29 aprile, lunedì

Questa mattina ho accompagnato i miei studenti ad una specie di partita del cuore: gli studenti di un istituto tecnico contro gli ospiti di una casa di accoglienza per extracomunitari. Prima della partita la preside tenta di prendere la parola. I suoi studenti la sommergono di fischi. Penso: dev'essere una pessima preside, per essere odiata così dai suoi studenti anche dopo aver organizzato una cosa del genere. Ma mi sbaglio. Nella mia carriera di docente (mi si passi l'ossimoro) ho visto gli studenti degli istituti tecnici e professionali fischiare e dileggiare chiunque. Ci sono passato anch'io, una volta che mi lasciai malauguratamente coinvolgere in un incontro con i poeti locali (mi si passi questo secondo ossimoro). Perché lo fanno? La risposta è, forse, nelle cose che dicevano qualche giorno fa le mie studentesse di prima. Che, cioè, chi studia è un "Pierino". Usano il termine esattamente nel senso del "Pierino del dottore" di don Milani. Pierini sono i professori, più Pierini sono quelli che scrivono libri e che fanno conferenze per parlare agli altri. E i Pierini vanno fischiati (perché nemici di classe? può essere).Seduto tra gli spalti ho finito di leggere Storia di un corpo di Pennac. Correndo il rischio di mettermi a piangere davanti ai miei studenti. La storia del declino inesorabile, e inesorabilmente doloroso, di un corpo colpisce alcune delle mie paure più radicate. Non la paura della morte, ma la paura del consumarsi del corpo e del dolore. Se ci rifletto meglio, mi accorgo che non è proprio del dolore che ho paura. Sono in grado di sopportare il dolore, se è una cosa che viene dal mio corpo - come i terribili mal di schiena che a volte (ma fortunatamente non succede da due anni) mi costringono all'immobilità. Vi vedo quasi un richiamo alla consapevolezza, per dirla buddhisticamente. No, a terrorizzarmi è il dolore che viene dal di fuori; o anche solo il fastidio: basta che ci sia qualcuno che fa qualcosa con il mio corpo. Mi spaventano le pur banali analisi del sangue - e mi basta nominarle o sentirle nominare per flettere automaticamente il gomito (come sto facendo ora), quasi a difendermi dall'intrusione di un ago immaginario. Ciò di cui ho terrore è essere in balìa di altri. Che qualcuno faccia del mio corpo qualcosa, mentre non sono cosciente. Terrore di dover essere operato, più di ogni altra cosa. Essere operato: essere oggetto per l'altro. Corpo, null'altro che corpo.Tornando dallo stadio ho visto due poliziotti che indicavano educatamente, facendo anche un disegno su un pezzo di cartone, la strada ad un ragazzo africano. Devo ricordamene quando mi succederà di discutere di poliziotti.

Educare nella società delle merci

Tutto è merce, tutto si può comprare e vendere, anzi tutto si deve comprare e vendere. Anche gli esseri umani.
Tutto, in quanto merce, è superficie, apparenza, vetrina. Vivere vuol dire stare nella vetrina ed attrarre i clienti: sedurre, portare con sé. Nessuno è escluso dal gioco universale della seduzione. Ad un corpo non è concesso di diventare vecchio. Occorre che si mantenga sempre giovane, perché non cessi di sedurre. Anche a costo di diventare ridicolo. Donne di quarant’anni si gonfiano le labbra a dismisura, uomini di settant’anni ottengono dalla chirurgia un volto finto in cambio delle loro rughe autentiche. Questo si chiama, oggi, bellezza: il tentativo disperato, triste, patetico di sedurre, di costringere a volgere lo sguardo, di imporre la propria presenza. Una degenerazione della bellezza e del suo senso. Se la bellezza autentica porta sempre con sé una scheggia di sofferenza con la quale ci ferisce e ci commuove, dandoci il presentimento di un altrove, la bellezza sguaiata delle merci, che spesso confina con il mostruoso, tiene avvinti al qui ed ora, è la negazione di ogni trascendimento, avanza una arrogante pretesa di appagamento totale.

