Beppe Grillo e il test del cinese

Elio Vittorini

In un post di due mesi fa ponevo il problema della presenza di più di qualche razzista tra i cittadini del Movimento 5 Stelle. Essendo un movimento non ideologico, notavo, il M5S ha imbarcato gente tanto di destra quanto di sinistra. Di qui la necessità di una scelta: o prendere posizione sul tema dei diritti civili, e perdere l’appoggio dei razzisti, o evitare qualsiasi presa di posizione su ciò che potrebbe dividere le due anime del movimento, quella di destra e quella di sinistra. Non avevo previsto una terza possibilità: la virata a destra. Un post di ieri l’altro sul blog di Beppe Grillo toglie ogni dubbio: è questa la via presa dal M5S. 

Kabobo d’Italia, titola Grillo: e fa l’elenco degli immigrati che in Italia hanno compiuto reati gravi. Un gioco facile, nel migliore stile leghista. Un gioco idiota, nel migliore stile leghista. Perché dimentica, Grillo, Gianluca Casseri, il fascista vicino a Casapound che nel dicembre del 2011 a Firenze ha ucciso in strada due senegalesi. Dimentica, Grillo, gli spari contro i lavoratori africani a Rosarno, nel gennaio del 2010. Dimentica i sei immigrati africani – tutti estranei a qualsiasi traffico illecito – massacrati dalla camorra a Castelvolturno nel settembre del 2008. Dimentica i migliaia di lavoratori sfruttati e ridotti in schiavitù nelle nostre campagne. E dimentica le migliaia di ragazze africane e dell’est ridotte in schiavitù sulle nostre strade e violentate dal maschio italiano – lo stesso che è responsabile della grande maggioranza delle violenze (uccisioni e stupri) sulle stesse donne italiane.
Dica quel che vuole, d’ora in poi, Grillo. Cianci di quello che gli pare, mandi a fare in culo chi vuole. Non mi interessa. C’è un criterio semplice per valutare un movimento politico. Potremmo chiamarlo il test del cinese. Ricordate Vittorini? Ricordate quel capitolo meraviglioso di Conversazione in Sicilia? Ecco:

– Vedi? – io esclamai. – Un povero cinese è più povero di tutti gli altri. Cosa pensi tu di lui?
– Al diavolo il cinese, – disse.
E io esclamai:  – Vedi? Egli è più povero di tutti i poveri e tu lo mandi al diavolo. E quando lo hai mandato al diavolo e lo pensi, così povero nel mondo,  senza speranza e mandato al diavolo, non ti sembra che sia più uomo, più genere umano di tutti? (1)


Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle (perché, benché Grillo e Casaleggio affermino di non esserne i leader, di fatto il Movimento non ha mostrato alcuna autonomia) non hanno superato il test del cinese. Il che vuol dire che, semplicemente, non hanno da dare nulla alla nostra democrazia ed alla nostra vita civile.



(1) E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, BUR, Milano 2000, p.252.

Educare è come togliere la polvere

Questo articolo inaugura la mia rubrica Educazione e libertà, nel sito Il bambino naturale.

La conta dei frutti delle azioni nel mondo evanes­cente è una di quelle opere che si situano felicemente all’incrocio tra culture e civiltà diverse: nel caso specifico quella musulmana e quella buddhista del Tibet.
Sull’autore, Khache Phalu (Phalu il kashmiro), nulle sono le notizie certe e molte le congetture: c’è chi vuole che si tratti del quinto o del sesto Dalai Lama, chi di un ricco mercante musulmano amico del Panchen Lama, chi del Panchen Lama stesso. Quello che è certo è che l’autore di quel trattatello che ancora oggi i tibetani venerano come un indispensabile manuale di saggezza popolare conosceva bene la letteratura del sufismo islamico, ed in particolare la mistica di Sa’di.
Nel libretto c’è una sezione dedicata all’educazione che, come il resto del libro, è piena di un buon senso tutt’altro che superficiale. Tra le altre, mi ha colpito questa sentenza: “Finché non vengano rip­ulite dalla terra da cui sono emerse, non puoi sapere se una pietra è preziosa né se una las­tra di met­allo levi­gato è uno spec­chio” (trad. G. Magi).
La pietra è, naturalmente, il bambino. Phalu il kashmiro ci dice che non dovremmo mai dare giudizi affrettati sui bambini o sugli adolescenti, poiché non possiamo sapere cosa c’è davvero sotto la polvere. Quello che verrà fuori non lo sa nessuno. Il bambino che oggi appare indolente, capriccioso, incapace di mantenere un impegno, irresponsabile, potrà diventare un adulto rigoroso, serio, profondo. Ma potrà diventarlo solo se gli adulti lo aiuteranno, e per poterlo aiutare gli adulti – i suoi educatori – dovranno avere la capacità di vedere in lui l’oltre, il più, il diverso. Leggi tutto “Educare è come togliere la polvere”

