Nulla di eclatante

Renato Accorinti

L’elezione di Renato Accorinti a sindaco di Messina è una delle notizie più confortanti degli ultimi anni. Esiste in Italia una tradizione politica nobilissima, per quanto sotterranea. E’ la tradizione di Aldo Capitini, di Danilo Dolci, di Lanza del Vasto, di Ernesto Balducci, di Tonino Bello, di Alex Langer, di migliaia di uomini e donne che hanno lottato per la pace, per la giustizia, per un rinnovamento sociale che parte dalla considerazione dell’ultimo, dell’escluso, di colui che è schiacciato o espulso dal sistema. Nella mia analisi, si tratta di una tradizione che interpreta il terzo principio del motto della rivoluzione francese: quello della fraternità. Abbiamo avuto nel Novecento una tradizione politica centrata sul valore della libertà (quella liberale) ed una tradizione politica fondata sulla giustizia (quella comunista). La nonviolenza rappresenta la terza via: la via di una politica della fraternità. E’ evidente che si tratta di una politica diversa. La giustizia e la libertà sono valori che possono concretizzarsi giuridicamente, incarnarsi in leggi e provvedimenti governativi. Nel caso della fraternità, questo è possibile solo parzialmente. Certo, leggi in favore della solidarietà e dell’inclusione degli svantaggiati vanno nella direzione di una società fraterna; ma per realizzare realmente un ideale simile non è sufficiente la politica dall’alto. Occorre un mutamento, una trasformazione della vita individuale. Occorre uscire dall’individualismo e dall’atomismo giuridico per acquistare il senso della necessità dell’altro, l’urgenza della sua presenza accanto. Occorre un cambiamento morale e spirituale. E’ per questo che quella della nonviolenza è una via così difficile. Perché opera, per dirla con Langer, più lentamente, più profondamente, più dolcemente (lentius, profundius, suavius).

Se dovessi indicare un personaggio politico da porre agli antipodi di Accorinti – un personaggio cioè politicamente ed umanamente squallido ed insignificante – avrei, purtroppo, l’imbarazzo della scelta. Tra i tanti, mi viene in mente Antonio Razzi. Eletto nel 2006 nelle fila dell’Italia dei Valori, è stato rieletto nel 2013 con il Popolo delle Libertà. Di qualche giorno fa è un suo intervento in Senato a proposito del corridoio ferroviario Pescara-Roma. Un intervento nel quale questo senatore della Repubblica italiana si è dimostrato incapace si esprimersi correttamente in lingua italiana e di esporre con passabile chiarezza il suo pensiero.
Chi volesse saperne di più su questo figuro può leggere la pagina Wikipedia a lui dedicata. Dalla quale può apprendere anche gli squallidi retroscena del suo voto di fiducia al governo Berlusconi nel dicembre 2010:

« […] Andavamo e dicevamo “Presidente, siamo noi due, quanto ci molla? […] Qui, ce ne date un milione?” E io e lui, con un milione ci facevamo una campagna elettorale, facevamo un partito nuovo. […] Perché per noi due il governo s’è salvato. Che 314 a 311. Se io e Scilipoti andavamo di là per un voto cadeva, cadeva Berlusconi. […] Io avevo già deciso da un mese prima [di votare la fiducia, ndr]. […] Io non avevo la pensione ancora. Dieci giorni mi mancavano. E per dieci giorni mi inculavano. Perché se si votava dal 28 come era in programma, il 28 di marzo, io per dieci giorni non pigliavo la pensione. […] »

Cerchiamo ora la pagina Wikipedia dedicata a Renato Accorinti. Fortunatamente c’è, ed è anche approfondita. Ma è una pagina che ha avuto un percorso travagliato, come è possibile constatare leggendo la Discussione che la accompagna.  “Che cosa ha fatto di cosi eclatante o di carattere enciclopedico Renato Accorinti per finire su wikipedia?”, si chiede qualcuno. Già, che cosa ha fatto Accorinti? Ha lottato contro l’installazione della base militare a Comiso, si è impegnato contro la mafia, per i diritti civili, per l’ambiente ed i beni culturali. Nulla di eclatante.
Molte cose eclatanti ha fatto, invece, il senatore Razzi. Cose per le quali merita una pagina Wikipedia, senza che nessuno osi fare obiezioni. Perché lui appartiene al potere, o meglio al dominio. E’ della casta, come si dice. E anche il più spregevole appartenente alla casta merita il suo riconoscimento, la sua pagina enciclopedica, la sua visibilità. Mentre anche il più nobile rappresentante dell’altra politica, quella che nasce dalla società civile, merita l’oblio, quando non lo scherno.
Gli italiani non fanno che lamentarsi della casta, ma non si accorgono che essa è incardinata profondamente nei loro schemi mentali. Un istinto più forte di loro li porta a genuflettersi di fronte ai segni del dominio, ad ammirare l’auto blu, a provare soggezione di fronte alla scorta ed ai bodyguard. E, specularmente, a considerare insignificante chiunque, pur ben diversamente dedito al bene comune, non acceda alla sfera del dominio e non mostri anche esteriormente il suo status.

