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Essere dentro (o dietro) di sé
Ognuno avverte di subire violenza ogni volta che viene costretto a fare qualcosa contro la sua volontà, viene privato della propria libertà ed oppresso da circostanze esteriori. Se si è sfortunati, queste situazioni si verificano quotidianamente per molte ore. Per alcuni il lavoro non è altro che questo: fare per diverse ore al giorno cose che non vorremmo fare; il lavoro è, cioè, non un fattore di crescita e di realizzazione personale, ma una vera e propria maledizione. Il tempo lasciato libero dal lavoro è per molti il tempo della distrazione, del divertissement in senso pascaliano. Si guarda la televisione, si va al bar, si parla con gli amici: ci si rilassa. E si sta bene, indubbiamente. Dobbiamo dunque considerare il divertimento una situazione educativa? In ogni situazione educativa le persone sperimentano una situazione di pienezza, di vita intensa. Non ogni star bene, tuttavia, è una situazione educativa. E’ opportuno distinguere lo star bene dall’essere bene. Delle persone che passino la serata a bere e divertirsi in un locale indubbiamente stanno bene, si divertono e passano il loro tempo nel modo che desiderano. Non si può dire tuttavia che bere e divertirsi in un locale sia una situazione educativa e di pace, perché queste attività restano alla superficie, non toccano realmente l’interiorità e la relazionalità. Un gruppo di amici che comunichino in modo attento su temi importanti è cosa diversa. In questo caso si va a fondo: ognuno può constatare che il benessere che si prova è diverso; non riguarda la situazione passeggera, contingente, ma ha conseguenze durevoli su sé stessi: riguarda, cioè, l’essere, e non lo stare. Quella in cui siamo è una civiltà dello star bene. Si cerca di evitare il disagio, la sofferenza, il brutto, il negativo. Tutto ciò non scaturisce tuttavia da una forte opzione in favore della vita; al contrario: lo stesso rifiuto del negativo finisce per avere un risvolto necrofilo. Il negativo, che non va idealizzato come un una certa retorica cattolica, riesce tuttavia a metterci profondamente in contatto con noi stessi, ci costringe a porci le domande fondamentali, a considerare la nostra finitezza, a ragionare su ciò che ci oltrepassa (e non necessariamente in senso religioso). Il negativo non può essere semplicemente rimosso. Quando ciò accade, non si ha l’affermazione della vita, ma il suo evitamento. Vivere in modo intenso vuol dire avere a che fare col negativo, con la morte. La poesia e la letteratura hanno tematizzato più volte il nesso inscindibile tra sesso e morte, tra l’affermazione vitale e la negazione dell’essere. Rimosso il negativo, resta una vita che si svolge alla superficie del sé, correlato soggettivo del sistema dei consumi. Il soggetto è un estraneo a sé stesso: lavora, si diverte, ama costantemente fuori di sé, in modo automatico, con una identità tenuta insieme artificialmente, priva di verifica. Indossa l’io come un abito, senza nemmeno più accorgersi che sotto c’è dell’altro. L’urto del negativo ci costringe a fare i conti con la nostra identità fittizia. Chi sono io? Chi sono[…]