Elogio delle parole cattive

George CarlinUna delle prime cose che un bambino impara a scuola - se non l'ha prima imparato in famiglia - è che le parole non sono tutte uguali: esistono parole e parolacce, parole buone e parole cattive. Le prime vanno bene, le seconde no. Un bambino può e deve chiedere alla maestra di andare in bagno; non può e non deve chiederle di andare al cesso. Se lo fa, la maestra lo richiama. Se insiste, la maestra comincia a preoccuparsi: c'è nel bambino qualcosa che non va.Cosa c'è che non va in un bambino che dice cesso invece di bagno? A pensarci, la parola cesso e la parola bagno indicano esattamente la stessa cosa. Coprono, cioè, lo stesso campo semantico, sono due significanti che hanno lo stesso significato. Cesso non è dunque una parola imprecisa. Perché allora non va bene? Perché ha un brutto suono, dirà qualcuno. Le parolacce sono tali perché suonano male? Ma se così fosse, dovrebbero essere parolacce anche messo, nesso, lesso. Sono tutte parole che hanno un suono quasi identico a cesso: eppure non sono considerate parolacce. Culo è una parolaccia, ma mulo va benissimo. Cazzo è una parolaccia, ma pazzo e razzo no. Perché, allora, il bagno non si può chiamare cesso, il sedere non si può chiamare culo, il pene non si può chiamare cazzo? Perché siamo in una società stratificata. Una società, cioè, in cui non c'è uguaglianza. Esistono le classi sociali, ovvero ci sono persone che hanno più soldi e persone che hanno meno soldi, persone che hanno più potere e persone che hanno meno potere, persone che hanno più status e persone che hanno meno status. Ci sono, insomma, i ricchi e i poveri. E i ricchi sono quelli che decidono, per così dire, le regole del gioco. Sono quelli che controllano le istituzioni, a cominciare dalla scuola, e grazie a questo controllo hanno il potere di decidere quali, tra le idee in circolazione, sono giuste e quali sbagliate, quali accettabili e quali inaccettabili. La stessa cosa fanno con le parole. I ricchi decidono quali parole sono parole e quali parole sono parolacce. Non è difficile capire perché, allora, bagno va bene e cesso no. Bagno è la parola che usano i ricchi, cesso la parola che usano i poveri. E le parole che usano i poveri non sono parole, ma parolacce.I ricchi sembrano ossessionati dal sesso. Ci pensano talmente spesso, che avvertono il bisogno di rimuovere tutto ciò che vi fa riferimento. Non riescono ad avvertire il sesso come qualcosa di naturale. Ne sono attratti irresistibilmente e, proprio per questo, lo temono. E' per questo che gli innumerevoli termini che i proletari usano per riferirsi al sesso ed ai suoi strumenti sono, per i ricchi, parole oscene. Se proprio bisogna parlare di quello che uomini e donne hanno tra le gambe, bisognerà usare parole dal sapore scientifico: pene e vagina. Cazzo e fica non vanno bene, così come il rapporto sessuale è fare l'amore, non scopare. Soprattutto, il sesso è[…]
Quello che possiamo imparare dai rom

Quello che possiamo imparare dai rom

In occasione della Giornata Internazionale di rom e sinti, il presidente della Camera Laura Boldrini ha ricevuto a Montecitorio una delegazione di giovani rappresentanti di queste due comunità. Il post con il quale ha comunicato l'iniziativa sulla sua pagina Facebook ha dato il via ad una serie tanto prevedibile quanto preoccupante di commenti razzistici. Ne cito solo alcuni a caso: "propongo la cittadinanza onoraria rom per la signora Boldrini. così almeno si dimetterà da italiana"; "paradossalmente difenderesti anche un rom che ti stuprasse.. è la loro cultura... o che ti rubasse in casa.. (hanno milioni proventi dai furti) e sussidi????... tu sei strana... e pericolosa... una mente perversa... se non pensassi che sei italiana... mi preoccuperei... sei una scoria un pericolo per la nazione... tu Monti Napolitano dovreste essere giudicati per 'Alto Tradimento'"; "Siate fieri della vostra identita'....(che non avete)!! Siate fieri di quello che fate,(quindi rubare)...il 90% degli Italiani non li vuole...ma sono qua e li manteniamo pure!!! Che schifo!!!!"; "Tanto un altro paio di anni e andremo a cacciarli con i forconi!!! (intendo i nostri politici)". Ho detto che era una reazione prevedibile. Basta che si tocchi, o che si sfiori soltanto, l'argomento dei rom, per suscitare una catena di reazioni palesemente razzistiche. Basta attaccare i rom per essere immediatamente confortati dall'approvazione generale, così come basta difenderli per ritrovarsi disperatamente soli. Essere rom in Italia, oggi, vuol dire essere in pericolo. Esiste una tensione latente, che in qualsiasi momento può esplodere e portare alla caccia al rom. La cronaca degli ultimi anni offre non pochi esempi: dalle aggressioni in seguito all'omicidio di Giovanna Reggiani, nel 2007, ai raid punitivi dell'anno seguente a Ponticelli, Napoli, dopo un controverso tentativo di rapimento di una bambina da parte di una ragazzina rom fino all'aggressione al campo rom delle Vallette, a Torino, nel gennaio del 2012, motivato dalla violenza sessuale ai danni di una ragazzina torinese da parte di due uomini rom. Violenza sessuale mai esistita, come si scoprirà poi: la sedicenne si era inventata tutto per coprire un rapporto sessuale con un fidanzatino italiano. Quando si parla di rom, non si va troppo per il sottile. Gli organi d'informazione sbattono il mostro in prima pagina, i cittadini indignati recuperano immediatamente fiaccole e bastoni, pronti alla strage. Nel rapporto annuale di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo un paragrafo a parte, nella sezione che riguarda il nostro paese, è riservato ai rom. Non è difficile comprendere le ragioni di questo odio così radicato e così difficilmente scalfibile. I rom rappresentano in Italia una minoranza particolarmente vulnerabile, priva di difese. Pur essendo presenti sul nostro territorio da secoli, i rom non sono ancora riconosciuti come minoranza etnica. Pur essendo stati sterminati insieme agli ebrei nei campi di concentramento, non sono inseriti nella commemorazione annuale della Giornata della memoria. Lo sterminio dei rom - il Porrajmos - è un evento rimosso dalla memoria collettiva. Non se ne parla a scuola, non ne riferiscono i libri di storia. Perché presentare i rom[…]