La questione cardinale dell’acacia

Il fiore dell’acacia di Costantinopoli
(www.neoplantarum.it)
Ieri sera eravamo seduti sotto un’acacia di Costantinopoli, in piazza Giordano: io, Xho e Happy (il cane che vive con noi). Happy leccava beata il residuo dello yogurt al pistacchio di Xho, tuffando il muso nel bicchiere. Da un capannello di gente a due passi s’è staccata una bambina, attirata da Happy. Ha cominciato a giocarci, accarezzandole la testa e le orecchie; poi ha chiamato la sorella più piccola, all’inizio timorosa, poi conquistata anche lei dalla dolcezza di quella cagnona dalle orecchie enormi.
C’era un profumo molto forte di fiori. “Ma da dove viene?”, ha detto Xho. Saranno i fiori dell’acacia? E per verificare l’ipotesi è saltata sull’erba e li ha annusati. “Sì, sono i fiori dell’albero”. La bambina più grande l’ha subito imitata, saltando anche lei sull’erba ed annusando i fiori (che sono peraltro molto belli): “Sì, sono questi fiori”. In quello stesso istante la madre s’è accorta di lei; e: “Scendi dall’erba, ci sono gli scarafaggi”. Immediatamente le ha fatto eco il padre: “Ci sono gli scarafaggi”. La bambina ha ubbidito. Ha lasciato perdere i fiori dell’acacia di Costantinopoli – bellissimi, profumatissimi – per paura di immaginari scarafaggi.
Ecco, ho pensato, come funziona quella che chiamano educazione. Alla fine il mondo ti pare uno schifo, con scarafaggi che spuntano ovunque: perché hai disimparato ad accorgerti dei fiori.

Educare alla libertà attraverso la libertà

Fonte: http://onsparklingform.tumblr.com

Che l’educazione abbia a che fare con la libertà nessuno, o quasi, lo nega. Tutti affermano che fine dell’educazione è formare persone libere ed autonome. Il problema è che la libertà è concepita come il fine, non come il mezzo dell’educazione. Ci si aspetta che la persona diventi libera attraverso un percorso formativo che comincia con l’assoluta negazione della libertà e diviene man mano meno rigido, fino a lasciare libero il soggetto ormai maturo. Il bambino è considerato un po’ come una pianta (le metafore botaniche sono frequentissime in pedagogia), che dev’essere legata, avvinta ad un palo affinché cresca dritta, e non segua le proprie disordinate inclinazioni. Quando la pianta è ormai adulta e ben formata, la si può slegare e lasciare che cresca come vuole. Come vuole? Crescerà, in realtà, come vuole chi dall’esterno ha pensato il suo sviluppo. Ed è quello che accade ai bambini. Avvinti dall’autorità, impacciati, costretti in mille modi, vengono lasciati in pace solo quando hanno interiorizzato le norme, quando hanno ormai quello che Augusto Boal chiama “il poliziotto nella testa” (flic dans la tete).