Se i bambini diventano nemici

Calcio per strada
(www.maidirecalcio.com)
Chi si trovi a passare oggi davanti allo stadio “Pino Zaccheria” di Foggia non può immaginare quello che era quel posto negli anni ottanta. Il vasto piazzale antistante lo stadio – ora chiuso da cancelli – era interamente colonizzato ed attentamente lottizzato da bambini ed adolescenti. In decine di campi di calcio tirati fuori dall’asfalto a forza di immaginazione, con le porte delimitate da semplici pietre, centinaia di ragazzini si esercitavano nella nobile arte del calcio. Ma la festa non si limitava a quell’area, che pure ne era il centro. Ogni marciapiede, ogni slargo, ogni pezzo d’asfalto libero era buono per giocare a pallone. Se lo spazio era poco, si poteva giocare a pallamuro, una variante rumorosissima della pelota. Se era un luogo tranquillo, senza molte automobili, si poteva azzardare una partita a mazza e bustico, variante popolare dell’antico gioco della lippa: con una mazza di legno si colpiva un fuso, che partiva a grande velocità – finendo spesso per centrare qualche passante.
Non era una vita facile, sia chiaro. Allo stadio il tuo pezzo di campo dovevi conquistartelo. Non era infrequente che dai quartieri popolari scendessero tribù ostili, che ti intimavano di lasciar loro il campo al più presto, minacciando in caso contrario le violenze più efferate (e spesso, per risparmiare il fiato, cominciavano senz’altro con queste ultime). C’erano poi quelli che ti bucavano il pallone, o che si rifiutavano di restituirtelo se finiva nelle loro mani. Per un certo periodo abbiamo giocato a pallone su un pezzo di marciapiede che era davanti alla Sala del Regno dei Testimoni di Geova. A volte il pallone finiva nella sala durante una delle loro riunioni, ed occorreva farsi coraggio per andare a recuperarlo in quel consesso religioso – che in genere lo restituiva senza farsi troppo distrarre dalla cosa. Peggio andava quando il pallone finiva sul terrazzino che sovrastava la sala. In quel caso bisognava arrampicarsi, ed il coraggio necessario era il doppio, perché il padrone del terrazzino era uno 007.
A volte il pallone finiva contro lo specchietto di un’automobile, e per quanto si facesse in fretta a correre via e nascondersi, tornando a casa si trovava inevitabilmente la propria madre furiosa per aver già ricevuto la visita del proprietario dell’automobile che pretendeva il risarcimento del danno. Una volta – si era allo stadio – riuscimmo a far saltare gli occhiali ad un passante senza nemmeno sfiorargli la testa.
Ho accennato agli 007. Per noi ragazzi di strada degli anni ottanta gli 007 erano quei pensionati la cui unica attività riconoscibile consisteva nel darci la caccia. Persone con un sistema nervoso estremamente sensibile, preso a martellate dai nostri palloni e dalle nostre grida. Li chiamavamo 007 perché avevano la capacità ammirabile di comparire quando meno te l’aspettavi. Nel bel mezzo della partita, quando gli animi cominciavano a scaldarsi, compariva lo 007, e la partita era finita. O meglio: ricominciava da qualche altra parte.
Negli anni ottanta c’era una guerra tra i ragazzini ed i pensionati, tra il diritto al gioco ed il diritto al riposo. Considerando come sono andate le cose, è difficile negare che abbiano vinto loro: i pensionati. Del resto, l’età media si è innalzata, ci sono più vecchi che bambini. Una vittoria anagrafica. (Hanno vinto i vecchi: può essere una buona sintesi di qualche decennio di politica italiana.)
