. Nella società delle cose, i valori sono non-cose per eccellenza; non sono mai dati, disponibili, tangibili. Sono stelle distanti, a volte occultate dalle nuvole, spesso così fioche che sembra che stiano per spegnersi.
Gli pseudo-educatori, quelli con la maschera, fanno un gran parlare di valori. Interpretano il loro ruolo come quello di chi consegna e trasmette i valori più sacri. Ma i valori di cui parlano spesso non sono affatto valori. Un valore si riconosce anch’esso per il dinamismo: esso è al di là dell’esistente, lo giudica, lo inquieta, lo costringe al cambiamento. I valori di cui parlano gli pseudo-educatori sono invece i valori dell’esistente, l’accettazione e glorificazione della società così com’è: ossia ingiusta, falsa, violenta, inautentica. Gli pseudo-educatori sono rappresentanti dell’ordine costituito, sicari dello status quo, nemici del sogno e dell’utopia. Quella che chiamano educazione è la riproduzione dell’esistente, la replica delle vecchie generazioni nelle nuove.
Il compito dell’educazione sembra essere quello di fare in modo che la società cambi pur restando la stessa. Cambino pure le tecnologie, le abitudini, gli stili di vita, purché restino immutati i rapporti di potere. Le istituzioni scolastiche educano all’individualismo, alla ricerca personale del profitto e del successo. Ad inserirsi nel modo migliore nel mondo così com’è, senza avere la presunzione di cambiarlo.
Per cambiarlo bisognerebbe uscire dall’individualismo. Legarsi all’altro, comunicare con lui, condividere il proprio disagio – che ordinariamente ognuno soffre per sé: perché è convinzione diffusa che, se si è infelici nella società del benessere, è per mancanza propria, non del sistema – e cercare insieme una via d’uscita. Per questo la vera educazione, intesa come un muoversi insieme alla ricerca dei valori, è sempre anche politica.
Articolo per la rubrica Educazione e libertà nel sito Il bambino naturale.