Libertà è, essenzialmente, autonomia. La parola autonomia rimanda a due cose: sé stessi (autos) e la legge (nomos). Autonomia può voler dire due cose: o offrirsi spontaneamente, da sé, alla legge, oppure darsi la legge da sé. La prima è la concezione conservatrice della libertà e dell’autonomia. Libero, si dice, è soltanto colui che è giunto a consentire interiormente con la legge, fino al punto di non volere se non ciò che la legge stessa vuole. Un soggetto libero così inteso non viola la legge perché l’ha interiorizzata al punto tale da essere tutt’uno con essa. Non si può dire che la legge venga dall’esterno a limitare la sua azione; la legge è tutt’uno con lui. La seconda concezione considera la legge come qualcosa che il soggetto non interiorizza, ma conquista da sé: e può essere che vi sia un contrasto tra ciò che lui ritiene buono e giusto e ciò che la società impone come buono e giusto. Una libertà di questo genere è indubbiamente pericolosa per la società, poiché mette in discussione i valori, le norme, i rituali condivisi; al tempo stesso è per essa una benedizione, perché le offre il dinamismo che è necessario per farla evolvere, per aprirla a nuove posizioni morali, a più avanzate conquiste civili. Chi oggi è un deviante, domani appare come un precursore. L’obiettore di coscienza che oggi è un criminale da sbattere in galera, domani apparirà come colui che ha difeso il sacrosanto diritto di non uccidere, che non può che essere riconosciuto dallo Stato.

E’ chiaro che i conservatori, quando parlano di libertà, si riferiscono a qualcosa che libertà non è. Ciò spiega il curioso paradosso riguardante i fini ed i mezzi. Come è evidente, esiste una relazione necessaria tra fini e mezzi: non è possibile raggiungere certi fini, se non con mezzi che ad essi sono omologhi. C’è un rapporto tra il seme e l’albero, tra l’azione e la sua conseguenza. Educare alla libertà attraverso la coercizione è semplicemente impossibile, se intendiamo la libertà come darsi da sé la legge. Una persona che fin dalla prima infanzia è stata educata a seguire la legge imposta da un’autorità difficilmente riuscirà, da adulta, ad essere realmente autonoma. Ciò non vuol dire che non potrà esserlo affatto. Fortunatamente, l’educazione ha influenza sullo sviluppo personale solo fino ad un certo punto. Il processo educativo è guidato dall’interno non meno che dall’esterno; e spesso accade che il movimento interiore contrasti efficacemente l’azione esteriore e prevalga su essa (ed abbiamo allora i ragazzi rivoluzionari figli di conservatori). La libertà cui si educherebbe in questo modo è la stessa del cane che, ben addestrato, può essere lasciato senza guinzaglio, poiché si è certi che non scapperà. Ma essere liberi vuol dire essere capaci di scappare.
Non si educa alla libertà se non attraverso la libertà. Tornando alla metafora botanica, ciò significa riconoscere alla pianta il diritto di crescere come vuole. C’è una saggezza vitale nella pianta, come nel bambino. A Maria Montessori va riconosciuto il merito di aver richiamato l’attenzione sul grande, straordinario lavoro che il bambino fa da sé – non un foglio bianco su cui gli adulti scrivono cose via via più complesse, ma un progetto che si svolge progressivamente da sé, assimilando ciò di cui ha bisogno dall’ambiente. Non c’è nulla che un bambino reclami con più forza del fare da sé: è un suo bisogno evolutivo. Ed è compito di chi lo educa provare un profondo rispetto per questo bisogno e riconoscere al bambino tutte le volte che è possibile il diritto e l’agio di muoversi autonomamente.
Coloro che negano la libertà al bambino in nome dell’educazione sono guidati da una visione positiva del mondo adulto. Essi sono consapevoli del potenziale rivoluzionario che c’è nel bambino, e per questo ritengono necessario intervenire al più presto per inquadrarlo, per fargli accettare il sistema socio-economico con le sue regole. Questa consapevolezza del potenziale rivoluzionario infantile è alla base anche dell’educazione libertaria. La differenza è che tale potenziale è in questo caso percepito positivamente, poiché si è dolorosamente consapevoli delle storture della società. Nel bambino, nella sua libertà, nella sua gioia si riconosce la leva per trasformare un mondo malato di tristezza, di autorità, di violenza. Educare il bambino vuol dire al tempo stesso andare alla sua scuola, imparare la sua lezione, ascoltare la sua voce.
Articolo per Il bambino naturale.