L’equivoco dello schiaffo educativo

E’ triste, nel paese che ha dato i natali a Maria Montessori, dover scrivere ancora oggi un articolo per confutare l’opinione che gli schiaffi possano essere educativi. E’ triste ma necessario, poiché si tratta di una convinzione ancora ben salda e diffusa, come lo è la pratica corrispondente. Ho avuto modo di constatare che si tratta di una convinzione diffusa anche tra i giovani, ed in particolare tra quei giovani che, per gli studi intrapresi, si troveranno con ogni probabilità a lavorare in futuro nel sociale ed in campo educativo. Vorrei provare a spiegare per quale motivo ritengo che questa convinzione sia una bestialità pedagogica, e che la pratica corrispondente sia una violenza inaccettabile. Faccio notare, per cominciare, che nessun soggetto può essere preso a schiaffi impunemente. Una donna non può essere presa a schiaffi dal marito, un lavoratore non può essere preso a schiaffi dal suo superiore, un cliente importuno non può essere preso a schiaffi dal commesso, e così via. Nemmeno il giudice, dopo aver letto la sentenza, può prendere a schiaffi l’imputato, e lo stesso vale per le guardie carcerarie. Perché una persona condannata, poniamo, per omicidio non può essere presa a schiaffi, mentre un bambino che ha mangiato di nascosto la cioccolata sì? Perché nella nostra società il detenuto resta, nonostante la condanna, un essere umano dotato di dignità (ed è giusto che sia così); il bambino no. Il bambino è un essere umano a metà, per così dire; per quanto sia grande l’amore che affermiamo di provare per lui, non siamo disposti a riconoscergli piena umanità e piena dignità. Altrimenti mai ci sogneremmo di prenderlo a schiaffi. Si dirà: ma il bambino non è, appunto, un uomo; non ha ancora sviluppato le sue capacità. E questo è un motivo per negargli dignità? Seguendo questa logica, bisognerebbe dunque prendere a schiaffi i portatori di handicap, le persone con ritardo mentale, i malati, i vecchi ormai spenti. Invece pensiamo il contrario: qualsiasi atto di violenza verso questi soggetti viene considerato particolarmente grave proprio perché si tratta di soggetti deboli. Perché non vale lo stesso con i bambini? Nel caso dei bambini, la violenza ha l’alibi dell’educazione. Bisogna a questo punto chiedersi cos’è educazione. Senza farla troppo lunga, possiamo con ragionevole approssimazione dire che educare vuol dire aiutare una persona a crescere ed a diventare una persona completa. Ora, chi schiaffeggia un bambino è guidato da questa concezione dell’educazione? Lo dubito. Per chi usa lo schiaffo come risorsa pedagogica educare è evidentemente una cosa diversa: fare in modo che il proprio figlio faccia quello che lui vuole, che ubbidisca, che non dia fastidio, che si lasci guidare dall’esterno. Tutto questo ha naturalmente ben poco a che fare con l’educazione intesa nel suo senso autentico. Un bambino che non dà fastidio, che ubbidisce ai genitori, che si lascia guidare non è un bambino educato. Può essere, al contrario, un bambino infelice, incapace di esprimere i suoi bisogni, inibito. Un bambino che diventerà un adulto conformista, una persona priva di[…]