Le strade si sono svuotate, sono diventate sempre più silenziose, eppure mai abbastanza silenziose, perché la retorica della quiete pubblica è insaziabile. Una città non è mai abbastanza silenziosa, per chi esige silenzio. Lo sarà, forse, quando diventerà un immenso cimitero, ed i morti saranno gli unici a far compagnia ai vecchi.
I bambini passano la loro vita chiusi in casa. Una vita da gatti, più che da cani. Quei pochi che ancora tentano una qualche appropriazione degli spazio pubblici diventano nemici da perseguitare formalmente. L’azione degli 007 non basta più: ora occorre che si muovano le autorità. Ed è così che alcuni paesi del Barese vietano formalmente ai bambini di giocare: le contravvenzioni, per chi sia trovato a giocare per strada, giungono fino a cinquecento euro. A sorprendere non è tanto l’ordinanza, quanto ciò che l’ordinanza presuppone: che cioè esistano ancora dei bambini che giocano per strada.
Tre circostanze hanno portato via i bambini dalle strade. La prima è la paura dei genitori. Oggi si fanno meno figli – spesso uno soltanto – e si presta loro una attenzione assoluta, che per lo più ha risvolti negativi. Si vive nel costante terrore che possa succedere loro qualcosa, che quell’unico bene possa essere minacciato da qualche malintenzionato. Si sentono tante cose brutte, del resto. E veniamo alla seconda circostanza: l’ossessione securitaria. Negli ultimi decenni ci siamo lasciati sempre più convincere che le nostre città sono piene di pericoli, che ad ogni angolo si nasconda un’insidia. I dati oggettivi dicono il contrario, ma i dati oggettivi contano poco, se la televisione martella con notizie di cronaca nera. E dunque ci si chiude in casa e si vota per chi promette di cacciar via tutti coloro che rappresentano minacce reali o potenziali (evitando di posare l’attenzione sulle minacce reali, naturalmente; su coloro che fanno prosperare i propri interessi finanziari a spese della collettività). Quel che è peggio, si chiudono in casa (o in ambienti protetti) i bambini. In questo modo – e veniamo alla terza circostanza – si interpreta anche una esigenza del sistema. Nella società dei consumi bisogna essere consumatori: è un imperativo al quale non si può derogare. Chi non consuma non esiste. Ora, dei bambini che giocano al pallone per strada non solo dei consumatori. Il loro consumo si limita al pallone: poca cosa. Non pagano per usare la strada o il marciapiede; sono al di fuori della logica del commercio. Se li chiudiamo in casa e li piazziamo davanti ad un televisore o ad un computer, li trasformiamo in consumatori: consumatori di programmi televisivi (telespettatori), consumatori di prodotti pubblicizzati dalla televisione, consumatori di videogiochi, e così via. Se proprio vogliono uscire, possiamo mandarli in palestra, o in piscina, o alla scuola di calcetto (ma non avviene così spesso, a giudicare dalla preoccupante obesità dei bambini); oppure a scuola di violino, o di danza. Pagando, naturalmente. E’ così che anche i bambini fanno girare l’economia.
Non sorprende l’ordinanza, ho detto; ma indigna. Indigna che si sia così ciechi da non capire che il fatto che esistano ancora dei bambini che giocano per strada è un patrimonio comune da tutelare, e non un problema da combattere aggiungendo i bambini – i bambini liberi, non ancora aggiogati al consumo – alla lista infinita dei nemici del sistema dei consumi e del benessere.

Editoriale per Stato Quotidiano.