Femminicidio e cultura del dominio

Murale a Roma, quartiere San Lorenzo
(fonte: roma.repubblica.it)
Nei giorni scorsi alcune donne ed alcuni uomini si sono incontrati a Foggia, convocati dalla associazione Donne in rete (presieduta da Rita Saraò), per discutere insieme di violenza sulle donne. E’ l’inizio di un percorso comune di riflessione e di autoanalisi di cui non si può non avvertire la necessità e l’urgenza, ed al quale auguro di fare molta strada e di coinvolgere quante più persone possibile.
L’avvio di questa riflessione comune non può che essere la domanda che sempre torna a tormentarci di fronte alla violenza: perché? Perché accade? Perché si violenta, si tortura, si uccide? E perché lo si fa alle donne? Vorrei azzardare qualche ipotesi, offrendo il mio minimo contributo alla discussione. Lo faccio da persona che si è occupata a lungo, con esiti che non sta a me giudicare, del problema della violenza. E lo faccio con la consapevolezza, che mi viene da quegli stessi studi, che ogni tentativo di pensare la violenza non è che un balbettio.
Perché, dunque, la violenza sulle donne? Per cercare di rispondere a questa domanda ci sono due vie: si può considerare la violenza sulle donne come un fatto a sé stante o la si può considerare una forma di una violenza più generale. Il mio tentativo di analisi seguirà questa seconda via. La violenza sulle donne mi preoccupa, ma non è l’unica forma di violenza che mi preoccupa. Mi preoccupa la violenza dell’uomo sull’uomo (e sulla donna) che prende la forma dello sfruttamento economico, mi preoccupa la violenza sui bambini, mi preoccupa la violenza sui diversi, siano omosessuali, Rom o extracomunitari, mi preoccupa la terribile violenza sugli animali. Credo che ci sia un nesso essenziale tra tutte queste forme di violenza, al punto tale che non sia possibile combattere una senza combattere anche le altre. Mi rendo conto che alle donne può dar fastidio che la loro causa sia accostata a quella degli animali; d’altra parte, vi sono anche antispecisti come Leonardo Caffo, cui dà fastidio che la causa degli animali sia accostata a quella delle donne. Eppure credo che l’antispecismo politico – la posizione di chi afferma che le lotte di liberazione umana ed animale debbano procedere di pari passo – abbia ottime ragioni.

Quale è la radice della violenza? Proviamo ad immaginare una situazione in cui non esista violenza. Non riesco a figurarmela se non come una situazione simmetrica dal punto di vista relazionale: vi sono persone che sono sullo stesso piano, dotate di pari dignità, che sono in grado di vivere insieme. Poiché sono antispecista, mi piace immaginare che in questa situazione ideale la simmetria riguardi anche gli animali. Immaginiamo ora che qualcosa venga a turbare questa armonia originaria. Accade, ecco, che qualcuno si sottrae alla simmetria. Si pone in una posizione superiore, costringendo gli altri in una posizione inferiore. L’armonia è infranta.
Questa è la situazione che io chiamo di dominio. Ed è, esattamente, la situazione nella quale siamo da qualche millennio. Non da sempre. Che il dominio, e la violenza che esso comporta, siano fatti naturali, nati con l’essere umano, è una affermazione che si può confutare con la semplice considerazione delle società di caccia e raccolta. Le quali non erano società comuniste, come vuole qualcuno, ma nemmeno conoscevano le disuguaglianze e lo sfruttamento delle società che sono venute dopo. Si dirà: ma si tratta di società arcaiche, lontane, che nulla hanno più da dirci. Non è proprio così. Le società acquisitive coprono circa il 90% della vita dell’uomo sulla terra; cioè: nella gran parte della sua vicenda su questo pianeta, l’uomo è vissuto così.
Oggi vive diversamente. Che è accaduto? E’ accaduto che è nata la proprietà, che è per eccellenza il fattore di separazione e di gerarchizzazione. Con le società agricole e pastorali e poi con le prime organizzazioni statali, si è impiantato il dominio. L’uomo si è separato dalla donna (la distinzione di ruoli era molto debole nelle società acquisitive) e dall’animale. E’ nata una cultura del dominio che ha giustificato e codificato questa distinzione. La Bibbia, espressione di una società pastorale, è interamente attraversata dalla cultura del dominio. C’è un Dio che è Padre, ed è un padre violento, collerico, mutevole, perfino capriccioso ed arbitrario, che si presenta come Signore degli eserciti ed esige lo sterminio dei nemici. C’è il mandato di dominare la natura e gli animali, dato al maschio da questo Dio maschio. E c’è la donna considerata come una proprietà maschile, una cosa tra le altre. Nel comandamento dell’Esodo è evidente la logica del dominio: “Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Esodo, 20, 17). La casa, la donna, lo schiavo, l’animale. Le cose e gli esseri viventi ridotti a cose. La reificazione è l’essenza stessa del dominio: poiché essenza delle cosa è l’usabilità, la passività, l’essere sempre disponibile.
Il capitalismo è la massima espressione storica della cultura del dominio, nata con le prime società agricole e pastorali. E’ il sistema economico culturale che industrializza la violenza sugli animali, portando la reificazione della vita animale a livelli prima assolutamente inconcepibili. L’animale come essere vivente autonomo semplicemente non esiste più. Fin dalla nascita è una cosa al servizio dell’uomo. E’ il sistema economico che ha bisogno di milioni, di miliardi di schiavi, nonostante annunci la liberazione dal bisogno e dalla povertà. La produzione continua di merci a buon mercato non è possibile se non grazie a una manodopera a costo bassissimo. E’ il sistema che devasta la natura, privata ormai di qualsiasi sacralità e considerata un campo di risorse da sfruttare. Ed è, anche, il sistema che fa del corpo della donna un oggetto da usare per il piacere del maschio; anzi, di più: la donna diventa una moneta, una cosa buona per acquistare altre cose (ne parla Walter Siti in Resistere non serve a niente). Non è possibile non scorgere un nesso essenziale tra tutte queste reificazioni.
I giornali si occupano di femminicidio soprattutto quando le donne vengono uccise. Ma c’è un femminicidio meno apparente, ma non meno grave. E’ la terribile riduzione a cose di migliaia di donne – spesso ragazzine, a volte anche minorenni – che vengono rese schiave e costrette alla prostituzione sulle nostre strade. C’è qualcosa di più, in questo fenomeno, del bisogno di soddisfare un bisogno sessuale. C’è il bisogno non solo di possedere un corpo, ma di umiliarlo, degradarlo, di ridurlo davvero a cosa. Basta leggere le testimonianze raccolte da una ex schiava nigeriana, Isoke Aikpitanyi, in Le ragazze di Benin City (Melampo editore) per rendersi conto delle terribili violenze che quotidianamente migliaia di maschi italiani fanno subire a migliaia di donne, segnate per di più dall’essere straniere, e dunque ai loro occhi doppiamente disprezzabili.
Ma, si chiederà, perché questa violenza caratterizza il nostro paese più che altri? Per una serie di ragioni. Per il modo particolare in cui si è affermato nel nostro paese il capitalismo, spazzando via nel giro di pochi anni la civiltà contadina (che era anch’essa segnata dalla violenza sulle donne) ed affermandosi in una forma particolarmente rozza e volgare. Per il fascismo, questa vera e propria malattia dello spirito da cui il nostro paese non è mai davvero guarito. La commistione delle due cose – un capitalismo rozzo ed il persistere di una mentalità fascista – ha dato vita a quel tipo di italiano rappresentato alla perfezione dall’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi: un uomo che non avrebbe avuto il successo elettorale che ha avuto se gli italiani – i maschi italiani – non si fossero identificati con lui e con il suo delirio di dominio. E, infine, per il peso della tradizione cattolica, che ha impedito ed impacciato il diffondersi di una sessualità liberata e liberante, sana e priva di tabù, riproponendo peraltro lo stereotipo della donna moglie e madre che è funzionale al dominio maschile (completata, naturalmente, dalla figura della schiava-prostituta).
Se questa analisi non è sbagliata, lottare contro il femminicidio vuol dire diverse cose. Vuol dire lottare contro la cultura da cui vediamo – decostruirla, per dirla con Derrida. Ripensare, ad esempio, il Dio-Padre, Signore degli Eserciti, come un Dio-Madre (il Dio della partoriente diverso dal Dio delle zecche, diceva Danilo Dolci). Vuol dire lottare contro un sistema economico che riduce a cose, una cultura che, sotto l’apparenza del benessere, è malata di necrofilia e di violenza. E vuol dire cercare, qui ed ora, si creare situazioni simmetriche, progettare aree sociali libere dal dominio, zone autonome nelle quali uomini e donne (e, mi piace immaginare, anche animali) possano incontrarsi e comunicare in modo diverso.
Editoriale per Stato Quotidiano.

Le mucche si sono estinte

La mucca come oggetto industriale

Vorrei considerare brevemente una obiezione al vegetarianesimo che mi è stata avanzata recentemente da un collega, docente di scienze naturali. L’obiezione è così formulata: 

Se si diffondesse il vegetarianesimo, molte specie animali – quelle attualmente sfruttate per scopri alimentari – si estinguerebbero. Gli asini, ad esempio, erano quasi estinti; stanno ricominciando a diffondersi da quando si è tornati a mangiare la loro carne e bere il loro latte.

Mi pare che a questo argomento si possa replicare con quattro controargomenti.
1. Cosa vuol dire che una specie non si è estinta? Quando una specie esiste? Richiamiamo alla mente la situazione del film Matrix: gli esseri umani sono sfruttati dalle macchine come semplici fonti di energia, chiusi ed immobili in distese sterminate di baccelli. Si può dire, in quel caso, che la specie umana esiste ancora? E’ lecito dubitarlo, poiché un essere umano non è una batteria. Lo stesso vale anche per gli animali. Il criterio generale è: un essere vivente non è una cosa. Quando viene ridotto a cosa, semplicemente non esiste più come essere vivente. Le mucche ed i polli ridotti a cose dal sistema industriale non esistono più come mucche e polli. Si sono estinti. 

2. Esistono molte specie animali che sono al di fuori del sistema di sfruttamento industriale, senza per questo essere a rischio di estinzione. Non esiste dunque (per fortuna) alcun nesso essenziale tra la mancanza di sfruttamento industriale e l’estinzione di una specie vivente.
3. Se si diffondesse il vegetarianesimo fino al punto di smantellare il sistema industriale di sfruttamento degli animali, si diffonderebbe con esso anche la sensibilità ecologica che ne è alla base. E dunque si tutelerebbe la biodiversità e si difenderebbero le specie a rischio di estinzione.
4. Chi è vegetariano non lo è soltanto perché ama gli animali e vorrebbe liberarli dallo sfruttamento, ma anche perché il sistema industriale di sfruttamento animale è tra le cause principali a) della mancanza di cibo sufficiente per tutti gli esseri umani, b) della compromissione dell’ecosistema. In genere chi si preoccupa di questi due aspetti è anche sensibile alla salvaguardia delle vite animali; tuttavia l’eventuale estinzione di specie animali non è un argomento valido contro i punti a) e b).

Dino Frisullo e la vera politica

Dino Frisullo

Cos’è la politica? A giudicare dall’operare della classe politica italiana – ma altrove non va diversamente – negli ultimi decenni, bisognerebbe rispondere così: è il movimento che distacca il centro della società dalla periferia. Grazie all’opera della politica e dei politici, ci sono un numero ristretto di persone che hanno denaro, prestigio, potere, e molte altre persone che non ne hanno. La politica, come la guerra secondo Eraclito, “gli uni fa schiavi e gli altri liberi”. E’ sufficiente considerare la distribuzione delle ricchezze in Italia e nel mondo per constatare i risultati di questa politica. Secondo dati della Banca d’Italia, il 10% delle famiglie italiane possiedono il 45% delle ricchezze del nostro paese. Nel mondo va anche peggio: secondo uno studio delle Nazioni Unite, il 2% della popolazione mondiale possiede più della metà della ricchezza mondiale complessiva.

La cosiddetta classe politica rientra, naturalmente, nel nucleo ricco e privilegiato della società, e ciò senza differenze di rilievo tra la cosiddetta destra e la cosiddetta sinistra. I politici sono fondamentalmente uomini e donne d’affari, ben attenti a difendere i propri interessi economici anche quando parlano di solidarietà e giustizia sociale.
Ma la politica – bisogna dirlo con chiarezza – non è questa. La politica è altro; ed altri sono i politici. La politica è il movimento che cerca con sforzo continuo, inesausto, di portare al centro della società coloro che sono alla periferia. La politica non tollera l’esclusione, la marginalizzazione, il rifiuto. E’ costruzione della polis intesa come il luogo in cui tutti sono liberi e nessuno è inferiore a nessuno. C’è politica ovunque qualcuno lotta perché qualche altro possa ottenere il riconoscimento pieno dei suoi diritti. C’è politica ovunque qualcuno scopre il volto dell’altro.
Come il sacro, la politica autentica la trovi dove meno te l’aspetti: non nelle chiese, il primo; non nei parlamenti, il secondo. La trovi, la politica, lì dove qualcuno aiuta una prostituta, un pregiudicato, un clandestino, un lavoratore sfruttato a conquistare la propria piena umanità. Ed è lì che in genere trovi anche il sacro.

La politica escludente, la politica degli uomini e delle donne d’affari, esalta i suoi eroi. Dedica loro strade e piazze, scopre targhe, erige busti. I protagonisti della politica autentica sono invece per lo più uomini e donne che agiscono in silenzio, senza che nessuno conosca i loro nomi. E quando si giunge a parlare di loro, è solo per qualche tempo: presto vengono dimenticati. Forse è giusto così – lo esige l’umiltà che sempre accompagna chi lavora davvero per il bene comune -, ma forse non lo è. Forse è giusto, doveroso, necessario ricordarli, trarli dall’oblio, presentarli per quello che sono stati: uomini e donne coraggiosi, che hanno tentato di accendere una luce nel buio che ci circonda.
Dieci anni fa, il 5 giugno del 2003, è scomparso uno di questi politici autentici: Dino Frisullo. E’ nato a Foggia, ma a Foggia non sono molti a ricordarsi di lui. Non ci sono vie o piazze dedicate a lui: ed è bene così. Ma non è un bene l’oblio, la dimenticanza.
Di Frisullo i giornali italiani si occuparono nel 1998, quando finì nelle terribili carceri turche per la sua difesa ferma, coraggiosa, ma sempre priva di qualsiasi atto di violenza, dei diritti del popolo curdo. I giornali lo chiamavano pacifista, e per qualche tempo si appassionarono anche alle vicende di quel personaggio singolare, che finiva in galera per i diritti di un popolo di cui in Italia non importava nulla a nessuno. Ma non era pacifista, Frisullo, benché fosse una persona assolutamente pacifica ed aliena dalla violenza. Nel bellissimo Testamento, scritto quando già la malattia aveva minato il suo fisico, si definisce “un comunista avido di conoscenza e d’amore, vissuto e morto povero e curioso”. Il suo comunismo consisteva nel mettere in pratica le parole del Che Guevara: “Soprattutto, siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo”. E Frisullo le sentiva nel più profondo, fin dentro la carne, le ingiustizie commesse contro i curdi, ma anche le infinite ingiustizie commesse contro i migranti, contro coloro che cercano una vita degna di un essere umano e trovano discriminazioni, violenze, disumanità, disprezzo.
Una raccolta di suoi scritti pubblicata dopo la sua morte si intitola Con lo sguardo delle vittime. E’ una frase che sintetizza alla perfezione la sua prospettiva, che è la stessa di chiunque faccia politica in senso autentico. Visto dall’alto, anche il peggiore degli inferni può sembrare un paradiso. Non c’è deserto che non abbia le sue oasi, e chi sta nell’oasi può ritenere che ovunque ci sia acqua e verde in abbondanza. Fare politica è uscire dall’oasi e affrontare il deserto. E’ guardare il mondo dal basso, dal di fuori, da prospettive eccentriche. Far proprio il punto di vista dell’escluso. Gandhi chiamava Sarvodaya la considerazione di un sistema economico dal punto di vista dei più deboli. Dal punto di vista capitalistico, conta l’incremento dal PIL, l’aumento della ricchezze generale: e poco importa se questa ricchezza finisca nelle mani di una ristretta élite, mentre la maggioranza della gente resta povera. Dal punto di vista di una politica autentica, si può anche perseguire l’obiettivo di diminuire la ricchezza e lo sviluppo generale (lo sostiene, con ottime ragioni, il movimento per la decrescita), lottando invece affinché nessuno resti indietro ed a tutti siano garantite condizioni di vita degne di un essere umano.
Negli ultimi decenni la vita pubblica italiana ha subito un processo di involuzione. Siamo diventati sempre più chiusi, più feroci, più miopi nella difesa della nostra tranquillità quotidiana, del nostro miserabile benessere borghese, pronti a qualsiasi violenza verso chiunque sia al di fuori della cerchia della nostra pseudo-rispettabilità. Abbiamo inventato la figura del clandestino, abbiamo portato al governo miserabili leghisti, abbiamo rigettato a mare i migranti. Ed abbiamo fatto guerre per difendere i nostri interessi economici.
Questa è stata, questa è la normalità della nostra vita pubblica. Dino Frisullo, con pochi altri, ha provato a insegnarci che no, non è normalità questa. Che la vita – la possibilità della gioia – è altrove. Un altrove che va conquistato giorno per giorno, lottando contro quella cultura necrofila che “gli uni fa schiavi e gli altri liberi”.